Latest Posts

"Il dinosauro spolpato", di Alberto Statera

La Lega di Lotta e di Sottogoverno, cultrice dei riti celtici tra i bravi valligiani del nord, dove mai poteva incistarsi se non nell´antico residuale dinosauro delle Partecipazioni Statali sopravvissuto a Tangentopoli. Mutuando con destrezza a Roma ladrona gli usi e gli abusi che della Finmeccanica, pur campione nazionale tecnologico nel settore degli armamenti, hanno fatto per decenni la sentina della prima e della seconda Repubblica.
«Orsi e ricorsi», ci dice oggi un superstite degli storici boiardi di Stato, ironizzando sul cognome del nuovo presidente e amministratore delegato Giuseppe Orsi, collocato su quelle poltrone dopo l´ultimo epico scontro tra Gianni Letta, lord protettore del predecessore Pier Francesco Guarguaglini, e Giulio Tremonti, titolare col suo protegé Marco Milanese dell´ufficio di collocamento dei nuovi, famelici boiardini padani.
«Guarguaglini ha fatto grande questa azienda nel mondo», proclamava Letta mentre nuovi scandali avviluppavano quotidianamente il palazzo romano di piazza Montegrappa, percorso da faccendieri, impostori, mediatori internazionali, ladri e sicofanti. «Non si discute, tocca a noi», replicava Giancarlo Giorgetti, ex bocconiano di Cazzago Brebbia, presidente della Commissione Bilancio della Camera, riservato capo dell´ala diciamo «tecnocratica» del Carroccio – sottogoverno e poltrone – che aveva già collocato nel consiglio d´amministrazione Dario Galli, presidente della provincia di Varese, di sicuri e sani sentimenti xenofobi: «I profughi – asseriva quando i poveretti morivano come mosche in mare – se li prendano quelli che votano centrosinistra e che hanno grandi case». Ma sugli affari opachi africani non aveva mai da ridire.
Orsi, era già nella retrovia leghista alla Agusta Westland, pronto a fare il salto, con la promessa di trasferire poco a poco l´asse di comando verso il nord, possibilmente Varese, città fatale del Carroccio. Promessa subito onorata dopo la promozione, con lo spostamento della sede legale di Alenia da Pomigliano d´Arco, quell´abisso terrone, a Venegono. Non è lì, poi, che lavora da dirigente Emilia, la consorte di Roberto Maroni, capo in pectore delle armate leghiste? Ora l´accusa dice che forse il presidente e amministratore delegato per favorire la propria promozione in Finmeccanica ha dovuto anche mettere insieme una provvista di una decina di milioni per i partiti e segnatamente per la Lega, attraverso la vendita di dodici elicotteri Agusta AW 101 all´India. La fonte non è propriamente tra le più affidabili, è quel Lorenzo Borgogni, dispensatore di tangenti a se stesso e ai partiti, che Marco Milanese definisce «ladro di polli» – il bue che dà del cornuto all´asino – ma visti i precedenti non si fatica a crederci.
L´affaire India è soltanto l´ultimo – per ora – di un intrico di scandali e inchieste giudiziarie nel quale non è più facile orientarsi. Dagli appalti dell´Enav, ente cadetto, con i 200mila euro all´Udc di Pier Ferdinando Casini, al riciclaggio per l´acquisto della Digint imbastito dal vecchio fascista Gennaro Mokbel; dalla corruzione internazionale per le commesse in America Latina con le navi da guerra regalate a Panama per ottenere un appalto da 165 milioni a Telespazio, con i buoni uffici di Valterino Lavitola che finalmente in galera ha da raccontarne delle belle, fino alle consulenze affidate ai resti delle notti di Berlusconi, come ha scolpito l´ex amministratore della Selex Marina Grossi, consorte di Guarguaglini.
Ex fasci, ex diccì, ex piesseì e leghisti, tutti insieme appassionatamente a spolpare l´ultimo grande gruppo manifatturiero d´Italia, secondo solo alla Fiat, con 18 miliardi di fatturato e 75 mila dipendenti, nato nel 1948, ma che con l´Ansaldo ha già le sue radici a Genova nel 1853. Non manca quasi nessuno nell´album di famiglia. Vai un po´ a spulciare e trovi anche il giro Formigoni. Orsi, cattolico fervente non lontano da Comunione e Liberazione, è appena reduce da un processo con l´accusa di aver pagato 50mila euro alla Condonly per l´acquisto di elicotteri Agusta dall´Avio Nord, controllata dalla Regione Lombardia e per vendere velivoli a Cuba. Ne è stato assolto, ma – guarda un po´ – questa Condonly è la stessa protagonista dello scandalo Oil for Food, il petrolio dispensato a suo tempo da Saddam Hussein, che produsse una girandola di tangenti. Una parte finì sul conto “Paiolo” di Alberto Perego, grande amico e coinquilino di Formigoni nella santa casa milanese dei Memores Domini.
Lasciamo pure perdere le assunzioni clientelari, peccato diciamo veniale rispetto al resto, come ad esempio quelle dei figli di Massimo Ponzellini, l´ex prodiano di ferro di cui Bossi disse: «L´abbiamo messo noi presidente della Banca Popolare di Milano» (dove, come al solito, ha combinato pasticci per i quali è indagato) per spiegare come funziona da sempre il sistema Finmeccanica attraverso le parole di un suo dirigente, tale Domenico Lunanuova, che in una telefonata a Giampy Tarantini, fornitore di “patonza” all´infoiato di Arcore lo avverte: «La carne ce la mangiamo tutti… Però se so che tu ti fai la parte che è la polpa e io mi devo fare l´osso, sappi che un pezzo di polpa me lo devi dare». Più esplicito di così. Una polpa che non ha mai trascurato nessuno, fin dai tempi dell´antico presidente Camillo Crociani, l´ex insegnante di educazione fisica fuggito all´estero per lo scandalo Lockheed che terremotò ante litteram la prima Repubblica. La sua signora Edoarda Vasselovsky, alias Edi Vessel detta miss «Due miliardi», è rimasta in Italia azionista di maggioranza della Vitrociset, con la Finmeccanica socio di minoranza, partecipando finora al lavorio indefesso delle cricche.
Oggi il vecchio dinosauro delle Partecipazioni statali percorso per decenni da losche vicende, perde due miliardi e mezzo di euro, impiombando il Tesoro che ne controlla il 32 per cento e gli azionisti, che hanno perduto in dodici mesi circa il 70 per cento dei loro risparmi. Nel 2000 La partecipazione pubblica fu ridotta da D´Alema, che non volle la privatizzazione per evitare che il gruppo fosse rivenduto pezzo per pezzo ai concorrenti europei.
Orsi stava adesso preparando un piano di dismissioni di almeno un miliardo per evitare di colare a picco, vendendo il settore civile, a cominciare dai treni dell´Ansaldo Breda. «La mediocrità di tenere dentro tutto – aveva detto – ci porta al fallimento». Ma, a parte il fatto che, come la storia dimostra, la proprietà privata non garantisce più onestà di quella pubblica, Mario Monti ha spiegato nel suo recente road show londinese: «Lo Stato non ha necessità di andare sul mercato. Gli attuali prezzi di mercato non inducono il governo a privatizzare società pubbliche».
Per di più, il governo non affiderebbe mai un´operazione del genere a Orsi, fiduciario catto-leghista che il ministro Corrado Passera, con molti suoi colleghi, vede come il fumo negli occhi. Per cui il suo destino è segnato. Si andrà forse a un ballottaggio tra Alessandro Pansa sostenuto da Vittorio Grilli (ma non era già lì nei corridoi dei faccendieri di ogni risma?), Franco Bernabè o chissà chi altri. Mentre l´ala “tecnocratica” del Carroccio, ben omogenea all´ala “Cerchio Magico”, finirà di affossare le residue ambizioni elettorali. «Per la Lega – ha detto Bossi – è stato un errore andare a Roma. Spero che nessuno vada più a fare il deputato a Roma, compreso me».
Ogni promessa è un debito.

La Repubblica 26.04.12

Intervento del Presidente Napolitano in occasione del 67° anniversario della Liberazione

Celebro per il sesto anno, da Presidente, la Festa della Liberazione. L’ho celebrata in città capitali della Resistenza come Genova e Milano, l’ho celebrata, fuori d’Italia, a Cefalonia – che fu teatro di una straordinaria prova di dignità, eroismo e sacrificio dei militari della Divisione Acqui – e successivamente a Mignano-Montelungo dove ebbe il suo battesimo di fuoco il rinato esercito italiano dopo che ci era stato riconosciuto, dalle forze alleate, lo status di paese co-belligerante.
Alla mia presenza oggi qui tra voi attribuisco il significato particolare di un richiamo dell’attenzione storica e della memoria collettiva su quelle realtà dell’Italia profonda, popolare e contadina, in cui si radicò, venne combattuta e vinta la Guerra di Liberazione. Territori di antica storia, province di tradizionale laboriosità, piccoli Comuni legati all’agricoltura, in cui si sprigionarono – di fronte all’oppressione e alle angherie nazifasciste- un senso civico, un sentimento nazionale, uno spirito di ribellione e un anelito di libertà che diedero filo da torcere anche alle agguerrite forze tedesche. Fino a concorrere, nel settembre 1944, a quello sfondamento della Linea Gotica che in sostanza segnò le sorti della guerra in Italia.
Esemplare fu la Resistenza tra il pesarese e l’anconetano. Esemplare per la solidarietà tra partigiani combattenti e famiglie contadine, per lo stoicismo di queste nel subire feroci rappresaglie nelle case e nelle persone. Ed esemplare fu qui la Resistenza non solo per l’audacia di incalzanti azioni di guerra, con cui sempre si reagì ai colpi subiti, ma per l’intreccio tra tutte le sue componenti : formazioni partigiane (cui si aggregarono anche degli stranieri, dei non italiani sfuggiti alla dominazione nazista), reparti alleati (angloamericani, polacchi, indiani) e – a rappresentare la volontà di riscatto dell’Italia dalle disastrose scelte del fascismo – i soldati, i volontari, i giovani del Corpo Italiano di Liberazione.
Ecco, a questo volto unitario e corale della Resistenza nelle Marche e in altre realtà consimili, io desidero rendere omaggio a nome delle istituzioni repubblicane : e rendere particolare, commosso omaggio, al Comune e alla popolazione di Sant’Angelo in Vado su cui si abbatté la barbara furia nazifascista il 4 maggio 1944. Mi è spiaciuto non poter raggiungere – ma lo sento in egual modo idealmente vicino – il luogo in cui la stele in memoria dei caduti garibaldini del 1849 e l’imponente monumento ai caduti partigiani di un secolo dopo danno il senso della continuità dell’impegno e del patto più solenni che ci legano : l’impegno e il patto dell’unità nazionale. In questo spirito abbiamo lo scorso anno collocato la data del 25 aprile, e tutto quel che essa rappresenta, nel quadro delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Perché – si è giustamente detto, e non va dimenticato – la Festa della Liberazione è anche festa della riunificazione dell’Italia brutalmente divisa in due, dopo l’8 settembre del 1943, dall’occupazione tedesca. Anche di ciò – di quel terribile, sanguinoso periodo di divisione del nostro paese, che avrebbe potuto essere fatale per il futuro dell’Italia – bisogna continuare a rievocare e trasmettere la storia.
Vedete, ancora adesso emergono fatti e figure della Resistenza, che non avevano prima ottenuto alcun riconoscimento. Ho in questi giorni firmato, su proposta del Ministro dell’Interno, i decreti di conferimento di medaglie al merito civile alla memoria di uomini semplici che tra il 1943 e il 1945 sacrificarono la loro vita a ideali di amor patrio, libertà e solidarietà : un operaio della Dalmine di Bergamo, un finanziere di Sondrio, un parroco
del frusinate, un medico ebraico colpito dalle leggi razziali del fascismo che a Piacenza prestava cure ai partigiani feriti. Si continua dunque a scavare nelle vicende di quel periodo cruciale, e si individuano sempre meglio i tanti fili – persone, luoghi, episodi di azione collettiva, gesti individuali – di cui risulta intessuta la grande tela della Resistenza.
Questo sforzo di esplorazione e diffusione della verità, e di celebrazione di quanto hanno saputo esprimere di più nobile e forte gli italiani per la salvezza comune e il comune avvenire, non deve mai cessare o attenuarsi perché non si disperdano insegnamenti ed esempi di cui abbiamo ancor oggi acuto bisogno.
Sì, dinanzi alla crisi che ha investito l’Italia e l’Europa, nel quadro di un profondo cambiamento mondiale, abbiamo bisogno di attingere alla lezione di unità nazionale che ci viene dalla Resistenza, e abbiamo bisogno della politica come impegno inderogabile che nella Resistenza venne da tanti riscoperto per essere poi quotidianamente praticato. Ci si fermi a ricordare e a riflettere, prima di scagliarsi contro la politica. Ho già citato qualche volta ma non esito a citare nuovamente le parole della lettera dello studente di Parma, di anni 19, Giacomo Ulivi, condannato a morte e fucilato nella Piazza Grande di Modena il 10 novembre 1944 : “Cari amici, allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica è stato il più terribile risultato di un’opera di diseducazione ventennale, che è riuscita a inchiodare in molti di noi dei pregiudizi, fondamentale quello della «sporcizia» della politica. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è lavoro di «specialisti» : lasciate fare a chi può e deve. E invece la cosa pubblica è noi stessi : dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante”. Ecco, quante cose aveva capito quel ragazzo, combattendo per liberare l’Italia dal fascismo e dalla sua ventennale opera di intossicazione delle coscienze. E il messaggio di quel ragazzo, di quel giovanissimo eroe non restò isolato né vano: se fu possibile far rinascere l’Italia, lo fu perché in moltissimi – sull’onda della Liberazione – si avvicinarono alla politica, non considerandola qualcosa di “sporco”, ma vedendo la cosa pubblica come affare di tutti e di ciascuno. ragazzo, di quel giovanissimo eroe non restò isolato né vano: se fu possibile far rinascere l’Italia, lo fu perché in moltissimi – sull’onda della Liberazione – si avvicinarono alla politica, non considerandola qualcosa di “sporco”, ma vedendo la cosa pubblica come affare di tutti e di ciascuno. E invece oggi cresce la polemica, quasi con rabbia, verso la politica. E si prendono per bersaglio i partiti, come se ne fossero il fattore inquinante. Ma per capire, e non cadere in degli abbagli fatali, bisogna ripartire proprio dagli eventi che oggi celebriamo. Come dimenticare che proprio da allora, dagli anni lontani della Resistenza, i partiti divennero e sono per un lungo periodo rimasti l’anima ispiratrice e il corpo vivo e operante della politica? I partiti antifascisti furono innanzitutto la guida ideale della stessa Resistenza, che non si identificò con nessuno di essi, che non ebbe un solo colore, che si nutrì di tante pulsioni e posizioni diverse, ma dai partiti trasse il senso dell’unità e la prospettiva della democrazia da costruire nell’Italia liberata. E furono quei partiti i promotori e i protagonisti – sospinti dalla forza del voto popolare – dell’Assemblea Costituente, dando vita a quella Costituzione repubblicana che costituisce tuttora la più solida garanzia dei valori e dei principi che scaturirono dalla Resistenza.
E anche quando si ruppe l’unità antifascista e la politica si fece aspra competizione democratica, furono i partiti, e fu la partecipazione dei cittadini a quel confronto, fu la partecipazione popolare alla vita politica e sociale che resero possibile uno straordinario progresso dell’Italia senza lacerazioni dell’unità nazionale. Sono poi venute, col passare dei decenni, le stanchezze e le degenerazioni – lo sappiamo – della politica e dei partiti. Questi non sono certo più gli stessi dell’antifascismo, della Resistenza e della Costituente : diversi ne sono scomparsi, altri si sono trasformati, ne sono nati di nuovi, e tutti hanno mostrato limiti e compiuto errori, ma rifiutarli in quanto tali dove mai può portare? Nulla ha potuto e può sostituire il ruolo dei partiti, nel rapporto con le istituzioni democratiche. Occorre allora impegnarsi perché dove si è creato del marcio venga estirpato, perché i partiti ritrovino slancio ideale, tensione morale, capacità nuova di proposta e di governo. E’ questo che occorre : senza abbandonarsi a una cieca
sfiducia nei partiti come se nessun rinnovamento fosse possibile, e senza finire per dar fiato a qualche demagogo di turno. Vedete, la campagna contro i partiti, tutti in blocco, contro i partiti come tali, cominciò prestissimo dopo che essi rinacquero con la caduta del fascismo : e il demagogo di turno fu allora il fondatore del movimento dell’Uomo Qualunque – c’è tra voi chi forse lo ricorda -un movimento che divenne naturalmente anch’esso un partito, e poi in breve tempo sparì senza lasciare alcuna traccia positiva per la politica e per il paese.
Io ho ritenuto doveroso, e non solo negli ultimi tempi ma in tutti questi anni, sollecitare anche con accenti critici, riforme istituzionali e politiche ; e mi rammarico che si sia, in questa legislatura e nella precedente, rinunciato a ogni tentativo per giungere in Parlamento a delle riforme condivise. Oggi però si sono create condizioni più favorevoli per giungervi : anche per definire norme che sanciscano regole di trasparenza e democraticità nella vita dei partiti, compresi nuovi criteri, limiti e controlli per il loro anche con accenti critici, riforme istituzionali e politiche ; e mi rammarico che si sia, in questa legislatura e nella precedente, rinunciato a ogni tentativo per giungere in Parlamento a delle riforme condivise. Oggi però si sono create condizioni più favorevoli per giungervi : anche per definire norme che sanciscano regole di trasparenza e democraticità nella vita dei partiti, compresi nuovi criteri, limiti e controlli per il loro finanziamento, e per varare una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini la possibilità di scegliere i loro rappresentanti, e non di votare dei nominati dai capi dei partiti.
In effetti, sono cadute non solo vecchie contrapposizioni ideologiche ma anche forme di sorda incomunicabilità tra opposte parti politiche, ed è dunque possibile oggi concordare in Parlamento soluzioni che sono divenute urgenti, anzi indilazionabili. Non esitino e non tardino i partiti a muoversi concretamente in questo senso. Guardino però tutti con attenzione ai passi per le riforme che si stanno compiendo e si compiranno da parte dei partiti, e non vi si opponga una sfiducia preconcetta e aggressiva. Prevalga dunque un serio impegno di rinnovamento politico-istituzionale e lo si accompagni, da parte dei cittadini, con spirito più costruttivo e fiducioso. Rinnovamento, fiducia e unità sono le condizioni per guardare positivamente a tutti i problemi economici e sociali che ci assillano e che presentano aspetti drammatici per le famiglie in condizioni più difficili, per quanti vedono a rischio il posto di lavoro e per quanti sono, soprattutto tra i giovani, fuori di concrete possibilità di occupazione. Ed è questo il nostro assillo più grande: aprire prospettive più certe e degne di lavoro e di futuro per le giovani
generazioni. La politica, i partiti, debbono, rinnovandosi decisamente, fare la loro parte nel cercare e concretizzare isposte ai problemi più acuti, confrontandosi fattivamente col governo fino alla conclusione naturale della legislatura. Debbono fare la loro parte le istituzioni, dal Parlamento e dal governo nazionale ai Comuni, peraltro condizionati oggi
da gravi ristrettezze. Dobbiamo fare tutti la nostra parte, con realismo, consapevolezza,
senso di responsabilità, sapendo che le possibilità di ripresa e di rilancio dello sviluppo
economico e sociale del paese, sulla base di una giusta distribuzione dei sacrifici
necessari, sono legate anche a un grande insieme di contributi operosi e di comportamenti virtuosi che vengano dal profondo della società e ne rafforzino la coesione. Sono convinto che potremo riuscirvi, ispirandoci nel modo migliore agli insegnamenti e all’esempio della Resistenza. Trasmettiamo questa convinzione e questo messaggio di speranza nella giornata del 25 aprile, che resta scolpita nella nostra storia e nella nostra coscienza nel ricordo di tutti i combattenti e i caduti della Guerra di Liberazione !

www.quirinale.it

Lo sterminio prima dello sterminio: l´eliminazione delle "vite indegne", di Gad Lerner

Esce “Ausmerzen” il libro di Marco Paolini che racconta la soppressione dei deboli fatta dal Nazismo fin dal luglio 1933
Disabili e malati di mente vennero sterilizzati, reclusi, sottoposti a diete micidiali e uccisi nelle prime piccole camere a gas. Le testimonianze di medici e infermieri restituiscono lo stupore di chi è convinto di non avere nulla da rimproverarsi. Lo speciale rapporto dei veneti con la psichiatria dipenderà forse dal fatto che sono un po´ tutti matti, da quelle parti? Città e campagne che il capitalismo non ha mai irreggimentato del tutto nella sua regola tayloristica. Modernità imbevuta di strapaese. Fatto gli è che da Zanzotto a Rigoni Stern, fino alla generazione irregolare dei Diamanti, Stella, Bettin cui è lecito accostare un maestro del teatro italiano contemporaneo qual è Marco Paolini, il Nord-Est si configura come il laboratorio intellettuale critico più sensibile ai temi della diversità. Forse per contrasto alla cultura retriva di chi governa su quel territorio. Sarà un caso che pure la misconosciuta (da noi) riforma della psichiatria – valorizzata invece come esemplare in tutto il mondo – sia stata intrapresa da Franco Basaglia lassù fra Gorizia e Trieste?
Antiretorica eppure grave, intima e solenne come solo lui è capace di modularla riempiendo la scena, la voce di Marco Paolini ha saputo così riformulare per noi il dubbio progressista più scabroso del Novecento: vale la pena dissipare risorse, in tempo di penuria, per mantenere in vita dei “mangiatori inutili”?
Il computo indecente dei risparmi di cui beneficia una società “sana” praticando la sua igiene, cioè eliminando le “vite indegne di essere vissute”, è stato recuperato in un foglietto sfuggito alla distruzione degli archivi nazisti. Lista ritrovata in un armadio a Hartheim: «È calcolato che fino al 1° settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti… Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto risparmiare 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate… E inoltre 2.124.568 uova».
L´appunto autografo di Hitler che ordinava l´eutanasia, cioè la soppressione dei disabili, si presenta caritatevole, rivolgendosi ai medici e «autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l´umano giudizio». Ma non fatevi illusioni: se Marco Paolini ha sentito il bisogno di riscrivere completamente il testo teatrale che l´anno scorso inchiodò al video 1.709.000 telespettatori, proponendocelo ora nella forma compiuta di un libro (Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, pagg. 177, Einaudi Stile libero, euro 12), è perché non possiamo permetterci la consolazione di scaricare per intero quell´abominio tra le colpe storiche del Terzo Reich.
Vero è che la pratica di selezionare in quanto esistenze-zavorra i disabili e i malati di mente, così come di procedere alla loro sterilizzazione fin dal luglio del 1933, con l´istituzione di centottanta apposite corti genetiche, e poi di sottrarli alle famiglie, rinchiuderli in sei centri pseudo-ospedalieri, sottoporli a diete omicide, infine eliminarli nelle prime piccole camere a gas allestite dal Reich, è riconosciuta dagli storici come la fase preparatoria dell´immane sterminio pianificato industrialmente nei lager dal 1942. Non solo. La collaborazione disciplinata di medici, infermieri, psichiatri, autisti e la rassegnazione con cui le famiglie sopportavano il prelievo forzato dei congiunti disabili, rivelarono ai gerarchi di Hitler quanto manipolabile fosse una società totalitaria assoggettata nel terrore. Anche se il timore di uno scandalo pubblico propagato dai familiari per questa strage degli innocenti, indusse il Reich a circoscriverne le modalità dopo il 1941.
Non credo però che Marco Paolini avrebbe proseguito la sua ricerca fino a scrivere questo libro stupefacente se a sollecitarlo non fosse stata una scoperta imbarazzante: l´eugenetica, pseudoscienza della selezione ottimale della specie umana, ben prima del nazismo, e ben oltre, affonda le sue radici nel positivismo della razionalità occidentale. Da Cesare Lombroso a Francis Galton, da Alexander Graham Bell fino a Konrad Lorenz, i teorici dell´eugenetica sono stati riconosciuti dall´establishment come alfieri del progresso. La dogmatica delle compatibilità economiche e un´ambigua nozione di progresso nella ricerca medica, si sono combinate nel legittimare sperimentazioni il cui retroterra non è sempre e solo necessariamente razzista.
Così la ricerca di Marco Paolini e di suo fratello Mario, musico terapeuta, è proseguita un anno oltre lo spettacolo teatrale. Ma non ne ha disperso l´impatto drammaturgico che in Paolini consiste nell´abilità di personificare il racconto, a tratti perfino capace di humour, umile nell´immedesimazione: cosa avremmo fatto noi al posto di quelle infermiere, abituate a praticare iniezioni a prescindere che guarissero o sopprimessero, in obbedienza alle prescrizioni mediche? E il medico che rivendicava la sua funzione sociale a beneficio di una collettività impoverita che doveva pur risparmiare per sopravvivere, dandosi priorità di tutela, e che magari si sforzava di non lasciar soffrire, sopprimendola, la vita indegna di essere vissuta, siamo così certi avesse una sensibilità tanto diversa dalla nostra? Non agiva forse anch´esso per il progresso?
Certo Paolini è capace di esprimere lo sdegno, attraverso un´ingenuità sapiente: «A ben guardare i centri di uccisione sono organizzati come macelli, travestiti da cliniche ma macelli. Soltanto la necessità di intrattenere rapporti con le famiglie, di giustificare i decessi, li distingue da una macelleria». Eppure prevale la naturalezza di quella scelta eugenetica di selezione che, infine, porterà alla morte procurata di trecentomila esseri umani, censiti in un ufficio di Berlino al numero 4 di Tergartenstrasse e prelevati uno ad uno nelle loro case. Non si spiega altrimenti la scoperta, umiliante per le truppe d´occupazione statunitensi nel luglio del 1945, da cui prende spunto il racconto. Finita ormai da oltre due mesi la guerra, a Kaufbeuren-Irsee, non lontano da Monaco di Baviera, nell´ospedale psichiatrico (“Luogo per sanare e curare”, recita il cartello all´ingresso) si è continuato a sopprimere i ricoverati. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, l´esercizio di una deontologia a prescindere dagli ordini del regime nazista ormai deposto.
Attraverso le testimonianze di medici e infermieri (solo due di essi si toglieranno la vita) Paolini ci restituisce lo stupore di chi non riteneva di avere nulla da rimproverarsi. Straziante è il ritratto di Ernst Lossa, soppresso all´età di quattordici anni nonostante la sua strenua resistenza alla Dieta E, completamente priva di grassi. Ancor più piccoli di lui sono i ragazzini italiani dell´ospedale psichiatrico di Pergine in Valsugana, sui quali una corrispondenza burocratica narra sperimentazioni crudeli, sempre “a fin di bene”.
Mi piace ricordare infine l´incontro con una donna straordinaria che ha introdotto Mario Paolini alla ricerca di Ausmerzen: Alice Ricciardi von Platen. Era una giovane dottoressa tedesca nel 1946, quando venne incaricata dall´ordine dei medici di raccogliere testimonianze per il secondo processo di Norimberga. Quei ricordi terribili non ne hanno scalfito la dolcezza, fino a quando si è spenta in terra toscana nel 2008.

La Repubblica 25.04.12

"Shakesperare e Dell'Utri", di Antonio Ingroia

Quale relazione esiste fra Dell’Utri e Shakespeare? Non è tanto la qualità di bibliofilo unanimemente riconosciuta a Dell’Utri, bensì una delle più fortunate commedie del grande drammaturgo britannico: Tanto rumore per nulla è infatti il titolo che si potrebbe dare alle furenti polemiche rovesciate contro i pm che hanno indagato e i giudici che hanno condannato Dell’Utri per concorso esterno mafioso. Furenti polemiche e accuse di persecuzione giudiziaria, spintesi fino alla proposta di bandire dal panorama giuridico con un colpo di spugna perfino la figura di reato del concorso esterno. Il tutto sulla base della sentenza della Cassazione che aveva annullato con rinvio la condanna inflitta a Dell’Utri dai giudici della Corte d’Appello di Palermo.
Inutili i richiami alla ragione di chi ricordava che sarebbe stato più prudente, per chi stava già santificando Dell’Utri, attendere la lettura della motivazione della sentenza. Inutile ricordare che l’annullamento con rinvio al giudizio di un’altra sezione della Corte d’Appello di Palermo non equivaleva affatto a una sentenza di assoluzione, perché altrimenti l’annullamento della condanna sarebbe stato senza rinvio, sicché sarebbe stata ben possibile un’altra condanna nel nuovo processo d’appello. La grancassa mediatica era partita inarrestabile. Gli italiani, come al solito, ne sono rimasti frastornati. E ora? Ora, c’è una sentenza di Cassazione che dice cose estremamente pesanti nei confronti dell’imputato Dell’Utri. Che riconosce essere stato adeguatamente provato il suo ruolo di costante sostegno e contributo alla mafia siciliana, avendo svolto negli anni un prezioso ruolo dimediatore,
per conto di Cosa Nostra, con Berlusconi, che per la Cassazione è accertato aver versato cospicue somme di denaro in favore della mafia proprio per effetto del ruolo di intermediario svolto da Dell’Utri. Che attribuisce, giustamente, grave valenza penale a queste condotte. Che restituisce legittimità alla figura del concorso esterno, come strumento principale per poter sanzionare in sede penale le condotte di sostegno e contiguità mafiosa come quelle di Dell’Utri. Che coglie la gravità di condotte del genere.
E che, per ragioni magari discutibilima legittime, censura la sentenza di condanna perché non l’ha ritenuta adeguatamente motivata in riferimento ad alcuni intervalli temporali in contestazione, ed in particolare quello in cui Dell’Utri aveva interrotto i propri rapporti con Berlusconi per lavorare alle dipendenze di un altro imprenditore, il siciliano Filippo Alberto Rapisarda, anch’esso in odor di mafia.
I giudici della Cassazione, quindi, si limitano, secondo la prassi dei giudizi di rinvio, a restituire gli atti alla Corte d’Appello di Palermo perché altri giudici della stessa Corte, possano rivalutare il materiale probatorio e nuovamente motivare la sentenza nelle sue parti lacunose. Che c’entra tutto questo con il presunto accanimento politico-giudiziario nei confronti di Dell’Utri e Berlusconi? Nulla: la sentenza dimostra esattamente
l’opposto. Che c’entra tutto questo con l’inutilità dello strumento del concorso esterno, nel quale, secondo alcuni soloni, «ormai non ci si crede più»? Nulla: i giudici della Cassazione dimostrano di pensare il contrario. Quali sarebbero le cantonate
prese dai pm e dai giudici di Palermo? Nessuna: anzi, l’impianto accusatorio ha retto, e la sentenza della Cassazione contiene passaggi assai più pesanti nei confronti dell’imputato della sentenza d’appello. Che diranno ora coloro i quali hanno strillato che la Cassazione aveva provato l’innocenza di Dell’Utri? Come giustificheranno la loro di cantonata? Non credo se ne prenderanno cura. Non si paga mai dazio per questo. E intanto, l’opinione pubblica viene sempre più disorientata dalla disinformazione imperante. Quando usciremo da questo tunnel? Difficile dirlo. Intanto, per mettere una parola fine a questa vicenda giudiziaria occorrerà almeno un altro giudizio d’appello ed un’altra sentenza della Cassazione. Ed è questa la vera sconfitta della giustizia e dello Stato italiano. È su questo terreno che occorre un vero intervento riformatore.

L’Unità 25.04.12

""A 5 anni niente scuola" e i maestri bocciano l´anticipo della prima", di Salvo Intravaia

La scuola italiana boccia l´anticipo scolastico. A due anni e mezzo i piccoli non sono pronti per la materna e a cinque può essere complicato affrontare la prima elementare. Troppe le difficoltà per bambini immaturi, scuole poco attrezzate, carenza di personale specializzato. Tutto questo può portare al caos in una classe che supera i venti alunni.

Stando al monitoraggio pubblicato lo scorso 18 aprile dal ministero dell´Istruzione, l´esperimento varato dal governo Berlusconi nel 2004 per eliminare le liste d´attesa alla materna e risolvere il problema delle primine all´elementare crea più problemi che vantaggi. Troppe le “criticità” derivanti dall´ingresso dei piccoli ancora lontani dai tre anni alla materna e di cinque anni e mezzo alla primaria. La bocciatura dell´anticipo è sonora, sia alla scuola dell´infanzia sia all´elementare. Nel primo segmento, l´ingresso anticipato in classe è considerato una “criticità”, piuttosto che una “risorsa”, dal 65 per cento delle istituzioni scolastiche interpellate. Valore che sale al 76 per cento se si prendono in considerazione le sole scuole statali. Nelle private il disagio sembra più contenuto: manifestano dubbi sull´anticipo soltanto il 52 per cento delle scuole. Stesso discorso alla primaria, che fa registrare il 77 per cento di scontenti. Con punte di criticità che salgono al Nord e nella scuola pubblica. Il perché ce lo spiegano gli stessi insegnanti e capi d´istituto. «Nella scuola dell´infanzia è fondamentalmente un problema di strutture e di personale», spiega Brunella Maiolini, dirigente scolastico del circolo didattico Pistelli di Roma. «Quando i bambini sono troppo piccoli si possono creare situazioni di disagio perché lo stesso regolamento dei collaboratori scolastici – continua la preside – non prevede per esempio l´assistenza dei bambini nelle pratiche igieniche». In altre parole, se un bambino di due anni e mezzo si fa la pipì addosso si pone il problema di chi deve accudirlo. La normativa condiziona l´ingresso anticipato all´esaurimento delle liste d´attesa e alla “valutazione pedagogica e didattica, da parte del collegio dei docenti, dei tempi e delle modalità dell´accoglienza”, recita la circolare sulle iscrizioni. Ma, per evitare di perdere classi, in alcuni casi si preferisce chiudere un occhio.
«Alla primaria – conclude la Maiolini – sono i genitori che decidono, indipendentemente da quello che pensano le insegnanti della scuola dell´infanzia. E se il bambino non è pronto per frequentare la prima si possono avere ripercussioni anche nella vita scolastica successiva». Quest´anno, tra materna ed elementare sono 111 mila gli anticipatari. «Molto spesso – dice Carola Perricone, insegnante di scuola dell´infanzia alla Manzoni di Palermo – i bambini non hanno maturato tutti i requisiti e non sono pronti per affrontare la prima. A questa età pochi mesi possono fare la differenza: in alcuni casi abbiamo assistito al ritorno alla scuola dell´infanzia, dopo un primo periodo all´elementare». I genitori che hanno troppa fretta di inserire i bambini all´elementare sono avvisati: che un bambino riconosca le lettere non è sufficiente perché magari non riesce a stare fermo, seduto al banco. «Quando un alunno arriva a scuola troppo presto – aggiunge Paola Ricci, che insegna in provincia di Lucca – per la maggior parte dei casi si verificano problemi nell´apprendimento che si protraggono nel tempo. Ciò può causare frustrazione, abbassamento dell´autostima nei bambini che hanno difficoltà a restare al passo con gli altri e avrebbero bisogno di sperimentare ancora il reale attraverso il gioco, cosa permessa alla scuola dell´infanzia». «Del resto – commenta Paola Arduini, della scuola elementare Iqbal Masih di Roma – nei paesi europei al top, come Svezia e Finlandia, l´ingresso in prima è previsto a sette anni».

La Repubblica 25.04.12

"Ricostruire il Paese oggi come ieri i giovani devono vincere la sfida", di Alfredo Reichlin

Fu la capacità di mobilitare le energie rofonde del popolo La nostra bandiera Italia e giustizia sociale. Il voto francese può
aiutarci a cambiare. Non abbiamo a che fare con una guerra perduta né con una dittatura fascista eppure il passaggio a cui siamo giunti è cruciale per l’avvenire della democrazia. È necessario un grande rinnovamento, bisogna rialzare la testa come allora. Sono passati quasi 70 anni -una intera epoca storica – dalla liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista. Io ricordo bene quella giornata che segnò l’avvento di una nuova Italia. Un mondo
soprattutto di giovani prendeva in mano il destino di un Paese coperto di macerie, ferito da migliaia di morti, umiliato dalla sconfitta in una guerra ingiusta e sciagurata, occupato da eserciti stranieri. È in queste condizioni che i grandi partiti popolari, i rappresentanti delle masse contadine ed operaie che fino allora erano state escluse dalla vita pubblica dello Stato post-risorgimentale, presero la guida dell’Italia e la portarono alla riscossa. In meno di dieci anni il Paese intero fu ricostruito, uscì dall’arretratezza del vecchio mondo contadino, diventò la quarta o la quinta potenza industriale del mondo, mandò i suoi ragazzi a scuola.
La spiegazione di questo autentico miracolo si fa presto a dirla. Fu la capacità di mobilitare le energie profonde del popolo italiano facendo appello a quella straordinaria risorsa che è la sua antica civiltà. Il popolo si sentì protagonista e i suoi diretti rappresentanti (non i sovrani o le classi dominanti, come era sempre avvenuto nel passato) scrissero un nuovo patto di cittadinanza, la Costituzione repubblicana, fondata sul lavoro e garante di nuovi diritti. Non solo l’uguaglianza di fronte alla legge ma nuovi diritti sociali. Insomma, costruirono uno Stato democratico avanzato, che è tale non solo perché consente la libertà di voto e di opinioni ma perché garantisce anche agli ultimi, alle classi subalterne, di organizzarsi e di pesare sulle decisioni pubbliche attraverso i propri strumenti di potere: i partiti politici, i sindacati, le associazioni volontarie.
Da allora è passato un secolo, un’epoca intera. Perciò appare davvero singolare che rievocando quell’antica vicenda, noi in realtà abbiamo netta la sensazione che stiamo parlando, sia pure in modi molto diversi, dei problemi di oggi. Perché? È evidente, per fortuna, che non abbiamo a che fare con una guerra perduta, né con una dittatura di tipo fascista. Eppure il passaggio a cui siamo giunti è molto aspro ed è cruciale per l’avvenire della democrazia repubblicana e per il futuro dei nostri figli. Si sta creando una miscela esplosiva tra una gravissima crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i casi di suicidio e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora sul Parlamento e sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali. È sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione.Ma è solo di questo che si tratta? Io vedo anche il tentativo di creare una grande confusione. Il Gattopardo. Quel libro famoso in cui si narra che di fronte alla caduta rovinosa del regno borbonico e all’arrivo di Garibaldi in Sicilia il vecchio principe spinge il nipote a sposare una popolana. Così faremo credere che tutto cambi affinché tutto resti come prima. È caduto Bossi? Avanti allora un altro:
Beppe Grillo. Tanto sono tutti uguali. Il che non è vero affatto. L’Italia prima di Berlusconi è stata governata da ministri come Ciampi, Prodi, Andreatta, Amato, Giorgio Napolitano, tra i migliori e i più onesti della Repubblica. Dopo, per quasi dieci
anni hanno governato Bossi, Berlusconi, Rosi Mauro e certe signore. Io penso che da qui, da un lungo malgoverno che ha fatto del denaro e dell’egoismo sociale la misura di tutte le cose, viene la crisi anche morale dell’Italia. Come ne possiamo uscire? È evidente che senza una riforma profonda anche intellettuale e morale, l’Italia decadrà e non sarà più quella cosa meravigliosa che è stata nei secoli. Quale strada vogliamo imboccare? Vogliamo affidare ancora una volta il destino del Paese a un comico, a un altro avventuriero, a un altro miliardario che ha chiamato partito la sua azienda personale e si è comprato anche i deputati? È necessario un grande e profondo rinnovamento.Ma senza i partiti veri con quali strutture di partecipazione democratica possiamo dare una risposta alla potenza inaudita della finanza speculativa e ridare il potere alla democrazia e al Parlamento invece che alle banche? Non dimentichiamo che il fenomeno più impressionante a cui stiamo assistendo è l’aumento della povertà, ma al tempo stesso della concentrazione della ricchezza in poche mani. Dobbiamo contrastare il predominio di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori, e più in basso ancora di esclusi, sia dal potere che dai consumi. È con questi pensieri che io mi
rivolgo ai giovani e li esorto a rialzare la testa, come fecero i giovani di allora dopo il fascismo per ritrovare l’orgoglio delle ragioni storiche dell’Italia nell’aspro scenario di lotte e di contraddizioni che sempre più segnano questo nostro mondo.
Le elezioni francesi possono essere anche per noi una opportunità di cambiamento. Abbiamo tutti bisogno di un nuovo pensiero critico.
Una critica, la cui radicalità non sta nella violenza e nel rifiuto di assumere responsabilità di governo,ma nel mettere in discussione i poteri reali che governano da sempre questo Paese.
Italia e giustizia sociale. Questa è la nostra bandiera, che dovremmo tenere più in alto e con più orgoglio. La loro era fino a ieri il patto tra Berlusconi e Bossi. Adesso è Grillo per l’Italia e la signora Le Pen per la Francia. Mi rattrista molto. Ciò che mi consola è che io, tanti anni fa, l’ho vista scappare molto impaurita questa classe dirigente inetta e trasformista. Aveva però di fronte un progetto di ricostruzione della nazione, che coinvolgeva anche forze non di sinistra.

L’Unità 25.04.12

******

“Un giorno di libertà tra memoria e voglia di cambiare”, di Carlo Smuraglia – Presidente nazionale ANPI

Prima di tutto la memoria, perché un Paese che non ricordasse i suoi morti per la libertà e dimenticasse le pagine più gloriose della sua storia sarebbe condannato all’ignominia e al decadimento. Il ricordo, dunque, dei partigiani e dei soldati che combatterono in armi, dei militari che non si arresero ai tedeschi, dei contadini che aiutarono i combattenti, delle donne che fecero irruzione nella vita politica nazionale per battersi in favore della libertà, dei sacerdoti che aiutarono i partigiani e i militari, di tutti coloro – insomma – che hanno composto il grande quadro della Resistenza; tutto questo è prioritario, rispetto ad ogni altra cosa, perché è dovuto al loro sacrificio ma anche all’esempio che ci hanno dato di fierezza e di speranza. Quei combattenti che non anelavano soltanto alla libertà, ma volevano anche avviare la ricostruzione di un Paese distrutto, sui sentieri della democrazia. Ed è proprio alle loro speranze e ai loro sogni che oggi va dato il massimo tributo perché la memoria non sia formale e retorica, ma sia utile per capire e affrontare il presente e il futuro. Viviamo in una fase difficile, di fronte a una crisi che non è temporanea ma strutturale, alle difficoltà di tante famiglie senza lavoro e senza un’adeguata sicurezza sociale, al lavoro “dimenticato”, alla dignità sepolta nei meandri del precariato, alle tante modestissime pensioni di vecchiaia, alla ricerca affannosa di accompagnare al necessario rigore quell’altrettanto necessaria equità senza la quale i sacrifici non possono essere accettati. Una fase difficile, aggravata dal distacco dei cittadini dalla politica (che rischia sempre di trasformarsi in una pericolosissima “antipolitica”), dalla corruzione dilagante, dall’assalto della criminalità organizzata al nostro stesso sistema economico, dalle nostalgie di un passato che non può più tornare, dal degrado anche culturale che sta avviando, da tempo, il Paese su una china estremamente rischiosa. Una fase difficile anche perché alla rassegnazione e alla indifferenza si uniscono talora una protesta e un’indignazione, altrettanto pericolose se fini a se stesse, perché la storia ci insegna che certe derive portano facilmente a soluzioni populistiche e autoritarie, come ci dimostra in questi giorni, anche l’incredibile affermazione elettorale di un movimento di destra estrema in Francia. In una fase come questa, ci si può affidare allo scoramento, alla caduta di ogni speranza, e perfino alla rassegnazione? Io credo che sarebbe cadere in un baratro senza ritorno. Non sta a me indicare le soluzioni e le alternative; perché non è questo il compito dell’Anpi, mentre lo è l’indicare la strada per “resistere” e avviare il Paese verso il riscatto, con un cambiamento deciso di rotta sul piano economico, politico e sociale. Il fondamento di questo impegno si può trovare soltanto nel ricorso ai princìpi e ai valori della Costituzione che affondano le radici nella Resistenza che oggi ricordiamo. A quel rilancio di valori dobbiamo contribuire tutti, perché questa, solo questa, è la via della salvezza del Paese. Per questo, oggi la Festa è – e deve essere – di tutti, perché al ricordo aggiungiamo il richiamo ai valori fondamentali che si riassumono in parole semplici (lavoro, dignità, uguaglianza, solidarietà) ma estremamente significative. Una festa di tutti. E sarebbe ora che tutti lo capissero, abbandonando i negazionismi e i revisionismi di sempre e mettendo finalmente da parte i troppi rigurgiti neofascisti (sono di ieri i manifesti che inneggiano alla Repubblica di Salò!), per riconoscersi finalmente in ciò che di grande è avvenuto nel nostro Paese, attraverso la ricostruzione dell’Unità nazionale, nella libertà, e l’apertura delle porte alla democrazia. Rivolgo dunque, un invito fraterno e amichevole a tutti, cittadine e cittadini, donne e uomini di altri Paesi che si trovano in Italia, a raccogliersi, oggi, nelle piazze attorno alla Resistenza, alla Costituzione, ai valori di fondo che fanno del nostro Paese una vera Nazione. Un giorno di libertà e di festa, nel commosso ricordo dei caduti, volgendosi indietro con la memoria, ma con lo sguardo rivolto in avanti, proteso con la volontà e l’azione verso un futuro migliore

L’Unità 25.04.12

"Così "pane nero" racconta la resistenza delle donne", di Franco Marcoaldi

Con “Repubblica” il celebre libro della giornalista appena scomparsa. Quando gli uomini sono partiti per il fronte molte ragazze hanno scoperto la libertà. Sono trascorse appena due settimane dalla morte di Miriam Mafai e oggi i tanti, tantissimi lettori che per decenni l´hanno seguita dalle colonne di questo giornale, avranno modo di riaccostare la sua indimenticabile figura leggendo Pane nero, che esce allegato al quotidiano. In una data nient´affatto casuale: giusto quel 25 aprile, ricorrenza della liberazione dal nazi-fascismo, su cui il libro chiude il suo racconto di guerra. Anche se poi la guerra Miriam la racconta a modo suo, ed è un modo davvero speciale. Le protagoniste di questo lungo viaggio dal ´40 al ´45, assieme tragico e avventuroso, si chiamano Bianca, Marisa, Zita, Lela, Adriana, Carla, Silvia, Lucia… E l´autrice del libro ne raccoglie le voci intessendole tra loro per dare forma a un coro tutto femminile, dove finalmente assume la parola chi, sotto la pressione di quella terribile contingenza storica, si trovò a prendere in mano, per la prima volta, il proprio destino.
L´intento del libro è chiarito da subito, nelle pagine introduttive. Tra le diverse “coreute” c´è chi, una volta scoppiato il conflitto, finisce col guidare il tram e chi per fare la postina, chi organizza scioperi in fabbrica e chi assalta i forni, chi crede fino in fondo nella vittoria di Hitler e Mussolini e chi fa la staffetta partigiana. Eppure, annota la scrittrice, nelle differenti testimonianze una frase continua a riecheggiare: «…Però, è stato bello». Come spiegarsi un´affermazione tanto insolita, stridente? «Forse perché ognuna di noi divenne, nel pericolo e nella miseria, più padrona di se stessa».
Se la guerra scardina ogni ordine, nello smottamento va compresa anche la rigida fissità dei ruoli sessuali. È da questa particolare prospettiva che prende le mosse il racconto di Pane nero: incalzante, turbinoso, drammatico. Ma non privo, a tratti, di annotazioni più leggere. Perché la guerra, oltre ad essere bestiale, è anche sommamente ingiusta. E accanto a fame, freddo e morte, lascia spazio per le feste, il lusso, il gioco d´azzardo – almeno per alcuni. L´occhio di Miriam è troppo curioso e smagato per non darne conto. Il quadro deve essere quanto più possibile completo, veritiero. E così è, grazie a una scrittura che combina al meglio l´immediatezza del reportage giornalistico, la puntualità del saggio storico e il respiro del “romanzo” collettivo. Pagina dopo pagina, il lettore rimane inchiodato a una vicenda che lo coinvolge con i suoi orrori e le sue efferatezze, ma anche con i mille slanci di coraggio, riscatto civile, solidarietà umana, nuova consapevolezza politica.
Refrattaria a qualunque retorica e sentimentalismo, proprio per questo Miriam Mafai riesce a restituire appieno il pathos individuale e collettivo che anima quel cruciale passaggio storico. Senza dimenticare mai il suo peculiare punto di osservazione.
Quando, all´inizio del conflitto, sono partiti per il fronte padri, mariti e fratelli, le donne hanno scoperto con sgomento il senso di una nuova libertà. Costrette dagli eventi ad abbandonare il vecchio ruolo di madri e mogli esemplari, si sono trovate per la prima volta in mare aperto. E si sono inventate nuovi lavori, hanno combattuto con le unghie e con i denti per rimediare un po´ di cibo, hanno offerto ospitalità agli sbandati e ricoperto pericolosi incarichi nella guerra partigiana. Ma ora che le ostilità sono cessate, tutti, da destra e da sinistra, raccomandano di tornare all´ordine: «siate miti, siate dolci, siate sottomesse». La «trasgressione» legittimata dalla guerra viene negata, a favore del restauro di un´immagine convenzionale. Ma le donne non saranno mai più quelle di prima. Anche grazie a libri come questo, scritto affinché nella memoria collettiva resti traccia di quel momento di protagonismo femminile.

La Repubblica 25.04.12