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"Con Hollande cambia tutto anche per noi", di Pierluigi Castagnetti

Sembrava una “tirata” di Pier Luigi Bersani pro domo sua, invece mi pare che siano bastate poche ore per capire che quanto sta accadendo oltralpe avrà un riflesso sicuramente non irrilevante nel nostro paese. Nel Pd, ma non solo. Non è un caso che anche uomini intelligenti (seppur antipatici e in contraddizione con sé stessi) della destra come Giulio Tremonti e Antonio Martino lo stiano dicendo apertamente. Il risultato francese ci dice infatti che quando sul tavolo c’è una questione forte prevalgono le risposte a quella questione, sì o no, e non le divagazioni. E la questione che si pone in Francia (e in Italia) riguarda l’assenza, in un tempo in cui sarebbe necessario, del ruolo dell’Europa. La crisi in cui siamo immersi ha infatti una dimensione mondiale ed evoca una risposta politica quantomeno continentale. Il fatto che la Merkel abbia “sequestrato” l’Europa costringendola alla strategia di manutenzione finanziaria voluta dai mercati e che il resto degli altri paesi abbia dimostrato di non essere in grado di liberarsi dall’appropriazione indebita di leadership da parte della Germania non può continuare: i francesi hanno detto questo. Hanno chiesto che su questo tema la risposta sia precisa. Perciò hanno premiato Hollande, punito Sarkozy, non apprezzato la medietà di Bayrou e fatto esplodere il consenso al radicalismo antieuropeo di Marine Le Pen.
È vero che dobbiamo attendere il secondo turno, ma tutto fa pensare che il risultato appannaggio di Hollande sarà confermato. Perché già quello che è accaduto domenica scorsa dice che la sapienza degli elettori è sempre più forte delle elucubrazioni di chi dovrebbe interpretarli. I popoli mettono infatti sulla lavagna delle elezioni il loro sentimento, la loro anima, e ne escono disegni non sempre previsti dalle forze politiche. Potrà anche accadere che Hollande, una volta eletto presidente, non si riveli all’altezza della sfida, perché il suo partito tradizionalmente molto prudente sul piano europeistico gli tiene il guinzaglio piuttosto corto, o perché la vendetta dei mercati si rivela troppo forte o perché la Merkel anche senza la copertura di Sarkozy dimostra di saper resistere. Può darsi. Ma resta il messaggio inequivocabile di questo risultato. Un messaggio che necessariamente ci intriga e ci obbliga a delle scelte. Nel “monopoli” della reinvenzione del ruolo dell’Europa nella stagione della globalizzazione della finanza e dell’economia, tocca ora a noi italiani e al Pd in particolare posare la nuova tessera. Una tessera che per quanto ci riguarda ha due facce, una relativa al rapporto col governo Monti e l’altra più interna.
Il Pd, nell’Europa del dopo- Merkozy, dovrà incalzare e accompagnare il governo Monti nella definizione del contributo dell’Italia nella nuova fase. Monti ha personalmente le caratteristiche per guidare questo processo, ha autorevolezza e competenza riconosciute, ha la prudenza cui lo costringe la sua “strana” maggioranza interna, ma anche l’intelligenza per capire come si possa riportare in Europa, cioè nelle istituzioni comunitarie, ciò che la Germania ha sequestrato per sé. Come ai tempi della decisione del primo governo Prodi di tentare la strada difficile dell’ingresso nell’Unione monetaria europea, anche oggi i partiti, il Pd in particolare, devono assistere il governo nella nuova sfida. Ma al Pd è richiesto anche un lavoro di definizione non ideologica del proprio ubi consistam. Ciò che hanno annunciato in questi giorni Casini ed Alfano, cioè l’intenzione di scomporre e ricomporre il paesaggio politico italiano come si poteva pensare di fare fino a qualche mese fa cambiando nome e cambiando forma ai contenitori politici, rivela una distanza dal paese e dalla consapevolezza della credibilità attuale delle forze politiche veramente grande. Se ha ragione Mannheimer quando ci ricorda che la percentuale di fiducia degli italiani nei partiti è precipitata al 2 per cento (e l’esperienza ci dice purtroppo che ha ragione), allora il problema non è quello di spostare pezzi di elettorato che non sono più interessati a questo gioco, quanto quello di ridare un senso al consenso, cioé di rimotivare gli elettori verso la politica e i partiti.
Siamo tutti dentro questa difficoltà. Dimostra di esserlo Casini quando parla di un nuovo Partito della nazione in cui si ritrovino laici e cattolici (a chi interessano in questo momento tali categorie?) e lo sarebbe lo stesso Pd quando facesse un discorso tutto ideologico teso a recuperare appartenenze famigliari più o meno sopravvissute in Europa (a chi interessano in questo momento i discorsi sul legame con la socialdemocrazia o con il Pse?).
Mi ha colpito l’incipit del primo discorso di Hollande dopo il risultato elettorale: «Signore e signori, miei cari concittadini…» superando, lui sicuramente socialista, i nostri imbarazzati «amici e compagni». Ci è infatti richiesta oggi veramente una sana laicità, nel senso non di un anticlericalismo d’antan, ma di una capacità di parlare delle cose concrete (ciò che vogliamo noi) e dei valori che servono alla politica (la moralità e la competenza). «L’antipolitica si combatte con la buona politica» ricorda spesso Bersani. Ecco, di cosa sia la buona politica e di chi abbia titolo e credibilità per farla e rappresentarla oggi, dovremo parlare seriamente.

da Europa Quotidiano 24.04.12

Bologna. I sindacati presentano il conto a Profumo."Mancano all'appello 220 insegnanti", di Ilaria Venturi

Il ministro oggi in città, dibattito in Regione e visita in Ateneo. Cgil e Cisl: la scuola bolognese non sta dentro i numeri di organici al momento assegnati. Mancano all’appello delle scuole bolognesi 220 insegnanti, dalla materna alle superiori. A fronte di 2.283 studenti in più tra i banchi il prossimo anno. “Una situazione insostenibile”, protestano i sindacati all’uscita dal primo incontro sull’assegnazione delle cattedre con l’ufficio scolastico provinciale. La Flc-Cgil si appella al ministro Francesco Profumo oggi a Bologna per un confronto in Regione sulla formazione tecnica e per incontrare in Ateneo il rettore e gli organi accademici. “Ci attendiamo che porti risposte”. Intanto è scontro sui posti in più in arrivo in Emilia Romagna. Sono solo 26 quando ne mancherebbero 800, denuncia la Cgil regionale. “Da Roma continuano a non tenere conto dell’aumento della popolazione scolastica, gli oltre 300 insegnanti promessi in realtà sono posti già assegnati per la maggior parte l’anno scorso, i tagli continuano”, dice la segretaria Raffaella Morsia.

Lettura contestata dalla Regione: “Abbiamo concordato 392 posti in più e questi saranno”, smentisce l’assessore Patrizio Bianchi. A Bologna il confronto sulle cattedre è già acceso. I 220 posti richiesti dalle scuole bolognesi a fronte di una aumento degli alunni e dell’aumento del tempo pieno alle elementari (29 sezioni in più chieste dalle famiglie) rappresentano per i sindacati il “fabbisogno minimo”. I numeri diffusi ieri raccontano di 722 bambini in più alla primaria, dove mancano 28 insegnanti, 695 in più alle medie, dove ci sarebbe bisogno di 79 insegnanti, e di 684 studenti in più alle superiori (almeno 60 professori ancora mancanti). Una stima prudente, spiegano i sindacati, è che servano poi 52 maestre statali per 17 nuove sezioni di materna e per il completamento di 18 sezioni part time. “Apprezziamo che si torni a parlare una lingua della scuola e della realtà, non di tagli imposti con il pugno di ferro – dichiarano Sandra Soster della Cgil e Patrizia Prati della Cisl – ma rimane vero che la scuola bolognese non sta dentro i numeri di organici al momento assegnati”. La dirigente dell’ufficio scolastico di Bologna Maria Luisa Martinez intende prima verificare le richieste delle scuole, “poi chiederemo tutti i posti possibili, quanti ce ne daranno non lo so”.
da www.repubblica.it

"Una riforma a favore del più forte", di Luciano Gallino

Le facoltà fondamentali del giudice del lavoro, di contemperamento dei poteri della parte più debole (il lavoratore) e di quella più forte (il datore di lavoro), fatte salve le ragioni di entrambi, vengono drasticamente limitate dal disegno di legge di riforma del lavoro, a partire da quelle che gli assegnava l´articolo 18. In tal modo i licenziamenti individuali e collettivi saranno resi ancora più facili. Sono questi gli esiti più negativi del ddl che il Parlamento dovrebbe cercare di attutire – sempre che non prevalga nella maggioranza la volontà di peggiorarli.
Prendere in esame le limitazioni delle facoltà del giudice a tutela del più debole apportate dal ddl è un efficace filo conduttore per non perdersi nelle 79 pagine di questo, per di più irte di dozzine di intricati rimandi a leggi preesistenti. A volte sembra che dette facoltà siano accresciute, ma a ben vedere quasi ovunque sono ridotte. Si prenda l´articolo 18, travestito in modo da apparire un parente della versione originale, ma in realtà radicalmente mutato. Il primo comma dei dieci che nel ddl sostituiscono i commi dal primo al sesto dell´articolo in questione attribuisce al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, in caso di licenziamento discriminatorio, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. Sulle prime questa parrebbe una novità meritoria, poiché da ogni parte si è sempre detto che l´articolo 18 si applica solo alle aziende con più di 15 dipendenti. E qualche voce del governo si è pure levata per far notare questa straordinaria innovazione a favore dei lavoratori. In verità si tratta di un dispositivo che ha più di vent´anni. La legge numero 108 del 1990 stabilisce infatti, all´articolo 3, che nel caso di licenziamento determinato da ragioni discriminatorie si applicano le conseguenze dell´articolo 18, cioè il reintegro nel posto di lavoro, quale che sia il numero dei dipendenti.
A una facoltà di vecchia data presentata come nuova si affianca, sempre nell´articolo 18 ristrutturato, la drastica riduzione della facoltà del giudice di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Nella precedente formulazione il giudice, a fronte di licenziamento intimato senza giustificato motivo, ordinava al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore. Il comma 7 del nuovo articolo stabilisce anzitutto che il giudice può, non deve, applicare la predetta disciplina. Stabilire che un giudice non già deve, ma – se crede – può applicare una certa disciplina, in questo caso il reintegro del lavoratore, significa palesemente indebolirlo. Se ha il dovere di prendere una certa decisione è difficile sottoporlo a pressioni perché non lo faccia. Mentre se la sua facoltà è solamente facoltativa – non è un gioco di parole – è possibile che prima venga sollecitato da ogni parte affinché la eserciti nel modo più favorevole all´una o all´altra parte, e poi sia oggetto di valutazioni negative quale che sia la decisione presa.
Tuttavia ciò che ancor più riduce la facoltà del giudice di decidere il reintegro è che esso può effettuarsi soltanto nell´ipotesi in cui egli accerti la “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero per ragioni economiche. Che sono quelle inerenti all´attività produttiva, all´organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, come dice la legge 604 sui licenziamenti individuali del lontano 1966. Qui il giudice che volesse procedere in senso favorevole al lavoratore si trova dinanzi a due ostacoli monumentali. Il primo è costituito dalle infinite ragioni di ordine produttivo, organizzativo e funzionale che un datore di lavoro può addurre per sostenere che quel tale licenziamento è giustificato. Il secondo ostacolo è la giurisprudenza. Un flusso ininterrotto di essa, consistente soprattutto in sentenze della Cassazione, ha infatti stabilito che le ragioni economiche addotte per un licenziamento sono insindacabili, in forza dell´articolo 41 della Costituzione per il quale l´iniziativa economica privata è libera. Un giudice ha facoltà di andare contro di esse soltanto nel caso remoto in cui, ad esempio, scopra nella motivazione o nei documenti esibiti come prova dall´impresa un falso clamoroso. Pertanto sapeva bene quanto si diceva il presidente del Consiglio allorché ha assicurato le imprese, subito dopo la presentazione del ddl, che “la permanenza in esso della parola reintegro è riferita a fattispecie estreme e improbabili”.
La facoltà del giudice del lavoro di andare a fondo allo scopo di stabilire se le ragioni del licenziamento sono valide è altresì indebolita dall´articolo 15 del ddl, con l´aggravante che in questo caso si tratta di licenziamenti collettivi. Esso aggiunge all´articolo 4 di una legge del 1991 in materia di integrazione salariale, la 223, un periodo apparentemente innocuo: “Gli eventuali vizi della comunicazione [per l´avvio di procedure di mobilità perché l´impresa non è in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi] possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell´ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo.” Diversi giuslavoristi hanno già commentato negativamente tale aggiunta. In effetti i vizi di una simile comunicazione possono riguardare innumerevoli e rilevanti aspetti di essa: i tempi, i contenuti, i documenti allegati, i riferimenti a date, luoghi e persone, l´interpretazione di leggi vigenti ecc. Che detti vizi possano venire sanati in anticipo da un mero accordo sindacale, piuttosto che sottoposti all´esame di un giudice che a fronte di essi ha la facoltà di invalidare eventualmente il licenziamento stesso, dovrebbe apparire inaudito anche a un non giurista.
Qualsiasi legge si compendia, alla fine, nelle facoltà che essa assegna al giudice di valutare le ragioni delle parti in causa e di decidere quale di esse debba prevalere. Nel caso della legislazione sul lavoro, questa deve certo badare a che la libertà di iniziativa dell´impresa sia salvaguardata, ma deve pure circoscrivere il rischio che la parte più debole sul piano economico, il lavoratore, non si trovi collocato automaticamente nella posizione più debole anche sul piano giuridico, al caso quando si trova davanti a un giudice. È quello che ha fatto per più di quarant´anni la legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori. Il ddl di riforma del mercato del lavoro, salvo modifiche in Parlamento, azzera i dispositivi più progrediti di tale legge, e nel limitare le facoltà giudicanti del giudice appare palesemente squilibrata a favore della parte più forte, l´impresa.

La Repubblica 24.04.12

"Il partito anti-europeo", di Bernardo Valli

I sei milioni e mezzo di voti a Marine Le Pen sono stati un segnale inquietante. Un brontolio allarmante. Non solo per la Francia. Sensibili le borse europee. Queste hanno registrato ribassi consistenti anche se non proprio insoliti negli agitati tempi finanziari che stiamo vivendo. La società francese ha avvertito politicamente qualcosa di simile a una vibrazione, sul tipo di quelle intercettate dai sismografi sotto la crosta terrestre. Scosse di cui spesso non ci accorgiamo, o alle quali non prestiamo troppa attenzione. Nell´immediato non fanno danni in superficie. Ma li annunciano.
Dapprima stupita dal clamore che il successo di Marine Le Pen ha suscitato, al punto da relegare quasi in secondo piano la gara tra i due candidati ammessi al ballottaggio, la società politica si rende via via conto di avere trascurato, o di non avere valutato abbastanza, gli effetti della crisi, anche sul piano psicologico. L´assillo, l´angoscia di chi la vive, o teme di esserne investito, hanno dominato cuori e cervelli durante la campagna elettorale, senza che gran parte dei protagonisti ne fosse cosciente. Adesso il trauma è forte.
In politica il terremoto è la rivolta. La quale non si esprime obbligatoriamente sulle piazze. In democrazia le urne sono ribalte più importanti. Il successo elettorale del Front National ha avvertito che la crisi ha votato. E voterà. Si, proprio la crisi nuda e cruda, che non risparmia i più sfortunati e che angoscia anche chi non è ancora stato investito e teme di esserlo a sua volta. La crisi ha riversato nei seggi elettorali l´ansia, l´esasperazione della gente. Invece di pronunciarsi sui programmi dei veri candidati al potere, nei quali non hanno più fiducia, i sei milioni e mezzo di cittadini hanno espresso la loro collera, pronta a diventare rabbia, puntando sul partito della protesta e della provocazione. Era un modo di farsi ascoltare.
I due candidati principali, quelli che in queste ore si contendono la presidenza della Repubblica, in vista del ballottaggio del 6 maggio, non si erano accorti di quel che stava accadendo. Gli esperti nelle indagini d´opinione avevano avvertito nevrotiche fluttuazioni nell´elettorato. Giovani, pensionati, piccoli e medi imprenditori, commercianti, donne disoccupate, impiegati anche pubblici, rivelavano intenzioni di voto che cambiavano di mese in mese. E non era chiaro quel che li spingeva a mutare parere. Di fatto era il vento della crisi, sempre più forte, sempre più insistente, che li sbatacchiava da un candidato all´altro, come un carico umano sofferente, ansioso, senza ammaraggio. E alla fine sono finiti tra le braccia del Front National, il partito del rifiuto, della rivolta, della provocazione. Non più soltanto il partito xenofobo, e più degli altri capace di esprimere, in modo diretto, rudimentale, esasperato, non sempre innocente, senza sofisticazioni ideologiche, le inquietudini delle classi popolari più colpite.
Adesso François Hollande e Nicolas Sarkozy, rimasti in gara, inseguono, si contendono quei sei milioni di francesi, i cui voti saranno decisivi alla fine della prossima settimana. Ascoltavo ieri sera il candidato-presidente che a Tours prometteva, ai suoi elettori di cinque anni fa poi sfuggitigli di mano, tutta la sua comprensione. Ripeteva con insistenza di non avere, come il candidato di sinistra, alcun disprezzo per chi ha optato per il Front National. Lui capiva le sofferenze che li aveva spinti a quella scelta, ma proponeva una soluzione più costruttiva di quella suggerita da Marine Le Pen. E alla stessa ora François Hollande tentava la stessa operazione di recupero, dando per scontata la differenza tra gli elettori legati al Front National da un´ideologia xenofoba e quelli spinti dalla collera, dalla disperazione a schierarsi con l´estrema destra. Quest´ultimi erano attesi dalla sinistra come il figliol prodigo del vangelo.
Marine Le Pen ha liberato il partito da quell´odore di zolfo che emanava quando Jean-Marie, il padre fondatore, lo gestiva. Gli ha tolto, o ha ben occultato, il carattere demoniaco. Lo ha spogliato dell´antisemitismo che lo rendeva infrequentabile, non degno di appartenere alla società politica normale. Ha alleggerito anche gli accenti razzisti. E l´idiosincrasia per i musulmani che un tempo era un´ossessione. A Lione, nel grande anfiteatro dove teneva un comizio davanti a una fitta folla di giovani e pensionati, di medi imprenditori e piccoli negozianti ridotti al fallimento dalle grandi aree commerciali, Marine Le Pen affrontava soltanto di striscio, marginalmente, l´ostilità per gli immigrati, in particolare quelli magrebini.
Lei, la sola dichiarata «candidata del popolo», li inseriva nell´elenco dei nemici dei poveri. Cosi i poveracci, i lavoratori africani clandestini, accusati di approfittare della costosa assistenza sanitaria nazionale, figuravano accanto ai banchieri, ai finanzieri internazionali,ai ricchi che investono i loro miliardi in opere d´arte perché meno tassate degli altri beni, ai mercanti di beni di lusso che non sentono la crisi, ai tecnocrati di Bruxelles, ai colpevoli della mondializzazione, agli inventori dell´euro che avvelena l´economia europea, ai politici dei grandi partiti di governo, di sinistra o destra non importa, che sono da mandare a casa. Tutti facevano parte di una schiera di fantasmi in cui i giovani, i pensionati, gli operai, i commercianti che l´ascoltavano vedevano i colpevoli della crisi.
Conosciuto il risultato elettorale, domenica sera Marine Le Pen si è vantata di avere fatto «esplodere il monopolio dei due grandi partiti della banca, della finanza delle multinazionali, della rinuncia e dell´abbandono». Vale a dire il partito del candidato socialista François Hollande e il partito del candidato di destra Nicolas Sarkozy. Lei non dimentica nessuno: mette insieme gli immigrati che vivono alle spalle dei francesi, i finanzieri miliardari presentati come tanti dracula che succhiano il sangue del popolo, e i politici profittatori.
Circa il venti per cento dei voti ottenuti da Marine Le Pen al secondo turno andrà a François Hollande, circa il sessanta per cento si riverserà invece su Nicolas Sarkozy. Ma questo riporto di suffragi non basterà al presidente per essere riconfermato. Del resto lei si guarda bene dal desiderarlo. Non può infatti che puntare sulla sconfitta di Sarkozy. L´uscita di scena del candidato di destra aprirà una crisi nel suo partito, l´UMP, lasciando al Front National un ampio spazio. Anzitutto l´occasione di diventare la forza d´opposizione al presidente di sinistra. Sarebbe la grande promozione di un´estrema destra, sfrondata degli eccessi che l´hanno caratterizzata fin dalla sua fondazione. E´ il sogno di Marine Le Pen. La sua abilità è consistita nell´approfittare della crisi.
Se il progetto di Marine Le Pen si dovesse realizzare la società politica non conoscerebbe i fremiti, i brontoli, le vibrazione avvertite la notte di domenica, all´annuncio del 18 % per cento ottenuto dalla candidata del Front National, ma vivrebbe un vero terremoto. L´estrema destra, ripulito il linguaggio ma non del tutto liberata dal suo originale carattere xenofobo, provocatore, populista e antieuropeo avrebbe un ruolo primario che non ha mai avuto nella società politica francese.

La Repubblica 24.04.12

"Un risultato che fa gioco alla politica", di Stefano Folli

In attesa di verificare se Hollande entrerà all’Eliseo fra due settimane (probabile ma non del tutto scontato), i mercati finanziari gli hanno dato ieri il benvenuto. Crollo generale delle Borse, assai vistoso in Italia e un rapido peggioramento degli spread. Niente d’imprevisto, a dire la verità: anzi, sarebbe giusto rilevare che il sussulto non è stato provocato solo da un candidato-presidente non ancora eletto, bensì da una condizione di malessere che attraversa l’intera Europa e tocca Paesi che si ritenevano immuni dal “virus” che divora le capitali indebitate.
In Olanda si è dimesso il premier e si può credere che questa notizia abbia turbato gli operatori persino più del primo turno delle elezioni in Francia. In fondo gli olandesi sono tra i più fedeli alleati di Angela Merkel e del rigore tedesco condividono di solito fin le sfumature. Eppure anche loro sono in subbuglio.

E a Roma? La soddisfazione per il successo di Hollande è palpabile. A sinistra, certo, ma non solo. L’idea diffusa è che dopo il 6 maggio il “Mitterrand pallido”, una volta insediato, possa spezzare il vecchio patto di ferro con la Germania, indebolendo la posizione della cancelliera. È uno di quei casi in cui le differenze fra destra e sinistra si stemperano. Nessuno, s’intende, può rivaleggiare con Bersani, convinto che il vento di sinistra che soffia dalla Francia sia in grado di gonfiare le vele del Partito Democratico in Italia. Inutile obiettare che Hollande contesta proprio quelle linee di politica economica, ispirate alla Bce e all’ortodossia europea, che il Pd ha sostenuto fin qui votando i provvedimenti del governo Monti.
Ma è legittimo: non tanto cambiare idea, quanto augurarsi che d’ora in poi qualcosa muterà; e che Hollande si rivelerà un così abile politico da riuscire a tessere la tela degli scontenti e da presentarsi poi alla Merkel per rinegoziare i vincoli di bilancio. Quale sarà il prezzo da pagare a questa svolta, se mai ci sarà? Non si sa ancora, ma le spinte speculative sono già in atto.

Difficile credere che si fermeranno per incanto. Colpisce invece che anche a destra si guardi al nuovo possibile presidente con simpatia. Sarkozy aveva irritato tutto l’arco del centrodestra berlusconiano, lui che all’inizio sembrava in sintonia con quel mondo. Per cui la rottura si era consumata da tempo e adesso l’area Pdl e Lega non si rammarica di certo per l’eventuale uscita di scena dell’ex amico.
Giulio Tremonti si è espresso per Hollande in modo esplicito, ma anche chi non arriva a tanto ammette a denti stretti che un presidente socialista apre nuovi spazi, allarga i margini di chi deve fare politica in Europa contenendo lo strapotere tedesco e richiamando l’attenzione dei vari governi nazionali sul problema della crescita economica. È un’opportunità di cui anche il presidente del Consiglio è consapevole, benché la linea dell’Esecutivo contempli la più assoluta lealtà agli impegni presi. Ma quello che accade a Parigi è troppo importante per non interessare da vicino Palazzo Chigi.

Il punto semmai è un altro. È vero, la vittoria di Hollande è un sasso gettato nello stagno dell’Unione, sia pure a caro prezzo. Ma più che un successo del nebuloso programma socialista, il voto di domenica sembra una sconfitta di Sarkozy e della sua politica troppo filo-Markel.
Diciamo meglio: il voto è un messaggio contro l’Europa della moneta unica. Il punteggio di Marine Le Pen, lo si è già detto, ha del clamoroso. La leader del FN si prepara a egemonizzare buona parte della destra francese, superando di slancio la vecchia frattura fra gollisti e “petainisti”: temi che ai giovani d’oggi, che hanno votato in massa la figlia di Jean-Marie, non dicono granché.

Eppure l’area che un tempo era berlusconiana e che oggi Alfano prova a rigenerare rischia di trovarsi stretta in una morsa. Hollande forse farà una politica populista che potrebbe trovare estimatori anche a destra, ma il vantaggio politico sarà del centrosinistra bersaniano. Per il buon motivo che finalmente il Pd avrà in Europa (un’Europa fino a ieri tutta di destra dopo la caduta di Zapatero a Madrid) una sponda ragguardevole.
Viceversa la destra moderata dovrà maneggiare l’ingombrante presenza della Le Pen. La quale pronuncia parole di fuoco verso Bruxelles e Francoforte: proprio le parole che Berlusconi e i capi del Pdl, nel loro complesso, vorrebbero gridare anche loro.
Ma non possono, non è la loro parte in commedia. E tuttavia la sofferenza è grande. Fra Hollande e Marine Le Pen la scomposizione politica in Francia rischia di essere travolgente. Tanto da far apparire le manovre dei partiti italiani quello che sono: piccoli giochi tattici al riparo del governo “tecnico”.

Il Sole 24 Ore 24.03.12

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“Partiti di Francia e di governo”, di MARCELLO SORGI

L’ondata negativa per Borse e mercati, con spread di nuovo oltre quota 400, seguita ieri ai risultati del primo turno delle elezioni presidenziali francesi e al successo di Hollande contro Sarkozy, ha convinto Monti a ribadire la linea di equidistanza dell’Italia dai due candidati e a mantenere prudenza rispetto al tema della crescita, al centro di tutti i commenti al voto in Francia. Monti, si sa, è convinto che nel medio termine non esistano alternative alle politiche di contenimento dei conti pubblici, e in ogni caso non tocchi certo all’Italia, paese sotto osservazione all’interno dell’Unione, fare la prima mossa in questo campo.

Ma le reazioni politiche in Italia spingono in quella direzione, con la novità, prima annunciata dal solo Tremonti, di un Pdl freddo con il presidente sconfitto e attento, come ha sottolineato Cicchitto, alla contrarietà uscita dalle urne d’Oltralpe alla politica di esclusivo rigore portata avanti fin qui dall’asse Merkel-Sarkozy. Contro quest’ultimo, da parte del partito berlusconiano, pesa sicuramente l’atteggiamento avuto nei confronti del Cavaliere e gli indimenticabili sorrisini di sfottimento all’ultimo vertice europeo prima della caduta del governo. Ma non solo. L’ala ex An del Pdl celebra l’affermazione di Marine Le Pen con grande calore, ed anche questo è un segno dei cattivi rapporti tra la destra italiana e quella francese.

A sinistra i leader del Pd festeggiano come se si trattasse di una loro vittoria e come se a prescindere da quello che sarà il risultato finale delle presidenziali la svolta verso la crescita, per mitigare una politica di solo rigore sia da considerarsi irreversibile.

D’Alema in un’intervista al Tg3 ha sostenuto che anche la Merkel dovrà tenerne conto in futuro. Un modo di parlare a suocera perché nuora intenda, per spingere Monti a riflettere sulla necessità che in Italia si trovi la strada per allentare la stretta dei sacrifici. Su questo aspetto c’è una sostanziale convergenza tra i due maggiori partiti che appoggiano l’esecutivo tecnico e che considerano impossibile affrontare in queste condizioni l’anno che precede le elezioni del 2013.

Ieri sia la Corte dei conti, sia la Banca d’Italia sono nuovamente intervenute per ricordare che una pressione fiscale come quella raggiunta negli ultimi mesi in Italia dev’essere considerata eccezionale e temporanea, dunque non sopportabile a lungo, in vista di tornare a scadenza breve entro limiti più accettabili.

La Stampa 24.04.12

«Ecco come si taglia il finanziamento ai partiti»

Cambiare il metodo di finanziamento pubblico dei partiti, ridurne “drasticamente” l’entità e garantire al massimo la trasparenza. Il Pd, con il segretario Bersani, anticipa i suoi passi per rispondere alle tante sollecitazioni che, strumentali o meno, arrivano ai vertici del mondo politico per fare un po’ d’ordine nella complicata materia della vita e del funzionamento dei partiti.

Cambiare il metodo di finanziamento pubblico dei partiti, ridurne “drasticamente” l’entità e garantire al massimo la trasparenza. Il Pd “prende il toro per le corna” e anticipa i suoi passi per rispondere alle tante sollecitazioni che, strumentali o meno, arrivano ai vertici del mondo politico per fare un po’ d’ordine nella complicata materia della vita e del funzionamento dei partiti.

Il Partito democratico presenterà domani una sua proposta di legge. A confermarlo è stato lo stesso leader del Pd Pier Luigi Bersani. Non sarà un articolato vero e proprio, che sarà studiato nel dettaglio, ma solo linee guida sulla base delle conclusioni del gruppo di lavoro ‘ad hoc’ creato alla Camera. Per domani mattina è in programma una riunione decisiva dei tecnici, ma già è stata delineata una possibile traccia di intervento sulla falsariga del modello tedesco.

La proposta del Pd prevederà, e questo è certo, una significativa riduzione dei fondi. Come in Germania, almeno una parte dei fondi andrà a parziale copertura delle spese sostenute anche con entrate proprie. Dunque i soldi arriveranno a piè di lista. Ma a differenza di Berlino, non saranno previsti finanziamenti a fondazioni legate ai partiti.

I finanziamenti, se l’ipotesi di lavoro del Partito democratico sarà confermata domani, saranno suddivisi sulla base dei voti validi ottenuti da ciascun partito, non più considerando come oggi il numero totale degli aventi diritto al voto ma degli elettori effettivamente andati alle urne. Poi, e questo è un punto di fondo, non saranno più rimborsi elettorali ma finanziamento all’attività dei partiti. Al massimo si potrebbe pensare a un contributo per le spese elettorali che sia però una tantum.

da www.unita.it

Reichlin: "I giovani rialzino la testa e ritrovino le ragioni dell'Italia"

Contributo di Alfredo Reichlin per il 25 aprile. Durante la Resistenza, il popolo si sentì protagonista e i suoi diretti rappresentanti scrissero un nuovo patto di cittadinanza, la Costituzione repubblicana, fondata sul lavoro e garante di nuovi diritti. E’ con questi pensieri che io mi rivolgo ai giovani e li esorto a rialzare la testa come fecero i giovani di allora dopo il fascismo. Sono passati quasi 70 anni -una intera epoca storica- dalla liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista.

Io ricordo bene quella giornata che segnò l’avvento di una nuova Italia.

Un mondo soprattutto di giovani prendeva in mano il destino di un Paese coperto di macerie, ferito da migliaia di morti, umiliato dalla sconfitta in una guerra ingiusta e sciagurata, occupato da eserciti stranieri.

E’ in queste condizioni che i grandi partiti popolari, i rappresentanti delle masse contadine ed operaie che fino allora erano state escluse dalla vita pubblica delle Stato post-risorgimentale, presero la guida dell’Italia e la portarono alla riscossa. In meno di dieci anni il Paese intero fu ricostruito, uscì dall’arretratezza del vecchio mondo contadino, diventò la quarta o la quinta potenza industriale del mondo, mandò i suoi ragazzi a scuola.

La spiegazione di questo autentico miracolo si fa presto a dirla. Fu la capacità di mobilitare le energie profonde del popolo italiano facendo appello a quella straordinaria risorsa che è la sua antica civiltà. Il popolo si sentì protagonista e i suoi diretti rappresentanti (non i sovrani o le classi dominanti come era sempre avvenuto nel passato) scrissero un nuovo patto di cittadinanza, la Costituzione repubblicana, fondata sul lavoro e garante di nuovi diritti. Non solo l’uguaglianza di fronte alla legge ma nuovi diritti sociali. Insomma, costruirono uno Stato democratico avanzato, che è tale non solo perché consente la libertà di voto e di opinioni ma perché garantisce anche agli ultimi, alle classi subalterne, di organizzarsi e di pesare sulle decisioni pubbliche attraverso i propri strumenti di potere: i partiti politici, i sindacati, le associazioni volontarie.

Da allora è passato un secolo, un’epoca intera. Perciò appare davvero singolare che rievocando quella antica vicenda, noi in realtà abbiamo netta la sensazione che stiamo parlando, sia pure in modi molto diversi, dei problemi di oggi. Perché?
E’ evidente, per fortuna, che non abbiamo a che fare con una guerra perduta né con una dittatura di tipo fascista. Eppure il passaggio a cui siamo giunti è molto aspro ed è cruciale per l’avvenire della democrazia repubblicana e per il futuro dei nostri figli.

Si sta creando una miscela esplosiva tra una gravissima crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i casi di suicidio e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora
sul Parlamento e sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali. E’ sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si tratta? Io vedo anche il tentativo di creare una grande confusione. Il Gattopardo.

Quel libro famoso in cui si narra che di fronte alla caduta rovinosa del regno borbonico e all’arrivo di Garibaldi in Sicilia il vecchio principe spinge il nipote a sposare una popolana. Così faremo credere che tutto cambi affinchè tutto resti come prima. E’ caduto Bossi? Avanti allora un altro: Beppe Grillo. Tanto sono tutti uguali. Il che non è vero affatto.

L’Italia prima di Berlusconi è stata governata da ministri come Ciampi, Prodi, Andreatta, Amato, Giorgio Napolitano, tra i migliori e i più onesti della Repubblica. Dopo, per quasi dieci anni hanno governato Bossi, Berlusconi, Rosi Mauro e certe signore.
Io penso che da qui, da un lungo malgoverno che ha fatto del denaro e dell’egoismo sociale la misura di tutte le cose, viene la crisi anche morale dell’Italia. Come ne possiamo uscire? E’ evidente che senza una riforma profonda anche intellettuale e morale, l’Italia decaderà e non sarà più quella cosa meravigliosa che è stata nei secoli. Quale strada vogliamo imboccare?

Vogliamo affidare ancora una volta il destino del Paese a un comico, a un altro avventuriero a un altro miliardario che ha chiamato partito la sua azienda personale e si è comprato anche i deputati?

E’ necessario un grande e profondo rinnovamento. Ma senza i partiti veri con quali strutture di partecipazione democratica possiamo dare una risposta alla potenza inaudita della finanza speculativa e ridare il potere alla democrazia e al Parlamento invece che alle banche? Non dimentichiamo che il fenomeno più impressionante a cui stiamo assistendo è l’aumento della povertà ma al tempo stesso della concentrazione della ricchezza in poche mani. Dobbiamo contrastare il predominio di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori, e più in basso ancora di esclusi, sia dal potere che dai consumi. I nuovi schiavi.

Quali pari opportunità si aprono a una bambina che nasce e vive in una località remota della campagna calabrese rispetto a un bambino figlio di un docente della Bocconi?

E’ con questi pensieri che io mi rivolgo ai giovani e li esorto a rialzare la testa come fecero i giovani di allora dopo il fascismo per ritrovare l’orgoglio delle ragioni storiche dell’Italia nell’aspro scenario di lotte e di contraddizioni che sempre più segnano questo nostro mondo. Abbiamo tutti bisogno di un nuovo pensiero critico.

Una critica la cui radicalità non sta nella violenza e nel rifiuto di assumere responsabilità di governo ma nel mettere in discussione i poteri reali che governano da sempre questo Paese lottare per la ricostruzione civile dell’Italia.

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