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"Italiani «conservatori» sulla laurea. Tre su quattro difendono il valore legale" di Paolo Conti

La consultazione online del ministero: sul lavoro servono titoli di studio specifici. Gli italiani continuano ad amare molto la cara, vecchia, rassicurante laurea. La stragrande maggioranza pensa che «l’obbligo di possedere uno specifico titolo di studio per poter esercitare una determinata professione» sia una garanzia per il cliente «che potrebbe non essere in grado di verificare da solo la qualità della prestazione». Insomma, il valore legale della laurea rappresenta ancora una certezza per chi si affaccia sul nostro difficilissimo mercato del lavoro.
Lo dimostrano i primi risultati della consultazione pubblica online sul sito del dicastero (www.istruzione.it), esperimento-pilota voluto dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo e fortemente caldeggiato anche dal presidente del Consiglio Mario Monti proprio dopo il dibattito apertosi a gennaio in Consiglio dei ministri sul valore legale del titolo di studio.
La «votazione» è cominciata giovedì 22 marzo, sulla base di un formulario con quindici quesiti messi a punto da un gruppo di lavoro del ministero diretto dal Capo di gabinetto Luigi Fiorentino. Si concluderà martedì 24 aprile ma i dati sono già consolidati in base alle 20.089 risposte complete inoltrate (su 31.282 registrazioni iniziali). Il ministro Profumo, dicono al ministero, ha voluto un «voto» il più possibile ampio: per registrarsi basta indicare il solo codice fiscale. E su questa base più di 15 mila partecipanti alla consultazione, il 75%, si sono espressi a favore del riconoscimento del valore legale della laurea, e più di 11 mila pensano che sia giusto dover avere il «pezzo di carta» per accedere al pubblico impiego.
Il ministro Profumo ha detto che non ritiene tutto questo «né un referendum né tantomeno un sondaggio scientifico» ma solo un indicatore di tendenza, un modo per dare voce a chi è interessato al problema aprendo uno «spazio libero di dibattito e di discussione» sia sul futuro dell’istruzione in Italia che sul futuro modello di sviluppo del Paese: si discute anche su Facebook e su Twitter (c’è il rinvio sul sito) e lì il dicastero non è presente in alcun modo.
Lo strumento era stato duramente contestato dall’Udu, l’Unione degli universitari («una mistificazione di massa») e soprattutto dalla Flc-Cgil («un sondaggio farsa concepito per predeterminare gli esiti a favore di ciò che impropriamente viene definito il “valore legale della laurea”»). Invece i risultati hanno svelato un esito diametralmente opposto, assolutamente favorevole al valore legale della laurea e chi è vicino al ministro descrive il suo rammarico di aver visto un importante sindacato impegnato in una polemica senza vedere (almeno questa è la posizione del ministero) lo sforzo di liberarsi dalle vecchie abitudini di una macchina oggettivamente elefantiaca come il ministero dell’Istruzione. Dopo il 23 aprile verranno rielaborati tutti i dati e spariranno le risposte di alcuni probabili e previsti casi di «invenzione» del codice fiscale (c’è chi si è divertito a far votare Pluto, Paperino o Napoleone III). Verranno anche esaminati e computati i campi facoltativi della scheda di iscrizione: età, condizione sociale, provenienza geografica. E lì si capirà (parzialmente, proprio perché non è obbligatorio «descriversi» per partecipare) quanti professori, studenti, ricercatori, lavoratori dipendenti, operai o commercianti abbiano partecipato.
Cifre da commentare, comunque. Per esempio, da un ironico Tullio De Mauro, grande linguista, ex ministro dell’Istruzione tra l’aprile 2000 e il giugno 2001 nel II governo Amato: «Direi che l’università italiana è un malato terminale. Profumo vorrebbe in qualche modo staccare la spina ma la gente non vuole saperne…». Il professore, 80 anni appena compiuti, prosegue un po’ sul filo del paradosso: «Sì, gli italiani stimano molto la laurea, lo dimostra quel mercato di falsi diplomi che ho seguito con attenzione lungo gli anni e non accenna a finire. Se si è disposti a pagare salato pur di avere una laurea, anche se falsa, significa che quel pezzo di carta è tenuto in massima considerazione». De Mauro comunque contesta anche il senso stesso della «cancellazione del valore legale»: «Non mi sembra sia possibile immaginare di agire con un semplice colpo di spugna. La laurea vale per un vasto numero di aree, spesso regolamentate in modo diverso. Concordo con Sabino Cassese quando dice che non si capisce, alla fine, cosa significhi davvero questa abolizione».
De Mauro, ovviamente, fa risalire nel tempo la crisi dell’università, quindi del «peso» della laurea: «Una memorabile risposta di Andreotti svelò cosa decise di fare la Dc ai tempi del centrosinistra, “la lasciammo cuocere nel suo brodo”… Quel brodo si è progressivamente ridotto, soprattutto in termini di risorse, arrivando all’attuale atrofia. Ma, come ho detto, gli italiani non vogliono staccare la spina…».
Dice anche Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe-per una società dell’apprendimento continuo (che da anni si occupa di miglioramento della qualità dell’education nel nostro Paese): «Da generazioni gli italiani sono abituati a un’autorità capace di certificare qualcosa che il cittadino potrà spendere. Il culto della “targa” è stato interiorizzato, insomma: è il richiamo all’imparzialità e all’oggettività dei voti conseguiti e degli esami superati prescindendo non solo dall’esame di merito sulle attitudini e sulle qualità del singolo ma anche sulla qualità della laurea. La Bocconi o un ateneo sconosciuto di chissà dove valgono lo stesso, nei concorsi: e sappiamo benissimo che non è così».
Ma così non si rischia di umiliare il vero merito? «Questi dati mostrano lo scontro tra due culture. La “certificazione”, cara ai mediocri, e la voglia del confronto sul mercato, tipica di chi vale». Si arriverà mai ad abolire il valore legale della laurea? «Domanda difficile, vedo fior di intellettuali accapigliarsi. Mi sembra ci sia una lunga catena di altre condizioni e regole da affrontare. Un problema intricato. Per questo la soluzione non mi appare semplice…». Intanto, ed è l’unica certezza, gli italiani continuano a coltivare il Mito della Laurea.

Il Corriere della Sera 22.04.12

"Le parole sbagliate di Formigoni", di Massimo Giannini

Con buona dose di impudenza, il presidente della Regione Lombardia torna sul luogo del “delitto”. Ma ancora una volta, non lo fa per rispondere in modo finalmente trasparente e inequivoco alle troppe domande inevase che riguardano i suoi capodanni alle Antille, forse pagati dall´amico di tante battaglie Pierangelo Daccò. Nel più tradizionale costume della “casa” berlusconiana, dalla quale anche il Celeste in fondo proviene, Formigoni reagisce al bisogno di chiarezza che viene dall´opinione pubblica rilanciando una sequela di accuse del tutto prive di senso. Non una parola sulle distinte bancarie che potrebbero provare quello che aveva scritto nella lettera a “Tempi”, e cioè che il viaggio e il soggiorno ad Anguilla lo ha pagato “con il suo stipendio”. Un fiume di parole, invece, per denunciare l´ennesimo “complotto” contro la sua specchiata persona, ordito dai “quotidiani dell´armata diffamatoria”, ai quali il governatore giura di non aver mai detto che avrebbe esibito le ricevute di quei suoi viaggi a cinque stelle.
Non sappiamo se il governatore includa anche Repubblica, in questa sua denuncia. Sappiamo per certo che, quand´anche lo facesse, i suoi attacchi non ci toccano né ci riguardano. Non ci toccano, perché riteniamo sia un dovere della libera stampa esigere da chiunque sia titolare di un potere, tanto più se decretato per via elettorale dai cittadini, il rispetto dell´etica pubblica e il dovere dell´accountability. Non ci riguardano, perché non abbiamo mai scritto che Formigoni ha promesso di esibire quelle ricevute. Abbiamo scritto invece, e lo ripetiamo ancora una volta, che la migliore via d´uscita dalla “Vacanzopoli” nella quale si è cacciato con le sue stesse azioni ed omissioni, sarebbe quella di farsi fare un estratto conto dalla sua banca, relativo al bimestre dicembre 2008-gennaio 2009, dal quale sarebbe agevole dimostrare, attraverso i movimenti di denaro, gli addebiti relativi a carte di credito o assegni, che quel famigerato viaggio a Parigi, e poi la successiva vacanza all´Altamer Resort, li ha effettivamente pagati lui. O direttamente, o restituendo quanto potrebbe avergli anticipato l´«amico Piero», cioè Daccò, attraverso quella che lo stesso Celeste ha definito, con fantasia lessicale invidiabile, la “compensazione”.
Questo abbiamo chiesto a Formigoni. Questo continuiamo e continueremo a chiedergli, sulla base dei fatti e dei documenti agli atti dell´inchiesta della Procura di Milano sullo scandalo della sanità lombarda. Non c´è nessuna intenzione “diffamatoria”, in questa richiesta, ma solo il legittimo esercizio del diritto di cronaca. Il dovere dei giornali di informare, il diritto dei cittadini ad essere informati. Per questo, fa quasi sorridere che lo stesso governatore, come ha sempre fatto il Cavaliere in tutti gli scandali che lo hanno coinvolto, invece di dimostrare la sua trasparenza con i nudi fatti, si trinceri a sua volta dietro le solite fumisterie del peggior vittimismo politico. Parla di “grandi fantasie e grandi menzogne”, propalate da una fantomatica “armata del fango”. Non vede che il fango lo produce lui stesso, sfuggendo alle sue responsabilità, e scambiando una domanda pubblica di verità per una violazione della sua sfera privata. Sappiamo che il Celeste è a Rimini, per gli esercizi spirituali di Comunione e Liberazione istituiti a suo tempo da Don Giussani. Rispettiamo la sua fede. Ma gli ricordiamo la straordinaria campagna morale e culturale di un altro grande del cattolicesimo italiano: don Luigi Sturzo, che dopo la guerra si batté per trasformare l´Italia in quello che lui stesso chiamava “il Paese delle regole”. Don Sturzo fu sconfitto. Formigoni si ricordi della sua “lezione”.

La Repubblica 22.04.12

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Formigoni si rifugia nel popolo Cl “Vagonate di fango, ma non cedo”, di Marco Marozzi

A Rimini per gli esercizi spirituali. Il monito di Carron. In una nota il Governatore: “Non ho mai promesso di esibire le ricevute di viaggi e cene”. La processione dietro sfila ordinatissima, la gente scende silenziosa da centinaia di pullman. Roberto Formigoni arriva con le auto di scorta. Presidente, aveva proprio bisogno di andare ai Caraibi? chiede il cronista. Il governatore della Lombardia ride. «In un posto bello al mondo una volta ci si può andare. Perché lei non ci è mai stato?. La prossima volta la invito io».
Il contrasto con la folla umile che fa da sfondo risulta anche a chi a Formigoni vuole bene. Lui si racconta sicuro, deciso a combattere. «Quando ti tirano vagonate di fango, ti sale l´adrenalina» dichiara prima di lasciare Milano, la città della politica. «I miei amici non intendono cedere, io non intendo cedere, il Pdl non intende cedere». E Rosy Bindi che l´accusa di aver messo su un impero orientato alla corruzione? «Penso non ci creda neppure lei». Quando però il governatore arriva a Rimini, la città della fede, un vento si infila fra il solito affetto. Qualcuno lo coglie persino nelle parole di Julian Carron, il sacerdote spagnolo successore di don Giussani, il fondatore di CL. «Che importa guadagnare tutto il mondo, per poi perdere l´anima» dice citando il Vangelo. Uscendo dalla Fiera di Rimini tramutata in una cattedrale di esercizi spirituali, il ragazzo racconta. «Ci ha detto che non bisogna censurare o giustificare gli sbagli. Bisogna rimettere Cristo al centro del proprio cuore, è una presenza che cambia lo sguardo sulle cose».
Avete sentito un´eco per Formigoni. «Cosa c´entra? Lui se la vedrà con Dio» mormora una signora. Altro non vuol dire. «Voi della stampa non aspettate altro per massacrarci» taglia netto il marito. Non si parla pubblicamente di Roberto Formigoni agli Esercizi Spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione. «Non sono io che vivo è Cristo che vive in me» è il titolo dell´incontro. San Paolo, lettera ai Corinzi. Pochi vedono il governatore che nel salone principale della Fiera ad ascoltare Carron entra da una porta riservata. La preghiera è insieme comunanza e diversità, c´è riflessione e riflessione, penitenza e penitenza. «Attorno a Roberto – racconta un giovane baffuto – c´è come un vetro, non un muro, ma un vetro. Non è separazione, ma non è tempo di entusiasmi». «Certo poteva stare più attento» commenta una ragazza. «Niente giornalisti» intima un servizio d´ordine che blocca gli ingressi e controlla le entrate, a migliaia alzano il pass della processione.
A Rimini, come ogni maggio, sono arrivati in 30 mila almeno. Da ogni parte d´Italia, trecento pullman. Roberto Formigoni è Memores Domini, ha fatto alcuni voti, Si presenta giubbotto verde, maglia blu, jeans. «Non si può pregare…». Qualcuno nella fila dei pellegrini si è lasciato andare a qualche battuta sulle sue giacche sgargianti. «Vengo qua da 30 anni. Gli Esercizi sono il gesto fondamentale della Fraternità» dice il governatore. Quest´anno qualcosa è diverso «No, non c´è nessuna differenza. Questa è la mia famiglia. Mi vuole bene». Non sente borbottii anche dal popolo di CL? «No, questa è gente sveglia. Capisce che è solo il tentativo di delegittimare Formigoni e i principi del suo governo: sussidiarietà, libera scelta, attenzione alla persona e alle formazioni sociali. Qualcuno mi ha fatto un buffetto, qualcuno mi ha stretto in un abbraccio di incoraggiamento». Lo stesso concetto si carica di rabbia nella nota diffusa da Milano. «Formigoni non ha rivolto nessun appello ai suoi sostenitori per fax di solidarietà. – scrive la portavoce – La solidarietà è arrivata ampia, forte, immediata da tutti i responsabili del Pdl e da tante, tante, tante persone; a differenza di quanto affermato da alcuni importanti quotidiani, il presidente Formigoni non ha mai promesso l´esibizione si ricevute di viaggi e cene. Sono i quotidiani dell´armata diffamatoria a essersi inventati la questione delle ricevute. Il presidente Formigoni non ne ha mai parlato, anche perché, piaccia o non piaccia ai diffamatori, questo gesto non è richiesto da alcuna legge».
Ma lei presidente come ha vissuto le parole di monsignor Carron? «Sono state molto chiare, belle, forti. Non voglio interpretare». Sul lungomare, al ristorante Lo Squero, il titolare, Thomas Breccia, conferma che il 26 agosto 2009 Pierangelo Daccò pagò la cena a 80-90 ciellini, Formigoni compreso. Conto da 15 mila euro.

La Repubblica 22.04.12

"Wall Street, la mano visibile che avvelena", di Francesco Guerrera

Il platano di fronte al numero 68 di Wall Street non c’è più. Ma lo spirito dei 24 pionieri che nel 1792 si riunirono sotto quell’albero e fondarono il primo mercato azionario di New York si respira ancora nelle anguste viuzze del Sud di Manhattan.
Basta fermarsi un momento ad un angolo di Wall Street ed alzare gli occhi dal Blackberry per osservare dal vivo la psiche dei mercati e del capitalismo americano.
Il flusso umano è rapido ed ininterrotto, quasi fosse diretto da un burattinaio con mille mani. La gente cammina con passo alacre, spinta dal desiderio di fare soldi e dalla paura di fallire – lo yin and yang della vita newyorchese.

E gli edifici torreggiano sulle strade, totem solenni pronti ad accogliere le migliaia di persone che hanno deciso di spendere gran parte della vita comprando e vendendo azioni.
«Il mercato è re, siamo noi sudditi che a volte sbagliamo», mi disse tanti anni fa un vecchio operatore di Borsa per spiegarmi in due parole l’essenza della finanza.
Negli ultimi anni, però, questa professione di fede laica è stata messa a dura prova. Il mito dell’infallibilità del mercato è stato sfatato dall’uno-due della crisi del 2007-2009 e dall’attuale disastro economico europeo.

Ed il credo nella «mano invisibile» di Adam Smith – un sistema di compravendita che, se lasciato operare in piena libertà, porta ad un risultato economico ottimale – è stato minato dagli interventi massicci dei governi nei sistemi finanziari di mezzo mondo.
E’ un’ironia pesante: a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino che consacrò la vittoria della democrazia e del capitalismo sulla dittatura statale del comunismo, la libera economia di mercato occidentale ha bisogno di aiuti di Stato per non affondare.
Altro che mano invisibile, oggigiorno la lunga mano del governo è visibile dappertutto. In America, la Casa Bianca ed il Congresso sono stati costretti a farsi dare miliardi di dollari dai contribuenti per evitare il collasso del mercato immobiliare e delle grandi banche.

Il risultato è che nove mutui su dieci negli Usa oggi sono garantiti da entità statali, che la Federal Reserve ha comprato tonnellate di titoli «tossici» da banche ed investitori per purgare il sistema e che i tassi d’interesse rimarranno bassissimi per anni per tenere l’economia in vita.
L’Europa è in una situazione simile. Negli ultimi mesi, la Banca Centrale Europea si è dovuta sostituire al settore privato come principale mezzo di trasmissione del denaro nell’economia.
In tempi normali, le istituzioni finanziarie prendono soldi dai risparmiatori e li prestano ad aziende e consumatori. Ma con il sistema finanziario paralizzato dalla tragedia greca, la farsa italiana e i pasticci spagnoli e portoghesi, le banche hanno abbandonato le trincee e battuto in ritirata, spaventando gli investitori e facendo impazzire i mercati.
Mario Draghi e i suoi sono stati costretti a scendere in campo, dispensando un triliardo di euro alle banche del continente per incoraggiarle a fare il loro mestiere: dare soldi all’economia reale.

Per ora, l’intervento massiccio dei governi occidentali ha funzionato solo a metà. Ha evitato il peggio – un’altra Grande Depressione negli Usa, la dissoluzione della moneta unica in Europa –, ma non ha risolto i problemi di fondo di quelle economie.
Anzi. La dipendenza di mercati e del settore privato dall’elemosina dei governi sta provocando degli scompensi finanziari ed economici che potrebbero portare alla prossima crisi.

Uno dei capi delle banche di Wall Street ha paragonato gli aiuti statali alla morfina. «Servono ad alleviare il dolore, non a curare la malattia», mi ha detto.
L’iniezione di capitali a basso prezzo da parte di governi e banche centrali sta portando investitori a prendere rischi che non dovrebbero.
L’emissione di «junk bonds» – le obbligazioni «spazzatura» emesse da società non proprio affidabili dal punto di vista finanziario – è a livelli altissimi sia in America che in Europa.
E negli Usa c’è stato un ritorno di fiamma di «titoli esotici», obbligazioni legate a beni non ortodossi tipo gli utili di Domino’s Pizza o le vendite di dvd de «Il paziente inglese» (non sto scherzando…). Nei primi mesi del 2012, gli alchimisti di Wall Street hanno venduto più di 5 miliardi di dollari di questa roba, il doppio dell’anno scorso.

Il vantaggio di questi strani animali nello zoo della finanza è che hanno tassi d’interesse molto più alti dei beni «sicuri» quali le obbligazioni del Tesoro americano.
È un fenomeno darwiniano: come le giraffe che dovettero estendere il collo per raggiungere le foglie, così i fondi pensione, gli hedge funds e persino la gente comune deve spingersi su investimenti rischiosi per guadagnare qualche soldo.
Decisioni razionali e comprensibili, ma che aumentano il rischio di nuove bolle speculative e mettono pressione su un sistema che non si è ancora completamente ripreso dalla crisi di tre anni fa.

La realtà è che, prima o poi, governi e banche centrali dovranno cedere il palcoscenico al settore privato, l’attore principale di ogni economia. Ma nessuno sa quando e come.
Il dilemma di Ben Bernanke alla Fed e Draghi alla Bce è che se si ritirano troppo presto, l’economia potrebbe ricadere nel coma, ma se rimangono troppo a lungo rischiano di fare la fine di Alan Greenspan – condannato per aver causato la crisi dagli stessi mercati che lo avevano beatificato per aver pompato l’economia negli anni precedenti.
«Non possono vincere», mi ha detto uno dei capi delle banche d’affari americane la settimana scorsa. «Qualsiasi cosa facciano, saranno criticati».
Che è la verità, ma anche un peccato perché le banche centrali hanno fatto il loro dovere – sorreggere il sistema quando era sull’orlo del crollo.

In America ed Europa si parla tanto di cambiamenti «strutturali»: riforme radicali dello Stato sociale e della tassazione, austerità fiscale, riduzioni drastiche dei deficit. Sono discorsi nobili ma anche facili per politici e commentatori, perché i tempi per rivoluzioni di questo tipo sono biblici. Come disse John Maynard Keynes, che di aiuti statali all’economia se ne intendeva: «Nel lungo termine saremo tutti morti».

Purtroppo i mercati e le economie, come i lavoratori di Wall Street, di tempo non ne hanno. Da quando quei 24 proto-operatori di Borsa si riunirono sotto il platano, il capitalismo mondiale ha solo un tempo: il presente. E per il momento è un presente dominato dall’ombra ingombrante dello Stato.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario
del Wall Street Journal a New York.

La Stampa 22.04.12

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“LA PORTA CHIUSA DEL CREDITO”, di ALESSANDRO PENATI

Ltro è l´acronimo di Long term refinancing operation: il maxi finanziamento da 1.000 miliardi per tre anni concesso dalla Bce alle banche, a un tasso minimo dell´1%. Un intervento che per molti ha arrestato una crisi che rischiava di travolgere l´euro.
Gli obiettivi del LTRO erano cinque. (1) Scongiurare una crisi del debito pubblico, specie in Italia e Spagna che nei primi mesi del 2012 avevano ingenti volumi di titoli di stato in scadenza. Con LTRO la Bce ha dato alle banche i soldi e l´incentivo (lo spread tra costo del finanziamento e rendimento dei titoli) per intervenire a sostegno del debito pubblico. (2) Superare la crisi di liquidità delle banche che non si finanziavano più fra loro, e avevano difficoltà a rifinanziare le proprie obbligazioni in scadenza, per via dell´esposizione al rischio sovrano. (3) Guadagnare tempo per completare la ristrutturazione del debito greco, mettendo al riparo il sistema finanziario dal rischio di un default disordinato. (4) Sostenere i bilanci delle banche, migliorando il margine di interesse, per frenare il crollo dei titoli bancari in Borsa e permettere gli aumenti di capitale richiesti dall´Autorità Bancaria Europea (Eba). (5) Riavviare il ciclo del credito, riducendo la qualità delle attività accettate dalla Bce come garanzia per i propri prestiti, incentivando così le banche a prendersi più rischi e allargare i cordoni della borsa.
Obiettivi raggiunti, per ora, tranne l´ultimo, il più importante: la stretta creditizia c´è e si vede. E nonostante il cauto ottimismo dei documenti ufficiali, la situazione è destinata a peggiorare, anche a causa degli effetti collaterali del LTRO, come spesso accade quando al malato si somministrano dosi massicce di farmaci potenti.

LA DEBOLEZZA DEL CREDITO
La crisi bancaria nell´eurozona ha origine nella forte esposizione delle banche al rischio sovrano. Isolare le banche da questo rischio sarebbe prioritario per rilanciare la loro attività. Con il LTRO, invece, chiamando le banche a sostenere il mercato del debito pubblico, si sono ancor più legate le sorti del credito privato a quelle della finanza pubblica. E la via di uscita si complica. A fine febbraio le banche italiane detenevano 280 miliardi di titoli di Stato, a fronte di 200 miliardi di esposizione complessiva verso la Bce. Disfarsi di una tale mole di titoli non sarà facile: si rischia un crollo del valore del debito pubblico, anche perché sul mercato non c´è ancora traccia di acquirenti esteri.
Da questo punto di vista, il LTRO è in rotta di collisione con l´Eba. Le ricapitalizzazioni richieste dai suoi stress test, infatti, avevano l´evidente scopo di penalizzare i sistemi bancari con la maggiore esposizione al rischio sovrano: degli oltre 100 miliardi di aumenti di capitale richiesti, il 75% riguardavano Grecia (30), Spagna (26), Italia (15) e Portogallo (8). Quindi, mentre l´Eba penalizza le banche più esposte al rischio sovrano, la Bce le incentiva ad assumerne ancora di più.
Non è l´unica incoerenza. L´Eba stabilisce i requisiti di capitale prudenziali che le banche devono rispettare, avendo il compito di vigilare sulla stabilità del sistema finanziario europeo, ma opera nell´ambito degli accordi internazionali di Basilea. L´implementazione delle regole e la vigilanza bancaria è però delegata alle autorità dei singoli paesi, ognuna delle quali interpreta e applica le regole in modo autonomo. Se poi scoppia una crisi di liquidità, è compito della Bce intervenire; anche se, come si è visto, magari con obiettivi plurimi. Ma quando una crisi di liquidità degenera in insolvenza, sono allora gli stati sovrani (come Irlanda, Spagna, Belgio), e/o il Fondo di Stabilità Europeo (in Grecia) a intervenire.

La soluzione europea
Una confusione inaccettabile. La crisi bancaria è europea, e richiede una soluzione a livello europeo. Più del fiscal compact ci sarebbe stato bisogno di un accordo per una struttura comune di vigilanza europea, che stili le regole e le applichi uniformemente; e di un unico meccanismo di intervento in caso di crisi. Dopo la sovranità monetaria, servirebbe che gli Stati dell´euro delegassero anche la sovranità sulla vigilanza del sistema finanziario. Ma oggi è fantascienza.
Le indicazioni di vigilanza e il LTRO, anche se in modi diversi, disincentivano la ripresa dei prestiti bancari, e rallentano il necessario e inevitabile processo di ristrutturazione delle banche. Dopo la sbornia da debito, la stabilità del sistema richiede un lungo processo di delevering, che inevitabilmente riguarderà anche le banche italiane. Più che ai confronti internazionali, è al profilo temporale dell´indebitamento a cui bisogna guardare. Dieci anni fa, i prestiti delle banche italiane alle imprese e le famiglie residenti erano pari al 60% del Pil nominale; oggi sono il 95%: è illusorio sperare che il rapporto possa continuare ad aumentare; più realisticamente si stabilizzerà o diminuirà. Questo implica una crescita dei prestiti che non supera di molto l´inflazione. Per molte aziende, significa stretta creditizia: per un´impresa sana, infatti, il capitale circolante, tipicamente finanziato dalle banche, cresce più rapidamente dell´economia (a prezzi correnti). Infatti, nei tre anni precedenti la crisi, la crescita del credito bancario alle piccole imprese italiane, che in banca finanziano prevalentemente il circolante, è rimasta stabile al 6%; oggi è negativa, dopo aver toccato un massimo di circa il 3% nel corso del 2011.

iL rischio italiano
Il trend alla riduzione del rischio nei bilanci delle banche è anche imposto dalla regolamentazione. Nei requisiti patrimoniali, viene data grande enfasi al numeratore, il capitale; non abbastanza al denominatore, il valore delle attività ponderate per il rischio (Rwa). Ogni banca valuta le Rwa con un proprio modello, con criteri che differiscono da paese a paese e che sono variati nel tempo: i valori non sono confrontabili, ma forniscono qualche indicazione utile a capire i trend. Da prima della crisi a oggi, le tre maggiori banche italiane hanno ridotto complessivamente il peso delle Rwa sul totale delle attività dal 59% al 49%. Comunque le si misuri, il trend alla riduzione del rischio degli attivi è chiaro; e nella scala dei rischi, quelli non garantiti alle imprese, specie piccole, sono in alto. Un confronto internazionale, per quanto poco significativo, ci porta alle stesse conclusioni: il rapporto italiano rimane più elevato che per le maggiori banche inglesi (40%), francesi (35%) o svizzere (20%). La riduzione del rischio degli attivi è quindi la strada che le banche percorreranno per migliorare i ratio patrimoniali.
Disquisire se la contrazione del credito sia dovuta a una minor domanda o a una contrazione dell´offerta, è ozioso: in recessione la domanda complessiva di credito da parte delle imprese si riduce perché viene meno la componente legata al finanziamento delle acquisizioni, le operazioni immobiliari, e quelle finanziarie a leva; ma è anche vero che le banche elevano gli standard per l´accesso al credito per ridurne i rischi. Dare la colpa a l´una o l´altra parte non risolve nulla.
La prima riforma del nostro mercato finanziario dovrebbe invece essere la creazione di mercato di obbligazioni corporate; un canale di finanziamento che da noi esiste solo per una manciata di grandi imprese. Per le piccole e medie imprese la soluzione è la cartolarizzazione dei loro prestiti. Ma le banche italiane dovrebbero accettare di vedersi disintermediate, cooperando alla creazione e collocamento di queste obbligazioni, invece di vederle come concorrenti delle proprie, o come un modo per rifilare spazzatura ai risparmiatori.

dipendenze pericolose
Il LTRO rischia anche di creare una pericolosa dipendenza dal credito facile della Bce. Il primo problema del LTRO è la exit strategy: se la maggioranza delle banche aspetta la fine dei tre anni per rimborsare la Bce, una nuova crisi di liquidità è assicurata. E poiché la Bce dichiara di non voler monetizzare il tutto, le banche probabilmente cercheranno di uscire dalla trappola dei tre anni rimborsando il prima possibile (se ne avranno le risorse). Data l´incertezza sulla tempistica dell´exit strategy, dubito che vogliano impegnare le risorse della Bce in nuove linee di credito con le imprese che, di fatto, costituiscono un impegno più duraturo. Per le banche rimane comunque la convenienza a utilizzare i fondi della Bce come sostituto delle proprie obbligazioni, rimborsandole, o evitando di emetterle; piuttosto che per espandere i prestiti. Anche contando i vari scarti di garanzia, non credo che il costo del finanziamento medio con la Bce superi di molto il 2%. Se usato per un prestito a un´impresa il margine per la banca sarebbe oggi al massimo 1,5-2%. Se invece è usato per evitare di emettere una tipica obbligazione a 5-7 anni, visto il costo del rischio Italia, risparmia anche il doppio.
La Bce richiede inoltre che le banche offrano in garanzia le loro attività migliori, diventandone così creditore privilegiato, dopo i depositanti; ma rendendo in questo modo più rischiose, perché maggiormente subordinate, le obbligazioni bancarie. Le banche, quindi, non hanno né la convenienza né l´incentivo a usare il LTRO per aumentare il credito alle imprese.
Ma il danno maggiore provocato dai finanziamenti della Bce sono i facili margini che questi garantiscono alle banche, riducendo la pressione a ristrutturare rapidamente (dismettendo attività, tagliando costi, innovando prodotti, competendo aggressivamente sui prezzi, eccetera). Invece le ristrutturazioni bancarie sono una necessità, soprattutto in Italia. Ma richiedono idee, capacità e coraggio che, evidentemente, mancano.

La Repubblica 22.04.12

"Oltre sei elettori su 10 non sanno per chi votare. Scende la fiducia a Monti, ma il 30% dice sì a una sua lista" di Roberto D'Alimonte

In questo quadro confuso di fine legislatura una sola cosa è certa: il disorientamento di gran parte degli elettori. Nel sondaggio Cise-Il Sole 24 Ore diversi dati lo evidenziano. Uno è l’affluenza alle urne, un altro le intenzioni di voto. Nel 2008 hanno votato circa 38 milioni di elettori, l’80,5% degli aventi diritto; il 19,5% è rimasto a casa. Se si andasse alle urne domani resterebbe a casa il 35%: una cifra che potrebbe salire addirittura al 42% tenendo conto di quelli che sono incerti se votare o meno. Questo vuol dire che almeno 7 milioni e mezzo di italiani che nel 2008 votarono oggi si asterrebbero. Cifra che da sola dà la misura del distacco nei confronti della attuale classe politica. Dodici mesi fa non era così: nell’aprile dello scorso anno nel primo dei sondaggi Cise-Il Sole 24 Ore gli astenuti erano il 18,6%. Oggi siamo potenzialmente al 42,1%: solo il 58% è certo di votare. E solo 4 elettori su dieci sanno per che partito votare.

Ma fortunatamente non si voterà domani. Nella primavera del 2013 è certo che la partecipazione al voto sarà più alta di quella registrata dal nostro sondaggio. Quanto più alta? Impossibile prevederlo oggi. Dipenderà da molti fattori. In ogni caso sarà più bassa di quella del 2008. L’affluenza alle urne ha cominciato a diminuire dalla fine degli anni settanta a un ritmo medio di circa due punti percentuali ad ogni elezione. In teoria dovremmo quindi aspettarci una partecipazione intorno al 78 per cento. Non sarà così. Un dato del genere – con questa offerta politica – è del tutto irrealistico.

Per completare il quadro al dato sull’astensione va aggiunto quello sull’indecisione. Come si può vedere dal grafico in pagina, la percentuale di coloro che dichiarano di volere andare a votare ma che non sanno per chi votare è rimasta relativamente stabile negli ultimi 12 mesi. Gli indecisi sono il 19,8 per cento del campione contro il 18 per cento circa di dodici mesi fa. Sommando a questo dato quello sulla astensione il risultato è che meno di 4 elettori su 10 dichiarano oggi di voler andare a votare e per quale partito voterebbero. È su questo 40% dell’elettorato che sono calcolate le percentuali di voto ai partiti riportate in tabella. Si tratta di 18 milioni di elettori sui 36,5 milioni che hanno espresso un voto valido nel 2008. Ora se ipotizziamo che nel 2013 vada a votare il 72% degli elettori, cioè 34 milioni, la conclusione è che oggi ci sono circa 16 milioni di futuri voti in cerca di partito. È un calcolo approssimativo che non tiene conto né delle schede bianche e nulle (circa un milione e mezzo nel 2008) né di coloro che non ci dicono oggi per chi voterebbero pur sapendolo. Eppure anche tenendo conto di queste correzioni il numero di elettori che possiamo chiamare “disponibili” è impressionante e molto simile a quello del periodo finale della Prima Repubblica. Questo vuol dire che esistono oggi le condizioni per un profondo cambiamento del quadro politico, quello che gli esperti indicano con il termine “riallineamento”. Negli anni ’92-’94 furono Bossi e Berlusconi ad approfittarne. Furono loro a rispondere alla domanda di nuovo. Chi saranno oggi? Casini, Pisanu, Grillo, De Magistris ecc.?

È alla luce di questi dati che va interpretato un altro risultato sorprendente di questo sondaggio. Agli intervistati che hanno risposto di voler andare a votare (il 58 per cento del campione) sono state fatte due domande. Nella prima gli si è chiesto per quale fra i partiti esistenti avrebbero votato. Successivamente gli si è chiesto per quale partito voterebbero se “fosse presente anche una lista guidata da Mario Monti”. Il 29,6 per cento ha risposto che voterebbe per Monti. La presenza di questa lista ridurrebbe i consensi al Pd al 19,6 per cento e quelli al Pdl al 15,2 per cento. Il “partito di Monti” sarebbe di gran lunga il più grande partito italiano. Va da sé che si tratta di un risultato virtuale. Il dato è certamente sovrastimato. Inoltre è un dato fragile come lo sono in questa fase tutti gli altri dati relativi alle intenzioni di voto degli italiani. C’è troppa incertezza in giro per considerare affidabili oggi le percentuali di voto ai partiti. Ma è un dato che fa riflettere. Tanto più che da quanto emerge da altre domande la maggioranza degli intervistati (il 56 per cento) non dà più un giudizio positivo sull’operato dell’attuale governo e non vorrebbe che questa esperienza si ripetesse dopo le prossime elezioni politiche tra un anno. Eppure quasi un elettore su tre tra quelli che sono intenzionati a votare per un partito voterebbe oggi per quello guidato da Monti. A migrare verso questa lista sarebbero in misura quasi uguale gli elettori dei tre partiti che attualmente appoggiano il governo: il 21,7 per cento degli elettori del Pd, il 23,4 del Pdl e il 26,2% dell’Udc. Un sostegno trasversale ma friabile, molto legato al giudizio positivo che i potenziali sostenitori di questa lista danno dell’operato del governo. In ogni caso un sostegno che evidenzia inequivocabilmente la debolezza dei partiti visto che quasi un loro elettore su quattro è disponibile a defezionare.

Insomma il maggior partito italiano oggi è un partito che non c’è, e che probabilmente non ci sarà. Ma gli attuali partiti non possono consolarsi con l’idea che alle prossime elezioni non troveranno Monti come competitore. Anche senza Monti ci saranno delle novità perché un mercato elettorale aperto, con tanti elettori disponibili, alimenta appetiti e ambizioni che non si sono ancora chiaramente manifestati. In questi giorni stiamo assistendo alle prime manovre di riposizionamento sul fronte del centrodestra. È naturale che questo avvenga in questa area dello spazio politico perché è qui che troviamo la maggioranza degli elettori disorientati in cerca di un nuovo approdo. Come nel 1994. Il partito della nazione è al decollo. Il “nuovo Pdl” è stato invocato e ora è stato annunciato da Alfano. La scomposizione e ricomposizione del centrodestra è iniziata e potrebbe riservare delle sorprese. La più grossa sarebbe il ritorno di Berlusconi sotto diverse spoglie. In fondo il Cavaliere è quello che di mercati e di campagne pubblicitarie se ne intende più di tutti. Sarebbe incredibile che riuscisse a ripetere il “miracolo” del 1994 quando riunì sotto una unica bandiera tutti i pezzi della destra italiana. Incredibile ma non impossibile. Siamo sempre il paese del Gattopardo.

Il Sole 24 Ore 21.04.12

«Italia ha pagato più della Grecia». I dati che Berlusconi ha nascosto

I grafici hanno questo: raccontano la realtà in maniera piuttosto brutale. Specie se questa realtà, nel tempo, è stata edulcorata, piegata, infine stravolta. Specie se questa realtà riguarda tutti noi. Il nostro Paese, le sue casse e la vita dei suoi cittadini. Lo pubblica l’Economist, e dice (brutalmente, appunto) che il paese che dal 2008 ha pagato più di tutti la crisi è l’Italia. Più della Grecia. Più dell’Irlanda e della Spagna. Ed eccola la fotografia scattata dalla rivista inglese.

qui il grafico

«Italia ha pagato più della Grecia»
I dati che Berlusconi ha nascosto

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21 aprile 2012
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I grafici hanno questo: raccontano la realtà in maniera piuttosto brutale. Specie se questa realtà, nel tempo, è stata edulcorata, piegata, infine stravolta. Specie se questa realtà riguarda tutti noi. Il nostro Paese, le sue casse e la vita dei suoi cittadini. Lo pubblica l’Economist, e dice (brutalmente, appunto) che il paese che dal 2008 ha pagato più di tutti la crisi è l’Italia. Più della Grecia. Più dell’Irlanda e della Spagna. Ed eccola la fotografia scattata dalla rivista inglese.

qui il grafico

Ora, giusto per ricordarci da dove veniamo, chi per anni ha sostenuto l’esatto contrario di quello che i dati dicono, ecco un breve video. A futura memoria.

da www.unita.it

"Pensioni, enormi risparmi. Ecco perché si possono eliminare certe ingiustizie" di Cesare Damiano

Sul tema dello stato sociale si gioca l’identità dei partiti progressisti europei. Le ricorrenti dichiarazioni di Mario Draghi a proposito della presunta fine del welfare del vecchio continente ci costringono a misurarci con una dura realtà ma, al tempo stesso, ci spingono a non arrenderci di fronte all’esigenza di tutelare la parte più debole della popolazione, soprattutto nell’attuale situazione di crisi. Lo stato sociale europeo, nella sua ispirazione di fondo, non può essere semplicemente cancellato. Il problema è quello di una sua revisione e di una capacità di innovazione che sappia far recuperare alla politica una visione strategica e un progetto di futuro. Per il Partito democratico si tratta di un elemento essenziale di identità politica e culturale, in molti casi percepita dai lavoratori e dai pensionati eccessivamente incerta. Nel dibattito politico più recente comincia finalmente a farsi strada una esplicita critica al liberismo economico e si comincia a mettere in discussione l’eccesso di rigorismo di cui, in Europa, è interprete Angela Merkel insieme alla Banca centrale europea e, a livello globale, il Fondo monetario internazionale. Ormai tutti si accorgono che di
rigore si può morire e che se ad esso non si accompagna una scelta
di sviluppo e di equità sociale, si favorirà la tendenza recessiva in atto con conseguenze sociali devastanti. Condurre una politica che ci faccia ritrarre dall’orlo del baratro non significa soltanto sfuggire alla morsa speculativa dei mercati finanziari, ma anche impedire che il prezzo del risanamento venga esclusivamente pagato dalle imprese, dai lavoratori e dai pensionati. Prestare eccessivo orecchio alle richieste della finanza, che prima chiede il rigore e poi la crescita, è come inseguire l’albero di Bertoldo, dimenticando i problemi dell’economia reale e le sofferenze dei corpi sociali più deboli. Si commette un errore se si pensa che gli interessi dei mercati e del sistema finanziario siano gli stessi delle imprese:
quando le banche acquistano denaro dalla Bce all’1%, comprano titoli di Stato che rendono 5 volte tanto e oppongono una dura resistenza a erogare prestiti alle piccole imprese e alle famiglie, non fanno il loro mestiere e non aiutano la crescita del Paese nel momento della crisi. Non a caso, come Pd, noi chiediamo al governo di invertire rapidamente la rotta e di dare segnali di investimento di risorse per lo sviluppo del Paese e per la diminuzione della pressione fiscale su imprese e lavoro. A questo fine si potrebbe decidere una oculata vendita di una parte del patrimonio pubblico e di utilizzare quanto si ricava dalla lotta
all’evasione fiscale. Non tutto può andare esclusivamente a riduzione del debito.
Per quanto riguarda l’azione riformatrice svolta fin qui dal governo, vorremmo ancora una volta sottolineare quello che a nostro avviso appare con sempre maggiore evidenza come un limite di impostazione delle riforme stesse: l’assenza di gradualità nell’innalzamento dell’età pensionabile a cui si accompagna, dal 2017, una diminuzione della durata delle tutele in caso di disoccupazione. Questa impostazione, che sul sistema pensionistico ha sicuramente prodotto enormi risparmi che sono stati utilizzati per ripianare il debito, costringerà l’attuale governo e quelli successivi a interventi di correzione. Si veda il caso dei cosiddetti “esodati”, termine con il quale, occorre ricordarlo, si debbono ricomprendere platee di lavoratori ben più vaste e composite: lavoratori con accordi di mobilità; lavoratori che si sono licenziati individualmente, soprattutto nelle piccole imprese; esodati delle Poste, dell’Eni edi Telecom; lavoratori della scuola e lavoratori che, a causa dell’aggancio del momento di andare in pensione alla cosiddetta aspettativa di vita, saranno costretti ad aspettare per anni l’assegno pensionistico per una beffarda differenza di maturazione del diritto di pochi giorni o settimane. Sarebbe stato meglio agire con maggiore gradualità, oppure, “mettere da parte” una quota dei risparmi conseguiti, anche solo il 10%,per poter correggere le inevitabili distorsioni che la riforma avrebbe prodotto e anche per finanziare ammortizzatori sociali maggiormente inclusivi per le giovani generazioni. Abbiamo voluto fare alcuni conti basandoci sulle stime della Ragioneria generale dello Stato. Se soltanto con l’ultima riforma si risparmieranno ogni anno, dal 2020, 22 miliardi di euro, ciò significa che nel periodo 2020-2050 si produrrà una colossale redistribuzione di risorse da Stato sociale a debito di quasi 650miliardi di euro. Se a questa cifra dovessimosommaregli interventi fatti dai diversi governi dal 2004 al 2011 sul sistema pensionistico andremmoal raddoppio. Naturalmente siamo disponibili a ricrederci se abbiamo commesso alcuni errori di calcolo. Al contrario, resteremmo sempre più convinti che una maggiore gradualità avrebbe consentito di affrontare meglio il problema (perché non far salire progressivamente quota 97, che sarebbe andata in vigore con la vecchia riforma del 2007 dai 1 gennaio 2013, fino a quota 100?).
L’obiettivo si sarebbe comunque raggiunto,masenza provocare vistose
e laceranti contraddizioni sociali. Se i mercati, per appagarsi, hanno bisogno di simboli, noi non crediamo che la politica debba muoversi in quella direzione. Abbiamo combattuto, come Pd, per correggere i contenuti iniziali della riforma delle pensioni e abbiamo ottenuto risultati importanti, anche se non del tutto sufficienti. Continueremo la nostra battaglia per impedire che centinaia di migliaia di lavoratori vivano quotidianamente nell’ansia di dover rimanere per lunghi anni senza stipendio, senza
tutele sociali e senza pensione. Le incongruenze sociali del nuovo sistema devono essere corrette.

L’Unità 21.04.12

Bersani: "Se l'Europa cambia", di Mario Lavia

Metti che domani sera François Hollande conquista saldamente la pole position per l’Eliseo (ballottaggio il 6 maggio). Metti che domani sera Nicolas Sarkozy porta a casa un risultato che si farebbe presto a chiamare: batosta. Insomma, allo stato delle cose sembra ben possibile, se non probabile, che le changement francese da slogan diventi realtà.
Hollande, l’antileader che diventa le président, da Mitterrand è stato tutto un dominio gollista, ora la Francia forse torna a sinistra. Soprattutto, l’Europa nel mezzo della peggiore temperie economica della sua storia che volta pagina.
E l’Italia? L’Italia c’entra. Non c’è un effetto meccanico ma il nesso esiste. Ci ragiona su Pier Luigi Bersani che pensa sia giunta l’ora di uscire da un’impasse europea «anche psicologica». Però deve essere chiaro un punto: «Se Hollande vince cambia la situazione. La nostra idea si rafforzerebbe. Ma il Pd è chiaro: nessuna scorciatoia, da noi si vota alla scadenza naturale della legislatura».
Segretario, tutti i sondaggi, le voci, i mass media, dicono che si profila una disfatta di Sarkozy. Sarà difficile capire quanto avrà inciso in questo risultato una sua responsabilità personale e quanto invece sia l’inizio di una tendenza generale: però in ogni caso, dopo anni, in un paese europeo così importante, la destra si avvia a perdere, e a quanto pare sonoramente.
In frangenti come questi, lo dicono anche i socialisti francesi, è meglio avere un attimo di prudenza, perché la radicalizzazione di certi sentimenti dovuti alla crisi dice che è bene aspettare, ci troviamo in una situazione che ci consegnerà elementi di movimento che andranno letti bene. Ma l’esigenza che Hollande ha riassunto nel suo slogan è importantissima: cambiare in Francia e cambiare in Europa. È un collegamento abbastanza inusuale per la tradizione francese, così legata all’orgoglio nazionale: ma qui c’è la chiave del messaggo dei socialisti che parla anche a pezzi di elettorato non progressista.
In questo Hollande è uscito dal solco tradizionale della sinistra francese?
Collegare l’ambito nazionale e quello europeo è un’esigenza fondamentale, è un riflesso che non poteva non esserci anche in Francia che fra l’altro disvela il paradosso di una destra europea che ha vinto sulle paure, alimentando le ansie dovute alla globalizzazione e che infine non ha dato risposte alla crisi, inchiodata com’era ad un altro messaggio, appunto quello della paura e non quello della solidarietà, quello dei confini nazionali e non dell’Europa. Lo capiscono anche a destra: se vedo Sandro Bondi sperare nella vittoria di Hollande…
Tocca ai progressisti, allora?
Solo dal lato dei progressisti si sta creando la possibilità che questa situazione cambi. La novità è che questo è apprezzato anche da chi non condivide del tutto la proposta di Hollande.
Non sarebbe la prima volta che dalla Francia arriva un vento nuovo, qualcosa di molto più grande della caduta di un leader di destra…
Sì, certo Sarkozy non è simpatico di suo ma non lo era nemmeno prima… Ma non è questo: è che la fase generale cambia.
Per tutta l’Europa?
È un passaggio europeo e anzi non solo europeo. Voglio dire che noi europei non abbiamo la percezione esatta di quanto pesi il Vecchio continente: siamo passati da un eurocentrismo illusorio ad una sottovalutazione di cosa voglia dire realmente l’Europa. Rendiamoci conto che stiamo parlando della più grande piattaforma economica mondiale, per Pil, per esportazioni, per ricerca, per tante altre cose: l’Europa sta diventando “il” problema del mondo.
L’uscita dalla crisi dunque dipende dagli europei?
Ecco, con la destra al governo siamo rimpiccioliti nella testa…Io dico che questo avvitamento recessivo mette in difficoltà Obama per la sua rielezione. E se gli Stati Uniti vanno in difficoltà poi la Cina avrà problemi. Non è un caso che tutto il mondo si stia chiedendo come farà l’Europa a ripartire con la crescita.
E Hollande ha la risposta giusta?
Guardi, anche una vittoria di Sarkozy, che non mi auguro, ci consegnerebbe una situazione diversa da quella di prima. Perché così non si va avanti. Non lo dico da oggi: siamo ad un passaggio inedito, ma cambiare strada è un’opportunità concreta e assolutamente indispensabile. Certo, con la vittoria di Hollande cambia la discussione su come uscire da questa crisi.
E che succederà? Si mette la Merkel in un angolo? Si rinegozia il fiscal compact?
Il giorno dopo la vittoria di Hollande la Merkel capirà che le cose sono cambiate senza bisogno che qualcuno glielo dica. Lo capisce subito da sola che bisogna cambiare la situazione puntando ad un bilanciamento delle politiche economiche dal lato della solidarietà europea.
Un’Europa più sociale?
Un’Europa più solidale. Sapendo che la strumentazione concreta per attivare una nuova politica economica richiederà tempi non brevissimi. Quanto non lo so. Però intanto si dà un segnale alle opinioni pubbliche nel senso della fiducia, della speranza. Perché ora siamo in una sorta di impasse psicologica, in questa spirale recessione-austerità si fatica a vedere una fase nuova. Io l’ho detto anche all’ultimo vertice con il presidente del consiglio che la voce dell’Italia si deve far sentire, dobbiamo fare outing anche noi. Per esempio riprendendo lo spirito della lettera dei 12 firmata a suo tempo da Monti.
Bersani, si aspetta un’onda lunga?
Dopo la Francia ci sono le amministrative qui da noi, si vota in due Länder tedeschi: una fase diversa si può aprire.
Magari poi il Pd si fa tentare da elezioni anticipate in autunno…
No. Noi andremo a votare alla scadenza naturale della legislatura. Nessuna scorciatoia.
Allora il vento francese come può aiutare?
Semmai può accelerare delle spinte, può incoraggiare il nostro progetto aggregando altre forze nel senso della costruzione di un centrosinistra di governo, di lanciare una proposta per la ricostruzione morale, civile, economica di questo paese che parli anche a forze civiche e di centro.
Ecco, lei come giudica i movimenti al centro di queste ore?
Io dico che tutto ciò che si muove in una chiave positiva va bene. Certo non siamo davanti a svolte epocali ma a forze che vogliono darsi un diverso profilo. Non è una renovatio sistemica ma se ci sono forze che vogliono darsi un profilo più netto, contrastano il populismo, vogliono guardare al di là aprendosi ad un rapporto con il centrosinistra, va bene, non vedo contraddizioni con la nostra proposta.
Bersani, immagino che non voglia commentare l’ultima uscita di Berlusconi, le feste, il burlesque…
Per l’amor di Dio… Non mi intendo di certe cose.

da Europa Quotidiano 21.04.12