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"Francia, tutto può ancora succedere", di Cesare Martinetti

Marine Le Pen è la sola a cantare vittoria e lo fa usando uno slogan del ’68: «Ce n’est qu’un debut, continuons le combat», è solo l’inizio, la battaglia continua. Il padre, Jean-Marie, vecchio combattente della Francia nera di Vichy non avrebbe mai nemmeno pensato di citare gli studenti del Maggio parigino: è il cambio di generazione, da quella post-bellica a quella post-ideologica. E quasi un francese su cinque ha votato per questa signora bionda che promette di far «esplodere i due partiti della finanza e delle banche».

I due partiti, o meglio i due capi di quei partiti, sono Nicolas Sarkozy e François Hollande, presidente e sfidante socialista, che ieri hanno avuto il primo verdetto dopo quasi un anno di campagna elettorale: ha vinto Hollande (28,50%), ma meno di quanto si pensava. Sarkozy (27,09%) è l’unico presidente della Quinta repubblica a uscire battuto al primo turno. Ma nel caso di sconfitta tra quindici giorni non sarebbe il primo a non venire riconfermato: è capitato a Giscard d’Estaing nell’81 di fronte a Mitterrand.

Anche Hollande, in caso di sconfitta, non sarebbe il primo: Lionel Jospin era in testa al primo turno del ’95 ma fu poi battuto da Chirac. Tutto questo per dire che nella corsa presidenziale secondo la liturgia della République niente è giocato e tutto è ancora possibile.

Da ieri sera è cominciata una nuova partita che si svolge su regole diverse da quella che si è appena conclusa. Nel primo tempo i candidati devono dividersi e gli elettori esprimono la loro identità. Nel secondo i due sfidanti si fanno «rassembleurs» devono cioè riunificare un campo per arrivare al 50 più uno per cento dei voti che permetterà a uno di loro di vincere.

L’aritmetica dice che questo campo, stando al risultato di ieri, è leggermente più largo a destra. Sommando i voti di Sarkozy e Le Pen si arriva intorno al 44, quelli di Hollande con il Front de gauche di Mélenchon e i verdi di Eva Joly si va a poco più di 42. In mezzo ci sono i voti del centrista Bayrou (che nel 2007 aveva fatto 18 e ieri solo 8). E qualche uno virgola dei quattro candidati minori, di destra e di sinistra.

Ma in politica i conti dell’aritmetica non tornano quasi mai. Bayrou può oscillare sia a destra che a sinistra, i suoi elettori anche. I voti di Marine Le Pen, poi, non è affatto detto che finiscano su Sarkozy. Lei si pronuncerà il primo maggio, giorno della tradizionale sfilata lepenista per le strade di Parigi con omaggio alla statua di Giovanna d’Arco alle Tuileries. Ma è facilmente prevedibile che non darà alcuna consegna di voto. Sarkozy, nell’immaginario e nella pratica della politica di Marine (e di suo padre) è il vero avversario: la destra che svende la Francia. Per lei Sarkò è uguale a Hollande. Dopo un’intera campagna elettorale condotta contro il presidente della Repubblica, sarebbe davvero incomprensibile invitare a votare per lui. Il Front si dichiara contro il sistema, non sta nel gioco della politica, all’Assemblée Nationale non c’è nemmeno un deputato lepenista.

Ciò non significa che tutti gli elettori del Front seguiranno la loro leader. È un elettorato imprevedibile e sostanzialmente antisistema. Un conto approssimativo fatto sui flussi elettorali del passato dice che il 50 per cento, più o meno, voterà per Sarkò, un 25 non voterà per nessuno, il restante 25 per il candidato della sinistra. E non deve stupire: la carta del voto del Front National ricalca quasi al millimetro la mappa della crisi industriale francese. Voti operai in fuga dalla sinistra, ma anche capaci di scegliere, al secondo turno, tra un socialista e Sarkozy.

Per la sinistra i conti sono più facili. Jean-Luc Mélenchon, leader del Front de gauche e sorpresa della campagna elettorale, ha preso meno di quanto dicevano i sondaggi (11,7 contro 14), ma non ci sono dubbi sul fatto che tutti i suoi voti finiranno a Hollande. Lui stesso (che fino a due anni fa era nel Ps) ha fatto appello al voto contro Sarkozy dieci minuti dopo la chiusura delle urne. Eva Joly, deludentissima candidata verde (2,3 per cento) ha fatto la stessa cosa. Il bottino di Hollande è certo e può solo crescere; quello del Presidente meno.

Ma da oggi si torna a zero e si ricomincia. Nicolas Sarkozy, ieri sera davanti ai militanti della Mutualité, è apparso confortato. È chiaro che temeva molto peggio. Hollande, nella sua Tulle, lontano da Parigi, è sembrato prudente. Sarkò ha subito calato la carta della sfida: tre dibattiti televisivi invece dell’unico previsto. Il presidente, secondo natura, si butta anima e corpo nella lotta. È questa la misura della sua politica, che cinque anni fa l’ha portato all’Eliseo e che – forse – dopo cinque anni glielo farà perdere: giocarsi la faccia, rilanciare sempre. Hollande, che invece ha curato nel minimo dettaglio il rovescio dell’immagine del suo avversario (calma, fermezza, serenità) ha già detto di no. La temperatura è alle stelle. Come direbbe Madame Le Pen «continuons le combat».

La Stampa 23.04.12

"Formazione permanente e certificazione fanno paura al padrone", di Fabrizio Dacrema

La Confindustria ha chiesto lo stralcio dei quattro articoli sull’apprendimento permanente contenuti nel disegno di legge del Governo “sulla riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”. Una presa di posizione talmente arcaica da far tornare alla mente slogan degli anni settanta in cui gli imprenditori erano chiamati padroni. Sebbene poco commentata dagli osservatori la notizia è infatti rivelatrice degli “spiriti animali” che prevalgono nel mondo imprenditoriale italiano nei momenti decisivi.
Confindustria si oppone all’introduzione, finalmente anche in Italia, di una normativa ispirata alla strategia europea di lifelong learning: mentre si fa paladina della flexsicurity ne rifiuta così uno dei presupposti essenziali. La flessibilità del lavoro (in entrata, in uscita, nell’organizzazione produttiva) senza sistemi tesi ad accrescere e valorizzare le conoscenze e le competenze delle persone che lavorano (e che cambiano lavoro) sarà sempre e solo una cattiva flessibilità perché si traduce in precarietà e sfruttamento.
Gli articoli che agitano Confindustria prevedono la costruzione di un sistema nazionale per l’apprendimento permanente: definizione del concetto di apprendimento permanente e dei soggetti che concorrono alla sua realizzazione, individuazione dei criteri e delle priorità delle linee guida per la costruzione di sistemi integrati territoriali, individuazione di principi e criteri direttivi per un decreto legislativo per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti non formali e informali e per linee guida finalizzate alla costruzione di un sistema nazionale di certificazione delle competenze.
Ovviamente si tratta di norme che possono essere migliorate, ma non devono certo essere cancellate perché rappresentano un importante passo avanti per il paese e un significativo risultato per tutte quelle forze che in questi anni si sono battute per il diritto all’apprendimento permanente, a partire dalla Cgil che ha raccolto 130.000 firme per una proposta di legge di iniziativa popolare.
Manca una chiara affermazione del diritto di ogni persona all’apprendimento permanente e mancano, di conseguenza, le misure necessarie a rimuovere gli ostacoli economici e di tempo che impediscono ai cittadini la partecipazione alle attività formative quali, ad esempio, defiscalizzazioni delle spese per la formazione, permessi e congedi formativi. Tutte le disposizioni riguardanti questa materia, infatti, non possono comportare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Questo è naturalmente l’aspetto più incoerente del provvedimento, anche se non sfugge che la costruzione di un sistema nazionale e di sistemi territoriali integrati per l’apprendimento permanente permetta un migliore utilizzo delle risorse esistenti attraverso una maggiore capacità di realizzare sinergie e di finalizzare la spesa. La formazione permanente è, infatti, un settore dove spesso si è speso male a causa si sovrapposizioni, frammentazione e insufficiente qualificazione dell’offerta formativa.
Positiva quindi la previsione di linee guida, da definire in sede di Conferenza Unificata Stato Regioni, per la costruzione di sistemi integrati territoriali connessi alle strategie locali di sviluppo economico e civile. Sono previsti: piani triennali di intervento con azioni di sostegno a percorsi personalizzati di formazione, garanzia della certificazione delle competenze, presenza di servizi di orientamento, coinvolgimento anche delle università. È, infatti, a livello territoriale che si gioca la partita decisiva per l’individuazione di misure per informazione, orientamento e sensibilizzazione delle fasce deboli della popolazione, quelle più escluse dai percorsi di formazione permanente.
È molto importante, inoltre, la previsione di un decreto legislativo, da adottare entro sei mesi dall’approvazione della legge, per fissare le norme generali per la validazione degli apprendimenti non formali e informali e per la certificazione delle competenze. Si tratta di un passo avanti decisivo per la diffusione dell’apprendimento permanente e per la motivazione degli adulti a partecipare alla formazione e a riprendere i percorsi di istruzione. Importante anche l’effetto contrattuale per la valorizzazione della formazione e delle competenze comunque acquisite ai fini retributivi, negli inquadramenti e nei percorsi di carriera, oltre alla funzione decisiva svolta dalla certificazione nelle transizioni lavorative. Saranno definite procedure e criteri di validazione degli apprendimenti, standard nazionali e procedure di certificazione delle competenze in modo da garantire la spendibilità delle competenze certificate su tutto il territorio nazionale, nell’Unione Europea e nei percorsi di istruzione. È prevista la costituzione di un sistema pubblico nazionale di certificazione delle competenze di cui faranno parte soggetti accreditati e abilitati alla validazione degli apprendimenti e al rilascio delle relative certificazioni che saranno registrate nel libretto formativo del cittadino.
Perché Confindustria ostacola norme che in altri paesi europei hanno favorito la “flessibilità buona” e la crescita economica? Teme la certificazione pubblica delle competenze per gli effetti di valorizzazione anche retributiva del lavoro che ne conseguirebbe, rifiuta che i Fondi bilaterali per la formazione continua dei lavoratori siano considerati parte dei sistemi territoriali integrati per l’apprendimento permanente. Eppure nel manifesto per la cultura promosso dal Sole 24 ore si sostiene l’opposto, la sinergia degli interventi è considerata essenziale per fare della cultura e delle competenze del lavoro il motore il motore della crescita economica.
Decisamente più coerenti CGIL, CISL e UIL che, invece, in una lettera al Ministro Profumo valutano positivamente il “capitolo dedicato all’apprendimento permanente e alla costruzione di un sistema integrato che prevede, in particolare, la certificazione delle conoscenze e delle competenze comunque acquisite”. Inoltre, “auspicano che i capitoli sull’apprendimento permanente siano mantenuti nel corpo del disegno di legge e che, a seguito dell’approvazione del provvedimento, si provveda all’immediata apertura di un tavolo di confronto”.

da ScuolaOggi 22.04.12

"Sberleffi e striscioni Partigiano contestato in un liceo romano", di Mariagrazia Gerina

Al liceo romano Avogadro un gruppo di studenti legati a Forza Nuova, organizzazione di estrema destra, contesta pesantemente il partigiano Mario Bottazzi. Solidarietà del mondo politico. «Beffato partigiano al liceo Avogadro», hanno rivendicato sul loro gruppo facebook, subito dopo il blitz. Una irruzione durante una assemblea organizzata dal collettivo studentesco del liceo Avogadro di Roma per ricordare il 25 aprile. Per l’occasione, gli studenti del collettivo avevano invitato nella loro scuola il presidente del vicino circolo Anpi, Mario Bottazzi, ex partigiano, che combattè nelle montagne attorno a Piacenza.
LA PROVOCAZIONE
Iniziativa che a quelli di Lotta studentesca, organizzazione giovanile di Forza Nuova, non è piaciuta per niente. Si sono presentati in tre o quattro, con uno striscione: «Papà castoro raccontaci una storia», lo hanno srotolato, durante l’assemblea, a irridere il testimone della Resistenza, che aveva appena finito di parlare. Favole, secondo loro. «Parlaci piuttosto dei preti cattolici ammazzati dopo la Liberazione», ha chiesto uno di loro. «È chiaro che era una provocazione, meditata e preparata, nel modo più meschino», ricostruisce la scena Mario Bottazzi: «Lo sapevamo, per quello avevamo allertato la polizia». Che, presente fuori dalla scuola, è stata chiamata a intervenire dalla stessa preside «per riportare la calma».
Da giorni, i militanti di Lotta studentesca avevano fatto partire il tam tam. «Contro il monopolio ideologico delle assemblee scolastiche, contro gli assassini trattati come eroi, boicotta l’assemblea d’istituto», recita un post pubblicato su facebook dal gruppo «Lotta studentesca Avogadro» tre giorni prima dell’assemblea, ovvero mercoledì scorso. Con tanto di volantino del collettivo riprodotto (simbolo compreso: un martello che distrugge la svastica) a indicare bene quale era l’iniziativa da boicottare. «Non lasciare la memoria nelle loro mani», recita un altro manifesto postato sempre dai militanti di Lotta studentesca lo stesso giorno. E a seguire il botta e risposta con una studentessa del collettivo, che aveva organizzato l’incontro con il presidente del circolo Anpi. «Invece di organizzare monologhi non sarebbe stato meglio un dibattito, invitando oltre a un partigiano un reduce della Rsi o i familiari delle vittime di via Rasella?», la attaccano quelli di Lotta studentesca. Un fuoco di fila che aveva spinto l’Anpi ad allertare il commissariato di zona. «Non è certo il primo episodio firmato da Lotta studentesca in quella scuola», spiega Elena Improta, vicepresidente dell’Anpi di Roma e consigliera Pd del II municipio. Lo scorso 27 gennaio, giorno della memoria ricorda -, sempre all’Avogadro fu cancellata una iniziativa sulla Shoah, perché avevano allagato la scuola. «Anche allora segnalammo l’episodio al commissariato: queste non sono bravate, se le chiamiamo così alimentiamo il ghetto e releghiamo chi le fa nel ruolo di fascistelli». Quanto all’antifascismo: «Non è certo andare contro i fascisti nelle piazze ma combattere il fascismo culturalmente», ci tiene a dire.
A difesa della memoria, intanto, si leva il presidente della Provincia di Roma Zingaretti: «Se in Italia oggi c’è democrazia lo si deve anche al coraggio di partigiani come Bottazzi». «Un italiano che quando aveva la stessa età di quei ragazzi che lo hanno offeso è andato sulle montagne», lo ringrazia il segretario del Pd Lazio Enrico Gasbarra. E lo stesso Alemanno condanna: «Un atto inaccettabile sotto ogni punto di vista».

l’Unità 22.4.12

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Intervista a Mario Bottazzi «Un brutto segno, bisogna resistere»
Parla l’aggredito: «Solo provocatori, gruppi che nella Roma di Alemanno trovano sponda», di Mariagrazia Gerina

M io fratello era del ’25 e quelli della sua età, nella Repubblica di Salò, se non si presentavano venivano fucilati. Salì in montagna, io, più giovane, decisi di andargli dietro, non potevo fare altrimenti». Ecco, quando fece la sua scelta Mario Bottazzi, il partigiano insultato alla vigilia del 25 aprile, aveva sedici anni, più o meno l’età di quei tre ragazzi di Lotta studentesca che lo hanno contestato. «Una provocazione premeditata e meschina», si amareggia lui, che della testimonianza nelle scuole ha fatto una ragione di
vita. «Altro che favole».
Come è andata?
«Erano tre, hanno srotolato lo striscione. Poi mi hanno chiesto: “Lei cosa dice dell’assassinio di quel prete a Rimini dopo la Liberazione?”. Volevano provocare: dimostrare che i partigiani erano delinquenti. Li conosciamo bene, per questo abbiamo allertato il commissariato». Chi sono? Cosa li spinge a contestare una storia che non conoscono?
«Un tempo pensavo che fosse per ragioni familiari. Ma non è così. In questi anni abbiamo visto nascere grup-
pi di tutti i tipi a Roma. Non c’è solo Casa Pound. Quelli che mi hanno contestato si arrabbiano se gli dici che sono di Casa Pound. Il punto è che nella Roma di Alemanno trovano sponda. Non c’è iniziativa che non corrano a contestare con migliaia di manifesti: chi glieli dà i soldi?».
Lei aveva più o meno la loro età quando è diventato partigiano?
«Non avevo ancora compiuto 16 anni. Venivo da una famiglia di antifascisti. Mio padre era stato licenziato dall’Arsenale militare dove lavorava come meccanico perché non aveva la tessera del fascio…».
Cosa ricorda del 25 aprile?
«Per noi a Piacenza il giorno della Liberazione fu il 28: gli alleati restarono fuori, lasciando che fossimo noi partigiani a entrare per primi, un riconoscimento del ruolo che aveva svolto la lotta partigiana».
Che valore ha oggi quella lotta?
«Abbiamo sconfitto i tedeschi e il fascismo, ci siamo messi nella condizione di ricostruire un Paese che allora era totalmente distrutto. Il regime ci aveva portato al disastro». Che pensa della decisione di tenere aperti i negozi anche il 25 aprile. «Sono anche quelli attacchi al 25 aprile. Ha fatto bene Pisapia a non accettare la cosa. C’è ancora da resistere».

L’Unità 22.04.12

"Bersani avverte il Pdl: state indebolendo il governo", di Simone Collini

«Imu, iva e accise. Tasse sul burlesque ». Pier Luigi Bersani ironizza via twitter sulle dichiarazioni di Silvio Berlusconi al processo Ruby. Ma il ragionamento che c’è dietro la frase è serio ed è quello che il leader del Pd porterà in giro in queste due settimane di campagna elettorale. Ovvero, se l’Italia deve pagare un prezzo così alto per far fronte alla crisi, la responsabilità non è di chi governa oggi ma di chi questa crisi per troppo tempo l’ha negata.
TENSIONI DA CAMPAGNA ELETTORALE
Bersani ha visto che il Pdl ha dato il via a un’operazione neanche troppo mascherata: lanciare segnali di scontento per le misure economiche volute dal governo Monti e lisciare il pelo all’antipolitica montante. La campagna elettorale per le amministrative può essere considerata una giustificazione,ma fino a un certo punto.
Prima l’offensiva contro l’Imu, poi ieri l’annuncio di voler dar vita a un nuovo partito che rifiuterà il finanziamento pubblico: al leader del Pd non piace come si sta muovendo Alfano nelle ultime ore perché un simile attivismo rischia di indebolire pesantemente il governo. Per questo Bersani – nel momento in cui il Pdl dice al premier per bocca del capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto che «è fondamentale non montarsi troppo la testa e non ritenersi l’uomo della Provvidenza» – ricorda le responsabilità di Berlusconi e soci, e lancia invece messaggi
rassicuranti circa il sostegno del suo partito a Monti. «Il Pd non è in una situazione comoda – riconosce il segretario -ma ha dato la sua parola e quando noi diamo la parola non scherziamo». Certo, non tutte le misure volute dal governo convincono i Democratici (e Bersani il giorno dopo l’uscita del ministro Fornero definisce
«singolare» pensare di far tornare al lavoro gli esodati). Ma, dice
il leader del Pd negando per quel che lo riguarda l’ipotesi che si vada al voto anticipato in autunno, «il cammino va concluso».
FINANZIAMENTO E SISTEMA DI VOTO
Il Pd vuole che Monti arrivi a fine legislatura anche per evitare di tornare nuovamente alle urne col Porcellum. Per martedì è previsto un nuovo vertice degli sherpa di Pd, Pdl e Terzo polo per arrivare a una bozza condivisa di nuova legge elettorale, ma a questo punto è chiaro che il vero nodo è se tutti siano veramente desiderosi di andare alle prossime politiche con un diverso sistema
di voto. «Noi siamo intenzionati ad approvare una nuova legge elettorale, perché questa è una vergogna », dice Bersani. «Dopo le amministrative bisognerà chiarirsi bene perché vorremmo essere sicuri che di questo siano convinti anche gli altri».
Un chiarimento con il Pdl servirà anche sul capitolo riforma dei partiti e finanziamento pubblico. Alfano, che soltanto pochi giorni fa aveva firmato insieme a Bersani e Casini una proposta di legge per introdurre maggior controllo e trasparenza sui rimborsi elettorali, ora annuncia che rinuncerà al finanziamento pubblico.
Bersani ritiene che «il sostegno alla politica è un principio di democrazia» ma sa che in una situazione difficile come quella che sta attraversando il Paese «è giusto che la politica faccia il suo sforzo». Così il Pd presenterà nei prossimi giorni una proposta per riformare le attuali norme di finanziamento ai partiti. Un
testo che prevede anche la riduzione del contributo pubblico, ma senza strizzatine d’occhio all’antipolitica come ha fatto Alfano con l’uscita sul nuovo partito autofinanziato.
«Sono per mettere un limite alle spese elettorali ma noi non prendiamo lezioni da nessuno, nemmeno da Grillo», è il messaggio che lancia Bersani. «La cattiva politica si combatte non con l’antipolitica,ma con la buona politica». E ora al Pd aspettano di
vedere quale sarà la strada che sceglierà il Pdl dopo questa campagna elettorale.

l’Unità 22.4.12

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Intervista a Stefano Fassina «Al centro operazione di marketing politico. Sul Pd Fioroni sbaglia», di Simone Collini

Il responsabile economico dei Democratici: «La nostra identità non era l’antiberlusconismo Pareggio di bilancio: giuste le critiche»
Un partito non è un’espressione di marketing elettorale», dice Stefano Fassina guardando alla «più grande novità della politica italiana» annunciata da Berlusconi e Alfano. Ma non è solo il movimentismo del Pdl a lasciare perplesso il responsabile Economia del Pd. «Ho sentito anche dai vertici dell’Udc parole che mi hanno fatto pensare più al marketing che a un progetto serio».
A cosa si riferisce?
«Il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa ha detto che il partito della nazione si rivolge a tutte le persone di buon senso».
E allora?
«Bè, abbiamo scoperto che carattere distintivo di una forza politica può essere il buon senso. Un partito dovrebbe essere un’impresa culturale per la storia del proprio Paese, dovrebbe dare una prospettiva di futuro. Le operazioni di questi giorni sembrano soltanto ripackaging di ceto politico, magari con qualche innesto tecnico, piuttosto che l’offerta di un programma credibile in grado di portare il Paese fuori dal tunnel». A sentire il suo compagno di partito Beppe Fioroni non sono operazioni da sottovalutare e anzi il Pd dovrebbe a questo punto fare autocritica: “i partiti si sono trasformati di fatto nei fan club di questo o quel leader”, ha detto all’Unità.
«È un’analisi sbagliata. Il Pd non è stato mai un fan club, siamo un partito vero. Bersani fin dalla campagna congressuale ha chiarito che non avrebbe mai messo il suo nome nel simbolo elettorale».
Dice anche Fioroni che “prima” potevate fare alleanze nel segno dell’antiberlusconismo, ora dovrete chiedere il voto perché siete “i migliori”.
«Anche questa valutazione è incomprensibile. Il Pd non si è sorretto sull’antiberlusconismo, ha costruito un profilo identitario, politico e programmatico sempre più definito a cui hanno concorso tutte le sensibilità del partito. Come esempio di questo processo sottolineerei la nostra analisi e proposta autonoma sul lavoro, senza la quale non sarebbe stato possibile raggiungere un risultato importante come quello sull’articolo 18, innovativo e coerente con la civiltà del lavoro europea». Risultato che sarà messo in discussione in Parlamento, a sentire il Pdl.
«La parte sull’articolo 18 non verrà toccata dal percorso parlamentare perché è frutto di un accordo politico. Il passaggio in Parlamento migliorerà i punti sulla flessibilità in entrata, che non funziona per le imprese e di conseguenza per i lavoratori, e sui contributi per i parasubordinati, per i quali andrà anche estesa l’indennità di disoccupazione, da cui oggi sono esclusi.
Che ne pensa dell’uscita della Fornero, per la quale ai lavoratori esodati lontani dalla pensione si possono offrire “nuove opportunità occupazionali”?
«Il punto fondamentale è che chi è stato colpito dalla brutalità dell’intervento pensionistico non può rimanere senza pensione e senza reddito. Ma è complicato per questi lavoratori usciti attraverso la mobilità, con la chiusura di aziende, o attraverso accordi aziendali con cui sono stati sostituiti da altro personale, ritornare al lavoro. Per di più in una fase, come quella attuale, caratterizzata da una ulteriore contrazione occupazionale. La soluzione per gli esodati è prevedere le risorse necessarie per farli accedere al pensionamento secondo la previgente normativa». Tornando ai movimenti al centro: non è giusto rispondere alla domanda di cambiamento che arriva dalla società?
«L’obiettivo del Pd non è inseguire un astratto elettorato ma recuperare consenso in un’area vastissima che vuole sì cambiamento, ma progressivo. Questo è stato dimostrato nei referendum sui beni comuni, nel movimento delle donne, nei movimenti sul lavoro. È un’area che si sente lontana dalla politica perché questa appare incapace di articolare una prospettiva diversa rispetto a un pensiero unico che ci sta portando a sbattere». Cosa intende dire?
«Che se la politica si limita ad essere l’attuazione di lettere che arrivano da Francoforte e da Bruxelles non si capisce a cosa serva. Oggi viviamo una fase di crisi democratica di cui la crisi dei partiti è la parte più evidente. Se la politica non è in grado di mettere in campo un pensiero autonomo e una prospettiva in grado di rispondere ai drammatici problemi che abbiamo di fronte, se si limita ad attuare i diktat che arrivano dall’empireo tecnocratico, è difficile che ritroverà fiducia da parte dell’elettorato». Massimo D’Antoni e Ronny Mazzocchi hanno scritto sull’Unità che il pareggio di bilancio in Costituzione “è un cedimento della politica”. Lei che dice, visto che il Pd l’ha votato? «Hanno ragione, è certamente frutto di subalternità culturale assumere come vincolo costituzionale la norma del pareggio di bilancio, di per sé espressione di una cultura economica fallita. Tuttavia l’Italia si è trovata a fare i conti con un vincolo politico e quel voto è stato il prezzo necessario da pagare per costruire una politica di bilancio nell’area Euro legittimata democraticamente».

L’Unità 22.04.12

"A che serve un partito", di Claudio Sardo

È scritto nella Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non possiamo farci derubare di questa conquista. Non possiamo darla vinta a chi scommette sulla sfiducia, il discredito, il ripiegamento individualista. Perché siamo nel mezzo della crisi sociale più dura dal dopoguerra, ed è in gioco il futuro dei nostri figli.
È vero che la cattiva politica ha prodotto l’antipolitica. Ma è vero anche che l’antipolitica ha già guidato, attraverso il populismo della destra e il mito del partito personale, la Seconda Repubblica. E le macerie ci stanno cadendo addosso. Il fallimento di quest’ultimo decennio ha ridotto drasticamente la competitività della nostra economia, ha sfilacciato il tessuto civile, ha strappato le reti di solidarietà sociale. L’antipolitica era già al governo: non sarà oggi un giullare o un nuovo Cavaliere a riscattare ciò che ci è stato tolto, magari rinverdendo gli slogan berlusconiani.
La corruzione che infetta l’Italia, e che in questi giorni emerge nella distrazione di finanziamenti pubblici a fini vergognosamente privati, è una zavorra che scoraggia la partecipazione democratica e rischia di compromettere gli stessi equilibri istituzionali. Va combattuta con forza. Usando machete e bisturi, dove servono. Ma non si può, non si deve consentire a nessuno di fare di ogni erba un fascio. Chi parla genericamente della politica e dei partiti, come se fosse un ceto indistinto, come se il conflitto sociale fosse assente, va indicato per quello che è: un propagandista di quelle oligarchie che, temendo il protrarsi della crisi, vogliono depotenziare la risposta democratica e l’autonomia dei corpi intermedi. L’esito della crisi è la partita vera. Stiamo parlando di chi dovrà pagare di più: i giovani, i lavoratori dipendenti, le piccole e medie imprese, il terzo settore, i pensionati oppure le rendite immobiliari e finanziarie.
La politica democratica serve a questo. Il partito serve a questo. A reagire alle ingiustizie e alle sofferenze insieme a una comunità. A dare rappresentanza agli interessi e tentare di comporli in un programma di governo. Non c’è rinnovamento possibile, non c’è cambiamento nel senso dell’uguaglianza e della solidarietà, senza percorrere la strada della democrazia partecipata. Questa è la politica per tanti giovani e tanti cittadini che si impegnano controcorrente. Sono volontari, lo fanno per senso civico, perché spinti da un dovere di solidarietà e da uno spirito altruistico: è inaccettabile che qualcuno paragoni, sia pure indirettamente, queste persone generose, questi costruttori del bene comune, con gli squallidi imbroglioni che riempiono le cronache dei giornali.
Si faccia la legge più severa sul controllo dei necessari finanziamenti pubblici ai partiti. Si imponga una cura dimagrante sui fondi, coerente con i sacrifici che compiono quotidinamente milioni di famiglie italiane. Si completi il percorso di pulizia istituzionale con la riforma elettorale, perché tutto sarà vano se vinceranno i difensori occulti e palesi del Porcellum. Ma nessuno si illuda: non ci sarà cambiamento senza testimoni di un nuovo civismo.
Sono gli eredi dei padri costituenti. Perché quella libertà di associarsi nei partiti è stata acquisita con la lotta. Non è stata un regalo. La democrazia non può vivere senza il coraggio e la libertà delle persone, e delle loro diverse idee. Mentre nella drammatica crisi di oggi si colgono chiaramente gli interessi di chi intende ridurre il circuito delle decisioni a tecnocrazie ristrette. L’autonomia dei partiti crea problemi. Ed è meglio, per alcuni, sostenere che le alternative non sono possibili, o non sono legittime, o non sono praticabili. I leader carismatici promettono decisionismi e disvelano impotenze. Ora speriamo che dalle elezioni francesi arrivi una smentita ai nostrani sostenitori della Grande coalizione permanente: la dimensione dell’alternativa non può che essere europea.
Ma c’è un altro principio che ispira l’articolo 49 della Costituzione. Sono i cittadini il soggetto principale della democrazia. È direttamente a loro che fa capo il diritto di concorrere al bene comune. I partiti non sono uno strumento monopolistico: sono un corpo intermedio, come altri. Un corpo sociale che si fonda anzitutto sulla passione delle idee. Il partito deve sapersi confrontare senza pretese di comando con le altre autonomie sociali, ma rispetto a queste ha un compito aggiuntivo di rappresentanza istituzionale. Nelle istituzioni il voto dei cittadini deve essere in grado di «determinare la politica nazionale». Il partito deve fare un bagno di umiltà, la sua trasparenza è la chiave di volta del rinnovamento necessario delle classi dirigenti, ma il decisore è qui: non nella finanza impersonale, non nelle oligarchie minacciate dal mercato. Il senso del partito è anche la sua responsabilità nazionale.

L’Unità 22.04.12

"Un giorno per la Terra. Dieci azioni concrete per provare a salvarla", di Fulco Pratesi

L’ odierna Giornata mondiale della Terra è densa di significati, anche perché si celebra a due mesi dalla grande ricorrenza di Rio+20, legata al ventennale dello storico Summit di Rio de Janeiro del 1992, in cui quasi tutti i Paesi del mondo si accordarono per dare inizio a un forte impegno di salvaguardia del Pianeta. Per non ricalcare le generali e meste considerazioni sul degrado, il quale, nonostante dichiarazioni e denunce, prosegue imperterrito, vediamo cosa ognuno di noi, causa e vittima del global warming, può cercare di fare per allontanare il superamento dei 2° centigradi di temperatura globale, considerato un limite invalicabile per la salute della Terra.
Se moltiplichiamo un nostro atto, anche il più innocente possibile, per i 60 milioni di italiani o per i 7 miliardi di terrestri, esso può contribuire pesantemente al paventato tracollo, così come il battito d’ala della farfalla in Brasile può scatenare (secondo il famoso paradosso di Edward Lorenz) uragani in Texas.
Accanto a comportamenti virtuosi nella vita di tutti i giorni tesi a risparmiare energia (muoversi in bicicletta o a piedi, non usare scaldabagni elettrici, moderare riscaldamento e condizionamento, coibentare l’abitazione, installare pannelli solari, consumare meno acqua eccetera) un settore in cui si può contribuire alla sostenibilità globale è quello dell’alimentazione.
Come spiega il WWF, che lancia oggi la piattaforma «One Planet Food» (http://alimentazione.wwf.it), la produzione di cibo per un’umanità che ha superato i 7 miliardi e continua a crescere, è una delle cause più importanti del degrado della biosfera.
I 130.000 ettari di foreste persi ogni anno per la produzione di olio di palma, soia e foraggi per il bestiame in continua crescita, per sopperire all’incessante richiesta di carne, e gli stock ittici sovrasfruttati per il 29% e a rischio di declino per il 52% impongono all’umanità (se vorrà mettersi al riparo da un futuro oscuro e preoccupante) di imboccare stili di vita che, garantendo un’alimentazione equilibrata e disponibile per tutti, non produca sprechi e devastazioni.
A livello di comportamenti individuali, questi sono i 10 consigli «Salva-Pianeta a tavola» che il WWF propone:
1) Acquista prodotti locali. Secondo la Coldiretti, un chilo di arance importate dal Brasile brucia 5,5 kg di petrolio e libera 17,2 kg di CO2 in più di quelle siciliane; 2) Scegli i prodotti di stagione; 3) Diminuisci i consumi di carne, che contribuiscono all’inquinamento globale (ogni italiano ne mangia 87 chili all’anno); 4) Scegli i pesci giusti e non i più cari e pregiati (ne consumiamo 25,4 chili all’anno); 5) Privilegia i prodotti biologici che non richiedono l’uso di combustibili fossili e di pesticidi; 6) Riduci gli sprechi, mangiando tutto quello che hai acquistato; 7) Evita di comprare prodotti con troppi imballaggi; 8) Preferisci i cibi semplici della nostra insuperabile gastronomia tradizionale; 9) Bevi l’acqua del rubinetto (è ottima!); 10) Cerca di non usare cucine e forni elettrici che divorano molta energia.

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“Imbacuccarsi d’Inverno nella stanza senza riscaldamento”, di ERRI DE LUCA
Grazie al latino so che ambiens, ambiente, è alla lettera ciò che ci sta intorno e ci circonda. La specie umana odierna ha rovesciato il senso e ora l’ambiente è circondato da noi. Non so se è possibile salvarlo dall’assedio, ma si può di sicuro volergli più bene. Questo coincide con volersi più bene tra di noi, bipedi senza ali. Abito in una stanza priva di riscaldamento, d’inverno m’imbacucco. Ma si può sfruttare una fonte inesauribile di caloria, la più potente che esiste nel corpo umano. Si tratta dell’amore. Due che si amano sentono freddo solo quando si sciolgono dagli abbracci. L’amore è un’energia pulita e rinnovabile nel modo più impensato: spendendola tutta intera nell’arco del giorno, amando a più non posso fino all’esaurimento della scorta. Ecco che al risveglio è di nuovo lì, rigenerata, anzi con un leggero aumento. Prodigio dell’amore è che si accresce quanto più lo si spende. La provvista del giorno va consumata come la manna quotidiana che rifornisce gli Ebrei nel deserto. Se fatta avanzare, marcisce. L’energia amorosa ha la stessa modalità d’uso, chi la risparmia la perde. Propongo perciò una consumazione intensa dell’energia amorosa, col vantaggio di non rilasciare scorie. La pratica è virtuosa e produce contagio: due che si amano in pubblico fanno venire voglia a chi li osserva di attivare la propria centralina interna. Infine non ha controindicazioni né limiti di età. Amarsi di più non costa niente e fa bene all’ambiente.

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“Coltivare i Prodotti che mangiamo nel nostro orto”, di MAURO CORONA

Ho l’impressione che non vi sia alcun interesse nel terzo millennio ad avere a cuore e preservare un progetto dimenticato chiamato Terra. Per salvare la Terra vi sono alcune necessità. Innanzitutto aver bisogno di lei e finora, più della Terra, sembra che abbiamo bisogno di tecnologia e marchingegni. La Terra è come uno Stradivari, va suonato e non fracassato su una pietra, come stiamo facendo. Occorre toccarla, palparla, in poche parole coltivarla. Per ottenere questo risultato, cioè salvare la Terra, bisogna abbandonare il mito dell’oggetto e diventare tutti imprenditori di terra. Cioè non possiamo più pretendere di andare a comprare il cibo ma imparare a farcelo. Allora diventeremmo invincibili e autonomi. Certo è un’utopia ma quando crolleranno gli imperi delle banche, la Terra sarà la salvezza. E in quel momento la salveremo, non prima. Una cosa non la proteggi se non ti interessa e perché ti interessi devi averne bisogno. Dovremmo tutti diventare collezionisti di terra. Un metro quadrato di terra dovrebbe valere come un quadro di Van Gogh. E non per venderlo ad altri collezionisti, ma per la nostra sopravvivenza. La musica di questo Stradivari preziosissimo sono i boschi, le acque, i prati, i campi. E la melodia che ne esce sono i prodotti che ci fanno vivere. Cosa facciamo noi per stare in piedi e gestire tutti questi marchingegni mostruosi? Ci dobbiamo cibare. E chi è che ci dà il cibo? La terra. Cosa mangia il professor Monti per risolvere la situazione? Mangia i prodotti della terra. Per cui la salvezza non starà mai nell’euro o nella tecnologia o nel progresso spinto al limite, ma nella decisione di tornare tutti agricoltori. Allora la terra la proteggi. Perché se non la proteggi muori di fame. Questo dovrà essere il futuro: un’imprenditoria globale di Terra.

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Dimezzare la Carne nei nostri Piatti Bastano Cento Grammi”, di ANTONIO PASCALE

I piccoli gesti sono importanti. Vero, ma in senso relativo, e caso per caso. Sono significativi se incidono, consolatori se non incidono. Tutta questione di numeri, non di aggettivi. Ci dicono: staccate dalla presa il caricabatteria del cellulare, contribuirete a salvare il mondo. Piccolo gesto: con un po’, tutti possiamo fare tanto. Poi fai calcoli (David MacKay, www.withouthotair.com) e che scopri? Un tipico caricabatteria consuma solo 0,01 kWh al giorno. Per fornire un elemento comparativo: in un anno un caricabatteria produce la stessa quantità di energia che occorre per un bagno caldo. Dunque, la verità infame è: se tutti facessero solo un po’, otterremmo solo un po’. Io poi sono nevrotico e lo stacco lo stesso (detesto i fili appesi), ma sono cosciente che i piccoli gesti sono utili solo se quantificabili. Meglio mangiare meno carne. Nei Paesi sviluppati le foreste sono in crescita, ma in Brasile e in Indonesia diminuiscono a causa dell’aumento della richiesta di carne (285 milioni di tonnellate l’anno). Si disbosca per ottenere terra coltivabile (a suo tempo noi italiani abbiamo fatto lo stesso, vedi la pianura Padana). Per produrre mangimi, come soia e mais, usiamo un terzo di tutta la terra coltivabile. Fatti tutti i conti — il 12% del pasto quotidiano di una vacca italiana proviene da soia brasiliana e argentina — scopriamo che mangiare un chilo di carne inquina come percorrere in automobile 300 chilometri. Tutti vegetariani? È tutta questione di misura. I nutrizionisti consigliano una porzione di 100 grammi di carne al giorno, circa la metà del consumo medio italiano. Insomma, numeri: mezza porzione, doppio vantaggio.

Il Corriere della Sera 22.04.12

"Tagli alla spesa, piano del governo Difesa, Esteri e Interni frenano", di Antonella Baccaro

Manca una manciata di giorni alla presentazione della prima relazione sulla spending review, la revisione della spesa pubblica cui il governo Monti attribuisce nel Def (Documento economico e finanziario) «un ruolo fondamentale» per la riduzione dell’indebitamento. Ma quell’operazione di contenimento e riqualificazione della spesa, che il premier si propone di offrire quale segnale di forte cambiamento, fatica a venire alla luce.
Nel confronto serrato di un paio d’ore che il premier ha avuto venerdì scorso con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, incaricato del risanamento, sarebbero emersi problemi di non poco conto, certuni legati alle fortissime resistenze opposte da alcuni ministeri, meno propensi a rivedere il costo dei loro apparati.
Tra le righe dei documenti illustrati da Giarda, sarebbe venuta a galla anche un’altra verità complessa, che attiene ai tagli varati nei passati tre anni e che dovrebbero produrre i loro effetti nel 2012 e 2013. Interventi che hanno riguardato il blocco degli stipendi pubblici e quello parziale delle assunzioni, la riduzione della spesa sanitaria, il taglio degli acquisti di beni e servizi e anche la cancellazione o la forte riduzione di programmi di finanziamento di enti e soggetti esterni alla Pubblica amministrazione. Tagli che, dal 2009 al 2013, attestano la spesa annuale a un livello costante: 727 miliardi di euro al netto degli interessi, un livello che lo stesso Giarda ha definito «senza precedenti nella storia della Repubblica».
Tali previsioni però, risultando in alcuni casi troppo ottimistiche, costringerebbero il governo a utilizzare la revisione della spesa per compensare i tagli previsti ma attuati solo in parte, per evitare nuovi scostamenti tra i saldi di bilancio effettivi e i saldi programmatici.
«La spending review è un’operazione complicata alla quale sto lavorando pressoché da solo e quasi a titolo personale» ha spiegato qualche giorno fa Giarda in un’intervista, tradendo preoccupazione e qualche insofferenza. Che nascerebbe anche dalla difficoltà di approccio con alcuni ministri, restii a mettere mano alle forbici, come richiesto. Al momento hanno inviato propri dati e analisi i dicasteri della Giustizia, degli Interni, dell’Istruzione, della Difesa e degli Esteri.
Questi ultimi, ad esempio, avrebbero opposto un netto rifiuto a operare una riduzione dei costi, argomentando che la contrazione delle risorse attuata fin qui è ormai giunta al limite. Al punto che gli stanziamenti previsti per la stipula di accordi sono diminuiti tanto da determinare spesso l’impossibilità di ratificare molti accordi internazionali, anche quando richiedono importi minimi.
Ma, come emerge dal «Rapporto sullo stato di attuazione della riforma della contabilità», il nucleo di analisi e valutazione della spesa del ministero guidato da Giulio Terzi di Sant’Agata, rileva che, a fronte di questa riduzione drastica di fondi, non si coglie il necessario sforzo di razionalizzazione delle spese inutili. Per fare un esempio, non si riesce ancora a evitare che i documenti contabili dalle sedi estere vengano inviati in forma materiale, onde per cui le spese relative continuano a aumentare.
Anche il ministero degli Interni, guidato da Annamaria Cancellieri, sarebbe apparso restio a ritoccare la propria struttura, ad esempio, riducendo il numero delle Prefetture o razionalizzando le spese per le carceri. Quanto al ministero della Difesa, il generale Giampaolo di Paola, sarebbe rimasto freddo rispetto alle richieste di comprimere alcune spese di apparato, come quelle di sorveglianza del territorio che in alcuni casi apparirebbero come una duplicazione del servizio svolto da altri corpi, o quelle delle caserme.
Tutte rigidità che irriterebbero Monti e che qualcuno tra i ministri arriva a definire «corporative», spiegandole con l’eccessiva identificazione di alcuni colleghi con il dicastero che guidano e alle cui dipendenze, in alcuni casi, hanno precedentemente operato.
Ma il vero problema della spending review, a parere di Monti e anche di altri ministri che mordono il freno, come quello dello Sviluppo economico, Corrado Passera, sarebbe più complessivo e riguarderebbe i traguardi da porsi con l’operazione, che dovrebbero essere molto più ambiziosi di quelli indicati da Giarda, e produrre qualcosa come 20-25 miliardi di risparmi strutturali.
Si tratterebbe di un totale cambio di filosofia che comporterebbe, ad esempio, il mettere mano alla sovrapposizione dei sistemi informatici diversi tra Ministeri, Regioni e Comuni, che servono solo a moltiplicare gli appalti e le relative spese. C’è anche l’incredibile costo degli affitti, dell’ordine di 10-12 miliardi, che si potrebbe tagliare se solo si andassero a occupare i tanti immobili pubblici attualmente sfitti, o se si accorpassero le sedi di alcune amministrazioni. C’è chi sostiene che un’operazione simile potrebbe fruttare risparmi nell’ordine di 3 ma anche 5 miliardi.
E poi ci sarebbero altri 4-5 miliardi recuperabili se, invece che puntare esclusivamente alla soppressione delle Province, ormai diventata una battaglia di bandiera, si mettesse mano alla miriade di soggetti di spesa come le Comunità montane, le Autorità di bacino, i Consorzi vari che, oltre a incidere sui conti pubblici, si inseriscono nei procedimenti amministrativi, producendone l’infinito allungamento.
Ancora, c’è il capitolo intonso delle spese della Sanità, dove bisognerebbe agire attraverso accordi-quadro in modo da uniformare i costi sul territorio di tutti i beni che vengono acquisiti: da quelli meno costosi, come una siringa, a quelli più complessi, come gli apparecchi medici.
In tutto questo non vi è chi non comprenda che un ruolo dovrebbe giocarlo prima di tutto il ministero dell’Economia, attraverso il contenimento della spesa per acquisti di beni e servizi che nel 2011 ha ammontato a 136 miliardi, rimanendo sostanzialmente in linea con i costi del 2010, solo grazie agli effetti di contenimenti varati nell’ultimo biennio. Ma l’obiettivo cui Monti punta è molto più consistente: si tratterebbe di allargare il raggio di azione della Consip, centralizzando il più possibile gli acquisti e riducendo gli sprechi. Un obiettivo considerato possibile se la struttura del Tesoro intendesse metterlo davvero a fuoco.

Il Corriere della Sera 22.04.12