Latest Posts

"Comunque vada sarà una sferzata", di Mario Lavia

Nella sostanza, sappiamo già quale fotografia politica verrà fuori dai ballottaggi di domani e lunedì: quella di un paese bombardato. La parola magica di tutti i giornali, di tutti i commenti, è stata pronunciata fin dal primo turno. La parola “macerie”. Macerie politiche, in triste accordo con le macerie economiche. In questo quadro d’insieme, tuttavia, spiccheranno le novità di Como, Monza e altre città del Nord dove si prevede il ruzzolone di una destra ormai amputata dell’appeal leghista e sempre più simile ad un formicaio impazzito, priva di quel collante ideologico e d’interessi che Silvio Berlusconi garantiva dal ’94 e che oggi non è più.
Il problema è che il formicaio impazzito può causare danni alla tenuta del governo Monti. Anche se – sperando che la logica abbia ancora un senso – non fino alla rottura della maggioranza: per quanto a pezzi, quel che resta del berlusconismo dovrebbe essere sufficiente per evitare derive incontrollabili e autolesionistiche. Però questa tornata elettorale ha finito per vivere sulla disfida di Parma. Ed è un paradosso che quella città carica di storia e cultura debba essere il laboratorio ove misurare la forza del fenomeno politico fra i più rozzi degli ultimi decenni.
Non a caso guidato da un comico che era finito nel buio. Ironie della politica. C’è solo il Pd a fronteggiare a mani nude, per dir così, la marea montante. E non perché sia un partito a vocazione eroica ma perché è rimasta l’unica forza nazionale, democratica, con una certa idea per governare questo paese malato. Fa riflettere su questa sorta di solitudine del Pd nel cercare di ricostruire un filo razionale nel nome – a questo punto la parola non è enfatica – della salvezza nazionale.
Questa “solitudine” mette sulle spalle di Bersani e del gruppo dirigente, finalmente coeso, una responsabilità gigantesca. Che – scusate se è poco – verte sul non facile compito di assicurare la tenuta del governo Monti lavorando innanzi tutto sulla via delle riforme costituzionali e della legge elettorale.
Da questo punto di vista bisogna essere chiari. Qualunque sia il risultato – di Monza, di Palermo, di Genova e soprattutto di Parma – i partiti non potranno non sentire l’ennesimo segnale di disaffezione, se non di disgusto, dei cittadini verso la politica. In ogni caso, sarà una sferzata e ci sarà un gap enorme da recuperare. E la cosa da fare è una sola: le riforme. Dunque, basta lungaggini, tatticismi e traccheggiamenti. Parma o non Parma, il tempo è ormai scaduto.

da Europa Quotidiano 19.05.12

"Imu, alta tensione. E spunta la tassa su cani e gatti", di Giuseppe Vespo

L’amicizia è un bene prezioso, tanto prezioso che in Parlamento stanno pensando di tassarla (in realtà ci pensano da un po’). Per ora l’idea è di dare un costo all’amicizia che regalano i cani e i
gatti che abitano le nostre case. L’intento è nobile: contrastare il randagismo. La trovata delle deputate Pdl Jole Santelli e Fiorella Rubino Ceccacci covava alla Camera dal 2009 e adesso è
pronta ad uscire dal letargo della commissione Affari Sociali per presentarsi all’aula di Montecitorio. Le agenzie ribattono il testo della proposta di legge: «I comuni – si legge – possono deliberare, con proprio regolamento, l’istituzione di una tariffa comunale al cui pagamento sono tenuti i proprietari di cani e gatti e destinata al finanziamento di iniziative di prevenzione e contrasto del randagismo». Funzionerà? C’è qualcuno, soprattutto tra gli animalisti, che storce il naso e si domanda quanti migliori
amici perderà l’uomo pur di non pagare l’ennesimo balzello. E gli anziani, che spesso trovano negli animali domestici l’unica compagnia, subiranno un altro colpo? Pazienza. Al governo l’idea sembra non dispiacere, almeno al sottosegretario alle Finanze Gianfranco Polillo, che due giorni fa in Commissione chiedeva di vedere prima una relazione tecnica. Il sottosegretario spiegherà poi su twitter che la sua era solo una battuta e che la tassa non verrà mai applicata. Ma le polemiche sono andate avanti, tanto che in serata il relatore Gianni Mancuso (Pdl) si è detto pronto a ritirare la proposta. Vedremo. C’è però chi ha pensato che in tempi di battaglia sull’Imu una nuova entrata per i Comuni non possa essere vista male da Monti&Co., che si trovano stretti alle corde dalla pressione incrociata di sindaci e sindacati. Ieri a Frascati si è riunito l’ufficio di presidenza dell’Anci, l’associazione dei Comuni capitanata da Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia. Dai Castelli romani sono partiti suggerimenti, consigli, numeri e allarmi, indirizzati a palazzo Chigi, che vedrà l’Anci martedì. I Comuni in sostanza hanno detto comevorrebbero
la nuova tassa municipale. La proposta è di «separare la quota statale da quella municipale, in modo che l’imposta sia più leggera». «Il governo, poi, applichi una patrimoniale se lo ritiene necessario». Bisogna alleggerire il carico sui cittadini, avverte il board diretto dal sindaco Delrio, altrimenti il rischio è che a giugno, quando si pagherà la prima Imu esploda la tensione sociale. Un pericolo di cui avvertono l’imminenza anche i sindacati confederali, che scenderanno in piazza unitariamente il due giugno, festa della Repubblica, per rivendicare la riduzione della tasse,la lotta all’evasione, il rilancio del lavoro e del welfare. Cgil, Cisl e Uil, chiedono «azioni immediate che cambino la politica economica del governo». Di più: chiedono l’abolizione «dell’Imu sull’abitazione principale per gli immobili non di pregio esclusivamente per chi possieda un solo immobile nel medesimo nucleo familiare». In particolare i confederali vorrebbero «aumentare di 400 euro annui pro-capite le detrazioni per i redditi da lavoro dipendente e da pensione, compresi entro l’attuale limite di 55mila euro». Sul fronte del rilancio dell’economia, l’Anci punta invece a modificare le regole sul Patto di stabilità, che impedisce anche alle amministrazioni che hanno denaro in cassa di fare investimenti: «Eliminare gli investimenti dal Patto e creare una golden rule sull’equilibrio di bilancio – sostiene Delrio – È ormai acquisita la consapevolezza che la ripresa economica non si fa con le grandi opere cantierabili fra tre o quattro anni. Serve far ripartire le piccole opere immediatamente cantierabili: la manutenzione delle scuole, l’efficientamento energetico. I Comuni, per questo fine, hanno in cassa 11 miliardi pronti da spendere ». Il presidente dell’Anci ha ribadito inoltre la creazione di «una struttura per far fronte alle esigenze di riscossione dei Comuni con il venire meno di Equitalia». L’Associazione si affiderà a un partner privato che «dia flessibilità e attenzione alle esigenze dei Comuni e dei cittadini». Allo studio c’è anche l’ipotesi di limitare al sette per cento l’aggio, cioè il margine che resta a chi riscuote i tributi. Intanto è guerra di numeri: il governo
ritiene di incassare dalla prima tranche di Imu dieci miliardi di euro, ovvero la metà di quanto aveva stimato. E il sottosegretario all’Economia, Vieri Ceriani, si «augura» di non dover ritoccare
le aliquote. Per contro i comuni lamentano già una perdita di introiti di circa 2,5 miliardi di euro. Secondo lo studio presentato ieri a Frascati dall’Ifel, Fondazione dell’Anci per la finanza locale, con l’Imu i Comuni perderanno, rispetto all’Ici, il 27 per cento delle risorse. Mentre l’impatto sui contribuenti dell’Imposta municipale unica sarà pari al 233% dell’Ici, visto che il totale dell’imposizione Imu ammonterà a 21,4 miliardi e la vecchia Ici a soli 9,2. «Cifre inattendibili», risponde Vieri
Ceriani: «Avrete di più».

L’Unità 19.05.12

******

“Una tassa pelosa”, di Massimo Gramellini

Cara Billie, l’hai scampata bella. La berlusconorevole Fiorella Ceccacci, già attrice nel film «Corti circuiti erotici» e perciò autorevole membro della commissione Cultura, aveva proposto di mettere una tassa su di te. Proposta accolta «in linea di principio» dal sottosegretario Polillo. Una tassa su cani e gatti domestici per finanziare la lotta al randagismo. Come dici, Billie? Che un balzello simile avrebbe avuto l’effetto di aumentare a dismisura il numero dei randagi? Giusta osservazione, cagnetta mia, però non puoi pretendere che gli onorevoli abbiano la tua intelligenza pratica. In compenso condividono il tuo appetito famelico: cercano i soldi dove è più facile trovarli. Nella benzina, nella casa e adesso negli affetti: tu sai cosa significa un animale per un’anziana ammalata di solitudine.

La reazione ululante della Rete (e di 101 dalmata pronti a caricare la Crudelia De Mon di Montecitorio) ha costretto i fabbricanti di imposte a battere in ritirata. Il sottosegretario si è accorto di aver pestato una di quelle tue faccende che raccolgo sempre per strada e ha negato il suo appoggio, sostenendo che era stata una battuta. Sappi comunque che, se cambiassero di nuovo idea, mi rifiuterò di pagare – già finanzio la guerra in Etiopia del 1935 ogni volta che vado al distributore – e tu diventerai una cagnetta clandestina. Voglio vedere se Equitalia mi manda l’accalappiacani. Farebbero meglio a occuparsi del randagismo degli evasori fiscali. E se proprio avessero bisogno di nuove entrate, sottoscrivo la proposta che mi hai appena leccato all’orecchio: tassare chiunque tenga un politico in casa.

La Stampa 19.05.12

******

“Il governo contesta le cifre dei sindaci”, di Mario Sensini

Il governo contesta le stime dei Comuni sul gettito del l’Imu, definendole «dubbie e indimostrabili» e frutto di «un campione non rappresentativo», ma i sindaci restano esattamente della loro idea. Sostengono che mancheranno tra 2 e 2,5 miliardi, che in estate bisognerà alzare le aliquote e che, comunque, il taglio loro lo hanno già subìto. La polemica si accende e, se non pregiudica il confronto, rende certo più tesi i rapporti con l’esecutivo.
Lo stesso Mario Monti, che ieri ha fatto intervenire Palazzo Chigi sulla vicenda con una nota in cui si invita a «non generare allarmismo», è preoccupato per la campagna che porterà i primi cittadini a manifestare in piazza a Venezia, giovedì prossimo, contro la nuova imposta. Rischia di saldarsi alle tensioni create dalla crisi, e con la Lega che da mesi invita a non pagare, di accrescere le incertezze sull’operazione in una fase ancora molto delicata per i conti pubblici. Così martedì prossimo, tra il presidente del Consiglio e i sindaci, che vogliono la modifica dell’Imu e l’allentamento del Patto interno, si profila un confronto a viso aperto e dall’esito incerto.
«Ragionevolmente noi auspichiamo di non dover intervenire di nuovo sulle aliquote dell’Imu» ha detto ieri il sottosegretario all’Economia, Vieri Ceriani, intervenendo al convegno dell’Ifel e dell’Anci a Frascati, mentre Palazzo Chigi confermava nella nota che «il gettito complessivo sarà di circa 21 miliardi». La legge prevede una verifica degli incassi sulla base dell’acconto di giugno e la possibilità di ritoccare le aliquote, «ma speriamo di non doverlo fare, e siamo convinti che non lo faremo neanche per l’Imu agricola», ha detto Ceriani.«Il problema — ha aggiunto — è che siamo in campagna elettorale, ma dopo i ballottaggi il rapporto tra il governo e i comuni prenderà una piega più pacata e serena».
«Dicevamo la stessa cosa anche sul gettito dell’Ici, e il governo dopo anni ci ha dato ragione. Io spero sempre di sbagliarmi» ha replicato il presidente dell’Associazione dei Comuni, Graziano Delrio, «perché se i nostri dati sono giusti le famiglie pagheranno di più. Sono mesi che diciamo che questo gettito è sovrastimato e su questa sovrastima sono stati fatti dei tagli, imponendo ai Comuni una manovra. Dobbiamo sederci con il governo e modificare la situazione attuale. Altrimenti si rischiano tensioni sociali dopo il pagamento della prima rata». Sull’Imu i sindaci ci mettono la faccia, ma a conti fatti, sostiene Delrio, i soldi andranno allo Stato e i Comuni ne avranno meno di prima. «Bisogna rendere la tassa meno pesante e cieca» ha detto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
Il governo sembra più che disposto a ragionare sull’assetto definitivo dell’Imu «sperimentale». Anzi, sta già meditando alcune proposte che vanno nella direzione chiesta proprio dai Comuni. Una delle soluzioni prevede lo sdoppiamento della tassa: un’imposta sugli immobili con un’aliquota più bassa e il gettito ai Comuni e una patrimoniale riservata allo Stato, da usare in parte per perequare le entrate municipali, e modulabile in funzione del reddito. Ceriani è possibilista, i sindaci sono d’accordo. Sul confronto tra Stato e Comuni, però, pesano altre incognite.
La modifica del Patto, per cominciare. A Monti, i sindaci chiederanno martedì di applicare in Italia il metodo che Monti ha chiesto di applicare in Europa: considerare gli investimenti fuori dal tetto di spesa. Oppure lo sblocco dei residui passivi, 11 miliardi che i comuni hanno in cassa, con un effetto una-tantum sul deficit pubblico. Richieste difficili da esaudire. Non bastasse, sta spuntando un altro problemino non da poco con i Comuni. Dal primo gennaio 2013, dopo infinite polemiche, scade la concessione con Equitalia per la raccolta dei tributi. I sindaci pensano a una riscossione più «umana», aggi meno pesanti e più attenzione alle posizioni dei singoli ed entro fine anno faranno le gare per affidare il servizio ai privati. Le regole attuali, però, darebbero loro solo poteri molto limitati rispetto a quelli di Equitalia, e dovrebbero essere cambiate. A prescindere, il governo sembra scettico. «Premesso che la spesa non dovrà aumentare, il problema sta a monte. Dagli enti locali arrivano in riscossione somme dovute ad atti sbagliati, illegittimi, o non ritirati anche se annullati, e questo è uno dei motivi che ha creato le tensioni su Equitalia» ha detto senza mezzi termini Ceriani. Delrio esclude una nuova richiesta di proroga, dopo quella del 2012. Di sicuro, Equitalia non ne vuole più sapere.

Il Corriere della Sera 19.05.12

"Progettare l’alternativa tra le macerie del bipolarismo", di Michele Prospero

Le elezioni amministrative capitano in una fase di accentuata destrutturazione del sistema politico. Hanno quindi un significato fortemente evocativo. Tra le rovine del bipolarismo, esse alludono a nuovi scenari. Per ora gli indizi lasciati sono solo embrionali, ma si rinvengono già delle tracce che paiono destinate a durare nel tempo. Qualcosa di analogo si verificò anche nelle consultazioni locali del 1993. Un sistema che era in piedi da mezzo secolo si ritrovò con soggetti estinti. E i partiti superstiti vagavano con affanno alla ricerca di altri equilibri. La cattiva ermeneutica del voto impedì allora alla sinistra di cogliere gli spostamenti molecolari in atto. Per questo mancò una lettura realistica del rapporto tra le forze sociali in campo, che andavano alla rapida ricerca di una rappresentanza perduta.

Ben altra è la consapevolezza storico-politica di oggi, e questo rassicura circa la non riesumazione degli errori strategici di allora. Le difficoltà che affiorano nondimeno sono enormi. Il Pd è senza dubbio il vincitore del turno elettorale di maggio. Operando come una flessibile cerniera, pare in grado di stringere coalizioni variabili che gli consentono di essere ovunque in gioco. Ma, nella conferma della sua capacità competitiva, si nascondono delle insidie. Il nodo principale è che il Pd è rimasto un partito senza sistema. È cioè solo e non riesce a fissare il volto del nemico che c’è (la destra è anzitutto una fitta trama di interessi). Questo operare in un sistema vuoto dà nell’immediato un vantaggio che consente al Pd di mietere il successo nelle città, ma apre anche delle incognite. Un partito senza sistema cammina infatti in un vicolo cieco, non può confidare su sponde, non ha interlocutori affidabili. Un paesaggio spettrale. La sensazione di essere da solo contro un mondo ostile e inafferrabile non è affatto ingannevole. Anzi, coglie l’essenza delle cose. Evidenti sono da mesi gli investimenti giganteschi (mediatici e di forze economiche) effettuati per imporre un’uscita regressiva alla crisi con l’invenzione di alternative improbabili ai grandi partiti. Il rigonfiamento mediatico di un senso comune irriducibilmente antipolitico non è operazione candida e senza conseguenze. Al cospetto dell’immane coro omologante della delegittimazione della politica, il boom di un comico che allestisce in scena una nuova narrazione fiabesca appare persino modesto. Esistono potenze del materiale e strateghi dell’immaginario che non gradiscono la ricostruzione di una moderna democrazia dei partiti che abbia delle connessioni politico-culturali con le dinamiche europee. In tanti inseguono nuovi fantasmi e disarmanti semplificazioni pur di ostacolare una ricollocazione di tipo europeo alla politica italiana. Il tecno-populismo di un comico che mette il proprio nome nel simbolo, l’annuncio di un diluvio di nuove liste (dei ricchi, dei beni comuni, dei bene-pensanti amici della legalità) svelano una volontà di annichilimento della politica organizzata che ha del sorprendente. La polverizzazione della rappresentanza, cioè la banalizzazione della funzione storica del grande partito come luogo della sintesi e dell’aggregazione degli interessi, è il principale ostacolo da abbattere per ricostruire un destino all’Italia oltre la decadenza.

Nella congiuntura storica di una crisi sociale che divora le appartenenze, il partito per svolgere una moderna funzione nazionale deve ritornare alle origini per essere riconosciuto da una parte della società, quella che più soffre il disagio, come un argine sicuro cui fare sempre affidamento. Il Pd non paga alle amministrative le difficoltà fisiologiche che derivano dalla sua (costosa) assunzione di responsabilità nel sostenere il governo di emergenza, ma la sua potenza di forza tendenzialmente egemone non può prescindere dalla cura di delicati legami sociali. Il lavoro sulle riforme elettorali è certo indispensabile, ma il suo cammino diventa ogni giorno più incerto e per taluni il sabotaggio è un vantaggio.
Ci sono momenti che impongono ai partiti di giocare a carte scoperte dichiarando prima d’ogni cosa quale parte della società si intende rappresentare. La destra non a caso è nata a ridosso delle elezioni amministrative del ’93 proprio dando rappresentanza a interessi forti (non solo quelli del Cavaliere) che non intendevano partecipare ai grandi sacrifici richiesti per entrare in Europa. Quegli interessi oggi non sono scomparsi e ritroveranno presto un interprete che di sicuro ringrazierà l’antipolitica per il prezioso lavoro sporco compiuto. E la sinistra? Ha avuto sempre cattivi risvegli quando ha letto male il voto amministrativo e ha trascurato la rappresentanza del proprio mondo devastato dal liberismo.

l’Unità 19.05.12

"Ci mancano i cervelli", di Pietro Greco

L’Italia non fa nulla per trattenere i suoi giovani scienziati ma scoraggia anche le eccellenze che dall’estero scelgono il nostro Paese. La burocrazia èla principale colpevole. Dallo scorso autunno Alessio Figalli, 27 anni, romano è “full professor” presso l’Università di Austin in Texas. Si è formato alla Normale di Pisa e in pochissimi mesi sulla base del solo merito ha ottenuto posizioni al Consiglio nazionale delle ricerche francese, all’università di Parigi e all’università di Princeton prima di ottenere una cattedra da professore ordinario ad Austin. Molti, anche tra i docenti che lo hanno conosciuto a Pisa, gli riconoscono qualità superiori. Ma con Alessio Figalli siamo stati ancora vittima di quel fenomeno che molti chiamano «cervelli in fuga»? La risposta è no. Non perché, nel caso specifico di Figalli, l’Italia non abbia perso un altro genio. Ma perché il fenomeno generale non esiste. Non c’è una fuga dei cervelli dall’Italia. Semmai – come riconoscono una serie di studi dell’Ocse, della Fondazione Rodolfo De Benedetti e dell’Aspen Institute – c’è un mancato sbarco di cervelli in Italia. Perché non è possibile parlare di «fuga dei cervelli» dall’Italia? Beh, perché tutti questi studi dimostrano che i lavoratori italiani con alta qualifica che lavorano fuori dai confini del nostro Paese sono poco meno di 400.000: il 7% della popolazione italiana in possesso di laurea. In Gran Bretagna se ne va a lavorare all’estero il 17% dei laureati; in Irlanda addirittura il 34%; in media, nel Nord Europa più del 14%. Per l’Italia, dunque, non si può parlare di «fuga dei cervelli». I nostri giovani qualificati restano a casa, magari senza lavoro. Si può parlare, semmai, di una fuga selettiva dei ricercatori. Nell’ambito della ricerca scientifica, infatti, la situazione è un po’ diversa. La percentuale di lavoratori italiani qualificati che va all’estero per fare ricerca scientifica è più alta rispetto ad altri Paesi. Si calcola che negli Usa, per esempio, lavorino 9.000 ricercatori italiani, una delle comunità di scienziati europei più numerose in America, pari al 20% dei lavoratori qualificati italiani che hanno trovato impiego negli States. In media i ricercatori sono solo il 9% degli immigrati con alta qualifica che da tutto il mondo si recano negli Usa. Si calcola, ancora, che i ricercatori italiani che lavorano in altri Paesi dell’Europa siano in numero poco superiore. Cosicché, in totale, abbiamo poco più di 20.000 ricercatori italiani che lavorano all’estero: circa un quarto dei ricercatori che lavorano in Italia. Un patrimonio grande, ma non drammatico. Se non fosse che la medaglia della ricerca e dell’alta educazione italiana ha una faccia molto più grave che di solito non desta l’attenzione dell’opinione pubblica: l’Italia ha una scarsa o nulla capacità di attrarre i cervelli altrui. Pochi vengano dall’estero nel nostro Paese per fare ricerca o anche solo per studiare. Gli stranieri con educazione terziaria presenti in Italia sono appena 142.000 secondo lo studio della Fondazione De Benedetti e 240.000 secondo l’Aspen Institute: cifre comprese tra il 2 e il 3% della popolazione laureata del nostro Paese. In Francia gli stranieri sono il 10,8% del totale dei laureati; l’11,5% in Germania, il 17,3% in Gran Bretagna. Non sono, dunque, le uscite, ma sono le mancate entrate il grande problema del «flusso dei cervelli» in Italia. Con 400.000 in uscita (pochi) e solo 140.000 o al più 240.000 in entrata (pochissimi), vantiamo – unici in Europa – una perdita secca di «cervelli» compresa tra 260.000 e 160.000 unità.Unbilancio negativo che non possiamo permetterci. La situazione è ancora più clamorosa nel settore specifico della ricerca scientifica. Gli stranieri impegnati in programmi avanzati di ricerca in Italia, come per esempio un dottorato, nel 2005 erano solo il 4,3% del totale. Contro il 14,5% della media europea, il 34,4% della Francia e, addirittura, il 41,4% della Gran Bretagna.

IL RESPINGIMENTO Di più. I pochi giovani che sono riusciti a entrare (il 40% dall’Asia, il 10% dall’Africa, il 17% dalle Americhe, il 21% dall’Ue, il restante 12% dall’Europa dell’est) sono sottoposti a sollecitazioni fortissime che vanno in direzioni opposte. Come dimostra un’indagine campione della fondazione DeBenedetti, tra gli intervistati l’85% ha una borsa di studio nel nostro Paese, dove viene attratto da un buon programma di ricerca e dalla buona qualità dell’insegnamento (63%). Poi, però, interviene la burocrazia. E arrivano le forze repulsive. Il 77% dichiara di aver aspettato più di un mese per ottenere il primo appuntamento e avviare le pratiche per regolarizzare la sua posizione. Molti (il 30%) hanno ottenuto i documenti necessari dopo un anno o più. In definitiva, gli stranieri altamente qualificati in Italia trovano una buona università e un cattivo ambiente. Così, alla fine, le forze repulsive prevalgono su quelle attrattive: l’88% dei giovani stranieri che hanno già deciso cosa fare dopo il dottorato dichiarano di voler lasciare l’Italia. Li formiamo, anche bene, ma poi facciamo di tutto perché questi «cervelli» se ne vadano via. Respinti oltre frontiera. Un fenomeno che ha un costo altissimo. Tutti i Paesi sia a economia avanzata sia a economia emergente cercano di attirare in ogni modo “cervelli” dall’estero. È in atto una guerra globale per i cervelli. Non solo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma ben 36 Paesi in tutto il mondo, le principali economie del pianeta, hanno messo in atto politiche attive per attrarre persone qualificate dall’estero. Di contro, solo cinque paesi (Arabia Saudita, Bhutan, Botswana, Egitto e Giordania) hanno politiche attive per disincentivare l’immigrazione di persone altamente qualificate. Con queste sue prassi e con le sue leggi sulla sicurezza, l’Italia rischia seriamente di entrare nel ristrettissimo novero dei Paesi autolesionisti che non solo non partecipano alla guerra «per», ma fanno la guerra «ai» cervelli.

l’Unità 19.05.12

"Disoccupati, deficit, recessione tutti i frutti amari dell´austerità", di Maurizio Ricci

Nel nostro Paese il debito pubblico continuerà a salire fino al 123,5 per cento del Pil nel 2012. In Portogallo e Irlanda economia in ginocchio. In Spagna record dei senza-lavoro: quest´anno a quota 24%. Funziona? I numeri, per ora, dicono di no. Il gelo dell´austerità, calato sull´Europa, ha avuto l´effetto previsto dai manuali d´università: i tagli alla spesa pubblica e i rincari delle tasse hanno prosciugato la domanda, rallentando o paralizzando l´economia e il risultato è che i bilanci pubblici, anziché migliorare, sono, in generale, peggiorati. In realtà, dicono i sostenitori del rigore, è troppo presto per tirare conclusioni. In Italia e in Spagna, ad esempio, le manovre all´insegna dell´austerità sono partite solo l´estate scorsa: non c´è stato ancora tempo per rianimare la fiducia dei mercati. A due anni dal suo lancio in Grecia, tuttavia, all´austerità si può fare, almeno, un tagliando, verificando quattro parametri (prodotto interno lordo, disoccupazione, debito e disavanzo in rapporto al Pil), sulla base dei dati della Commissione europea. Quasi mai si è registrato un miglioramento. Nei casi più positivi la situazione è rimasta stabile, nei peggiori c´è stato un vero crollo: la disoccupazione in Italia, il debito in Portogallo, il disavanzo in Spagna e in Irlanda, il Pil in Grecia. L´irresistibile ascesa dei tassi sui titoli pubblici accompagna questo peggioramento.

ITALIA
Il deficit di bilancio è il capitolo più positivo della pagella italiana. Fissato al 4,6% del Pil nel 2010 è apparso sempre più sotto controllo nei successivi rapporti semestrali della Ue e le ultime manovre stanno per fornire i risultati in più, che ci si aspettava: dal 3,9% del 2011, il deficit passerà al 2% quest´anno e all´1,1% nel 2013, secondo la Ue. I sacrifici, però, non hanno riscontro sul livello del debito pubblico. Dal 119% del 2010 siamo saliti al 120,1 del 2011 e, nonostante l´austerità, cresceremo ancora fino al 123,5% nel 2012, per ripiegare solo al 121,8% l´anno successivo. Manovre e sacrifici non sono bastati a fermare il rincaro dei Bot. Il rendimento sui titoli decennali (3,73% meno di due anni fa) è schizzato verso l´alto, fino a sfondare il muro del 7% durante la crisi dell´ultimo novembre. Il ritorno al 4,80%, un livello storicamente normale, all´inizio di questa primavera, è già lontano: al 5,83%, il rendimento si avvicina a livelli che molti giudicano, alla lunga, insostenibili.
Intanto, l´economia si avvita. Il Pil cresceva dell´1,8% nel 2010. Da allora, le previsioni sono state costantemente riviste al ribasso. Il 2011 si è chiuso con una crescita dello 0,4%, con un netto peggioramento a partire dall´estate: di fatto, l´austerità è arrivata in Italia, quando il Paese stava entrando in recessione. Quest´anno, l´economia si contrarrà dell´1,4%, per tornare, l´anno successivo ai ritmi asfittici di aumento del 2011. Il conto lo paga l´occupazione. Stabile sull´8,2-8,4% dal 2010, il numero dei disoccupati sta per esplodere: la Ue prevede un tasso di disoccupazione del 9,5% quest´anno, in crescita al 9,7% l´anno prossimo.

SPAGNA
Nonostante le manovre di governi di destra e di sinistra, il deficit è fuori controllo: nel 2011, è stato dell´8,5% del Pil, rispetto al 6,4% e, secondo la Ue, non scenderà sotto il 6% neanche nei prossimi due anni. Intanto, però, i sacrifici hanno messo in ginocchio l´economia: nel 2011, la crescita ha rispettato le previsioni di un aumento dello 0,7%, ma le stime sul 2012 sono state drasticamente rovesciate. Il Pil spagnolo si ridurrà, non aumenterà, dell´1,8%. E la disoccupazione esplode. Ancora a settembre scorso, la Ue prevedeva che si sarebbe fermata ad un già drammatico 20%. L´ultima stima indica un tasso di disoccupazione del 24,4% quest´anno e del 25,1% l´anno prossimo, mentre lo spread è tornato al 6,30%.

GRECIA
Atene è il caso di scuola dell´austerità, ma anche il riscontro più negativo. Il debito pubblico, grazie al recente default parziale, non arriverà al 200% del Pil, ma sarà comunque del 160%, in crescita al 168% nel 2013. Le manovre lacrime e sangue non fermano il deficit che, secondo le previsioni, salirà dal 7,3 all´8,4% del Pil fra quest´anno e il prossimo. Alla base, c´è il collasso dell´economia. Per mesi, la Ue ha continuato a prevedere un ritorno allo sviluppo nel 2012, salvo arrendersi, solo in autunno. Ma il crollo del Pil nel 2012 (4,7%) è quasi il doppio di quello previsto ancora a fine 2011 e il massimo previsto per il 2013 è il ristagno.

PORTOGALLO
Nonostante le manovre e gli aiuti europei, Lisbona ha bucato gli obiettivi di disavanzo pubblico per il 2011, arrivando al 6,4% del Pil e molti ritengono assai ambizioso l´obiettivo di quasi dimezzarlo entro il 2013. Soprattutto, perché il debito pubblico continua a crescere oltre le previsioni. Fra il 2011 e il 2013 salirà di altri dieci punti, arrivando al 117% del Pil. Anche qui, è la crescita che scompare: il 2012 (meno 3,3%) sarà assai peggio delle previsioni e il 2013 vedrà solo un pallido 0,3% di sviluppo.

IRLANDA
Il debito pubblico di Dublino continua ad aumentare: dal 108 al 120% del Pil fra l´anno scorso e il 2013, mentre il disavanzo scenderà solo dal 13,1% del 2011 al 7,5% del 2013, nonostante un´austerità che inchioda, anche per i prossimi due anni, la disoccupazione intorno al 14% e, apparentemente, vanifica i benefici di un pur tiepido sviluppo. L´Irlanda è, infatti, uno dei pochi paesi europei non in recessione, anche se la crescita è limitata ad uno 0,5% quest´anno e 1,9% nel 2013.

La Repubblica 19.05.12

"Dracma, scorciatoia verso il baratro", di Alberto Bisin

Si parla ormai con sempre maggiore insistenza della possibilità che la Grecia esca dall´Euro. Al momento siamo ad una impasse da manuale di strategia politica: la Grecia scommette che l´Europa non avrà la forza di lasciare andare il paese e l´Europa fa la voce grossa in risposta. L´impasse non potrà durare a lungo. I giochi dietro le quinte degli incontri internazionali rischiano di essere resi inutili dalla corsa dei greci alle banche a ritirare i depositi in Euro, che renderebbe un ritorno alla Dracma essenzialmente inevitabile. In pochi giorni, mentre scemavano le speranze che un governo di coalizione potesse essere costituito, 2 miliardi di Euro di depositi (il 2% del totale) sono stati ritirati dalle banche e si trovano oggi probabilmente sotto i materassi.
La prima conseguenza di una uscita della Grecia dall´Euro e di un ritorno alla Dracma sarebbe una sostanziale svalutazione. La svalutazione avvantaggerebbe le esportazioni, il turismo, e quindi la bilancia commerciale, dando un po´ di respiro all´economia greca nel breve periodo. A differenza di quanto troppi commentatori continuano a ripetere, una svalutazione non è però una panacea. Anzi. Innanzitutto, una svalutazione è una diretta redistribuzione di risorse dai consumatori del paese alle imprese che esportano e ai consumatori stranieri. Questo perché una svalutazione comporta l´aumento del prezzo delle importazioni (e anche i beni prodotti all´interno utilizzano in larga parte materie prime e componenti importati). Inoltre, la svalutazione porta tipicamente a una spirale inflazionistica e a successive svalutazioni. Se la svalutazione rendesse i paesi competitivi, lo Zimbabwe sarebbe il paese più ricco sulla Terra (John Cochrane). E anche l´Italia pre-unione monetaria. Non è così perché, favorendo le esportazioni nel breve periodo, la svalutazione aiuta invece il paese a ritardare le riforme strutturali necessarie ad aumentare la produttività delle imprese, addossando i costi ai consumatori.
La seconda conseguenza per la Grecia di una sua uscita dall´Euro sarebbe un ulteriore default seguito da un´ immediata cacciata della Grecia dai mercati finanziari internazionali. Questa cacciata dai mercati finanziari non riguarderebbe solo la Grecia come paese ma in parte anche le sue imprese private. Un ulteriore default darebbe quindi un po´ di respiro al paese, ma lo condannerebbe all´autarchia finanziaria nel breve periodo. Non solo, ma il sistema finanziario greco ha passività in Euro: una svalutazione renderebbe quindi le banche difficilmente solvibili e l´autarchia finanziaria renderebbe essenzialmente impossibile ricapitalizzarle. Tutto sommato credo che uscire dall´Euro peggiorerà l´austerità cui il paese dovrà sottoporsi almeno nel breve periodo.
Per meglio comprendere i costi di questa strategia, è utile guardare al caso dell´Argentina, che ha fatto default e svalutato il Peso nel dicembre 2001. Alcuni commentatori, hanno utilizzato il caso dell´Argentina come un esempio delle doti taumaturgiche di un default associato ad una svalutazione. Le cose non stanno affatto così. La recessione in Argentina è iniziata nel 1998. Il Pil pro-capite sceso del 7-8% fino al default ed è poi crollato fino ad assestarsi al 20% in meno del 1998, prima di ricominciare a crescere nel 2003. I costi per i cittadini di questa “deviazione” dell´economia argentina sono stati enormi. Le banche sono rimaste chiuse per un intero trimestre, i depositi bloccati (una esperienza drammatica nella memoria storica del paese questa, chiamata il corralito). I cittadini hanno preso a scendere in piazza, in manifestazioni prima pacifiche ma che in breve tempo si sono trasformate in continui gravi disordini di ordine pubblico nelle maggiori città. Il credito al settore privato è crollato del 50% per vari anni, con costi enormi sul sistema produttivo argentino.
È vero che, trainata dalle esportazioni (e da una dinamica dei prezzi relativi internazionali ad essa favorevole) l´Argentina è tornata a crescere dopo circa un solo anno dal default. Secondo i dati ufficiali l´Argentina è tornata al livello di trend di Pil pro-capite comunque solo nel 2008. Ma è un segreto di Pulcinella che i dati ufficiali non sono attendibili (e non per caso): secondo le stime più accurate, accettate da economisti indipendenti (ad esempio quelli che animano il blog Foco Economico), il Pil argentino sarebbe oggi sovrastimato di circa il 10%. Allo stesso modo il governo controlla e “massaggia”, attraverso la banca centrale, le stime dell´inflazione. Se a ciò si aggiungono le nazionalizzazioni e il tentativo di distogliere l´opinione pubblica rianimando la questione Falkland, si nota una certa disperazione che non fa presagire nulla di buono per l´economia argentina (abbiamo visto dove il libero uso delle statistiche economiche ha portato la stessa Grecia).
In conclusione, la Grecia ha poco da guadagnare ad uscire dall´Euro, a meno di essere in grado di utilizzare il vantaggi di breve termine che una svalutazione ed un ulteriore default le garantirebbero per buttarsi sulle riforme. Purtroppo, se la storia ci insegna qualcosa, questi vantaggi di breve termine sarebbero invece utilizzati per procrastinare le riforme, fino alla prossima crisi e alla prossima svalutazione. Non ci sono scorciatoie.

La Repubblica 19.05.12