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"Quei diritti che l'Italia non assicura", di Vladimiro Zagrebelsky

Le visite che il presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo periodicamente svolge in ciascuno dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa non hanno né lo stile, né il contenuto di una ispezione. Tuttavia non si tratta solo di tener contatti protocollari e di cortesia. Non saranno quindi privi di interesse gli incontri che il presidente della Corte – che è il giudice britannico Nicolas Bratza – e il giudice italiano Guido Raimondi avranno oggi con il Presidente della Repubblica e la ministra della Giustizia. Sarà l’occasione per fare il punto.

L’Italia ha più di un problema quanto all’obbligo di riconoscimento e protezione dei diritti e delle libertà assicurati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, assunto con la ratifica nel 1955. Prima fra tutte la questione dell’inefficienza del sistema giudiziario, nelle sue componenti di complesse norme procedurali, utilizzazione delle risorse a disposizione, attività della magistratura, incidenza dell’imponente avvocatura italiana. Sono ormai quasi trent’anni che la Corte segnala il grave problema, con le condanne dell’Italia per la violazione del diritto delle parti alla ragionevole durata dei procedimenti. Nessun decisivo passo verso la soluzione è stato fino ad ora compiuto, mentre addirittura da qualche tempo l’Italia si espone a nuove violazioni della Convenzione ritardando in ogni modo il pagamento delle somme che le Corti di appello assegnano ai ricorrenti per riparare la violazione del loro diritto. La massa dei ricorsi alla Corte di Strasburgo è tale da avere ormai portato un consistente intralcio al normale funzionamento della Corte e quindi del sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali, che sul ruolo della Corte si fonda.

Un altro fronte si è recentemente aperto e riguarda le condizioni dei detenuti, che per il sovraffollamento delle carceri sono spesso tali da poter essere qualificate come trattamento inumano e degradante. Sono ormai centinaia i ricorsi presentati alla Corte da altrettanti detenuti italiani.

Entrambi i temi, urgenti e ineludibili, sono ben presenti alle autorità e ai cittadini italiani. Essi hanno anche un risvolto di responsabilità dello Stato, che incide sulla sua credibilità internazionale.

In recente passato, il governo precedente aveva dato luogo a vive proteste da parte del Consiglio d’Europa per le ripetute violazioni degli obblighi derivanti dai provvedimenti della Corte. Con comportamenti inusitati da parte di uno Stato europeo, sono state ignorate le disposizioni della Corte di non espellere determinate persone in Tunisia ove sarebbero state esposte a serio rischio di torture. Si trattava, è vero, di condannati in Italia per attività di sostegno a reti terroristiche, ma il divieto di tortura, nella cultura europea, garantisce tutti ed è inderogabile. Quelle violazioni commesse dall’Italia e sanzionate dalla Corte europea sono passate qui incredibilmente quasi sotto silenzio, ma a livello europeo hanno fatto molto male alla reputazione dell’Italia.

L’occasione della visita e degli incontri in Italia consentirà al presidente Bratza di discutere e chiarire anche l’esito della recente conferenza di Brighton, in cui i governi dei paesi membri del Consiglio d’Europa hanno indicato la necessità di riforma del sistema, per permettere alla Corte di svolgere efficacemente il suo ruolo. Ora la massa di ricorsi (oltre 50.000 all’anno) schiaccia le strutture della Corte, ritardandone oltre misura le decisioni. La conferenza, oltre ad indicare una serie di modifiche procedurali e a dar atto della necessità di elaborare più profonde riforme destinate ad assicurare l’efficienza del sistema a lungo termine, ha affrontato un tema molto delicato. Il Regno Unito, organizzatore della conferenza, spingeva perché si inserisse nella Convenzione una disposizione che obbligasse la Corte a riconoscere agli Stati un ampio margine di valutazione nazionale nell’adempiere ai loro obblighi. In molte ipotesi – ma non quando si tratta di diritti inderogabili, come quello alla libertà personale o il divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti – un margine di apprezzamento nazionale è riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte. Ma l’intenzione del Regno Unito era di andare ben oltre, in una misura che avrebbe finito per vanificare il controllo europeo che la Corte svolge a garanzia dei diritti dei singoli. Il tentativo non è andato a buon fine. Pare che il richiamo al margine di apprezzamento nazionale troverà posto in qualche modo nel Preambolo della Convenzione. Competerà comunque alla Corte di elaborare la propria giurisprudenza in proposito, senza cedere agli interessi dei governi a scapito della protezione dei singoli. L’indipendenza della Corte e la sua natura strettamente giudiziaria sono il pilastro della costruzione europea del sistema di difesa dei diritti individuali. Di ciò ha parlato a Brighton il presidente della Corte, ricordando che non c’è tutela dei diritti se non c’è la possibilità di accesso a un giudice la cui indipendenza non sia messa in crisi o appannata dalle pressioni dei governi. C’è motivo di credere che su questo il presidente della Corte riceverà assicurazioni da parte dei suoi interlocutori italiani.

La Stampa 03.05.12

Bersani: "Pronti a guidare il Paese"

Il Segretario democratico intervistato dalla Stampa Estera si è mostrato fiducioso sul voto per il PD, alle prossime Amministrative e sulla crisi ha esortato il governo ad una minore austerity. “Dal voto dei prossimi giorni nei vari Paesi europei, ci potrà essere l’inizio di un cambiamento di fase”. Lo ha ribadito oggi Pier Luigi Bersani, intervistato dalla Stampa Estera.

Il Segretario democratico a proposito del prossimo turno elettorale nel nostro Paese “si è mostrato piuttosto fiducioso sui candidati del PD alle Elezioni Amministrative. Dopo i disastri della politica personalistica e populistica – ha spiegato – il PD è pronto a governare il Paese e caricarsi sulle spalle il fardello dei disastri combinati da altri in questi anni”. Così Bersani ha risposto a chi gli ha chiesto sul tema una ipotetica crescita del movimento di Grillo.

Per quanto riguarda le elezioni politiche ha nuovamente dichiarato che “il PD non pensa ad elezioni anticipate perchè la situazione è ancora molto seria e non è il caso di destabilizzarla. Noi lavoriamo perchè Monti porti a conclusione la legislatura e ci predisponiamo, la primavera prossima, a presentare agli elettori un progetto di ricostruzione del Paese dopo un decennio berlusconiano che ha dato all’Italia molte, molte cose da aggiustare”.

Piuttosto ha spiegato Bersani, “è chi ci ha portato fin qui a sentirsi in libera uiscita. Accendono delle micce in giro, ma io li avverto: attenzione che la situazione è ancora molto seria”.

Sulla tanto discussa tassa Imu ha però chiarito: “I Sindaci lo sanno che hanno la fascia tricolore. Bisogna però che ci si ricordi anche che con la fascia tricolore non possono diventare solo esattori dello Stato”. Secondo Bersani, insomma “bisogna attribuire ai Comuni l’Imu e poi lo Stato deve rivedere i trasferimenti”.

Parlando ancora di crisi economica e di tasse ha sottolineato l’incongruenza delle destre. “Quando sento sul tema fiscale, dire che bisogna abolire, compensare, tagliare mi viene da domandare: ma dove erano? Noi possiamo dire cosa non va del governo Monti, loro dovrebbero stare zitti almeno per un giro. Il Pd voterebbe il fiscal compact – ha spiegato – ma va integrato con misure sulla crescita”.

Il Segretario democratico rispondendo ai giornalisti su una eventuale collaborazione con Giuliano Amato, sui rimborsi partiti, ha risposto: “Noi abbiamo già presentato una nostra proposta che è calendarizzata in Parlamento. Su questo punto si può andare avanti subito senza frapporre indugi”.

In fine parlando di crisi europea Il Segretario del PD ha suggerito “che al Consiglio Ue di giugno si consideri l’attivazione di investimenti pubblici nel secondo semestre di quest’anno. Ci vuole una mini golden rule”, ha concluso.

www.partitodemocratico.it

"Disoccupazione record in Italia al 9,8%. Il 35,9 % dei 15-24 enni è senza lavoro", da corriere.it

Record assoluto per la disoccupazione giovanile a marzo. Il tasso dei senza lavoro nella fascia tra i 15 e i 24 anni schizza al 35,9%: è il dato più alto sia dall’inizio delle serie storiche mensili (gennaio 2004) sia da quelle trimestrali (quarto trimestre 1992). A marzo – secondo i dati provvisori dell’Istat – risulta disoccupato più di un giovane su tre di coloro che partecipano attivamente al mercato del lavoro. L’aumento rispetto allo scorso anno è del 7,7 punti percentuali.

IN AUMENTO – Il tasso di disoccupazione a marzo si attesta al 9,8%, in aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e di 1,7 punti rispetto all’anno precedente.

AI MASSIMI IN EUROPA – Nuovo massimo storico per tutta l’area euro dal lancio della valuta unica: ad aprile, secondo il rapporto mensile diffuso da Eurostat, ha raggiunto il 10,9 per cento, contro il 10,8% registrato a febbraio. Il nuovo massimo comunitario comunicato dall’ente di statistica, quantifica in 17 milioni 365 mila i disoccupati dell’Unione valutaria, 169 mila in più rispetto al mese precedente e 1 milione 732 mila in più rispetto all’aprile del 2011. Ancora, secondo le statistiche di Bruxelles, rispetto al marzo del 2011, gli aumenti più rilevanti nel numero dei senza lavoro sono stati registrati in Spagna (dal 20,8 al 24,1%) e Cipro (dal 6,9 al 10%). Record per la Grecia, passata – da gennaio 2011 a gennaio 2012 – dal 14,7 al 21,7%.

SENZA LAVORO – Eurostat stima che a marzo erano senza lavoro 24,772 milioni di uomini e donne nell’Ue a 27, di cui 17,365 milioni nella zona euro. Rispetto a febbraio, il numero di disoccupati è aumentato di 193.000 nei 27 Paesi e di 169.000 nell’area della moneta unica. Rispetto a marzo 2011, i disoccupati sono 2,123 milioni in più nella Ue a 27, di cui 1,732 milioni nell’eurozona. Ancora su base annua il tasso di disoccupazione per gli uomini è aumentato dal 9,7% al 10,8% nella zona euro e dal 9,3% al 10,2% nella Ue a 27. Quello femminile è salito dal 10,2% al 11,2% nell’area della moneta unica e dal 9,6% al 10,3% nella Ue a 27. A marzo del 2012, 5,516 milioni di persone giovani (under 25) erano disoccupati nell’Ue a 27, di cui 3,345 milioni nella zona euro.

I GIOVANI – Il numero minore di disoccupati tra i giovani si registra in Germania (7,9%), Austria (8,6%) e Olanda (9,3%), mentre il più alto in Grecia (51,2% a gennaio) e Spagna (51,1%), seguite da Portogallo (36,1%) e Italia (35,9%).
GERMANIA CONTROTENDENZA – Controtendenza solo il mercato del lavoro della Germania, che continua a resistere alla crisi, tanto che il tasso grezzo di disoccupazione ha registrato una ulteriore diminuzione, ad aprile, al 7 per cento ha segnato un valore di 0,2 punti percentuali più basso rispetto a marzo, pari a 65 mila disoccupati in meno, secondo i dati diffusi dall’Agenzia federale sul lavoro tedesca.

Intervista ad Alain Touraine «La sfida di Hollande è la costruzione di un’Europa sociale», di Umberto De Giovannangeli

L’orizzonte progettuale evocato da François Hollande è quello di una nuova sinistra riformista. È questo il primo elemento di fondo che emerge dalla campagna presidenziale del candidato socialista. L’altro, e non meno importante, è quello relativo alla posta in gioco, che va ben oltre i classici confini di un’alternanza di governo sinistra-destra, ricchi-poveri… La posta in gioco è la costruzione-salvataggio dell’Europa, e più precisamente dell’area euro». A sostenerlo è uno dei più autorevoli intellettuali di Francia: Alain Touraine. «In questa chiave europeista, il successo di Hollande rimarca Touraine sarebbe ancora più significativo se la nuova sinistra riformista e filo-Europa, oltre che in Francia, si affermasse anche in Italia e Germania, nelle elezioni del 2013. La combinazione di questi tre Paesi potrebbe avere un effetto trascinamento di altri e costruire un argine potente, e riequilibratore, alla finanza globale che gioca contro l’economia europea».
«François Hollande è l’unico candidato che nel suo progetto cerca di difendere e rafforzare l’integrazione europea e, insieme, la politica sociale della sinistra, in particolare verso i ceti più deboli. Questa è la grande sfida di Hollande: costruire un’Europa “sociale”, oltre il monetarismo. Il suo, a ben vedere, è un progetto che riprende e sviluppa l’idea di Europa che è stata di Jacques Delors. Bruxelles ha spesso dimostrato una cecità incredibile. Non c’è bisogno di essere un professore di economia per capire che una moneta comune ha senso solo se si basava su politiche fiscali nazionali, almeno coerenti. Il risultato di questo vuoto del progetto europeo è che molti elettori ancora percepiscono la costruzione dell’Europa come uno strumento di un capitalismo puramente speculativo».
Come superare questo orizzonte?
«Mi pare che il progetto-Hollande indichi con sufficiente nettezza i due pilastri. Il primo è la costruzione salvataggio dell’Europa, più precisamente l’area dell’euro. Il secondo è pilastro è più tipicamente sociale: Hollande prova a rimettere al centro dell’agire politico e di governo. una ridistribuzione del reddito nazionale a favore delle classi sociali che hanno perso molto terreno dal trionfo del neoliberismo nel 1970 e in particolare dall’inizio della crisi finanziaria, monetaria ed economica esplosa nel 2007. L’aumento delle disuguaglianze sociali rappresenta attualmente la più seria minaccia alla stabilità e alla coesione dell’Unione europea e dei suoi membri. E qui rientra in gioco l’Europa».
In che senso, professor Touraine?
«La crisi che, sia pur in termini e dimensioni diverse, ha investito la Grecia, il Portogallo, l’Italia, la Spagna, la stessa Francia, sta a dimostrare che la dimensione europea è decisiva, perché è a livello sovranazionale che si determina un controllo dell’economia. E a livello europeo che occorre riorientare la crescita. Le risposte fin qui fornite dai governi nazionali e dalle istituzioni europee, si muovo ancora dentro un orizzone angusto, limitato: quello della sopravvivenza».
Siamo dunque ancora all’«anno zero» di un’Europa che va oltre la sopravvivenza?
«Non sarei così tranchant. Nel 2011 sono stati ottenuti importanti risultati, ma ancora insufficienti. Il più importante è quello è quella che ha portato i tedeschi, nonostante la resistenza della Bundesbank, ad accettare non solo il salvataggio della Grecia, ma anche la politica avviata dalla Banca centrale europea guidata da Jean-Claude Trichet, politica sviluppata dal suo successore alla Bce, Mario Draghi».
Come rientra questo discorso sulle presidenziali francesi?
«I francesi hanno compreso di non essere al riparo dalla crisi. Avvertono il limite, oltre che gli squilibri sociali, provocati da una risposta che si fonda solo sull’austerità. La Francia ha bisogno di una ripresa della crescita, che è parte fondamentale dell’assoluta necessità di ridurre il peso del debito sovrano e del nostro deficit di bilancio. Sarà questo l’impegno prioritario nell’agenda presidenziale di Hollande: coniugare crescita e austerità, difendere l’Europa e al tempo stesso i lavoratori. Ma per vincere questa sfida, la Francia ha un bisogno vitale di una attiva e responsabile l’Europa così come i francesi hanno bisogno di una politica sociale a sinistra. Ad un livello ancora più alto, dobbiamo creare una nuova politica globale che combini l’aumento del tenore di vita nei Paesi emergenti e in quelli poveri, con una politica di re-industrializzazione della Francia che deve, come la Germania, esportare di più e prodotti più industriali per i Paesi in crescita: è bene ricordare che l’80% del commercio mondiale è costituito da prodotti industriali».
Possiamo guardare al dopo 6 maggio con ottimismo?
«Stiamo ancora attraversando un guado, le acque continuano ad essere agitate, ma alle spalle ci stiamo lasciando la stagione dominata dal potere degli speculatori. Il successo di François Hollande non risolverebbe tutto, è chiaro, ma renderebbe possibile una politica sia di giustizia che di crescita. Possiamo finalmente sbarazzarci dell’idea che siamo condannati al declino e la perdita di fiducia in noi stessi. Niente è risolto, ma il recupero è possibile. D’altro canto, è la prima volta nella storia della Quinta repubblica che un candidato della sinistra è un convinto europeista. Hollande ha affermato più volte che dall’Eliseo porterà avanti una politica di sinistra ma anche una politica funzionale alla costruzione dell’Europa. Per questo l’ho votato. So bene che Hollande non è un uomo politico geniale, ma non è di questo che oggi abbiamo bisogno. Ciò che serve alla Francia, e all’Europa, è un politico in grado di scegliere le soluzioni buone e scartare quelle sbagliate. Se quest’uomo diventa presidente dellla Repubblica, è l’unico nelle condizioni di avere presa sia sull’Europa che sui lavoratori. Non è cosa da poco».
Lei ha affermato che il «sentimento più forte che avverto in Francia è l’«antisarkozismo».
«Si tratta di una crisi di rigetto. Lo detestano perché ha fatto promesse che non ha mantenuto. Sarkozy è il presidente che più di ogni altro ha indebitato la Francia. Nicolas Sarkozy è tutto, meno che un presidente: un uomo d’azione, un teatrante, un gran bugiardo. Adesso che uscirà di scena, andrà a fare soldi con i suoi amici ricchi».

l’Unità 01.05.12

"Il lavoro democratico", di Cesare Damiano

Questo Primo maggio coincide con un forte dibattito sui temi del lavoro. Abbiamo alle spalle una riforma delle pensioni assai controversa che costringerà il governo ad affrontare problemi sociali causati dalla riforma stessa. Come quello dei lavoratori che sono rimasti senza lavoro e quindi senza stipendio e che dovranno aspettare anche 5 o 6 anni per arrivare alla pensione.
Ci auguriamo che il tavolo di confronto tra governo e parti sociali, che si aprirà il prossimo 9 maggio, trovi una soluzione a questo spinoso problema: si tratta di lavoratori in mobilità; di persone che si sono licenziate individualmente da aziende di piccola dimensione; di esodati delle Poste, dell’Eni e dell’Enel; di lavoratori che hanno continuato ad effettuare versamenti volontari; di lavoratori della scuola; di lavoratori che si vedono sfuggire il traguardo della pensione per qualche giorno o settimana. Tutte queste persone dovranno trovare una soluzione: l’unica proposta valida è quella di consentire loro, in base alle deroghe legislative, di andare in pensione utilizzando le vecchie regole previdenziali.
Al tempo stesso, è in corso un dibattito controverso sul tema del mercato del lavoro la cui riforma dovrebbe vedere la luce entro l’estate. Il confronto tra governo e parti sociali su questo argomento è iniziato il 23 gennaio scorso ma non ha prodotto una sintesi unitaria, soprattutto a causa delle prime soluzioni indicate dall’esecutivo sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Successivamente, su questo tema, nel confronto tra i segretari dei partiti che sostengono il governo e il presidente del consiglio, si è provveduto ad una importante correzione sui licenziamenti per motivi economici. È stata reintrodotta la possibilità per il giudice, accanto al risarcimento, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro nel caso in cui la motivazione del licenziamento risulti infondata. Un compromesso ragionevole che, soprattutto, mantiene il potere deterrente dell’articolo 18 ed impedisce che passi tra i lavoratori l’idea che, in un momento di recessione economica e di crescente disoccupazione, ci possano essere innovazioni legislative che rendono più facili i licenziamenti. Scampato questo primo pericolo, il secondo scoglio è rappresentato dalla pretesa del Pdl, dopo la positiva modifica sui licenziamenti, di rimettere in discussione il testo della riforma per quanto riguarda le “flessibilità in entrata”, cioè al momento dell’assunzione.
La richiesta del centrodestra è quella di diminuire le regole più stringenti ed i controlli voluti dal governo al fine di scoraggiare l’uso opportunistico del lavoro autonomo o parasubordinato. Per noi, invece, è una priorità garantire, con gli emendamenti che abbiamo presentato al senato, una riforma che sia in grado di plasmare un mercato del lavoro inclusivo ed amichevole per le giovani generazioni, nel quale viene bandita la precarietà a vita e nel quale non ci sia più posto per le finte partite Iva, i finti associati in partecipazione e il finto lavoro a progetto.
Per questo, come Partito democratico, abbiamo proposto correzioni che distinguano in modo netto il profilo professionale del lavoro autonomo rispetto a quello dipendente e che per i giovani che svolgono un lavoro parasubordinato (ad esempio a progetto), sia fissato un compenso minimo al fine di impedire che paghino loro stessi gli aumenti dei contributi previdenziali che dovrebbero essere a carico del datore di lavoro. Abbiamo posto il tema di un corretto utilizzo dei voucher in agricoltura, perché vogliamo impedire che l’uso distorto di questo strumento faccia scomparire il lavoro stagionale dipendente nel settore. Infine, abbiamo formulato una riscrittura delle tutele contro i licenziamenti in bianco, per rendere più facile la procedura e richiesto di assegnare ai padri tre giornate di congedo genitoriale, senza che queste vengano scomputate dai permessi delle madri.
Il nostro obiettivo è quello di correggere in modo incisivo la riforma senza stravolgerla e consentire che venga approvata entro l’estate. Non ci nascondiamo i difetti di impianto delle riforme del welfare volute dal ministro Fornero: avere tutele contro la disoccupazione, a partire dal 2017, più corte di quelle attuali e il momento della pensione che si allontana fin oltre la soglia dei 67 anni, produrrà problemi sociali strutturali, analoghi a quelli dei cosiddetti “esodati”. Sarà un problema da affrontare: intanto dobbiamo cambiare il testo sugli ammortizzatori sociali per poi concentrarci sui temi della crescita.
Se il paese non si sviluppa, nemmeno la migliore riforma del lavoro potrà produrre un solo occupato in più. Ci auguriamo che questo primo maggio unitario rappresenti una spinta positiva per trovare le giuste soluzioni e per far assumere al lavoro la centralità che merita di avere nel dibattito politico.

da Europa Quotidiano 01.05.12

"A proposito di autogoverno e dimensionamenti", di Antonio Valentino

L’approvazione del DDL sull’autogoverno delle scuole da parte della VII Commissione della Camera ha avuto una discreta eco nel pianeta scuola. Associazioni professionali e organizzazioni sindacali hanno espresso commenti e posizioni articolati, dove, a fianco di rilevazioni critiche, si colgono anche diffusi apprezzamenti. Da parte di tutti c’è l’auspicio, al riguardo, di una campagna di informazione e dibattito e l’impegno comunque a farsene carico e ad esserne protagonisti.

Anche la Conferenza delle Regioni è intervenuta esprimendo condivisione sostanziale degli obiettivi e dei principi ispiratori e formulando, per quanto di sua competenza, emendamenti che non sembra contraddicano l’impianto complessivo del DDL.

A questa pluralità e densità di commenti del mondo della scuola non sembra corrispondere altrettanta attenzione da parte dell’Amministrazione.

Almeno a voler dar peso all’assenza di riferimento a queste problematiche nell’Atto di indirizzo del Ministro (le priorità politiche) per il 2012; atto di indirizzo che pure è stato emanato una settimana dopo l’approvazione del DDL in questione. Nessun accenno, nel documento ministeriale; neanche dove si parla dell’importanza di “modelli organizzativi e innovativi e di governo” per “semplificare la complessità organizzativa e dar valore ad una autonomia scolastica responsabile”. Niente.

Forse la cosa non è da enfatizzare, ma, comunque, ci aspettava che il Ministro, pur nel rispetto delle prerogative del Parlamento, scendesse in campo, non per “sposare” il DDL, ma almeno per rendere esplicito il suo impegno sull’iter legislativo del provvedimento.

Eppure il tema dell’autogoverno delle scuole autonome e quello della governance di sistema (che costituisce parte integrante e fondamentale dell’intero impanto del DDL) non sono di quelli che un’Amministrazione può snobbare o ritenere di secondaria importanza.

Le questioni in gioco

Anche perché con questo provvedimento legislativo si gioca una partita importante su più fronti: su quale autonomia delle Istituzioni Scolastiche (IS), in primo luogo; ma anche su quali forme di coordinamento tra le varie istituzioni del sistema delle autonomie coinvolte e quindi su dove va collocato il baricentro dell’intero sistema.

Al tipo di scenario che si va a privilegiare sono poi da collegare sia il discorso – tutto da approfondire – delle reti di scuola (che non sono quelle del DPR 275, ma qualcosa che, sembra di capire, ha a che fare con la governance territoriale; negli stessi termini sono proposte le reti anche nella Legge per le Semplificazioni, art. 50), sia le varie operazioni sul dimensionamento delle istituzioni scolastiche – che stanno procedendo a ritmo serrato e, a quel che è dato sapere, secondo logiche quasi sempre ragionieristiche e frammentate.

Quest’ultimo terreno di analisi e riflessione si incrocia con tutta evidenza con le problematiche del governo delle scuole e quindi del tipo di management / leadership da privilegiare e promuovere.

Problematiche da cui sembrano prescindere molte Regioni e Province nelle scelte sul dimensionamento. Si assiste così ad operazioni di aggregazione di sedi e scuole di cui non si riesce a cogliere il modello organizzativo di riferimento ( ma la logica sì).

E il discorso non riguarda solo il dimensionamento dei nuovi Comprensivi di cui alla L.111 del luglio scorso; il discorso è forse ancora più drammatico per non pochi dimensionamenti nel Secondo ciclo che si stanno formalizzando per il prossimo anno; dimensionamenti di fatto realizzati aggregando, molte volte con criteri puramente burocratici, agli istituti di titolarità le reggenze degli anni scorsi.

La situazione non è rosea

Al riguardo, il documento preoccupato di tutte le organizzazioni sindacali di DS – dalla FLC CGIL, comparto Dirigenti Scolatici (DS), alla ANP -, inviato al Ministro con la richiesta al ministro di un incontro urgente, ben evidenzia la drammaticità della situazione.

Qui interessa sottolineare, anche sulla scorta di questo documento,

1. la forte riduzione delle ISA (oltre le 1000 unità) e l’aumento spesso sconsiderato degli studenti per istituto (che in non pochi casi arriva fino alle 2000 unità),

2. le centinaia di scuole autonome sottodimensionate, per effetto delle leggi sulla stabilità, che saranno prive di un dirigente e di un direttore dei servizi: ancora, quindi, reggenze e contabilità in affanno;

3. il fatto che alla consistente diminuzione delle dirigenze scolastiche non corrisponde la diminuzione delle sedi scolastiche, né del personale, né degli alunni: aspetti – ma solo questi ultimi – in sé positivi (il discorso sul numero delle DS è più complesso), se non fosse che le gestione che ne consegue diventa massacrante e soprattutto rischiosa per la qualità della direzione (si consideri solo il problema delle sedi lontane tra di loro e dei tempi per gli spostamenti);

4. la scelta bizzarra – chiamiamola così – di rivedere al ribasso i parametri per l’attribuzione di esoneri e semiesoneri ai collaboratori del DS, che completa degnamente il quadro. Capita così che i problemi e le difficoltà raddoppino e le risorse orarie per le funzioni di collaborazione con il DS si dimezzino o scompaiano del tutto.

Ma la cosa più bizzarra – ancora così, per dire – è che queste decisioni sono state prese – prescindendo da qualsiasi riflessione compiuta su questioni preliminari e dirimenti. Il riferimento è

· alla natura (le forme, le dimensioni e i livelli e i compiti) delle ISA, a parole, costituzionalmente tutelate (Dentro il sistema delle autonomie, non si è ancora definito – lo si è già accennato prima – dove si colloca il baricentro: se nelle autonomie scolastiche o nelle regioni, né si riesce a cogliere concretamente la visione “orizzontale” – quindi non più “piramidale” – del sistema),

· alle funzioni dirigenziali della gestione unitaria, del coordinamento, della promozione, del controllo,

· alle responsabilità rispetto agli esiti, sempre del DS (nuovo Nembo Kid, a retribuzione bloccata, nella “visione” dei dimensionamenti in atto).

Il DDL: una occasione utile?

Nel commentare le norme per l’autogoverno delle ISA ebbi a condividere con parecchi altri un sostanziale apprezzamento per gran parte delle scelte fatte e per l’insieme dei principi ispiratori e degli obiettivi della riforma.

Il rischio concreto che però vedo, di fronte ai dati sul dimensionamento – e a quel che ne consegue (non parlo, ripeto, solo dei nuovi istituti comprensivi) – è che alla fine potremo anche avere una buona legge per l’autogoverno delle scuole e per la governance territoriale, ma non sapremo che farcene, perché, con i chiari di luna che si prevedono, la governabilità interna sarà compromessa (e i danni irreversibili); e l’apertura al territorio, il superamento dell’autoreferenzilità, la rendicontazione sociale degli esiti e dei processi di apprendimento le consegneremo come compiti – anche questi – alle future generazioni.

Una ragione in più, allora, per accellerare il dibattito sul DDL e arrivare entro quest’anno ad una buona legge che renda possibili decisioni sensate e chiare? Hoc est in votis. In milanese: Sperèm.

da ScuolaOggi 01.05.12

"In vacanza al campo lavoro il boom dei ragazzi volontari", di Vera Schiavazzi

C’È chi prenota una spiaggia dove far da guardiano insieme agli amici, chi parte per la prima volta con qualche timore: “Ce la farò? E come si mangia?”, le domande più frequenti degli under 18. C’È chi fa il giro del mondo spostandosi da una fattoria all’altra sul lato opposto del pianeta. L’estate del 2012 si annuncia come quella del boom dei campi-lavoro. Vacanze a basso costo, certo, ma soprattutto un modo di impegnarsi in favore della propria causa preferita, che siano le tartarughe da salvare o la lotta alla mafia, le cime alpine da ripulire o i villaggi africani dove aiutare a scavare un pozzo. Libera, la più grande rete italiana (1700 associazioni) che condivide come obiettivo la lotta contro le mafie e per la legalità, aspetta quest’anno 5.000 giovani: «Nel 2011 – spiega il responsabile dei campi, Roberto De Benedittis – sono arrivati in 4.500. Tra loro, 700 si erano iscritti individualmente, gli altri viaggiavano insieme alle parrocchie, agli scout, alla loro associazione locale o scolastica. Nella maggior parte dei casi si tratta di ragazzi, ma abbiamo anche dei sessantenni che scelgono di “rimettersi in gioco”. E il loro lavoro è prezioso, ogni anno ci aiuta a recuperare centinaia di ettari di terreni e a produrre i cibi che poi rivendiamo per sostenere Libera». I ragazzi dei campi non sono troppo diversi da quelli raccontati nel film “La meglio gioventù”, che nel 1966 aiutarono, con la pala in mano, a liberare Firenze dalla morsa del fango.

O dagli adolescenti che negli stessi anni partivano per raccogliere i pompelmi nei kibbutz israeliani, un modello di egualitarismo e di libertà, per molti un ricordo indimenticabile. Il Wwf propone nelle sue oasie nei parchi naturali di tutta Italia campi a tema rivolti all’ambiente: la parola d’ordine è quella di una presenza responsabile, che innanzi tutto non danneggi i luoghi visitati. Poi, in alcuni casi, si può aiutare direttamente: «È un’opportunità di crescita personale – dice Adriano Paolella, direttore generale per l’Italia – che consente di conoscere la natura, imparare a proteggerla, ma anche di incontrare gli usi e i costumi locali». Un esempio? Il Campo tartarughe, in luglio e agosto sulle coste di Palizzi (Reggio Calabria): chi partecipa collabora al monitoraggio degli animali che sbarcano a costruire il proprio nido, protegge le madri e le uova fino al momento della schiusa – di notte e di giorno – ma collabora anche a sensibilizzare turisti e pescatori affinché rispettino questi animali. Legambiente, invece, quest’anno punta sulle piccole isole e sulle coste. Chi vuole può prenotare un campo intero – tra le 6 e le 15 persone – e collaborare alla protezione di un tratto di costa.

Per chi sta per finire il liceo e vuole prendersi qualche mese (ma anche un anno) di libertà senza gravare troppo sul bilancio di famiglia, invece, ci sono le proposte di Wep, una delle associazioni più sperimentate nel campo degli scambi con l’estero: se si accettano la vita comunitaria e le condizioni spartane, non è difficile spostarsi da una provincia australiana all’altra, per esempio, raccogliendo frutta e alloggiando nelle fattorie.I costi sono minimi, la fatica, le amicizie e la pratica dell’inglese sono compresi nel prezzo.

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L’intervista Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera, visiterà tutti i luoghi dove 5000 giovani lavoreranno: “Quest’estate si sporcheranno le mani e cresceranno”

«LA parola vacanza ha la stessa radice di “vacuum”, vuoto. Ma l’estate delle migliaia di ragazzi che quest’anno verranno ai campi di Libera sarà tutt’altro che vuota».

Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera, la rete di associazioni contro le mafie, si prepara a visitare le decine e decine di campi dove cinquemila giovani lavoreranno per coltivare e far rinascere beni e terreni confiscati alla criminalità. Qual è il valore di un campo lavoro? «Si tratta di un’esperienza non necessariamente “comoda”, né tanto meno scontata. I ragazzi che vengono da noi scelgono di riempire quelle giornate con la responsabilità e l’impegno, in qualche modo scelgono di non prendersi una vacanza dal proprio ruolo di cittadini.

Il che, in un momento come questo, ha un grande valore di educazione e di crescita».

Che cosa si fa nei vostri campi? «Si lavora, perlopiù insieme a giovani del posto per i quali i campi significano anche avvicinarsi alla legalità.

Si sta insieme, si fanno amicizie, si condividono i pasti e i prodotti della terra».

C’è il tempo anche per divertirsi? «Certo. Non sarà solo la fatica a scandire le giornate dei volontari. Accanto al lavoro, a quello “sporcarsi” le mani che è segno di limpidezza interiore, non mancheranno la musica, il cinema e l’arte, che sa nutrire le mentie toccare le coscienze. In ognuno dei campi sono previste questo tipo di occasioni».

Tutti possono partecipare a questo tipo di vacanze? «Certamente, non servono abilità né esperienze passate speciali, basta la voglia di fare qualcosa per gli altri. E alla fine ci si ritrova più forti, meno pigri, meno indifferenti».

La Repubblica 01.05.12