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"Nella tenaglia della crisi", di Chiara Saraceno

Cala la capacità di reddito dei lavoratori, ma cala delle famiglie, insieme alla capacità di consumo e di risparmio. Diminuisce quindi la rete di protezione familiare che per molti costituisce l´unica forma di protezione dalla perdita, o mancanza, di reddito. È il quadro che emerge mettendo in fila quelli che ormai sembrano bollettini di guerra: i dati sul mercato del lavoro, sulle retribuzioni, sulla disponibilità al risparmio, resi pubblici dall´Istat nel corso di questo mese.
I dati sul mercato del lavoro, infatti, mostrano che a fronte di un tasso di occupazione sostanzialmente stabile, ma su livelli molto bassi (56,9%), sta aumentando di nuovo la cassa integrazione, inclusa quella a zero ore. Anche se questa formalmente non è ancora disoccupazione, se non c´è ripresa lo può diventare. E comunque comporta una perdita di reddito anche per questi che sono i lavoratori più protetti nel sistema di ammortizzatori sociali vigente. Gli indicatori complementari al tasso di occupazione, poi, che integrano i dati sui disoccupati con quelli dei sotto-occupati e degli inattivi, mostrano che nel 2011 i sotto-occupati sono aumentati di quasi il 4% rispetto all´anno prima. Quello della sotto-occupazione è un fenomeno che riguarda soprattutto le donne, e gli stranieri di entrambi i sessi, ovvero i due gruppi più deboli, e vulnerabili, sul mercato del lavoro. In altri termini, gran parte del part time è del tutto involontario e molti di coloro che lo fanno vorrebbero, e avrebbero bisogno, di lavorare di più. Quindi non solo il tasso di occupazione è basso, ma contiene una quota di sotto-occupazione forzata per mancanza di alternative. Ancora più drammatici i dati sugli inattivi. Anch´essi sono in aumento, ma lo sono anche coloro che sono inattivi non per scelta, ma per scoraggiamento, come testimonia il fatto che molti di loro (quasi tre milioni) sarebbero disposti a lavorare, ma non cercano un lavoro perché danno per scontato di non trovarlo.
Tutto ciò suggerisce che il numero di percettori di reddito in una famiglia è più ridotto del potenziale teorico, non perché chi non lavora – in particolare giovani figli e figlie e mogli di ogni età – amino farsi mantenere, ma perché non trovano lavoro, e per questo sono anche costretti, se figli, a non formarsi una propria famiglia anche quando ne abbiano l´età e il desiderio, o comunque a non uscire dalla casa dei genitori. E ciò succede proprio quando il potere d´acquisto di chi lavora si riduce perché c´è un crescente divario tra andamento dei salari e inflazione, come ha reso noto proprio ieri l´Istat. Un numero ridotto di percettori di stipendio deve mantenere, con un reddito che sta perdendo valore, un numero ampio di persone che vorrebbero avere un´occupazione, ma non la trovano. Non sorprende perciò il dato, reso pubblico qualche settimana fa, che la propensione al risparmio delle famiglie ha raggiunto il livello più basso dal 1995. Esso segnala che stanno riducendosi le riserve, quindi anche la possibilità di costruirsi una rete di protezione privata a fronte dell´incertezza della disponibilità e tenuta di quella pubblica.
Ma non è finita qui. Gli ultimi provvedimenti fiscali riducono ulteriormente il reddito disponibile delle famiglie già così falcidiato da quanto avviene nel mercato del lavoro. C´è solo da sperare che non venga aumentata l´Iva sui beni di consumo comune, perché colpirebbe sempre queste stesse persone e famiglie, ovvero le persone e le famiglie il cui reddito principale o esclusivo è il reddito da lavoro dipendente o da pensione.
Sono queste, infatti, quelle prese nella tenaglia della crisi, ove la perdita di occupazione, o l´impossibilità di aumentarla su base familiare, si somma ai costi dell´inflazione e al peso di un fisco che non potrebbero evadere neppure se volessero. È su di loro che è facile fare cassa. E sono loro che portano il peso maggiore della crisi. Con la conseguenza che si sta ampliando il divario sociale, sia nei redditi che nei consumi. Eravamo già uno dei paesi più disuguale tra quelli sviluppati. Siamo sulla strada per diventarlo ancora di più, con possibili conseguenze per la coesione sociale e la democrazia che sarebbe urgente fossero oggetto di riflessione da parte non solo del governo ma delle forze politiche. Non è accettabile che si continui a parlare di austerità senza affrontare la questione delle disuguaglianze che aumentano. Questa è politica. L´antipolitica è quella dei politici di professione (ma anche dei tecnici) che ignorano le disuguaglianze di cui le loro decisioni (o non decisioni) sono la causa.

La Repubblica 25.04.12

Bersani: "25 aprile, rinnoviamo l'impegno personale e collettivo per la difesa e lo sviluppo della democrazia in Italia e in Europa"

Care iscritte, cari iscritti, il 25 aprile noi italiani ricordiamo la liberazione dal nazifascismo e la resistenza di quanti lottarono
anche a costo della vita per la libertà e la democrazia nel nostro paese. Se oggi noi viviamo in un mondo migliore lo dobbiamo anche a loro. Per queste ragioni, la celebrazione del 25 aprile per noi democratici non è un semplice rito, ma il momento in cui ciascuno rinnova l’impegno personale e collettivo per la difesa e lo sviluppo della democrazia in Italia e in Europa.
La ricorrenza del 2012 si presenta da questo punto di vista ancora più significativa. Fin dall’inizio il Partito democratico ha avuto l’ambizione di essere il partito della liberazione, della Costituzione e della ricostruzione civile e democratica dell’Italia. Abbiamo passato anni terribili. Il populismo ha governato il paese, portando l’Italia sull’orlo del burrone. Noi abbiamo lottato contro questa deriva, chiamando tutti alla riscossa civile, per riportare l’Italia nell’alveo del modello europeo. A lungo siamo stati soli. Gran parte della classe dirigente sosteneva Berlusconi e il suo populismo e chiudeva gli occhi di fronte alla realtà.
Alla fine i frutti dell’impegno del Pd sono arrivati, come dimostrano i risultati delle amministrative e dei referendum del 2011, la caduta del governo Berlusconi. A un passo da una crisi devastante abbiamo ottenuto l’uscita da palazzo Chigi di Silvio Berlusconi. Il Pd si è impegnato, per la salvezza dell’Italia, al sostegno del governo guidato da Mario Monti. Il compito
di un grande partito popolare e nazionale è di pensare prima all’Italia e poi ai suoi interessi. L’eredità lasciata dal centrodestra è tuttavia pesante e il senatore Monti ha dovuto prendere provvedimenti impopolari. Non tutte le misure che sono state varate l’avremmo predisposte noi. Abbiamo avanzato le
nostre proposte e ottenuto anche alcuni importanti miglioramenti (dal prelievo sugli esportatori di capitale che hanno sfruttato il condono di Tremonti alla lotta contro l’evasione, alla difesa dell’articolo 18, fino alla battaglia per il futuro degli esodati). Ma non dimentichiamo e non permettiamo che si dimentichi che Monti è venuto non dopo i partiti, ma dopo Berlusconi. Siamo a un tornante storico. Ci troviamo a vivere insieme la crisi economica più grave dal 1929 e la crisi politica peggiore dal 1992, anno di Mani Pulite. In questo passaggio il Pd si è assunto il compito di tenere in collegamento il governo con le esigenze sociali e la sofferenza del paese. Il Pd vuole essere il motore che
spinge l’Italia ad arrestare il declino, a riprendere la crescita e, nello stesso tempo, il partito che promuove una riforma profonda della politica, senza la quale non può esservi una riscossa del paese. In un momento così difficile per gli italiani è indispensabile ridare un senso etico alla politica, far capire che solo la buona politica può far uscire il paese dalle secche e che nuove scorciatoie populiste, di qualsiasi segno, ci riporterebbero nel burrone. I partiti, in primo luogo il Pd, devono dunque dare l’esempio, tirandola cinghia e avviando un rinnovamento e un rafforzamento delle regole interne, in modo da riavviare il cammino della democrazia.
Fin dall’inizio il Pd ha deciso di far certificare i propri bilanci da una società esterna di revisione (la stessa che certifica il bilancio della Banca d’Italia) ed ha proposto una legge per applicare e regolare l’articolo 49 della Costituzione, in modo da fissare norme precise per la vita interna e per la trasparenza dei partiti politici, fondamentali in ogni democrazia occidentale. Non erano scelte casuali, erano volute. Ma ora bisogna fare di più.
In questo ambito il Pd punta a una immediata e profonda riforma del finanziamento pubblico, perché i partiti, se devono assolvere al proprio compito democratico, non possono e non devono vivere prigionieri dell’interessato sostegno del o dei miliardari.
In particolare, il Pd propone:
a) La certificazione dei bilanci dei partiti da parte di società esterne di revisione; il controllo da parte
della Corte dei conti; la pubblicazione dei conti su internet.
b) Tetti drasticamente più stringenti per le spese elettorali, non riferibili solo al periodo immediatamente
precedente il voto, imponendoli dove oggi non sono previsti e riducendoli dove sono già in vigore.
c) Il dimezzamento da subito, rispetto all’anno scorso, dell’ammontare complessivo del finanziamento
pubblico ai partiti costruendo un sistema basato su due pilastri, secondo il modello tedesco:
1) un contributo fisso relativo al numero dei voti; 2) un’agevolazione o una compartecipazione pubblica commisurata in base all’entità del finanziamento privato raccolto da ciascun partito. In proposito vanno ricordati due temi. Il primo: il Pd ha, fin dalla nascita, raccolto parte non irrilevante dei fondi con il tesseramento e con le feste democratiche, che per scelta politica il Pd lascia ai territori, con i contributi dei
parlamenti e degli amministratori. Il secondo: il Pd ha girato una parte dei finanziamenti alle strutture regionali e continuerà a farlo anche nelle nuove e più stringenti condizioni. Con questom passaggio l’Italia resterà largamente al di sotto di quanto avviene in Germania, in Francia, in Spagna.
d) Il finanziamento privato deve essere consentito solo per somme molto contenute e reso trasparente, in modo che i cittadini possano controllare.
Il Parlamento oggi ha la possibilità di varare in poche settimane sia le norme per regolare la vita interna dei partiti, sia i drastici tagli e la riforma del sistema di finanziamento pubblico. E’ un contributo che la politica deve dare, oltre all’indispensabile riforma della legge elettorale per consentire ai cittadini di scegliere i parlamentari, alla riduzione del numero dei deputati e dei senatori e agli altri interventi di
rinnovamento istituzionale.
Il Pd prende l’impegno solenne a procedere su questa strada e a incalzare le altre forze politiche, che devono abbandonare posizioni di facciata per essere richiamate alla concretezza dei fatti e dei tempi per ottenere risultati certi prima delle vacanze estive. Il Pd non da oggi ha ingaggiato la battaglia per la ricostruzione civile e democratica dell’Italia, per uscire dal populismo e tornare in Europa. Oggi, 25 aprile, è il momento per rinnovare quell’impegno. Lo prendo di fronte a voi che ogni giorno alimentate le iniziative del partito. Chiedo a tutti forza e tenacia nel sostenere le ragioni della buona politica, le stesse che hanno spinto ciascuno di noi a lavorare per la
democrazia e per il nostro paese.

Pier Luigi Bersani

L’appello di Rosetta Stame ai partigiani di Roma: «Tutti siano invitati», di Mariagrazia Gerina

Clima teso nella capitale. Il sindaco: è una manifestazione privata
I sindacati all’Anpi: «Il 25 aprile in piazza anche le istituzioni». Dopo la decisione dell’Anpi Roma di non invitare Alemanno e Polverini per evitare contestazioni, il dibattito si fa acceso. Intervengono i sindacati. E il giorno della Liberazione scioperi contro l’apertura dei negozi. «Mio padre, fu torturato nel carcere di via Tasso ed ucciso alle Fosse Ardeatine quando io avevo sei anni. Mi ha lasciato un testamento morale: ha dato la vita per coloro che la pensavano come lui, ma ancora più per gli avversari in modo che si superasse la contrapposizione e si diventasse un unico popolo», racconta Rosetta Stame, figlia di Ugo, cantante lirico e comandante partigiano, davanti alle divisioni, che ancora, a 67 anni dalla Liberazione, non mancano di incidere sul 25 aprile. A Roma, in particolare. Dove, da quattro anni, le celebrazioni, alla presenza della giunta Alemanno prima e di quella Polverini poi, si sono trasformate puntualmente, ogni anno, in occasione di contestazione. «Alemanno sbaglia, ma ha il diritto di essere rispettato come rappresentante delle istituzioni», insiste Rosetta Stame, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine, davanti alla scelta dell’Anpi Roma, che, per evitare «problemi di ordine pubblico», ha deciso quest’anno di non invitare né il sindaco della capitale, né le altre istituzioni locali, al corteo del 25 aprile.
«Non ce ne era bisogno», ha spiegato ieri il presidente dell’Anpi cittadino Vito Francesco Polcaro: «Il 25 aprile è la festa di tutti i democratici e gli antifascisti. Chiunque voglia partecipare è ovviamente benvenuto». Con un distinguo, pe-
rò: «È chiaro che ad una manifestazione sulla lotta della Resistenza non sarebbe gradito che si presentasse qualcuno che in qualche modo possa essere associato al fascismo». Non era difficile capire a cosa o a chi si riferisse. «Sarebbe come se alla festa dello scudetto di calcio si presentassero anche i tifosi avversari», ha voluto comunque aggiungere Polcaro: «Ci sarebbero problemi di ordine pubblico».
L’unico ad annunciare la partecipazione al corteo, come cittadino, è il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti: «Ci vado da quando ero in carrozzina, fa parte della mia storia», si schermisce.
Gli stessi sindacati però chiedono all’Anpi Roma di ripensarci e di rivolgere a tutte «le istituzioni democraticamente elette» l’invito a partecipare. «Il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani che si sono riconosciuti nei valori di libertà e di democrazia», osservano in un comunicato congiunto Cgil, Cisl e Uil: «Quei valori sono il vessillo delle istituzioni democratiche». Indipendentemente da chi, scelto dai cittadini, sia chiamato a rappresentarle.
«Noi non abbiamo nulla da rimproverarci», si auto-assolve Alemanno, che liquida malamente la questione: «L’Anpi è una associazione privata, può gestire la propria manifestazione come crede». Lui si limiterà, dunque, a partecipare alle cerimonie ufficiali, spiega, aggiungendo anche una reprimenda sul 25 aprile che «invece di essere momento di unità e forza» diventa «una occasione per fare polemiche». Neppu-
re una parola sui manifesti che, al grido «Gli eroi sono tutti giovani e belli», rendono omaggio «Ai ragazzi di Salò». Ieri mattina sono spuntati anche sotto al Campidoglio. Il clima, in città, è questo. Due giorni fa, ne ha fatto le spese anche Mario Bottazzi, il partigiano contestato in un liceo romano da un paio di giovani militanti di Forza Nuova. Mentre prima era toccato alla memoria di Rosario Bentivegna essere offesa nella stessa Aula Giulio Cesare.
PROTESTE E POLEMICHE
Neppure la presidente Polverini accenna a quei manifesti. Mentre, ricordando le contestazioni di due anni fa, sferra una veemente protesta per il mancato invito da parte dell’Anpi: «Sono molto amareggiata non solo per me ma anche per quelli della mia famiglia che hanno contribuito alla Liberazione del Paese», spiega, invocando l’intervento del Capo dello Stato.
Sarà il presidente della Repubblica ad aprire oggi solennemente in Quirinale le celebrazioni ufficiali per la Liberazione. Con lui, l’Anpi e alle altre associazioni combattentistiche, i rappresentanti del Governo e del Parlamento, ma anche gli amministratori locali di Roma e Provincia e la presidente della Regione Lazio. Che si troveranno così, fianco a fianco, con i vertici nazionali e romani dell’Anpi.
Domani per il 25 aprile sono previste manifestazioni in tutta Italia. Napolitano sarà a Pesaro. A Milano, accanto al presidente nazionale dell’Anpi Smuraglia ci saranno il sindaco di Milano Pisapia e il segretario della Cgil Susanna Camusso. Dai sindacati intanto la risposta più forte a chi vorrebbe un 25 aprile meno solenne viene dagli scioperi di categoria proclamati in molte città contro la decisione di tenere aperti i negozi.

l’Unità 24.04.12

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“La mossa di Napolitano contro le liti sul 25 Aprile. La Polverini e l’Anpi invitati al Quirinale” di Ernesto Menicucci

Divisi sul 25 Aprile, riuniti dal Quirinale. Sulla festa della Liberazione, che a Roma è diventata un caso, scende in campo Giorgio Napolitano.
Oggi, al Colle, iniziano le cerimonie per il 67esimo anniversario della data che celebra la fine del nazifascismo, con le Associazioni combattentistiche e d’arma. E, insieme all’Associazione partigiani, ci saranno anche il Comune di Roma, la Regione Lazio e la Provincia di Roma: le tre istituzioni non invitate dall’Anpi romano al corteo di domani che si concluderà a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza capitolina. Una decisione, quella dell’Associazione partigiani, che aveva creato molte polemiche.
Ufficialmente, il motivo del mancato invito è «per evitare possibili contestazioni», come capitò nel 2010, quando contro la governatrice Renata Polverini ci furono cori e lanci di oggetti, col presidente della Provincia Nicola Zingaretti (Pd) che per difenderla si beccò un limone in fronte. Ma, dietro la scelta dell’Anpi, ci sono anche altre motivazioni: l’opposizione al sindaco Gianni Alemanno e alla stessa Polverini perché di centrodestra, malumore per come il Pdl ha commentato la morte del partigiano Rosario Bentivegna, liti interne all’associazione, spaccata tra gli esponenti di Comunisti italiani e Rifondazione e quelli legati al Pd e alla Cgil.
Scoppiata la bagarre, la Polverini si è rivolta a Napolitano: «Spero che il capo dello Stato — ha detto — voglia spendere una parola. Bisogna smettere di pensare che chi milita da una parte abbia l’esclusiva della storia. Il sangue è stato versato da tutti, anche da miei familiari e da chi mi ha votato». Più remissivo Alemanno: «Mi dispiace, ma ne prendo atto. L’Anpi è un’associazione privata, decide lei come organizzare le sue manifestazioni. Peccato, però, che il 25 Aprile anziché unire divida». Zingaretti al corteo ci sarebbe andato comunque: «Ma — dice — in forma privata. La decisione dell’Anpi, presa per evitare incidenti, è saggia».
Pian piano, però, sono aumentate le voci critiche. Prima il Pdl, con Fabrizio Cicchitto: «L’Anpi, a Roma, non farà una manifestazione unitaria ma solo quella di una parte precisa». Poi Pierferdinando Casini: «Il 25 Aprile è ricorrenza importante, non può dividere gli italiani. Rattrista l’esclusione di Alemanno e Polverini dalle celebrazioni. Grande errore!», scrive su Twitter il leader udc. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Rosetta Stame, presidente dell’Associazione vittime delle Fosse Ardeatine («Alemanno va rispettato come sindaco, no alle separazioni di carattere personale») e Lucio D’Ubaldo, senatore pd («l’Anpi di Roma ha ceduto all’estremismo»).
I sindacati si schierano, in polemica con l’Anpi: «Il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani che si sono riconosciuti nei valori di libertà e di democrazia. Quei valori sono il vessillo delle istituzioni democratiche. Chiediamo all’Anpi di rivolgere a tutte le istituzioni, come da noi suggerito, l’invito a partecipare», la nota firmata da Claudio Di Berardino, Mario Bertone e Luigi Scardaone, segretari regionali di Cgil, Cisl e Uil. Le ultime due sigle, senza presenza istituzionale, non parteciperanno al corteo.
La mossa di Napolitano, ora, riapre gli scenari. Tanto che l’Anpi, adesso, sta valutando il da farsi. Soddisfatta la Polverini: «C’ero rimasta molto male. Il capo dello Stato ha prontamente dato una risposta, ma ne eravamo certi. Ora potremo celebrare tutti assieme la festa della Liberazione». Anche Zingaretti plaude a Napolitano: «Ringrazio il Quirinale per l’ottima e tempestiva iniziativa. È il modo migliore per superare polemiche e incomprensioni». Caso chiuso? Oggi la risposta.

Il Corriere della Sera 24.04.12

Nella roccaforte di Marine Le Pen “Il cuore è rosso, ma la collera nera”, di Marco Castelnuovo

Qui non ci sono picchiatori, uomini neri con la testa rasata, razzisti. Qui non ci sono fascisti. Hénin-Beaumont è il feudo di Marine Le Pen. La donna nera, e non solo perché farà da arbitro al ballottaggio, è una tranquilla cittadina nel Pas de Calais, a settanta chilometri dal confine belga, dove la vita scorreva tranquilla. Nella parte ricca case di mattoncini rossi a un piano, giardino con altalena e barbecue, camino ancora acceso in questa primavera che tarda ad arrivare. Divisa dalla ferrovia che da Lens porta a Lille, la parte più popolare: casermoni del dopoguerra, grigi ma dignitosi, a ospitare i minatori che fino agli anni 70 hanno fatto di questa zona una delle più produttive del Paese.
È qui nella parte popolare, sopra un negozio di occhiali, ironia della sorte in rue Rousseau, che Marine ha deciso di rompere con il passato e la figura ingombrante del padre per ricostruire il “suo” Front National. Quello che ha battuto tutti i record, anche quello del 2002 che vide il vecchio Jean-Marie arrivare al ballottaggio ma con una percentuale inferiore a quella presa dalla figlia l’altra sera.
«Guardi qui», dice buttando una copia del quotidiano locale del giorno un cliente affezionato del bar “la Paix”, proprio di fronte alla cattedrale, uno dei pochi aperti in questo lunedì di pioggia battente e forte vento. «E sempre il Front National» si intitola l’editoriale. Butta il giornale sul tavolo del vicino: «Tutte le volte la stessa storia. L’Fn fa il botto, si dice che non deve più riaccadere, nessuno fa nulla. La volta dopo il Front National fa ancora meglio e ci si chiede il perché. È sempre la stessa sorpresa». Il gestore del locale Dino, condivide. «Qui siamo stati dimenticati».
Ma cos’è che vogliono gli elettori della Le Pen? Chi sono? A quest’ultima domanda è difficile rispondere. Nessuno ammette di votare Front National, anche se più di un elettore su tre domenica ha messo la croce sul simbolo della fiamma tricolore. Si vergognano, si dice. Chi si espone lo fa sotto anonimato perché – sostiene – altrimenti «quelli mi vengono a prendere e mi menano». Basta questa frase, detta da un settantenne con il bastone in una mano e il carrello della spesa nell’altra, per capire il rancore nei confronti di marocchini, algerini, insomma degli «arabi» come li chiama, spiccio, lui. «Non vogliono lavorare, non parlano francese, vivono con il sussidio e fanno piccoli furti: tanto se li arrestano che gli possono fare? Non hanno nulla da perdere». Il tema dell’integrazione (semi) fallita è centrale per capire la paura di chi vede perdere tutto. Ma non può bastare la paura per giustificare un exploit del genere, soprattutto in assenza di fatti eclatanti.
«È infatti un voto di scoramento» dice cercando di minimizzare David Noel, giovane segretario cittadino del Partito comunista. «In questa regione, gli elettori dell’estrema destra non sono più del cinque per cento». La Le Pen qui ha preso sette volte tanto. «Qui si usa dire che il cuore è rosso, ma la collera è nera», ammettendo così implicitamente che anche alcuni voti di sinistra siano finiti al Fn. In realtà poi spiega che se si analizzano i flussi di voto non è propriamente così, che lo scandalo locale che ha colpito l’ex sindaco socialista arrestato per corruzione ha pesato oltremodo, ma sa bene anche lui che quelli sono voti di gente normale, che lavora per pochi spiccioli quando va bene, che è stata lasciata senza speranza da mille e mille promesse poi mai mantenute. «Cacceremo questa feccia con getti d’acqua ad alta pressione», disse sfrontato Sarkozy nella cavalcata che lo portò all’Eliseo nel 2007. Di pompieri non ne hanno visti, e nemmeno Monsieur le President s’è più fatto vivo da queste parti. Con il risultato di avere perso otto punti secchi in cinque anni.
Madame Le Pen ha vinto la sua scommessa: non è di queste parti, ha passato i primi tempi ad ascoltare. Ha ricostruito l’estrema destra francese partendo da una zona mineraria, fatta di operai e gente senza ideologie. Domenica dopo il voto ha detto: «Porto con me lo spirito di Hénin-Beaumont». E non solo quello. Ha rinnovato la classe dirigente plasmando la sua creatura attorno a tre paure fondamentali: immigrazione, sicurezza, perdita del potere d’acquisto. E da qui è partita per fare il pieno sia nelle roccaforti del padre nel Sud est e in Corsica, sia sfondando in zone semirurali, come l’est della regione parigina. Oggi non rappresenta anche operai, impiegati, giovani non diplomati che temono il «declassamento sociale». Alla radio Marine si è rallegrata perché l’Europa teme il suo risultato: «É il ritorno della Nazione», ha detto rinviando al 1° maggio l’annuncio su cosa farà al ballottaggio. «Nessun voto» dicono a Hénin-Beaumont i militanti. Anche perché si pensa che una sconfitta di Sarkozy acceleri ulteriormente la disgregazione dell’Ump con tanti voti in libera uscita in vista delle legislative di giugno. Come in fondo è successo già qui. Oggi ci si sorprende, ma era tutto previsto. E prevedibile.

La Stampa 24.04.12

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“L’elemento unificante delle destre estreme è sempre la xenofobia”, di Paolo Soldini

Da Bruxelles a Copenhagen passando per Berlino, allarme per l’affermazione del Front National. È il riflesso di un fenomeno più vasto che attraversa il Vecchio Continente ma non può essere derubricato come «nostalgico». Che cosa c’è dentro quel quasi 18% al Front National che ha rischiato di rovinare la festa di François Hollande per il primo turno delle elezioni presidenziali? Se lo chiedono un po’ tutti: chi con preoccupazione e invitando i leader europei «a fare attenzione alla minaccia populista», come la Commissione europea, chi sdrammatizzando «perché il problema non ci sarà più al secondo turno», come il governo tedesco; chi, come i ministri degli Esteri lussemburghese e danese, evocando le responsabilità di Sarkozy e della destra «rispettabile» per aver giocato sporco su temi come emigrazione e convivenza. Le risposte non sono facili. Ce n’è una apparentemente tranquillizzante e dice che da molti anni, ormai, in tutte le società europee esiste uno zoccolo duro di consensi per i partiti che in un modo o nell’altro si richiamano ai valori e ai princìpi dell’estrema destra. In questa ottica, ammesso che sia quella giusta per guardare al fenomeno, il successo di Le Pen sarebbe indicativo, sì, ma non proprio clamoroso. Già con suo padre il Front National aveva raggiunto percentuali quasi altrettanto massicce (17,89% al ballottaggio del 2002) e da allora sono passati dieci anni in cui i problemi che danno alimento al populismo e alla demagogia, a cominciare dalla crisi economica, dalla globalizzazione e dall’immigrazione, sono tutti aumentati.
Proprio il carattere «europeo» del fenomeno, però, rende non solo più complicata la sua comprensione, ma anche più problematiche le strategie per affrontarlo. Una ricognizione dell’estrema destra politica sul continente ci mostra una estrema varietà di spinte, anche contraddittorie. Alcuni partiti e molti movimenti esprimono una specie di «protesta contro la Storia» e rivalutano i vari fascismi europei e il nazismo, come la Npd tedesca, i panslavisti russi, i fascisti ungheresi o baltici, l’italiana Forza Nuova, il Partito nazionale britannico.
Ma per altri la ragion d’essere on è l’occhio al passato. Il Front National, la Cdu dello svizzero Christoph Blocher, il Pvv dell’olandese Geert Wilders, il belga Vlaams Blok, il partito del Popolo Danese di Pia Kjaersgaard, i partiti antitasse norvegese e svedese non sono affatto «nostalgici». Rivendicano, anzi, il fatto di essere molto «moderni», al passo coi tempi e «vicini al popolo» perché ritengono di esprimere al meglio le novità che le complicazioni delle società moderne diffondono nella coscienza di ampi strati della popolazione: la paura per le «invasioni» degli immigrati e le insidie per la sicurezza e l’ordine pubblico, il rifiuto della globalizzazione e di ogni idea di cessione di sovranità, l’ostilità verso i «signori di Bruxelles», un egoismo sociale e di gruppo apertamente ammesso e, anzi, rivendicato come un merito. È evidente che le drammatiche vicissitudini della crisi finanziaria e sociale forniscono ormai da anni abbondantissimo nutrimento a queste istanze.
Secondo gli osservatori, il vero piatto forte della campagna di Marine Le Pen è stato la polemica con Sarkozy sulla sua acquiescenza ai diktat di Bruxelles e di Angela Merkel (ed ora è anche il maggiore ostacolo alla confluenza su di lui dei suoi voti). Il rifiuto della globalizzazione e della comunitarizzazione delle politiche può assumere i caratteri della rivendicazione dell’orgoglio di Nazione, come nel caso del lepenismo, o in un regionalismo che costituirebbe la trama dell’«Europa dei popoli», com’è il caso dei movimenti secessionisti (Lega in Italia o il Vlaams Blok), o potenzialmente tali, come la Fpö austriaca che fu di Haider o il partito di Blocher.
Il panorama è vario e complicato, come si vede. Ma qualche elemento unificante di tutta la galassia dell’estrema destra europea c’è. Il primo è la xenofobia, che spesso sconfina nel razzismo aperto. Poi c’è, quasi sempre, un forte conservatorismo in materia di costumi pubblici e privati. E infine, e soprattutto, il populismo costruito intorno a figure carismatiche. I partiti di estrema destra, assai più che gli altri, hanno bisogno di un capo indiscusso e di un’autocertificazione di «diversità» rispetto al resto della politica. Ora, se si considerano questi tratti unificanti, è facile verificare che molti elementi di legittimazione politica della destra estrema sono venuti e vengono dal potere e dalla destra moderata e «rispettabile».
La Cdu e la Csu tedesche per anni hanno fatto campagna sullo slogan «das Boot ist voll» (la barca è piena); Sarkozy, trovando sponda a Berlino, ha movimentato le ultime ore della sua campagna con la proposta di sospendere Schengen; in Italia è stato ministro degli Interni un personaggio che voleva prendere le impronte digitali ai bambini e che si vanta ancora dei respingimenti in mare che hanno provocato morti e terribili sofferenze e sono stati condannati dalla comunità internazionale (e ora ammette: «Ci abbiamo marciato»).
Anche il populismo carismatico è stato blandito dalla destra «normale». Il razzista islamofobo Wilders è stato accettato come sostenitore del governo in Olanda; il partito di Haider ebbe ministri in Austria; in Ungheria c’è un leader messo sotto osservazione dalla comunità internazionale. Anche senza scomodare il caso paradossale dell’Italia, dove la Lega ha partecipato al banchetto del potere fin quasi al giorno della sua indecorosa rovina, l’esperienza dell’Europa mostra che il problema non è tanto l’estrema destra in sé, ma le politiche delle destre, di certe destre, che la nutrono. C’è da sperare che Sarkozy ne sia consapevole.

l’Unità 24.04.12

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Intervista a Marc Lazar «Il risultato del Fn? È anche una forma di antipolitica», di Umberto De Giovannangeli

Il sociologo francese: «La sinistra segna una netta ripresa, ma non basta. Hollande cercherà di dare risposte pure a chi ha dato un voto anti-sistema». Il primo turno delle presidenziali registra una ripresa delle sinistre in Francia, con un più 8% rispetto al 2007. È un dato significativo ma che non deve attenuare il campanello d’allarme rappresentato dal successo del Front National di Marine Le Pen. Il risultato del Fn non è un incidente di percorso ma qualcosa che investe non solo la Francia ma l’Europa: perché testimonia della capacità attrattiva dei populismi che si fanno forti di sentimenti diffusi di insicurezza e di rivolta anti-sistema. Per certi aspetti, il successo della Le Pen è anche segnato da quel vento dell’”antipolitica” che soffia anche in Italia». A parlare è uno dei più autorevoli sociologi della politica francesi, professore a Sciences Po e alla Luiss.
Partiamo da una visione d’insieme dei risultati del primo turno delle presidenziali. Quali sono i dati più significativi? «Sono quattro. Il primo: una partecipazione più alta di quella prevista, il che sta a testimoniare che le elezioni presidenziali mobilitano i francesi, salvo nelle zone più periferiche delle grandi città. Il secondo dato: il candidato socialista, François Hollande, è in testa al primo turno, con il secondo risultato migliore tra tutti quelli registrati dai candidati socialisti nella Quinta Repubblica. L’unico che aveva fatto meglio di Hollande è stato Mitterrand nel 1988. Terzo dato importante: per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, il presidente uscente, candidato alla propria successione, arriva secondo al primo turno. Quarto dato, ma non in ordine di importanza: il Front National con Marine Le Pen registra il più grande successo nella storia del Fn». Guardiamo al futuro che si fa già presente. Su cosa punterà Hollande in quete due settimane che lo separano dal ballottaggio del 6 maggio? «Hollande insisterà con la sua strategia, quella, per dirla con le parole di Mitterrand dell’81, di una “forza tranquilla”. Cercherà di mettere al centro del dibattito, ancor più di quanto è stato fin qui è avvenuto, i temi economici e sociali, forte del fatto che i francesi considerano questi gli argomenti, le problematiche principali. Hollande cercherà inoltre di attrarre una parte dell’elettorato centrista di Francois Bayrou, certo com’è di ottenere quasi automaticamente i voti che al primo turno sono andati ai candidati della sinistra radicale, a cominciare dal leader del Fronte de Gauche Jean-Luc Mélenchon, e a Eva Joly, la candidata dei Verdi. E, forse, Hollande cercherà di parlare anche a una parte dell’elettorato del Front National, insistendo sulla sofferenza sociale prodotta dalla crisi e dal rigore a senso unico praticato da Sarkozy».
E Sarkozy, quali carte proverà a giocare?
«Su cosa Sarkozy punterà è già chiaro dall’altra sera, a urne chiuse per il primo turno: insisterà sull’immigrazione come minaccia a cui far fronte, chiamando in causa l’Europa “permissiva” che non regola i flussi migratori, batterà il tasto dell’’insicurezza, esalterà la Nazione francese per prendere i voti di Marine Le Pen. La sua sarà una corsa a destra»
Marine Le Pen, per l’appunto. Come leggere il suo risultato? Terza classificata, con il 17,9% dei voti…
«Va detto che esiste un nucleo forte del voto del Fn da quasi trent’anni in Francia. In quel 18% ci sono inoltre molti elettori delusi da Sarkozy e che avevano votato per lui nel 2007. A tutto ciò va aggiunta una componente di protesta contro tutti i partiti, alimentata dalla crisi economica e dalla gravissima situazione sociale».
Quali ricadute sull’Europa potrebbe avere una vittoria di Hollande il 6 maggio?
«Se Hollande sarà il nuovo Presidente, ha già annunciato che cercherà di rinegoziare il trattato fiscale europeo. Sarà molto difficile, ma Hollande scommette su una doppia vittoria in altri due Paesi europei: l’Italia, nelle elezioni della primavera 2013, e la Germania, con le legislative dell’autunno 2013. Molte cose dipenderanno anche dal risultato delle elezioni legislative francesi di giugno. Se il Ps otterrà la maggioranza assoluta da solo, allora avrà un certo margine di manovra; se invece non l’avrà, il Ps di Hollande dipenderà dai voti dei parlamentari del Front de Gauche, che sono molto ostili all’Europa attuale».
Il voto del primo turno visto da sinistra e da destra: cosa indica anche in chiave europea?
«Questo primo turno indica una ripresa delle sinistre in Francia che, con un complessivo 43,5%, ha una crescita di 8 punti di percentuale rispetto al 2007. Ciò potrebbe indicare una nuova stagione per le sinistre in Europa; una stagione ancora fragile, però, perché in Francia questa crescita è dovuta soprattutto al rigetto di Sarkozy. Ma in chiave europea penso soprattutto alle elezioni nel 2013 in Italia e Germania oltre che in quella interna, deve far riflettere il successo di Marine Le Pen, perché quel risultato dimostra lo spazio politico-elettorale che oggi possono avere i populismi in Europa».

L’Unità 24.04.12

"Partiti: chi vuole il modello americano", di Francesco Cundari

L’ottanta per cento di affluenza registrato alle elezioni francesi ha stroncato sul nascere ogni tentativo di estendere alla Francia le considerazioni sul discredito della politica abitualmente riservate all’Italia. Analisi e commenti incentrati sullo spettro dell’astensione non hanno retto alla prova dei fatti. Una smentita che suscita però almeno un dubbio anche sulla versione originale, riservata alla politica di casa nostra.
In questi giorni in Parlamento si discute di nuovi tagli e nuove regole sulla trasparenza del finanziamento ai partiti, come è giusto che sia dopo gli scandali che hanno investito prima il tesoriere della Margherita e poi quello della Lega. Ci sono però anche buoni motivi per diffidare di alcuni rilfessi condizionati del dibattito sull’argomento, a cominciare dal ritornello che ogni commentatore che si rispetti ripete almeno una volta al giorno sui giornali, alla radio, sul web e in tv, a proposito della «fiducia nei partiti» che sarebbe arrivata all’8 per cento (come scriveva in febbraio Renato Mannheimer sul Corriere della Sera), o anche al 4 per cento, (come nello stesso periodo sosteneva Ilvo Diamanti su Repubblica) e ora addirittura al 2 (di nuovo Mannheimer sul Corriere di domenica scorsa).
L’improvviso rilievo attribuito a sondaggi sulla fiducia nei partiti in generale (non su questo o quel partito) è una novità di quest’ultima fase, che precede i recenti scandali, dunque non può esserne la conseguenza. Più verosimilmente, se non altro per ragioni cronologiche, questo improvviso interesse per la popolarità dei partiti in generale è stato causato dalla novità del governo tecnico, sostenuto da una larghissima maggioranza trasversale agli schieramenti. Alla suddivisione destra-sinistra si è così sostituita quella politici-tecnici.
Resta però il fatto che la stessa domanda sulla fiducia «nei partiti» è mal posta. Saremmo curiosi di vedere un sondaggio in cui a tale quesito si affiancassero le domande sulla fiducia dello stesso campione in ciascun singolo partito, chiamato in causa con nome e cognome, dal Pd alla Lega, dall’Italia dei Valori al Pdl. Sbaglieremo, ma ci sentiremmo di scommettere che il totale sarebbe assai superiore al 2,al 4 e anche all’8 per cento.
Questo non significa, naturalmente, che in Italia non ci sia una gigantesca crisi di legittimazione della politica e delle istituzioni democratiche, un fatto che è davanti agli occhi (e alle orecchie) di tutti. Ed è un fatto non meno evidente che ad alimentare la tendenza alla condanna generica, senza distinzioni, sia stata la scelta di formare un governo sostenuto dalle forze principali del centrodestra e del centrosinistra. Appare pertanto degno di nota che a guidare questa campagna siano proprio quei quotidiani che più hanno spinto per la formazione di un governo tecnico, e proprio con l’argomento della crescente delegittimazione della politica e dei partiti.
Quale che sia il giudizio su genesi e operato del governo Monti, questo gioco delle tre carte non può essere accettato. Il governo tecnico non è nato dal fallimento della politica, ma dal fallimento della politica della destra. Non sono stati i partiti a portare l’Italia sull’orlo della bancarotta, ma Pdl e Lega. Se oggi siamo nelle condizioni in cui siamo, non è per colpa dei politici in generale, ma di alcuni politici in particolare: Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, con tutti i loro alleati e sostenitori.
Il tentativo del partito berlusconiano di ripresentarsi ancora una volta come il nuovo che avanza, dopo l’ennesima operazione di chirurgia plastica, punta esplicitamente a raccogliere i frutti di questa campagna contro la politica, magari in alleanza con un altro imprenditore dai molteplici interessi (anche nella comunicazione) come Luca di Montezemolo. L’annunciata intenzione di rinunciare ai fondi pubblici per il nuovo partito-movimento rende l’operazione ancora più spudorata: il partito del miliardario, principale responsabile della crisi e prima ancora del discredito della politica italiana (in patria e all’estero), che si propone come paladino della campagna per la moralizzazione della politica.
L’unico sondaggio affidabile sulla fiducia dei cittadini nei partiti è l’affluenza al voto. I sostenitori del sistema americano, incentrato sui finanziamenti privati, dovrebbero riflettere sul fatto che negli Stati Uniti le forze e gli intellettuali radicali, che contestano i partiti in generale, li accusano proprio di questo: di essere tutti ugualmente schiavi delle grandi corporation, si tratti dell’industria farmaceutica o di quella delle armi, dei giganti del petrolio o della finanza. Fatto sta che negli Stati Uniti quando i cittadini che si recano alle urne raggiungono il 65 per cento si parla di record storico. In Italia, alle ultime elezioni, l’affluenza è stata dell’80 per cento, proprio come in Francia.

L’Unità 24.04.12

"Sugli elicotteri Finmeccanica all´India tangente di 10 milioni per la Lega", di Dario Del Porto e Conchita Sannino

Missione a Lugano. Le dichiarazioni dell´ex capo delle relazioni esterne di Finmeccanica Lorenzo Borgogni portano i magistrati napoletani fino in Svizzera. Si cercano i riscontri a un´altra ipotesi di riciclaggio e tangenti. Al centro di questo filone, un affare da 51 milioni di euro che fa tremare la Lega e allunga ombre sull´attuale amministratore delegato del colosso di Stato, Giuseppe Orsi.
L´abitazione e dieci società ritenute riconducibili a Guido Ralph Haschke, imprenditore con la doppia cittadinanza che si muove prevalentemente sul mercato indiano, sono state perquisite ieri a Lugano dalla Procura di Napoli. Sul decreto, ottenuto per rogatoria dalla Procura federale della città svizzera, torna l´ipotesi di corruzione internazionale. L´indagine parte dalla vendita di 12 elicotteri al governo indiano da parte di Agusta Westland, la società di cui è stato amministratore Giuseppe Orsi, oggi al vertice di Finmeccanica. Al rientro dalla Svizzera, gli inquirenti appaiono ottimisti. Tra le carte e i contratti sequestrati ad Haschke, avrebbero trovato prime, importanti conferme al quadro delle accuse. «Siamo molto soddisfatti, andiamo avanti», commentano gli investigatori.
È una storia complessa e ancora da sviluppare, quella raccontata da Borgogni, sentito più volte come teste dai pm Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock, che con il procuratore aggiunto Francesco Greco, coordinano l´inchiesta sugli appalti Finmeccanica. «Riferisco in maniera trasparente quello che ho appreso durante le mie funzioni in Finmeccanica», ha premesso il testimone, sentito per l´ultima volta una settimana fa. E ha spiegato: nell´affare elicotteri in India sarebbe stata riconosciuta, a titolo di intermediazione, una somma che, da 41 milioni di euro iniziali, è lievitata fino alla cifra definitiva di 51 milioni. Un aumento di dieci milioni che si sarebbe reso necessario, è l´ipotesi prospettata dal testimone Borgogni, non solo per garantire il compenso pattuito con Haschke, ma soprattutto per soddisfare le richieste, stavolta di tangenti, di un altro intermediario che avrebbe “girato” a politici della Lega parte del suo maxi onorario. Forse proprio quei 10 milioni aggiunti in extremis.
Borgogni, scendendo nei dettagli, dice ai pm di Napoli: di quei 51 milioni, 20 sarebbero andati ad Haschke come compenso pattuito preventivamente per la sua riconosciuta attività professionale di intermediazione all´estero. Il resto, sempre secondo il racconto di Borgogni, sarebbe stato versato dal gruppo Finmeccanica a un altro professionista, un uomo che affiancava Haschke e indicato come «referente» di Giuseppe Orsi, il manager già al vertice di Agusta, in quel momento in procinto di diventare – con il decisivo sostegno della Lega Nord – amministratore delegato di Finmeccanica al posto di Piefrancesco Guarguaglini. Per Borgogni, l´intermediario ancora senza nome era il collettore delle tangenti dirottate verso le due anime della Lega, all´epoca non ancora irrimediabilmente spaccate tra i maroniani e i fedelissimi di Bossi. Le indagini dovranno ora approfondire la natura dei rapporti tra Haschke e Orsi. Il professionista italo svizzero ha avuto rapporti d´affari con Finmeccanica sin dagli anni Novanta, quando il direttore generale del colosso era Giorgio Zappa. Proprio quest´ultimo avrebbe presentato Haschke ad Orsi, che a quel tempo era “soltanto” l´amministratore della società più in vista, Agusta.
Una ricostruzione da verificare, che i magistrati hanno doverosamente deciso di approfondire. Così sono partiti i contatti con il procuratore federale di Lugano. Ed è stata avviata la rogatoria. Ieri, la svolta. I pm indagano per corruzione internazionale e riciclaggio. Nel corso delle perquisizioni è stata acquisita documentazione ritenuta estremamente utile allo sviluppo di un´inchiesta dagli sviluppi potenzialmente esplosivi. Haschke avrebbe fornito le prime risposte sempre alle autorità elvetiche, nelle prossime ore sarà interrogato come indagato alla presenza del suo avvocato. Anche il materiale sequestrato dovrà essere trasmesso ai magistrati italiani in base alle procedure internazionali. Sul caso si sono mosse anche le autorità di Nuova Delhi.

La Repubblica 24.04.12

"Se non ora dove? I partiti ascoltino la voce delle donne", di Francesca Izzo

Gian Enrico Rusconi ha posto su la Stampa un problema che ci riguarda: che fine hanno fatto i movimenti che hanno risvegliato la coscienza civile dell’Italia, in particolare Se non ora quando?
Dopo il 13 febbraio, Se non ora quando non solo non è tornato a casa ma non ha neppure scelto di rimanere allo stato gassoso di movimento virtuale.
Ha deciso di non rimanere una rete senza radici e senza fisionomia, pronta solo a mobilitarsi per campagne. Ha scelto di affrontare la faticosa ed oscura via della costruzione di un movimento presente con comitati in tutt’Italia e dotato di un minimo di regole democratiche. La sclerosi, la chiusura autoreferenziale dei partiti, anche di quelli critici verso lo stato di cose esistente, sono frutto anche di una società civile disorganizzata, preda dello spontaneismo della rete e dei trascinamenti carismatici.
Fin dall’inizio al centro della nostra inedita esperienza c’è stato il legame strettissimo che abbiamo colto tra le donne e l’Italia, il destino delle une che sempre più svelava quello dell’altra. Questa è stata la nostra lettura della crisi politica, economica e morale dell’Italia e il nostro giudizio sulla pochezza delle classi dirigenti di questo paese. Avevano lasciato calpestare senza una adeguata reazione la dignità delle donne italiane anche perché lasciavano intere generazioni di donne, anche con elevata formazione e qualifiche, fuori dal mercato del lavoro, fuori dai circuiti economici e politici, scaricando nello stesso tempo su tutte le donne il peso della cura di bambini, anziani, malati, mariti o partner.
Abbiamo accolto il governo Monti, tenendo ben presente questo intreccio: abbiamo registrato infatti che per la prima volta compariva nei discorsi programmatici di un presidente del Consiglio e di suoi ministri la questione delle donne come questione nazionale, decisiva per lo sviluppo del Paese. Sembrava, sotto l’urto di una crisi non contingente, che finalmente le classi dirigenti italiane avessero compreso il significato del le richieste avanzate dalle donne riguardo al lavoro, alla maternità, ai servizi, a un welfare a loro misura, oltre che ovviamente alla presenza paritaria nelle istituzioni, al rispetto e valore della loro identità in tutte le forme di rappresentazione. Sembrava avessero compreso che l’accesso delle donne alla cittadinanza piena è vitale per arrestare la spirale regressiva e invertire la rotta. È in gioco infatti non solo la vita della metà della popolazione ma una diversa regolazione dei rapporti tra Stato, impresa e famiglie, poiché le donne sono il tramite essenziale tra produzione e riproduzione, mercato e lavoro di cura. E sulla base di questa premessa Se non ora quando è sceso di nuovo in piazza l’11 dicembre dello scorso anno.
Invece le donne sono scomparse dall’orizzonte del governo come dall’insieme del discorso pubblico, politico e mediatico. Questo, a mio parere, costituisce uno dei tratti più inquietanti e gravi della crisi in cui siamo immersi, perché se si sostiene che le donne sono il volano per avviare l’uscita dalla crisi e poi non solo non succede nulla ma si aggravano le condizioni di vita delle medesime donne (vedi allungamento dell’età pensionabile unito alla riduzione e restringimento dei servizi alle famiglie) questo vuol dire, non solo che la crisi è gravissima, ma che nessuno sa come uscirne.
Che fare allora? Esprimo opinioni del tutto personali ma credo ci sia soltanto una risposta: accrescere il grado di responsabilità politica che tocca alle donne sostenere, tanto più in presenza di una crisi di legittimazione pesantissima degli istituti democratici. Le prossime elezioni del 2013 saranno un banco di prova per dimostrare capacità di coesione di coerenza e di forza.
Per questo non mi convincono gli inviti alla formazioni di liste di donne sponsorizzate o sostenute dai movimenti, a cominciare da Se non ora quando. Si introdurrebbe un ulteriore elemento di frantumazione e si alimenterebbero rotture e competizioni tra chi sceglie le liste e chi si candida con i partiti, mentre una delle caratteristiche, anche questa non tradizionale di Se non ora quando, è stata tenere insieme, non solo donne di orientamenti culturali e politici differenti, ma anche appartenenti a partiti e non.
Piuttosto, sono propensa ad attivare una fortissima campagna di pressione su tutti i partiti, anche attraverso interventi legislativi (come si sta facendo), perché aprano le loro liste ad una massiccia presenza di donne che tra l’altro costituisce il modo più rapido ed efficace per rinnovarli e in larga misura moralizzarli (non perché le donne siano portatrici di per sé di maggiore senso etico, ma perché un loro cospicuo ingresso spezzerebbe consolidate catene di interessi, legami, anche leciti, tra affari e politica).
Non è sicuro, si dice e con qualche fondamento guardando alle esperienze del recente passato, che le elette si impegnino per davvero a sostenere politiche di genere. Ma una presenza quantitativamente rilevante cambia la qualità: è già di per sé una assicurazione. Quanto a un’istanza altra rispetto ai vertici dei partiti, «un comitato di sagge…fatto di madri e figlie della patria» di cui parla Mariella Gramaglia, nel suo intervento su la Stampa di ieri, che eserciti una specie di controllo preventivo e ponga il “bollino blu” sulle candidature, è un’idea che rischia di creare più problemi di quanti cerchi di risolverne. L’esperienza insegna che c’è sempre una donna più donna di te, più femminista di te pronta a farti l’analisi della purezza del sangue. Piuttosto si dovrebbe arrivare a stilare una sorta di programma comune, almeno per alcuni aspetti, a donne di tutti gli schieramenti, e a trovare forme e modi per far emergere nel modo più limpido e trasparente possibile le disponibilità a impegnarsi nella vita pubblica, a far emergere le candidature femminili. E soprattutto occorre una pressione forte e concentrica su tutti i partiti.

L’Unità 24.04.12