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"La sfida democratica è uscire dal leaderismo", di Stefano Rodotà

La caduta di Berlusconi e Bossi segnala il fallimento della forzatura bipolarista, dove l’enfasi sulla decisione legittima l’eclisse dei controlli.
Caro direttore, con l’abituale sua nettezza, di cui sempre dobbiamo essergli grati, Alfredo Reichlin solleva la questione dell’attacco ai partiti e, in sostanza, della stessa sopravvivenza della democrazia in Italia (e non solo, visto che giustamente volge lo sguardo ad una crisi assai più generale).
E scrive che «non si può sfuggire alla necessità di tornare a dare alla sinistra quella ragione storica che è la sua e che non può che consistere in una critica di fondo degli assetti attuali del mondo». Proprio da qui bisogna partire, e proprio qui è la difficoltà, perché questo indispensabile rinnovamento culturale e politico deve avvenire in un tempo che pone scadenze così pressanti da schiacciare tutti sul brevissimo periodo.
Vivo con la sua stessa angoscia lo stillicidio quotidiano delle notizie sui fatti di corruzione, un terribile bollettino di una guerra che rischia d’essere perduta non da corrotti e corruttori, ma proprio da chi è rimasto estraneo a queste pratiche. Questo è l’esito d’una saldatura tra decomposizione morale e destrutturazione del sistema politico. Era già avvenuto. Mani pulite venne dopo una stagione all’insegna dell’«arricchitevi» e della «Milano da bere», scambiati per tratti liberatori d’una nuova modernità che tutto consentiva e che, quindi, aveva bisogno di sottrarsi al vincolo della legalità, come puntualmente avveniva nelle aule parlamentari con il rifiuto delle autorizzazioni a procedere contro quelli che le vicende successive avrebbero rivelato responsabili della corruzione.
Dobbiamo chiederci perché, con il passare degli anni, quel fenomeno, lungi dallo scomparire e dall’essere ridimensionato, si sia poi ingigantito. La ragione è tutta politico-istituzionale, e richiederebbe una analisi di dettaglio che qui appena accenno. La caduta di Berlusconi e di Bossi non ci parla di fallimenti personali, ma è la rivelazione del fallimento del modello che ha accompagnato gli ultimi venti anni, fondato sulla forzatura bipolarista, la democrazia d’investitura, l’accento sul bene della decisione
che ha legittimato l’eclisse dei controlli. Molti si stracciano le vesti di fronte alla possibilità che il bipolarismo si appanni. Ma in politica i modelli non si giudicano in astratto, ma valutandone gli effetti. Che sono davanti ai nostri occhi, e si chiamano personalizzazione estrema della politica, appannamento della rappresentanza, rafforzamento delle oligarchie, insignificanza della partecipazione delle persone.
Di fronte a tutto questo si avverte forte un bisogno di «diversità». Parola a molti sgradita, lo so. Ma io che mai sono stato iscritto al Pci, e con il quale tuttavia ho percorso un tratto significativo della mia vita continuo ad essere convinto che Enrico Berlinguer fosse stato lungimirante quando indicò nella questione morale un tema capitale per la politica. Una indicazione assolutamente realistica, come le vicende successive hanno dimostrato. E che, se pur voleva sottolineare una diversità del Pci, la traduceva in un di più di responsabilità che incombeva sul suo partito.
Proprio perché oggi il Pd ha più carte in regola di altri, su di esso incombe una responsabilità maggiore, non tanto per sottrarsi a un discredito generalizzato, ma soprattutto perché è politicamente essenziale la ricostruzione dello spirito pubblico, sulla cui mancanza l’antipolitica costruisce le sue fortune. Ma nella società non vi è solo antipolitica. Dico da tempo che è cresciuta un’«altra politica», di cui si possono discutere forme e contenuti, ma che è un fatto vitale di cui il Pd dovrebbe prendere piena consapevolezza senza restare prigioniero della vecchia diffidenza verso il movimentismo, che si rivela sempre di più come una mossa conservatrice. Bersani ha avuto il grande merito di schierare il Pd a favore dei referen-
dum dell’anno scorso, pur conoscendo le resistenze diffuse e «autorevoli» esistenti nel suo partito. Quel successo non è stato capitalizzato (anzi permangono incredibili resistenze contro l’attuazione del risultato riguardante l’acqua), noncisièresicontochelìviera uno spunto di critica degli «assetti attuali del mondo» ed una manifestazione di quelle soggettività politiche che si stanno costruendo, e con le quali un partito rinnovato deve intrattenere un rapporto, sia pure fortemente dialettico. Un nuovo blocco di forze è necessario, gli antichi steccati devono essere abbattuti. Tornano antiche parole con forza rinnovata. Che cos’è l’eguaglianza nel tempo della disuguaglianza strutturale? Che cos’è la libertà nel tempo della tecnoscienza? Che cos’è la dignità nel tempo della riduzione a merce di lavoratore e lavoro? Che cos’è la solidarietà nel tempo della negazione del legame sociale? Quale antropologia della persona si sta costruendo? Domande che la politica deve rivolgere a se stessa, pena la sua irrilevanza.
Tutto questo mi porta a ribadire quel che dico da sempre sull’indispensabile ruolo dei partiti nello spirito dell’articolo 49 della Costituzione e sulla necessità di risorse pubbliche per la politica, perché questa non sia consegnata ad una forza del denaro sempre più prepotente. Una rinnovata legittimazione del finanziamento pubblico viene oggi proprio dalla pervasività della logica economica, che vuole sottomettere la politica anche attraverso la sua dipendenza solo dal capitale privato, che è cosa assai diversa dalla buona contribuzione dei cittadini. Di nuovo, però, questo non può significare arroccamento intorno al presente stato delle cose. Anche una fase di transizione esige una diversa visione del contributo pubblico (ne ha discusso assai bene Gaetano Azzariti sul «Manifesto»). Le rendite di posizione sono finite, tutte. E proprio qui il Pd deve fare le sue prove.

L’Unità 21.04.12

"Le ricevute buttate ultimo alibi di Formigoni", di Massimo Giannini

Nel labirinto di una «Vacanzopoli» nella quale si è cacciato con l´ambiguità delle parole e dalla quale non riesce ad uscire con la verità dei fatti, Roberto Formigoni azzarda l´ennesimo tentativo di chiudere il caso. Per la prima volta, abbozza qualche timida spiegazione, per giustificare l´ingiustificabile. Cioè la famosa vacanza di Capodanno del 2009 che, documenti contabili e istruttori alla mano, si sospetta gli sia stata pagata da uno storico amico del giro di Comunione e Liberazione: Pierangelo Daccò, faccendiere arrestato, e non incidentalmente vicino alle imprese sanitarie appaltatrici della Regione Lombardia.
Il governatore scrive una lettera al sito online della rivista «Tempi» diretta da un altro suo sodale di Cl, cioè Luigi Amicone. Interviene in una «zona sicura» e in qualche modo protetta, come ha imparato dal suo non più leader Berlusconi, abituato a trasmettere i suoi «messaggi speciali» attraverso i libri o il salotto di Bruno Vespa. Ma per la prima volta, ormai da una settimana esatta, Formigoni è costretto suo malgrado a compiere un passo, ad arrischiare un´autodifesa che vada oltre l´insulto «di classe», lo sberleffo arrogante, il puro, semplice e sdegnato diniego.
In questa novità c´è un aspetto di metodo, positivo, che va sottolineato. La lettera del Celeste è la conferma di quello che abbiamo sempre scritto e sostenuto: il potere, se incalzato dalla libera stampa con la realtà dei fatti, alla fine deve cedere alla logica ferrea dell´«accountability». Deve rassegnarsi all´idea che, persino in una democrazia di bassa qualità come la nostra, logorata e sfibrata dal populismo autocratico del Cavaliere, chi comanda e chi è eletto ha il dovere di rendere conto delle sue azioni ai cittadini e ai suoi elettori. È dura, per il «governatore di Dio», che costruisce con le sue esternazioni una personale via crucis, articolata in tre «stazioni».
LA PRIMA «STAZIONE»: LA VACANZA AD ANGUILLA
In questa novità c´è tuttavia un giudizio di merito, negativo, che non può essere sottaciuto. Cosa dice Formigoni nella sua «arringa»? «Nessun festino, nessuna occasione per tramare ai danni di chicchessia, nessuna riunione di affari», ribadisce il Celeste, rivolgendosi direttamente a Carla Vites, moglie di Antonio Simone, indagato e arrestato insieme a Daccò nell´inchiesta sulla sanità lombarda. La donna, di fronte alle smentite dello stesso Formigoni, lo ha accusato di aver perso la testa per il lusso, e di essersi fatto «travolgere dalla corte di Daccò» e di essersi fatto «coinvolgere in un turbine di vacanze e di serate a 5 stelle». Il governatore risponde parlando di una «montagna di diffamazioni e di fango», e annunciando una «serie di querele per diffamazione già in partenza».
Ma non è la rituale sequela di negazioni e di minacce che colpisce nella replica formigoniana. Interessa il «chiarimento», che il governatore pretende esaustivo e invece non lo è affatto, su quei due «viaggi di gruppo» a Parigi alla fine del 2009 e del 2010. Secondo le notizie dell´«Espresso» e i documenti della procura di Milano, quei due viaggi potrebbero nascondere un soggiorno da sogno nel resort più esclusivo del mondo, l´«Altamer» di Anguilla, nei Caraibi, interamente spesato da Daccò. In un primo momento, Formigoni aveva glissato: «Non ricordo dov´ero nel Capodanno 2009, dovrei controllare le mie agende». Poi aveva aggiunto: «In ogni caso le nostre sono sempre state vacanze di gruppo, un´abitudine comune a tutti gli italiani: poi si ritorna e si fanno le compensazioni».
Ora, nella lettera a «Tempi», il governatore aggiorna la sua versione. È costretto a farlo, perchè nel frattempo dai verbali dell´inchiesta sono usciti gli estratti conto di Daccò. Emergono due biglietti Air France per Parigi emessi il 27 dicembre 2008, intestati a Formigoni e al suo collaboratore Alberto Perego, da 4.080 euro ciascuno. E poi una ricevuta da 9.637 dollari, pari a 7.180 euro, datata 9 gennaio 2009, a saldo di un soggiorno presso l´«Altamer Resort» di Anguilla. Non è una prova, ma certo è un indizio. Basta a Formigoni per aggiustare il tiro, rispetto alle sue prime versioni: «Le spese delle carte di credito di Daccò sono elevate, perché si riferiscono a conti collettivi. E se ci sono biglietti aerei e una settimana di vacanza alle Antille con cifre importanti, scusate tanto, non sono Brad Pitt, ma me le posso pagare, me le sono pagate con il mio stipendio». Dunque, le sorprese sono almeno due. La prima: il governatore parla di «una settimana di vacanza alle Antille». Nei giorni scorsi non ricordava, o ricordava vagamente un «capodanno a Parigi». Ora è costretto ad ammettere che c´è stato il soggiorno ad Anguilla. È una crepa enorme, nel primo muro difensivo costruito dal Celeste. Aveva respinto ogni addebito («Sono pulito come acqua di fonte»). Aveva insultato il giornalista che gli chiedeva conto delle sue contraddizioni («un uomo triste, sfigato e malinconico»). Aveva chiamato in causa Gesù («Anche lui ha sbagliato a scegliere uno dei suoi collaboratori»). Ora riconosce che quel viaggio alle Antille c´è stato. Si può ipotizzare, a questo punto, che Parigi fosse solo uno scalo intermedio, prima del lungo volo verso i Caraibi.

LA SECONDA «STAZIONE»: «LE VACANZE ME LE SONO PAGATE»
Ma come spesso succede in questi casi, avventurandosi con reticenza nella spiegazione di ciò che appare inspiegabile, Formigoni finisce per ingarbugliare ulteriormente le carte. Dice, a «Tempi», che le vacanze alle Antille «me le sono pagate col mio stipendio». Ma qui, di nuovo, fanno fede le ricevute delle spese sostenute da Daccò. Oltre al saldo da 9.637 dollari (7.108 euro) versato all´«Altamer Resort», il 6 gennaio l´«amico Piero» ha pagato con la sua carta di credito un conto da 984 euro allo «Straw Hat Restaurant», il 7 e il 9 gennaio ha sborsato 1.575 euro e 1.206 euro al «Mallihouana Service», l´8 gennaio ha pagato da 1.490 euro al «Cap Juluca Hotel», e sempre il 9 altri 971 euro al «Cuisinart Resort&Spa». In tutto, 6.226 euro di ristoranti e intrattenimenti vari, che si sommano ai 7.180 euro dell´«Altamer Resort». Il totale fa 13.406 euro. Difficile immaginare che Daccò li abbia spesi tutti per sé, e non invece a beneficio del «gruppo» che viaggiava con lui, e che (verosimilmente) lui ospitava.
L´incongruenza permane, e semmai si fa ancora più netta. Ma proprio il persistere di questa incongruenza dà conto del comportamento contraddittorio di Formigoni, subito dopo l´esplosione della sua «Vacanzopoli». Alla luce di quanto accade, e di quanto il Celeste dice o non dice, si capisce perché quel Capodanno doveva essere coperto da un «non ricordo». Perché dietro Parigi c´era Anguilla. E cosa c´era dietro l´una e l´altra? Perché quel primo, goffo tentativo di nascondere la seconda dietro la prima? Cosa c´è che non si può dire e non si deve sapere, dietro quel viaggio a Parigi e quella vacanza ai Caraibi? Forse che erano state pagate entrambe da Daccò?

LA TERZA «STAZIONE»: LE «RICEVUTE LE HO BUTTATE»
Il Celeste avrebbe un modo, semplicissimo, per uscire dal suo labirinto. Esibire le prove documentali di ciò che afferma, cioè che le vacanze le ha pagate lui. Ma su questo, ancora una volta, fallisce. Nella lettera a «Tempi» scrive: «Le ricevute dei rimborsi delle spese anticipate da Daccò? Non le ho tenute, le ho buttate; scusate, è un reato? Esiste una legge che fa obbligo di tenere gli scontrini dei viaggi se questi viaggi non sono per lavoro, non vengono scaricati sulla regione e rientrano negli affari del privato cittadini?».
L´obiezione regge nella forma. Nessuna persona normale, a distanza di anni, conserverebbe la documentazione di viaggio delle sue vacanze. Ma non regge nella sostanza. Intanto, non è in gioco una questione di privacy. E poi, nessuno pretende che il Celeste esibisca gli scontrini e le ricevute di quei viaggi, per dimostrare che pagava lui e non altri. Ma se davvero volesse e potesse fugare ogni dubbio, avrebbe a portata di mano una soluzione semplicissima. Basterebbe richiedere una distinta alla banca, dalla quale sarebbe facilissimo verificare se alla vigilia di quel viaggio il governatore ha movimentato denaro per sostenerne le spese, o se prima, durante o dopo la vacanza ha pagato o rimborsato con assegni o carte di credito tutto ciò che quel viaggio ha comportato, in termini di costo.
Perché non fa questo, signor presidente? Forse perché non può? «Non giudicate le mie camicie, ma i miei atti di governo», conclude Formigoni nella sua lettera. È proprio questo il punto. Esigere una risposta alle domande inevase sulla sua «Vacanzopoli» non è pruderie forcaiola, non è «demagogia stercoraria», non è spiare come spendono il proprio tempo e i propri soldi i ricchi e i potenti di questa «classe dirigente» italiana plasmata dall´arroganza cafona del quasi ventennio berlusconiano. Quello che Formigoni non capisce (e con lui molti disinvolti «ideologi della libertà», pronti a confondere ogni volta la difesa delle regole con il «moralismo») è che lui può andare in vacanza con chi vuole, può passare i Capodanni dove vuole, può pagare quanto e come vuole. Ma non può lasciare che aleggi il sospetto che i suoi viaggi e le sue vacanze siano pagate non da un amico qualsiasi, ma proprio da «quell´amico», che lavora con e per le imprese appaltatrici della Regione Lombardia. Perché in questo caso, anche se non dal punto di vista penale, almeno dal punto di vista fattuale quella che Formigoni chiama la «compensazione» si può rivelare, molto più prosaicamente, una forma di corruzione.
Per questo il governatore deve rendere conto. E deve ancora fornire tutte le risposte che mancano. È la fatica della democrazia, e l´etica della responsabilità. La stessa che ha spinto la ministra inglese Jacqui Smith a dimettersi per aver pagato con 32 sterline di denaro pubblico un dvd pornografico affittato dal marito. La stessa che ha costretto il presidente tedesco Christian Wulff a rassegnare il mandato per aver ottenuto un prestito a tasso troppo agevolato. Non c´è democrazia senza verità. O si è in grado di garantirla, o ci si dimette. Per questo l´opinione pubblica e i giornali hanno il diritto di pretendere da Formigoni una versione chiara e credibile, su ciò che è realmente accaduto in quei due capodanni.

La Repubblica 21.04.12

"Donne, denuncia Cgil: lavorano la terra con paghe più basse", di Jolanda Buffalini

Donne che lavorano in un mondo di uomini è il quadro che emerge dalla ricerca commissionata dalla Flai-Cgil (federazione del lavoro agro-alimentare) alla fondazione Metes per l’ Assemblea annuale delledonne in agricoltura che si è svolta ieri negli Studios di Cinecittà, ricerca coordinata da Irene Figà Talamanca (Roma-La Sapienza). È un segmento piccolo del mondo del lavoro, circa il 5 per cento con 250mila addette su nove milioni di donne che lavorano. Dove si concentrano, però, molti problemi: dal fenomeno del caporalato, alla condizione delle donne spesso invisibili e sottoposte allo stress del doppio lavoro. È la fotografia di un mondo rurale in cui spesso non c’è consapevolezza dei rischi, non si usano le mascherine e i guanti per difendersi dagli antiparassitari, con conseguenze gravi sulla fecondità, sull’aumento degli aborti spontanei, sulle malformazioni dei bambini che, spesso, sono sottopeso alla nascita. Un quadroalla “Novecento” di Bernardo Bertolucci che contrasta con le potenzialità che il settore dovrebbe avere. «Sappiamo da numerosi studi – dice Stefania Crogi segretario della Flai – che se cresce l’occupazione femminile cresce il Pil, ma perché questo avvenga bisogna creare condizioni di pari opportunità e anche puntare sulla sicurezza, mentre manca persino la conoscenza statistica degli effetti del lavoro nei campi o nell’industria per le donne, poiché le ricerche sono tarate sul lavoro maschile e non sulla differenza di genere». Invece, per restare agli antiparassitari, è provato, dice la ricerca Metes, che vi sono sostanze anticrittogamiche che aggrediscono le donne (per la maggiore quantità di tessuto adiposo) più degli uomini e che, spiega Stefania Crogi, «hanno effetto anche sulla condizione psicofisica, sono causa di depressione ». L’agricoltura è potenzialmente un mondo in crescita, per l’appeal del made in Italy alimentare, per lo sviluppo della ricerca nei prodotti biologici, per il diffondersi di una cultura e attenzione che guarda alla qualità ambientale, a quella della vita e alla qualità dei cibi. La realtà è drammaticamente opposta, l’agricoltura italiana – dice la ricerca della Fondazione Metes – «si è senilizzata, la quota delle donne con meno di 35 anni è inferiore a quella delle ultra sessantacinquenni ». Spiega Stefania Crogi: «Non c’è attenzione alle conseguenze sull’apparato muscolo-scheletrico per l’eccessivo carico dei pesi»,comeavviene nell’industria della macellazione. Oppure, continua il segretario generale Flai, «agli effetti dell’umidità sulle mani, in un lavoro tipicamente femminile come quello della messa a dimora delle piantine nelle aziende florovivaistiche, sistemate dalle mani più piccole e più precise delle donne, che in poco tempo si rovinano per l’artrite». Nell’industria, dove le donne sono il 40 % (nei campi non raggiungono il 30), la situazione nonè migliore: la ricerca ha studiato le condizioni di lavoro in due macelli dove i rischi per la salute (il lavoro manuale è ancora prevalente) causati dalla movimentazione di carichi pesanti e dall’uso di utensili taglienti. Un altro dato: la Calabria è la regione più agricola e con un numero elevato di donne impegnate nel settore, eppure è anche quella in cui si denunciano meno infortuni sul lavoro. L’obiettivo della Assemblea è, spiega Stefania Crogi, di puntare «su prevenzione e formazione, oltre che sui diritti e sulla difesa dell’articolo 18. Qui la precarietà è altisima e le donne guadagnano meno degli uomini, anche se naturalmente ciò non è scritto sui contratti».

L’Unità 21.04.12

"Un nuovo ruolo per le donne in politica", di Mirella Gramaglia

Che fine hanno fatto – si chiede Gian Enrico Rusconi su La Stampa di ieri – i movimenti che hanno infiammato l’Italia nella stagione calante del berlusconismo, e in particolare «Se non ora quando?», l’ultimo in ordine di tempo, ma forse il più brillante testimone di un Paese che si trasforma e si ribella? Quando la società civile smorza la sua voce – ammonisce Rusconi – i leader vocianti dell’antipolitica prendono il sopravvento.

Berlusconi era un avversario molto comodo. Semplificava e induceva a semplificare. Bastava essere contro di lui per sentirsi nel giusto e fra i giusti. In particolare la parabola dei suoi comportamenti in materia di etica e di stile, l’improvvido miscuglio fra occasioni del potere ed esibizione dei suoi capricci, lo ha sospinto sempre più in basso. Ancora pochi mesi fa danzavamo sull’orlo del baratro della crisi economica fra «olgettine» e feste eleganti. Lorella Zanardo, con il suo bel documentario, «Il corpo delle donne», aveva capito fin dal maggio 2009 che qualcosa si era spezzato nel rapporto civile fra l’Italia, i suoi mezzi di comunicazione di massa e le cittadine.

E nel 2011, prima e dopo l’immensa manifestazione delle donne del 13 febbraio, nei talk show che hanno sostituito il discorso pubblico per mesi non si è parlato d’altro. Faceva anche audience, come sempre quando si affaccia il sesso e per sua natura crea disordine. Da tutto questo è venuta una nuova idea della dignità femminile? Non credo. Semplicemente una tregua. Tasse, denaro, disoccupazione, pensioni, premono assai di più. «Se non ora quando?» ha avuto fiducia nel governo Monti, forse anche troppa. Sembrava un sogno che le ministre fossero vere, competenti, autorevoli, che si parlasse di donne come se ne parla nell’Europa civile e non al Bar Sport. Il primo decreto del governo Monti ha mandato un segnale chiarissimo.

La parità fra i sessi non è una conquista, ma un sacrificio: l’aumento dell’età pensionabile delle lavoratrici. Ma si poteva accettare. La speranza del movimento erano i diritti delle giovani donne. Solo il trentasei per cento delle disoccupate ha perso un precedente lavoro e può accedere agli ammortizzatori sociali, per tutte le altre, che sono in cerca di prima occupazione o tornano sul mercato del lavoro dopo una maternità, doveva cambiare qualcosa. La promessa della flexsecurity avrebbe potuto ridisegnare i loro diritti, rendere sopportabile l’instabilità del lavoro. Invece, con l’eccezione della misura contro le dimissioni in bianco, un piccolo pugno di mosche: un weekend lungo per i congedi di paternità obbligatori e qualche vaucher per le baby sitter. Di qui la delusione, il consenso freddo, la fine dell’affidamento. Dunque si torna alla politica. Non all’antipolitica. Ma come?

Gli italiani che si apprestano a non votare sono un’enormità, più della popolazione del Piemonte e della Toscana messe insieme. Ma sono più donne che uomini: cinque milioni le prime, tre milioni e ottocentomila i secondi. Nella loro bolla che levita distante dalla realtà i partiti non sembrano rendersene conto. Inevitabilmente nuove formazioni saranno in campo: è auspicabile, non temibile. Tra queste è pensabile una lista delle donne che hanno animato il movimento negli ultimi anni? La parola d’ordine della trasversalità, oltre la destra e la sinistra, che ha caratterizzato Se non ora quando? Non rende facile definire un programma comune. Molte preferirebbero altro: una rivoluzione dei partiti per portare in Parlamento una percentuale di donne che con la sua forza d’urto cambi stile, etica, priorità degli eletti. Già, ma quali? Non sono mancati – e hanno fatto rumore – i personaggi desolanti. Ci vorrebbe un bollino di qualità per battezzare, con un marchio che dia loro valore, le tante giovani capaci che hanno la bella ambizione di misurarsi sulla scena pubblica.

Non lasciarle scegliere ai capi partito per i quali, soprattutto se questa resterà la legge elettorale, l’obbedienza è l’unica piccola virtù che conta. Ci vorrebbe un comitato di sagge, di garanzia, di promozione e di messa a punto di valori minimi condivisi, fatto di madri e di figlie della patria ben decise a star fuori dalla mischia e fare da allenatrici e levatrici per le altre. Perché competano, libere e non sole, nelle diverse liste. Un modello che non ha nulla di antipolitico, ma che non si arrende ai partiti perché nessuno crede più che possano davvero selezionare la classe dirigente. Un modello che potrebbe essere interessante anche per i referendari e per i movimenti giovanili.

La Stampa 21.04.12

"I capibranco della politica", di Curzio Maltese

I capi dei babbuini, con i quali condividiamo il 98 per cento di patrimonio genetico, rimangono tali anche quando non sono più di alcun aiuto agli altri babbuini. Robert Sapolsky, genio californiano della biologia, descrive così il comportamento di un capobranco: «Solomon era ormai anziano e riposava sugli alberi, continuando a sfruttare la sua straordinaria capacità d´intimidazione psicologica. Da circa un anno non affrontava più un combattimento. Si limitava a guardare sdegnosamente il potenziale avversario, faceva qualche giro minaccioso lì intorno. O al massimo s´arrampicava su un albero e la cosa finiva lì. Erano tutti terrorizzati da lui». L´arte recitativa dei capi babbuini più esperti arriva a ingannare il branco in altri raffinati modi, per esempio nella ricerca del cibo. Se lo trova, non lo segnala agli altri, ma finge di continuare la ricerca, per poi tornare al boccone e divorarlo da solo.
Nella sua bellissima Anti storia d´Italia il grande intellettuale triestino Fabio Cusin, di formazione azionista, individua il modello della politica italiana nella signoria quattrocentesca, con un padrone assoluto circondato da una corte servile.
Ora, se incrociamo gli studi sui primati e l´intuizione di Cusin, abbiamo una fotografia esatta della politica e anche dell´antipolitica italiana. Dal punto di vista della struttura padronale di partiti e movimenti, politica e antipolitica sono infatti la stessa cosa. Semmai nell´antipolitica, la struttura proprietaria e assolutista è ancora più accentuata.
Si discute da decenni sulla crisi dei partiti, qualcuno vuole distruggerli e per farlo di solito è «costretto» ad aggiungerne un altro alla lista. Ma la verità è che i partiti in Italia non esistono più. Tranne uno, il Pd, che ricorda gli altri partiti occidentali. Almeno non ha un leader a vita, che sarebbe una cosa normale in democrazia, ma viene considerato un segno di debolezza. Per il resto la politica è fatta da una dozzina di oligarchi che dispongono delle risorse economiche di movimenti ormai designati col loro cognome e decidono tutto, dalle liste dei parlamentari in giù, senza dover consultare alcun organismo collegiale. Berlusconi ha nominato cavaliere lo scudiero Alfano come si faceva appunto nelle corti del Quattrocento, ma continua a essere il vero padrone del Pdl ed è capace di far saltare i vertici di maggioranza se soltanto si sfiorano i privilegi del suo regno televisivo. La Lega non è riuscita a fare a meno di un Bossi menomato dalla malattia e ora, dopo gli scandali che hanno toccato la famiglia stessa del capo, è costretta a fingere che Bossi non sapesse nulla di quanto gli accadeva intorno e a un palmo di naso. Il centro è pure composto da tre signorie personali, quelle di Casini, Fini e Rutelli. A sinistra Sel non esiste senza Nichi Vendola, dominus assoluto dei neo libertari. Quanto ai libertari storici, i radicali, sono sempre stati una lista con nome e cognome, prima Marco Pannella e poi Emma Bonino, circondati da un cerchio magico dove l´obbedienza contava assai più del merito. Salvo che più di un fedelissimo è andato poi a servire padroni più solvibili.
A noi italiani, si vede, piace così. Il tratto disperante è infatti che i paladini dell´antipolitica, i cosiddetti rinnovatori, ripetono alla lettera lo schema del partito padronale berlusconiano. Antonio Di Pietro per anni ha gestito i fondi dell´Idv attraverso una società a conduzione familiare, affidata alla moglie e a un´amica di famiglia, e non ha resistito alla tentazione di piazzare il figlio Cristiano nel consiglio regionale del Molise. Beppe Grillo ha addirittura perfezionato lo schema di Berlusconi. Se il Cavaliere ha trasformato l´azienda in partito, Grillo ha fondato un partito e ci ha costruito sopra un´impresa. Non ha neppure bisogno dei finanziamenti pubblici, perché i militanti portano direttamente i soldi al capo, comprano tutto da lui, dai gadget del movimento ai comizi sotto forma di video, libro o show dal vivo. Non a tutti i grillini il sistema piace, ma i dissidenti vengono espulsi al volo dal capo, senza neppure convocare una finta riunione. Basta proibire l´uso del simbolo, che è registrato come proprietà personale ed è tutelato da stormi di avvocati.
Si può obiettare che il personalismo e il liderismo sono fenomeni mondiali, ma l´argomento è piuttosto debole. In nessun paese d´Europa i partiti si sono trasformati in riserva personale di un papa re nominato a vita, neppure in presenza di leader molto popolari e di grande levatura intellettuale, protagonisti a volte di imprese storiche. Negli Stati Uniti i partiti sono assai più leggeri nella struttura, in pratica comitati elettorale, ma sono in ogni caso loro a selezionare il leader e non viceversa.
Il risultato è che in Italia il capo ha sempre ragione, anche quando cambia idee e alleati come vestiti. Ogni contraddizione politica e personale, comportamento poco trasparente o intollerante e finanche dispotico, viene giustificato dai fedeli in nome della missione superiore di cui il signore è investito. I vizi privati e il conflitto d´interessi di Berlusconi sono parsi sempre agli elettori del centrodestra peccati veniali, rispetto al compito immane di salvare l´Italia dal comunismo dei soviet (pericolo assai attuale) e le tasche dei cittadini dalla pressione fiscale. Il familismo di Bossi era poca cosa al cospetto della Padania libera e del federalismo magico. Altrettanto vale, sull´altro fronte, per il familismo di Di Pietro. Non importa poi molto ai seguaci della destra se con i governi Berlusconi la pressione fiscale è cresciuta e il federalismo si è rivelato una bufala. Nemmeno interessa agli antiberlusconiani dell´Idv se Di Pietro ha contribuito a far vivere il governo dell´odiato tiranno un anno in più, grazie ai suoi ex fidatissimi amici e collaboratori Scilipoti e Razzi, e se a mandare a casa il Cavaliere nei fatti è stato l´uomo che il loro leader aveva dipinto per anni come un collaborazionista di regime, un pavido complice del berlusconismo, il presidente Napolitano.
I seguaci non si sentono mai traditi, anzi reagiscono con rabbia e insulti a chi soltanto osa avanzare qualche dubbio sulle qualità del capo. Da leader incompetenti e inetti, i seguaci non si aspettano che risolvano davvero i problemi, ma soltanto che appaghino un bisogno disperato di certezze e di semplificazione. In questo, va detto, sono tutti bravissimi. La capacità si semplificare i problemi è la loro unica autentica competenza.
Nessuno dei seguaci è sfiorato dall´idea che il fattore principale della spaventosa corruzione della seconda repubblica risieda proprio nella natura padronale dei nuovi partiti. Dalle grandi signorie nazionali a quelle locali, come dimostra il disastro morale del ventennale sistema di potere in Lombardia, pure riconducibile a un nome e cognome, Roberto Formigoni. Così per combattere le vecchie signorie in declino se ne creano di nuove, ancora più assolutiste. Ma se siamo arrivati a questo punto, sarà colpa dei cattivi leader o dei cattivi seguaci? A un loggionista che disturbava lo spettacolo con fischi e schiamazzi, il grande Ettore Petrolini disse: «Non ce l´ho con te, ma con quello vicino che non t´ha ancora buttato di sotto».

La Repubblica 21.04.12

"Un clown smarrito", di Natalia Aspesi

Si sa le donne, per loro natura, sono esibizioniste! Lo dice con ammiccante bonomia quel nostro ex presidente, che questa virtù o difetto femminile apprezzava. E tuttora apprezza, da buon babbo generoso. Se tutte sono esibizioniste, comprese le donne sigillate nel chador, che a levarglielo chissà cosa fanno, tanto vale che a esprimere questa loro insopprimibile natura siano delle fanciulle, belle, anche minorenni, basta che siano contente loro, benedetta gioventù! Silvio Berlusconi arriva al processo che lo vede accusato di concussione e prostituzione minorile, allegro, signorile, pronto a raccontare la stessa cosa che si racconta da mesi e mesi, pure al processo, riconducendo quel tragico bunga-bunga che aveva cancellato la sua dignità di ultrasettantenne e la nostra di italiani, a un´opera buona, a uno spettacolino da oratorio, a un gioco tra birichine che, pur sognando una vita di massima castità, forse ancora vergini, non riuscivano a sopprimere questa loro vivace natura tutta femminile che suggeriva di scuotere il bel seno nudo e di frullare le altrettanto belle natiche soprattutto davanti agli uomini, meglio ancora se sotto il naso di uno solo, per puro caso forse arrappato, certo non indigente. Nessuno, tanto meno il vivace vecchio, ha spiegato come mai un primo ministro di una nazione in gravissime difficoltà, alle sue cene «assolutamente eleganti» (Tovaglie di bisso? Posate di vermeil? Quartetto vivaldiano? Minestrina col dado, ottima per gli anziani?) non invitasse segretari di partito, capi di stato europei, vescovi anche africani, banchieri, filosofi, ecc.: ma solo legioni di signorine molto festose. Che certo contribuivano a distrarlo dalla sua difficile missione, ma di sicuro non a fargli capire meglio il pozzo in cui il paese stava precipitando. Ma poi, basta inutili moralismi! Le giovani esibizioniste in quanto donne, si erano tutte innamorate di uno spettacolo inesistente in Italia, ed esclusivamente americano: il vecchio burlesque, uno spettacolo comico tenuto solitamente da ciccione o da travestiti, di cui lo stesso B deve aver sentito parlare solo qualche giorno fa, su suggerimento di qualche bravo avvocato mattacchione. La parola da evitare era «spogliarello» inadatto a fanciulleschi travestimenti da poliziotto o suora, o con toilette regalate dall´allora vivace amico Gheddafi, finito che peggio non si può. Spogliarello, o streep-tease, sono definizioni che avvicinano al porno, connotazione che certo B aborre. Le vivaci ragazze dopo le cene conventuali ed eleganti, con sei camerieri, musicisti, e talvolta anche parenti, come ricorda bonario il padrone di casa in tribunale, scendevano in quel tipo di cantina-discoteca di tante case fintamente ricche e lui qualche volta, per non deluderle, le raggiungeva. E lì le ragazze esibizioniste per natura, si esibivano tra loro, come bambine! Così si racconta contento Silvio Berlusconi nei corridoi del Tribunale di Milano, senza vergogna, senza verità, senza pentimento, favoleggiando ancora, dopo tanti disastri su una vita tutta impegnata a salvare l´Italia e anche queste ragazze bisognose di aiuto, come la bellissima minorenne Ruby, una vera Cosetta dei Miserabili, cacciata di casa, e da lui strappata al torbido futuro di prostituta, senza chiederle nulla in cambio, senza darle un soldo. Anche qui ci si chiede come sul suo cammino di premier, tra guardie del corpo e folla plaudente e strette di mano a colleghi di prestigio mondiale, si trovasse sempre una fanciulla povera e sola, ma molto appetibile, da salvare, da beneficiare: una fanciulla, molte fanciulle, decine di fanciulle, un´autostrada di fanciulle. Spinte verso di lui da torbidi giovanotti definiti da qualcuno ricattatori e prosseneti. Tante da riempire uno di quei suoi tavoli enormi fotografati a Natale con decine di parenti annoiati e briciole di panettone sulla tovaglia di damasco rosso cardinalizio. Al processo qualcuna di queste ragazze parla, la dignità le ha risvegliate. Ma tutte le altre? Si commuove cuor d´oro, povere cenerentole «hanno avuto il solo torto di accettare un invito a cena da me». Già, perché l´hanno accettato? A quale persona giovane verrebbe in mente di passare una serata così noiosa, in un palazzone sconosciuto in cui potrebbero nascondersi degli orchi, e nessun coetaneo maschio con cui divertirsi, senza l´obbligo di divertire con immensa fatica, un vecchio barzellettiere con un pessimo gusto per le canzoni? Però sia chiaro, il loro gentile, affettuoso protettore non sta pagando il silenzio di molte: lui le mantiene «perché hanno avuto la vita rovinata da questo processo, perdendo fidanzati, lavoro (?) e forse non troveranno più né uno né l´altro, e i genitori vergognosi che hanno dovuto chiudere l´esercizio commerciale…». Pareva che non dovessimo vergognarci più, che certe storie grevi fossero già velocemente cancellate, un passato da dimenticare. Una giornata come quella di ieri, in tribunale è stato lo spettacolo doloroso di un clown del tutto smarrito.

La Repubblica 21.04.12

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“In quelle cene niente sesso, solo burlesque” lo show di Berlusconi a palazzo di giustizia, di Piero Colaprico

E sui travestimenti delle olgettine: “Le donne per natura sono esibizioniste”. A sorpresa il Cavaliere si presenta in aula e racconta ai cronisti la sua verità
“Quella notte chiesi un´informazione, se non l´avessi fatto sarei venuto meno a un mio dovere”. Quello che arriva ieri, a sorpresa, al Palazzo di giustizia, ad ascoltare i poliziotti interrogati, è il Silvio Berlusconi sempre capace di navigare a vista. È l´antico «papi» che dopo Noemi Letizia riesce a cambiare versione e a non rispondere alle domande. In onore del processo imperniato su Ruby Rubacuori, organizza il primo grande show mediatico-giudiziario della sua carriera. Bisogna fare attenzione alle battute, non sono tutte innocue, o ingenue, o allegre.
«Vi faccio una battuta che ho sentito: “Quando uno ha una barca non deve preoccuparsi di quanto costa l´equipaggio”». Se ne va così, Berlusconi, dopo aver rilanciato la sua liberalità senza secondi fini: «Sì, pago ancora oggi le ragazze delle feste. Lo faccio perché sono state rovinate dalla procura, non trovano lavoro, nemmeno il fidanzato, i genitori di una hanno chiuso il negozio. Ogni mese mando il bonifico». A chi? «A tutte, a quasi tutte». Paga tutte? «Non pago, ma aiuto». Ma queste sono testimoni, possono scattare accuse gravi: «Aiuto chi è in difficoltà, aprano tutti i fascicoli che vogliono, la realtà è questa».
La «realtà»? Quella di Silvio Berlusconi, la realtà parallela. E qui non siamo nei romanzi di Murakami o di Dick, siamo fuori da un´aula giudiziaria. Non sarà sfuggito ai lettori di Repubblica che nell´udienza precedente alcune ragazze, come Imane Fadil e Melania Tumini, hanno fatto una descrizione triste e porno di quelle «cene eleganti». Non va bene a Berlusconi e ai suoi addetti stampa, serve dunque lo show del protagonista assoluto: «A sentire alcune dichiarazioni delle invitate alle feste, sono rimasto stupito. Sembrano tutte uguali, come se siano state imbeccate da qualcuno». In verità, nessuna si conosceva «prima», né si è frequentata «dopo» le indagini, ma che importa a Berlusconi. «Le mie – ripete – erano cene assolutamente eleganti, nessuna situazione che fosse meno che corretta, in una sala da pranzo con sei camerieri. Dopo cena qualche volta si scendeva al piano di sotto, dove andavano a ballare le ospiti. Si era stabilita un´atmosfera di divertimento, di “gioiosità”. È vero facevano delle gare di… come si chiama adesso… di burlesque. Le donne sono di loro natura esibizioniste, quelle di spettacolo ancora di più. No, io non facevo il giudice, guardavo molto interessato e continuerò a farlo. Per ora non le faccio più, queste feste, con tutto quello che mi è successo, ma riprenderò».
Dalle «serate in cui si beveva e si parlava», e basta – e questa era la versione buona per i «promotori della libertà» – si è dunque arrivati a un cambiamento inevitabile: il «burlesque». La «narrazione» di Berlusconi fila come un surf sulle onde delle realtà parallele: «Sì, si travestivano da poliziotte, da Babbo Natale, vero, vero, ma da Ronaldinho non ricordo». Sarà una coincidenza, ma chi s´è travestita così? Iris Berardi, e cioè un´altra delle pochissime che si è costituita parte civile.
«No no, da suora no», è questo che tiene a precisare del burlesque casalingo l´ex premier. Sarebbe un guaio totale, perciò nella versione di Silvio, quelle indossate da Nicole Minetti e Barbara Faggioli nei loro strip non hanno nulla a che vedere con le pie vesti, ma con la Libia: «Erano abiti che mi aveva regalato Gheddafi, c´era stata a Tripoli una fiera, ho detto “belli”, me ne mandati 60 in un container. Niente croci, ma va, erano smeraldi, diamanti, su vestiti neri».
Diventa difficile sottrarsi al clima di «cazzeggio» (non esiste sinonimo) che l´ex premier gestisce con un´abilità da intrattenitore, ma le domande serie cascano senza avere risposte serie. E restano tanti dubbi, forse anche nei fedelissimi: ma come può un uomo navigato come lui aver creduto a Ruby? A una «scappata di casa» che gli avrebbe detto di essere nipote di Mubarak: «Ma io – rilancia Berlusconi – ne ho parlato con Mubarak», esclama seriamente. E narra: «Ruby a noi aveva fatto vedere un video con quella che diceva di essere la madre, una cantante. E ne avevo parlato con Mubarak, che conosceva benissimo questa signora, cantante. Ma non sapeva che avesse una figlia, e che questa figlia fosse stata buttata fuori, non lo sapeva. E me l´ha detto lui, sì, a una cena a Roma, ci sono dieci testimoni. Cioè, c´è stato un equivoco sulle mamme».
Di equivoco in leggerezza si va avanti a strappi, perché è sempre Ruby che «ci ha messo in scena una fiction, molto commovente». È dunque Ruby la circe ingannatrice, con la balla della «ragazza che viene cacciata perché si è convertita al cristianesimo», e voleva essere aiutata «con 57mila euro, che le servivano per il centro estetico». Se questo l´aveva già detto, la novità è un´altra: non ha chiesto il rilascio della «nipote di Mubarak», ci mancherebbe. «Io ho chiesto solo un´informazione». Una doverosa informazione: «Se non avessi telefonato sarei venuto meno a un mio preciso dovere», e cioè aiutare i poliziotti a valutare la situazione della ragazza fermata. La Minetti? L´avevo mandata per aiutare nell´identificazione della ragazza. La brasiliana che mi chiama? No, non ricordo».
Quello che si ricorda di dire è che ieri, «dall´interrogatorio, molto puntuale» dei poliziotti mattina e pomeriggio, è emersa «la più totale regolarità», perché nel reality-show berlusconiano non c´è altro che l´assoluzione come premio. E, nonostante tutto quello che si è saputo, l´importante è restare «machi»: «Mai avuto bisogno di pagare una donna per fare del sesso, perché, se no, che gusto c´è?». No, non è questo il centro del processo, ma questo è il cuore dei problemi che hanno portato Berlusconi a processo: chi, a parte l´ex moglie Veronica, può osare dirglielo?

La Repubblica 21.04.12

"I sospetti sul cambio di passo", di Federico Geremicca

A scorrere i quotidiani dell’ultimo paio di giorni – e di fronte a notizie e annunci roboanti che datano appena a ieri – la prima e frettolosa impressione potrebbe indurre a pensare che la tanto sbandierata crisi dei partiti politici (e della politica più in generale) sia un’invenzione dei giornali. A elettori e militanti, infatti, vengono annunciati gestazioni e battesimi di nuovi partiti, scissioni parlamentari per la creazione dell’ennesimo movimento e – addirittura – «la più grossa novità della politica italiana» (Alfano: ma bisognerà aspettare un paio di settimane…). Un ribollire di fondazioni e riorganizzazioni, insomma, che starebbero lì a testimoniare un invidiabile stato di salute ed un rinnovato spirito di riscossa. In realtà, quel che muove e anima queste iniziative – il nuovo partito di Casini, l’insofferenza di Beppe Pisanu, l’annuncio di «grosse novità» fatto dal segretario del Pdl – è proprio la crisi che ha investito il sistema politico.

Un sistema che all’ombra del governo tecnico di Mario Monti prova adesso a ristrutturarsi, a rigenerarsi e a cambiar pelle, quando possibile. Si tratta non solo di iniziative del tutto legittime, naturalmente: ma perfino di novità auspicabili, e infatti fino a ieri richieste a gran voce. Con qualche prudente avvertenza, però. Questo per ora confuso moltiplicarsi di iniziative – alle quali va aggiunto l’entusiasmo che comincia ad animare il Pd di fronte alla possibile vittoria di François Hollande sembra infatti segnare quel che un tempo si sarebbe definito un cambio di passo nell’azione e nei progetti di molte forze politiche. Più o meno d’improvviso – e nel cuore di un «inverno politico» che sembra non finire – è come se avessero cominciato a prepararsi. Ma – ecco il primo punto – prepararsi a cosa? È qualche giorno che vanno moltiplicandosi voci e ipotesi di uno scioglimento anticipato delle Camere, così da portare il Paese al voto in autunno.

Secondo alcuni, un simile progetto accomunerebbe Pdl e Pd, sfiancati dai colpi dell’antipolitica e sempre più insofferenti alla presenza del governo dei tecnici; secondo altri, invece, l’idea non sarebbe del tutto sgradita allo stesso Monti che, di fronte all’accentuarsi del nervosismo della sua maggioranza (e alle conseguenti difficoltà nell’azione di governo) non ostacolerebbe il ricorso alle urne e il ritorno a governi di natura squisitamente politica. Palazzo Chigi non ha mai confermato tale interpretazione (che avrebbe, per altro, il sapore di una resa nel pieno della battaglia); e il Quirinale – discreto protagonista nelle vicende degli ultimi mesi – non smette di auspicare che la legislatura compia il suo corso. Dunque, salvo clamorose smentite nei giorni a venire, non è né a Mario Monti né a Giorgio Napolitano che può esser fatta risalire l’idea di uno scioglimento anticipato delle Camere. Resta il terzo possibile attore di un’ipotetica crisi: e cioè i partiti che sostengono il governo.

Sono loro a volere davvero il voto in autunno? E per tornare al punto di partenza – è questo supposto progetto ad aver determinato il fiorire di iniziative e il citato cambio di passo? Difficile dirlo. Ma in ogni caso, per una volta, sia concesso di guardare senza pregiudizi alle iniziative che vanno mettendo in campo. Riorganizzino idee e uomini, ricalibrino progetti, riformino quel che c’è da riformare, e i cittadini non potranno che apprezzare. La condizione (meglio: l’auspicio) è che questa effervescenza non rallenti o addirittura pregiudichi, però, il cammino del governo in una fase in cui conta certo la qualità delle scelte da fare, ma anche – se non soprattutto – la rapidità con la quale esse si trasformano in fatto concreto, in azione. Se non è questa l’intenzione dei partiti che cambiano passo e si preparano a chissà cosa, tanto meglio.

Del resto, andare alle urne in autunno significherebbe sciogliere le Camere di qui a pochissimi mesi, non avendo realizzato nessuna delle riforme promesse con l’avvento di Monti: dalla legge elettorale alla riduzione del numero dei parlamentari, dalla revisione del bicameralismo fino – addirittura – ad una legge sui partiti e sul loro finanziamento. Un bilancio fallimentare, insomma. Che darebbe ancor più fiato all’antipolitica e al populismo imperante: alla faccia dei nuovi partiti, dei movimenti neonati e perfino della «più grossa novità della politica
italiana»…

La Stampa 21.04.12