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Vota donna, vota democratica

Pubblichiamo l’invito della Conferenza Regionale delle donne democratiche a votare una donna alle prossimi elezioni amministrative che si svolgeranno domenica 6 e lunedì 7 maggio.
Carissime, eccoci di fronte ad una nuova ed importante scadenza elettorale. Il 6 e 7 maggio nella nostra regione si andrà al voto in ben 18 comuni per il rinnovo delle amministrazioni locali. Amministrazioni pesantemente colpite dai profondi tagli inferti dal precedente Governo e che oggi devono far fronte alla grave situazione economica del Paese. I servizi essenziali sono a rischio e le autonomie locali faticano a dare risposte concrete ai cittadini perché prive di risorse. Tuttavia il Partito Democratico e le amministrazioni di centrosinistra continuano nel loro impegno a sostegno delle fasce più deboli della società: bambini, donne e anziani.
La scellerata gestione della cosa pubblica da parte del centrodestra e la crisi economica del Paese hanno suscitato un sentimento generale di sfiducia, rendendo sempre più difficile
incontrare cittadine/i che abbiano voglia di partecipare attivamente al governo della propria città.
In questa difficile situazione le donne impegnate nelle amministrazioni comunali e provinciali hanno saputo dimostrare capacità di governo e di ascolto, concretezza e impegno.
Per questo motivo le donne non possono mancare quest’appuntamento: il Paese, la buona politica, la politica sana e rigorosa hanno bisogno di noi e del nostro impegno. Votare candidate donne è quindi, a nostro avviso, la scelta più giusta e utile per il buon governo della propria città e del proprio territorio. Per questo le donne del PD hanno deciso di partecipare in prima persona.
Per esserci però abbiamo bisogno di tutto il vostro appoggio, perché non basta essere candidate, occorre essere elette! Ecco perché vi chiediamo il 6 e 7 maggio di votare e di far votare nelle liste di centrosinistra le donne del PD, che con coraggio, intelligenza e passione politica si spenderanno per il governo delle città. Il 6 e 7 maggio 2012 dai il tuo voto ad una donna democratica, la buona politica e la buona amministrazione hanno bisogno di noi!
Conferenza Regionale Donne PD Emilia-Romagna

"La politica non può tacere", di Michele Prospero

Circolano tante prediche assurde rivolte alla politica affinché interiorizzi la regola del silenzio e lasci quindi ai bravi tecnici l’onere della decisione. Solo con l’astinenza dallo spazio pubblico, si dice, i partiti potranno forse ripresentarsi un giorno, ma con corpi assai leggeri (con leggi sulla loro vita interna, tagli dei costi, rinunce simboliche).
Questa grande illusione, di vedere nei partiti dei sorvegliati speciali che, solo dopo aver accettato una completa penitenza potranno d’incanto ricomparire e riacquisire, per grazia ricevuta, un loro ruolo accettabile, è semplicemente l’anticamera della crisi della democrazia.
Davvero i partiti che scelgono l’afonia, nella paurosa crisi che muta gli orizzonti di vita delle persone, potranno ripresentarsi tra un anno a chiedere il conto? I partiti hanno mostrato la loro responsabilità favorendo un arduo governo di tregua, ora devono controllarne l’agenda, impedire deragliamenti (come quello poi schivato sull’articolo 18). Altro che ritirarsi in clausura per poi incassare un plusvalore politico a Paese ormai risanato. Se passa l’idea per cui i tecnici salvano il Paese e i politici invece cospargono macerie solo aprendo la bocca, allora non c’è altra via che istituzionalizzare una dittatura commissaria. Il fatto è che ad accentuare la crisi, e non a risolverla, oggi è proprio la cattiva credenza per cui la tecnica (del rigore assoluto) va messa al riparo della politica (della crescita, della lotta al disagio sociale).
La crisi non è ancora giunta al suo apice. Dopo l’euforia per una riduzione dello spread, che faceva sorgere il mito del tecnico come salvagente, subito collocato al vertice delle preferenze registrate dai sondaggisti compiacenti, cala mestamente l’inquietudine e l’angoscia sulle sorti reali del Paese. È bastato che il vento della crisi tornasse a soffiare per far saltare tutto il velo delle ipocrisie, delle finzioni, dei sogni scambiati per realtà. Per questo, se i partiti si imponessero davvero la consegna del silenzio, sarebbe una catastrofe.
La crisi è anzitutto sociale e rinvia alla perdita di valore del lavoro, alla eclisse della produttività di imprese decotte per mancanza di investimenti tecnologici, allo sfascio delle politiche pubbliche per lo sviluppo e per la lotta contro le diseguaglianze estreme. I governi hanno finora fatto ricorso alla più classica delle politiche dei due tempi. Prima viene l’emergenza che, in nome del risanamento immediato dei conti, giustifica tagli, misure devastanti che riconducono il tenore di vita delle persone indietro di almeno trent’anni. Poi dovrebbe seguire una attenzione alla crescita. Ma con il prelievo fiscale salito in poche settimane di ben tre punti, con addizionali regionali e comunali che da due mesi decurtano circa il 10 per cento dello stipendio, con bollette alle stelle, con rincari del costo della vita che si verificano senza alcun contrasto, quale crescita potrà mai realizzarsi?
La divaricazione temporale tra rigore e crescita non ha mai funzionato. Il rigore poi è una parola ingannevole in un Paese nel cui spazio convivono due società ben differenziate: quella del lavoro, che paga tutto per tutti, e quella di una fetta ampia di benestanti che fugge dal fisco e non è neppure sfiorata dai sacrifici. Il rigore è nient’altro che la richiesta indecente al lavoro di accollarsi per intero i costi durissimi necessari per salvare il Paese. Per questo la crisi, da economica e sociale, sta diventando politica ossia crisi di legittimazione. E in ciò si nascondono le insidie peggiori. L’antipolitica, in tale congiuntura, non è solo una blasfema manifestazione che colpisce la sacralità della bella politica. È anche uno spettro che si aggira con un fare distruttivo.
Quando il tecnico, portato al potere in nome della competenza, non doma la crisi perché lo impedisce proprio la sua diagnosi rigorista, il richiamo alla complessità dei problemi non regge più e nella società si diffondono spirali incontrollabili di sfiducia per cui chiunque, anche il comico, il sindaco, il novello imprenditore può candidarsi a raccoglitore del disagio. Dopo il fallimento del tecnico, si prenota sempre il ciarlatano. Sulla base di quale presupposto un soggetto impoverito e sfiduciato dovrebbe comportarsi come un elettore razionale? La ragione in politica non è mai il punto di partenza scontato, è una difficile conquista che suppone azioni di forza reale.
Quando a una società umiliata da tagli, blocchi di stipendio, inflazione, arriveranno anche il salasso dell’Imu, l’aumento dell’Iva, molti paletti salteranno. E allora bisognerà fare attenzione ai sondaggi, non a quelli odierni, che non dicono nulla della prospettiva, perché la crisi solo ora comincia a mostrare il suo demoniaco volto. La pretesa di far rinascere il prestigio dei partiti con il silenzio dinanzi alla povertà sociale e con l’enfasi sulla regolazione della vita interna è del tutto vana. Prima che sia troppo tardi, la politica, se non vuole soccombere, deve riprendere in mano gli eventi e impedire che tagli, austerità, sacrifici, rigore diventino l’unica agenda pubblica. C’è bisogno che la voce del partito arrivi con forza nella società disperata che soffre, altrimenti è il crepuscolo, altro che rigenerazione di chi deve solo obbedir tacendo.

l’Unità 04.05.12

"Il complotto del petrolio per negare l´allarme clima", di Federico Rampini

Ha entrate annue che sfiorano il mezzo “triliardo” (quasi 500 miliardi di dollari), superiori alla maggior parte degli Stati-nazione del pianeta. Le agenzie di rating le danno un voto di solvibilità superiore al Tesoro degli Stati Uniti. Per gli ultimi 60 anni è stata quasi sempre la multinazionale con più profitti e con il massimo valore in Borsa (solo di recente sorpassata da Apple). È soprattutto «un´entità sovrana indipendente, che tratta gli Stati Uniti da potenza a potenza, ha la sua politica estera autonoma, e un´organizzazione interna simile a quella di un grande apparato militare». È la Exxon, la compagnia petrolifera più grande di tutti i tempi e l´avversaria implacabile delle riforme ambientaliste. Un colosso capace di esercitare un potere di veto non solo sui governi del Terzo mondo, non solo sul Congresso di Washington, ma perfino sulla scienza.
La rivelazione contenuta in una grande inchiesta americana è proprio questa: il ruolo sistematico del gruppo petrolifero nel falsificare per anni la scienza sul cambiamento climatico, finanziare ogni sorta di teorie negazioniste, influenzando l´opinione pubblica e interferendo sul dibattito politico americano. Con una «doppiezza» clamorosa: al suo interno, intere task-force di geologi della Exxon studiano come arricchire la compagnia grazie al cambiamento climatico. I recenti accordi con Vladimir Putin per lo sfruttamento di giacimenti sotto l´Artico, sono il primo “dividendo” che la Exxon incassa da quel riscaldamento ambientale che ha cercato di confutare per anni. Le rivelazioni sui segreti della Exxon sono contenute nel libro “Private Empire” (“Impero privato”) che esce in questi giorni negli Stati Uniti.
L´autore, Steve Coll, è una grande firma del giornalismo investigativo, ha già vinto due premi Pulitzer, tra i suoi libri-inchiesta più importanti ce n´è uno sul clan dei Bin Laden e uno sulle guerre di George Bush. È anche presidente della New America Foundation, un think tank di Washington. Questo libro monumentale (700 pagine) è il frutto di anni di ricerche, 400 interviste, incluse tra queste anche numerose fonti interne alla stessa Exxon.
Fra i temi affrontati c´è il ruolo della multinazionale petrolifera nel sostenere regimi dittatoriali che opprimono i loro popoli, si reggono al potere con le armi e le violenze di massa. Più volte ong umanitarie come Human Rights Watch hanno denunciato la Exxon per i legami avuti con despoti feroci in Indonesia (pre-democrazia), Venezuela, Guinea equatoriale, Ciad, nonché con la Russia di Putin. In certi casi perfino la politica estera degli Stati Uniti è stata sabotata dalla «politica estera della Exxon». Lo stesso George W. Bush, il presidente più amico dei petrolieri nella storia d´America, nel 2001 sbottò con il premier indiano: «Nessuno riesce a influenzare le scelte della Exxon». Un caso limite è quello del Ciad nel 2006, quando il dittatore locale, il generale Idriss Déby, fu messo sotto pressione dall´Amministrazione Bush e dalla Banca mondiale perché destinasse almeno una parte della rendita petrolifera all´istruzione e alle cure mediche per il suo popolo, anziché all´acquisto di armi. La Exxon «staccò» un assegno di 700 milioni di dollari per Déby, permettendogli così di ignorare Bush e la Banca mondiale.
Al centro delle rivelazioni di Coll c´è la lunga guerra di Exxon contro la scienza. Un´operazione condotta per anni in modo segreto, usando come schermo dei «centri studi» pseudo-indipendenti, potenti agenzie di lobbying, comitati di azione per il finanziamento dei politici. Un´offensiva organizzata con metodi pressoché «militari», da parte di una multinazionale che Coll descrive come «una potenza costruita sulla segretezza aziendale, severe regole di sicurezza interna equiparabili alle scatole nere che sono le agenzie di intelligence delle superpotenze». Il chief executive che ha impresso l´influenza maggiore è stato Lee Raymond, lui stesso un ingegnere chimico di formazione, «convinto di avere personalmente le conoscenze sufficienti per giudicare gli scienziati climatologi». Mezzi pressoché illimitati furono messi al servizio di una vasta campagna di disinformazione, depistaggio, denigrazione: con l´obiettivo di promuovere una «contro-scienza», con un «bacino di esperti alternativi», cioè scienziati negazionisti disposti ad assecondare gli interessi di Big Oil.
Quella campagna iniziò nel 1993 ma ebbe un´accelerazione e un´escalation di mezzi a partire dal 1997, in coincidenza con gli Accordi di Kyoto. Anche altre potenze del petrolio, delle energie fossili, dell´automobile, si opposero a Kyoto. «Ma la campagna della Exxon – dice Coll – fu unica per il suo attacco alla scienza. Sia in prima persona, sia attraverso l´American Petroleum Institute (una Confindustria dei petrolieri, ndr), cominciarono a finanziare ogni sorta di gruppi e associazioni neoliberiste, piccoli e grandi, tutti uniti dalla stessa strategia: sfidare la validità della scienza sul cambiamento climatico, mettendo in dubbio sia le responsabilità dell´inquinamento industriale sia l´esistenza stessa di un riscaldamento da CO2». Coll ha raccolto le prove che «furono usati metodi e tattiche prese in prestito dall´industria del tabacco quando si adoperò per ritardare la presa di coscienza dei danni del fumo, in certi casi furono addirittura le stesse persone o le stesse organizzazioni che passarono da una campagna all´altra». Nessun altro però ebbe la formidabile efficacia dispiegata dalla Exxon nel mobilitare una vasta coalizione anti-Kyoto. «Finanziando generosamente piccoli gruppi di scienziati scettici, spesso privi di competenze e qualificazioni specifiche, offrendo loro campagne di comunicazione e relazioni pubbliche, Exxon diede a queste voci un peso sproporzionato nel dibattito scientifico». Il risultato finale: «Riuscì a creare l´impressione nei mass media e nell´opinione pubblica che la comunità scientifica era lacerata da una tremenda controversia, laddove invece questa controversa era marginale e in via di superamento».
Non solo durante i due mandati presidenziali di Bush, ma anche nell´Amministrazione Obama il potere di veto della Exxon si è rivelato insormontabile: impossibile far passare al Congresso la normativa «cap-and-trade» con cui Obama avrebbe limitato le emissioni carboniche; impossibile anche abolire i 4 miliardi di sussidi annui che il contribuente americano versa a Big Oil (come se non bastassero i pingui profitti delle compagnie). Di fatto, osserva Coll, gli Stati Uniti hanno tutti gli svantaggi di una «compagnia petrolifera di Stato» che condiziona prepotentemente le loro decisioni politiche, senza avere su di lei alcuna influenza: «La stazza di Exxon, il suo ruolo dentro il sistema politico, la percentuale del Pil che rappresenta, la sua presenza nel mondo intero la rendono simile a un ente di Stato; salvo che si oppone ad ogni regolamentazione e controllo sulle sue attività». La beffa finale, riguardo al cambiamento climatico, è che la Exxon ne trarrà benefici immensi.
Le sue équipe geologiche hanno studiato da tempo gli effetti del riscaldamento del pianeta, anticipando di anni che lo scioglimento dei ghiacci artici avrebbe reso più facile sfruttare quei giacimenti sottomarini. Ora la Exxon ha potuto annunciare un patto con Putin, che le apre l´accesso alla zona russa dell´Artico, «e riserve sottomarine pari a molti miliardi di dollari». Dunque alla fine Exxon si è «convertita» al cambiamento climatico. Invece nel dibattito elettorale americano la destra continua a recitare i dogmi impartiti dagli indottrinatori dei think tank negazionisti: non solo gli estremisti come Rick Santorum e Newt Gingrich già eliminati dalla gara per la nomination, ma anche il vincitore Mitt Romney che affronterà Obama a novembre, continua a ripetere la lezione che la Exxon ha dettato per anni: «Noi non sappiamo che cosa causa il cambiamento climatico, e spendere miliardi per ridurre le emissioni di CO2 è sbagliato». In molti Stati, la destra repubblicana è riuscita a imporre che nelle scuole i prof debbano presentare una versione «imparziale» sul cambiamento climatico, dando pari peso alle teorie negazioniste. L´investimento della Exxon è stato ben remunerato.

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“PENSANO SOLO AI PROFITTI E NON AL FUTURO DELL´UMANITÀ”, di MARK HERTSGAARD
È soprattutto per colpa della Exxon-Mobil se gli Stati Uniti – e di conseguenza il mondo intero – non hanno preso iniziative forti contro la devastante minaccia dei cambiamenti climatici. Ovviamente anche le altre compagnie produttrici di combustibili fossili hanno contrastato l´imposizione di limiti alle emissioni di gas a effetto serra, responsabili del riscaldamento globale. Ma nessun´altra azienda si è mostrata aggressiva o intransigente quanto la Exxon-Mobil nel negare la consolidata evidenza scientifica che sta dietro ai cambiamenti climatici. Nessun´altra azienda ha speso così tanti milioni di dollari per seminare il dubbio fra politici, giornalisti, imprenditori e cittadini. E considerando che nessun´altra azienda in tutta la storia umana ha mai avuto così tanti milioni di dollari a sua disposizione, non c´è da stupirsi che i suoi sforzi abbiamo dato frutti. Dopo vent´anni di propaganda l´opinione pubblica americana rimane confusa e divisa sui pericoli dei cambiamenti climatici. E il Governo federale non è riuscito a prendere misure serie per combattere un problema che al ritmo con cui sta progredendo renderà il pianeta inabitabile entro la fine di questo secolo.
Beninteso, i dirigenti della Exxon-Mobil e delle altre compagnie petrolifere sanno benissimo che il riscaldamento globale rappresenta un pericolo reale. Come facciamo a saperlo? Grazie ai documenti interni che sono stati rivelati nel corso di un processo e che sono stati pubblicati dal New York Times. All´inizio degli anni 90, la Exxon-Mobil fu tra i fondatori di un gruppo di imprese, la Global Climate Coalition, che aveva come scopo di acquietare i timori dell´opinione pubblica per il riscaldamento globale e di bloccare iniziative ufficiali come il protocollo di Kyoto. Nel 1995, due anni prima che i leader mondiali firmassero il protocollo, la Global Climate Coalition ricevette un rapporto dal suo comitato di consulenza scientifico: questi scienziati accuratamente selezionati informavano la Exxon-Mobil e gli altri che le prove scientifiche del fatto che il riscaldamento globale era causato dall´attività umana in realtà erano «ben fondate e incontestabili». Come reagì la Global Climate Coalition a questa scomoda verità? Semplice: il consiglio di amministrazione ordinò che non venisse diffusa pubblicamente.
E la Exxon-Mobil ha continuato con i suoi metodi truffaldini anche dopo che il Parlamento americano aveva bocciato il protocollo di Kyoto. Anzi, li ha potenziati ancora di più. Un promemoria su cui Greenpeace è riuscita a mettere le mani rivelava che questa campagna prevedeva il foraggiamento di scienziati «indipendenti» e centri studi della destra che mettevano in discussione le basi scientifiche della riduzione delle emissioni di gas. Avremo raggiunto la vittoria, diceva il promemoria, quando il cittadino medio avrà compreso che la climatologia è una scienza piena di «incertezze» e giudicherà misure come il protocollo di Kyoto «fuori dalla realtà». La Exxon-Mobil, secondo Greenpeace, ha speso almeno 23 milioni di dollari fra il 1998 e il 2007 per sostenere questa campagna, nonostante le ragioni scientifiche per preoccuparsi dei cambiamenti climatici diventassero sempre più solide. Di fronte al consenso crescente del mondo scientifico e alle esortazioni dei gruppi ambientalisti affinché smettessero di anteporre i loro profitti al futuro ambientale dell´umanità, altre grandi compagnie petrolifere e case automobilistiche hanno ripudiato il loro precedente scetticismo.
La Exxon-Mobil, invece, ha continuato dritta per la sua strada. Quando le elezioni del 2000 hanno portato alla Casa Bianca i petrolieri George W. Bush e Dick Cheney, il colosso del petrolio è diventato ancora più aggressivo. La Exxon è solo l´esempio più estremo del comportamento dei colossi dei combustibili fossili, che considerano i loro profitti prioritari rispetto al futuro dell´umanità. La Exxon-Mobil e le altre compagnie petrolifere sono dinosauri che appartengono all´ordine energetico del XX secolo. Se lasciassimo decidere a loro non rinuncerebbero mai ai combustibili fossili che stanno arrostendo il nostro pianeta. Ecco perché non dobbiamo lasciar decidere a loro.
L´autore è ricercatore alla New American Foundation
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 04.05.12

"Cosa la Francia insegna all'Italia" di Pierluigi Castagnetti

Ormai archiviato il dibattito televisivo fra i due candidati con un sostanziale pareggio, a François Hollande non resta che attendere il risultato delle elezioni domenica sera, che dovrebbe
confermare il vantaggio che tutti i sondaggisti gli attribuiscono.
Visto da vicino questo rush finale della campagna elettorale francese consente di registrare similitudini e diversità con il clima politico italiano. La più grande somiglianza riguarda le
connotazioni delle due posizioni politiche che si contrappongono:
da un lato l’arroganza di una destra che, smentendo i primi
passi bipartisan del mandato presidenziale caratterizzati dalla
nomina di gruppi di lavoro che vedevano il coinvolgimento di
esperti vicini alla sinistra, si è ben presto caratterizzata per una strategia di divisione del Paese. Sarkozy è stato un presidente arrogante, provocatore e divisivo sino agli ultimi giorni del mandato, basti pensare alla manifestazione del 1˚ maggio
organizzata al Trocadero in competizione con quella dei sindacati, in un primo tempo definita la «festa dei veri lavoratori» e ben presto corretta con una dicitura meno provocatoria «la vera festa dei lavoratori». Una prova di forza in parte riuscitagli per la
straordinaria mobilitazione dell’Ump, ma che ha lasciato una ferita in una società che, pur abituata al conflitto politico, ha
sempre difeso il valore simbolico unitario di alcune importanti
ricorrenze, come quella del 1˚ maggio appunto.
Dall’altra un candidato socialista, François Hollande, per molti versi atipico, il primo candidato «socialdemocratico» nella tradizione del socialismo d’Oltralpe, espressione di un socialismo – come dice Bernard Guetta – di ascendenza più cristiana che marxista, insomma una figura molto prossima a quella di Jacques Delors. Forse anche questo ha favorito la scelta di Bayrou a favore di Hollande, aprendo così nuovi orizzonti a tutto il centrosinistra europeo. Peraltro Hollande si presenta come un candidato non supponente, definito «Flanby» dalla marca di un famoso budino, per la sua flemma, con poco carisma, ma a mio avviso dotato del carisma della normalità, oggi particolarmente apprezzato dai francesi dopo anni di spavalderie presidenziali.
La diversità principale invece si coglie nella capacità mobilitativa e, dunque, nella credibilità delle forze politiche popolari ancora ben insediate nella società. Vedere quelle tre piazze piene il 1˚ maggio, o, due giorni prima, i Palacongressi di Bercy (Hollande) e Tolosa (Sarkozy) stracolmi di anziani militanti e di giovani entusiasti, o vedere ancora la gente nei bistrot e nei bar all’ora di cena intenta a seguire i dibattiti televisivi con tanta passione, impone il paragone fra un Paese in cui destra, centro e sinistra continuano a confrontarsi tutto sommato con rispetto, e un Paese come il nostro in cui la lunga stagione del berlusconismo ha determinato un allontanamento e un disinteresse per la politica di una buona parte della società. Ed è proprio quest’ultima constatazione che impegna il Partito democratico non solo a lavorare per la rigenerazione dell’Europa politica, resasi
oggettivamente inevitabile, soprattutto se sarà eletto Hollande, ma, nondimeno, a una strategia di ricostruzione nella società della nervatura di un tessuto culturale e morale senza di cui la politica in nessun Paese democratico può fare a meno. Forse anche sotto quest’ultimo profilo il leader progressista francese potrà esserci di aiuto. L’incipit ricorrente infatti nei suoi discorsi è «rendetevi conto», una locuzione che dice dell’atteggiamento quasi pedagogico e insieme di servizio verso i suoi concittadini, che vuole aiutare a capire, a conoscere la complessità della situazione quale presupposto di ogni scelta politica, «non per me, e ancor meno per una mia convenienza personale, ma per amore del vostro Paese».

l’Unit 04.05.12

"Di cosa parliamo quando parliamo di autonomia scolastica" di Giovanni Bachelet

Caro Serra, numerosi suoi lettori e nostri elettori, dopo aver letto sul Venerdì la lettera dell’insegnante precario di Milano Francesco Rossi e la sua risposta, mi hanno coperto di insulti, indignati con il mio partito. Anch’io, al loro posto, lo avrei fatto. Erano infatti convinti che il Pd, contribuendo all’approvazione della legge 953 alla Camera, avesse ridimensionato la scuola pubblica e favorito la scuola privata o confessionale.
Per fermare il diluvio di improperi vorrei, con il suo aiuto, segnalare al lettore milanese che non la legge 953 in discussione alla Camera, bensì leggi regionali della (oggi disastrata) giunta lombarda sostengono con il buono scuola le private o tendono a privatizzare le scuole statali proponendo forme di chiamata diretta dei docenti; e che il Pd è talmente in disaccordo da aver di recente, alla Camera, fatto un’interrogazione al ministro sulla costituzionalità di un simile reclutamento (il primo firmatario sono io).
Vorrei pure segnalare che le frasi e il titolo stesso della legge 953 citati nella sua risposta non si trovano (più) nel testo attualmente in discussione; anzi, se in commissione il Pd si appresta a votare a favore di questa legge, è proprio perché la versione attuale, frutto dell’unificazione di diverse proposte fra cui alcune del Pd, non riguarda (più) reclutamento e stato giuridico dei docenti, e tanto meno la trasformazione delle scuole in fondazioni, ma si limita a riformare autogoverno e rappresentanza delle scuole statali.
Nel farlo, il testo incorpora e sviluppa molte nostre idee, prima fra tutte quella di autonomia scolastica, introdotta in Italia dal ministro Berlinguer. Naturalmente anche su questo testo è opportuno discutere: sta per passare al Senato e lì potrà essere ulteriormente perfezionato. Per discuterne, però, sarebbe bene riferirsi alla versione attuale, non a quella di qualche mese fa, sulla quale anche noi del Pd, come il suo lettore e lei stesso, avremmo espresso voto contrario.

Giovanni Bachelet | Parlamentare,
membro della commissione Cultura

Ringrazio Giovanni Bachelet per la precisazione. L’argomento è rovente, e Repubblica ha nel mondo della scuola molti lettori. Il Pd, su questo e altri temi, viene spesso accusato di una sorta di “doppiezza culturale”. Di essere un partito bicefalo, laico e cattolico, dunque strutturalmente incapace di puntare lo sguardo in una direzione chiara e percepibile. Bachelet è un cattolico non confessionale (mi verrebbe da dire un cattolico laico, e non è un ossimoro), uno studioso autorevole e un uomo sereno: chiedo dunque anche ai lettori più animosi di ascoltarlo con rispetto, e di cercare di formarsi, sulla legge in discussione, un’opinione ponderata.
Cercando una difficile sintesi, mi sembra che il vero oggetto del contendere siano il concetto di “autonomia scolastica” e la sua interpretazione, più larga o più ristretta a seconda della minore o maggiore propensione a considerare l’istruzione competenza dello Stato, e in un certo senso “una e indivisibile”. Secondo i difensori più intransigenti del concetto di scuola pubblica, l’autonomia scolastica sarebbe una sorta di grimaldello grazie al quale, scuola per scuola, ognuno può costruirsi un’istruzione a misura delle proprie convinzioni politiche e religiose.
Tra i tanti che mi hanno scritto, è in particolare la lettrice Renza Bertuzzi a illustrare questa posizione: “Il pericolo non è tanto quello di sostenere con fondi pubblici le scuole private, quanto di privatizzare le scuole statali. Piano piano, con l’autonomia, si va verso la creazione di tante monadi, a omogeneità educativa interna…”. La lettrice Bertuzzi (la cui lettera, documentata e lunghissima, mi costringe a questi pochi stralci) fa risalire al governo Prodi e al ministro Berlinguer il concetto di “autonomia didattica”, la cui conseguenza a lungo termine sarebbe “il dissolvimento della scuola pubblica a favore di una scuola familiare”. Come si può capire, la questione è molto complessa, e le ragioni del contendere sono tante. Confesso di diffidare molto del concetto di “libertà educativa delle famiglie”, perché implica un pregiudizio anti-pubblico e anti-statale. Ma sono certo, anzi certissimo, che un cattolico democratico come Giovanni Bachelet non ha certo in mente l’indebolimento della scuola pubblica, o la sua consegna a lobby confessionali. Bisognerebbe che Bachelet e i lettori-elettori riuscissero a parlarsi, possibilmente a intendersi. Io ho cercato, nel poco spazio disponibile e con le mie poche competenze, di dare qualche elemento di riflessione.

da Il Venerdì di Repubblica 04.05.12

"Il fisco e il disonore", di Michele Serra

Guai a chi soffia sul fuoco. Ma qualcosa di sbagliato, e forse di guasto, tra i cittadini e il Fisco, deve pure esserci, se negli ultimi mesi Equitalia è diventata un nemico da colpire o addirittura una trincea dove immolarsi. Perché non c´è nesso politico né etico tra i gesti di terrorismo vigliacco (i pacchi bomba), il suicidio “esemplare” davanti all´esattoria di Bologna e la pazzesca irruzione di ieri a Romano di Lombardia, in punta di fucile. Sono atti diversi compiuti con intenzioni diverse da persone diversissime. Ma c´è un fin troppo evidente nesso simbolico, con l´agenzia di riscossione che campeggia sullo sfondo di troppe speculazioni elettorali, ma anche di troppe rovine personali.
Mai dimenticare che molti dei recenti suicidi di “imprenditori” (generica parola che comprende anche moltitudini di lavoratori in proprio) hanno la disperata qualità del disonore che il debitore sente gravare su di sé. Non riuscire più a pagare gli operai, non riuscire più a pagare le tasse è forse un vanto per i furbi e per i leggeri, ma è un peso tragico sulle spalle degli onesti.
Non si sa molto dello sciagurato che ha preso in ostaggio un ufficio di Equitalia, se non che la sua situazione economica è grave, così grave da avere scardinato le sue difese psicologiche. Una cartella esattoriale, magari per un tributo inatteso, per una mora imprevista, può essere, in qualche caso, la classica goccia che fa traboccare il vaso. E se da un sistema fiscale non si può esigere cura psicologica (è pur sempre una macchina burocratica), è arrivato il momento di chiedersi se è stato fatto abbastanza, o anche solo qualcosa, per distinguere tra l´evasore cosciente di esserlo, volontariamente fraudolento e dunque traditore della collettività, e il cittadino strozzato dalla crisi, che annaspa e non riesce a pagare non perché non vuole, ma perché non può.
La stretta fiscale di questi mesi, con una pressione che è quantitativamente enorme, non aiuta certo il fisco a essere meno impopolare. Ma neanche il fisco si aiuta. Ognuno di noi ha una sua storia di contribuente, un suo profilo di cittadinanza, ma troppe volte si ha l´impressione di dover certificare daccapo allo Stato, come per un esame dato cento volte e sempre riproposto, che non si è ladri, non si è felloni, non si è furbastri. Sappiamo bene che il fisco e lo Stato, nel nostro paese, sono abituati a trattare con cittadini in larga parte renitenti a regole e leggi. Ma la parte (altrettanto larga) di cittadini per bene è decisamente stanca di sottostare a un regime di eterna emergenza, pagando il prezzo di illegalità e morosità non sue. Le regole non possono essere solo a misura dei peggiori: è come concedere a loro l´onore di stabilire a che gioco si gioca. Se il gioco è tra guardie e ladri, chi non è nel ruolo rischia di esserne schiantato.
Almeno qualche regola, qualche deroga, qualche zona di tregua a vantaggio degli onesti, dei deboli, di quelli che stanno lottando a mani nude contro la crisi e si sentono soli, senza rete, senza soccorso, va pensata, e con urgenza. Un governo “tecnico” ne ha facoltà, se tecnicamente è in grado di stabilire che il farabutto e il disperato non sono uguali, e tecnicamente è in grado di dare al Fisco, e al suo braccio esecutivo Equitalia, qualche mezzo in più per capire con chi sta parlando, a chi sta chiedendo denaro, con chi sta trattando una transazione di denaro che per qualcuno può anche essere l´ultima, quella fatale.

La Repubblica 04.05.12

Tesoro: "Nessun dramma Imu 200 euro sulla prima abitazione e il 30% dei proprietari è esente", di Roberto Petrini

Ecco quanto si paga: con 2 figli costerà meno della vecchia Ici. Il sottosegretario Ceriani: “Era un´anomalia non pagare più l´Ici” Ma le aliquote possono ancora salire. Controffensiva del governo dopo le critiche: “L´Italia è tra i Paesi con la più bassa tassazione immobiliare”. Controffensiva del ministero del Tesoro sul caso Imu. A poco più di un mese dal fatidico 18 giugno quando si pagherà la prima rata e di fronte alla minaccia di «rivolta fiscale» della Lega «l´uomo del fisco» di Via Venti Settembre, il sottosegretario all´Economia Vieri Ceriani, replica con numeri e tabelle. «Il 30 per cento dei proprietari di prime case sarà esente dall´Imu mentre il restante 70 per cento pagherà in media 200 euro», ha dichiarato ieri in un breve incontro con la stampa.

DIFFERENZE IMPERCETTIBILI
Ma dalle tabelle diffuse in serata emerge anche un altro aspetto: nel confronto tra la vecchia Ici, eliminata da Berlusconi nel 2008, mossa definita un errore da Monti nei giorni scorsi, e la nuova Imu, le differenze sono impercettibili. Se si confrontano le due tasse, con la stessa aliquota al 4 per mille, considerando la detrazione Ici più bassa (era di 103,29 euro) e quella dell´Imu più alta (200 euro) e tenendo conto anche della rivalutazione delle rendite catastali del 60 per cento, la partita della tassa più pesante è in molti casi vinta dalla vecchia Ici.
Se si prende, ad esempio, una casa con una rendita di 400 euro, in pratica di 80 metri quadrati in un quartiere popolare, per un single si scopre – secondo le tabelle del ministero dell´Economia – che con l´Ici si pagavano per lo stesso appartamento 64,7 euro e con l´Imu solo 68,8 euro, in pratica 4,1 euro in più.
FAMIGLIE CON FIGLI
Per le famiglie con figli il vantaggio dell´Imu prima casa rispetto all´Ici prima casa è ancora più evidente, visto che c´è una detrazione aggiuntiva di 50 euro per ciascun figlio a carico. Ad esempio per una famiglia con due figli (detrazione pari a 300 euro) che abita in un appartamento con una rendita catastale media di 500 euro, di solito una zona modesta, il risparmio con l´Imu, rispetto ad una ipotetica Ici del 2012, è di 70,7 euro. Per case più modeste e con quattro figli, l´Imu arriva addirittura ad essere azzerata: è il caso delle abitazioni con rendite catastali da 100 a 500 euro per una famiglia di quattro figli che non pagheranno nulla. Il Tesoro propone anche un raffronto tra una ipotetica aliquota Ici al 5 per mille e l´attuale aliquota dell´Imu al 4 per mille. Questo caso, più aderente alla realtà giacché l´aliquota media dell´Ici in tutti i Comuni italiani prima dell´abolizione era del 4,8 per mille, mostra che i risparmi dell´Imu rispetto all´Ici sono ancora più marcati. Il risultato del confronto si inverte per le abitazioni di maggior pregio. In questo caso, dicono i grafici del ministero dell´Economia, si pagherà più oggi con l´Imu che ieri con l´Ici. Con le due aliquote al 4 per mille, il costo dell´Imu comincia a battere considerevolmente l´Ici oltre agli 800 euro di rendita catastale. Ad esempio per una appartamento con una rendita di 2.000 euro, situato in una zona residenziale e in categoria elevata, l´aggravio dell´Imu potrà arrivare fino a 407 euro, anche in questo caso la presenza dei figli potrà, per effetto delle detrazioni, mitigare la «gabella» sulla casa.

L´AIUTO DELLE DETRAZIONI
A conti fatti, spiega la nota del Tesoro, ci saranno 4,6 milioni di immobili (il 23,9%) che grazie alle detrazioni non pagheranno nulla. Per il restante 76,1% il peso medio della tassa per quest´anno per immobile sarà di 235 euro. Mentre se si prendono i singoli proprietari, su 24,3 milioni di italiani che hanno una casa di proprietà 6,8 milioni saranno esenti, mentre 17,5 milioni, ovvero il 72%, pagheranno in media 194 euro. La nota del Tesoro, che ricorda come l´Imu sulla prima casa è stata reintrodotta con «l´obiettivo del consolidamento dei conti pubblici», non manca di sottolineare «l´anomalia italiana», come l´ha definita Ceriani: nessuno dei principali paesi dell´Ocse esenta infatti la prima casa e in Italia il peso del prelievo sugli immobili è pari allo 0,6% del Pil, mentre in Francia è del 2,4 e in Gran Bretagna del 3,5.

I MARGINI DEI COMUNI
Naturalmente il confronto Imu-Ici è fatto dal Tesoro con una aliquota Imu ferma al 4 per mille e una Ici alla media pre-abolizione. Tuttavia i conti effettivi potranno farsi solo a fine anno: infatti già 13 comuni di città capoluogo, come testimonia l´Osservatorio della Uil servizi territoriali, hanno deciso di portare l´Imu prima casa in alcuni casi oltre il 5 per mille e avranno tempo fino al 30 settembre. Senza contare che anche l´aliquota di base potrà variare con un decreto del governo se il gettito non produrrà i 21,4 miliardi attesi.

La Repubblica 04.05.12