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"Risorse pubbliche per rinnovare", di Carlo Sini

L’urgenza di una rifondazione della politica è sotto gli occhi di tutti. Esibizioni come quelle di Grillo (che ricordano le focose arringhe del giovane Bossi, ritrasmesse in brevi frammenti alla televisione mentre si ascoltano notizie giudiziarie clamorose sulla Lega) suscitano in moltissimi di noi reazioni giustamente preoccupate. Al centro la discussione sul finanziamento pubblico dei partiti: argomento spinoso (per il precedente del referendum e per il pessimo uso dei rimborsi elettorali), ma a proposito del quale vorrei almeno osservare che se il costume pubblico degli attori e dei controllori non cambia radicalmente, ogni altra soluzione, privata, semiprivata
ecc., oltre a porre al pluralismo democratico più problemi di quanti non intenda risolvere, sarebbe comunque a rischio di comportamenti illeciti dei quali i cittadini resterebbero ignari. «Chi controlla i controllori?» diceva Kant. Se non si diffonde nelle pubbliche istituzioni un costume di accettabile responsabilità e decenza, ogni altro provvedimento è inefficace. Non sarà mai la piazza un giudice efficiente ed equilibrato e nemmeno lo sarà qualche privato di supposta buona volontà che si dichiarerebbe disposto a mettere in piazza i propri affari e i propri interessi. La corruzione pubblica deve potersi risanare con operazioni e trasformazioni degli attori e controllori pubblici: è su questo che bisogna interrogarsi e non sognare fughe populistiche in avanti o reazionarie all’indietro (che poi sono il medesimo). È interesse di tutti che la politica trovi un ragionevole e trasparente appoggio economico pubblico: a questa esigenza la dialettica democratica non può sfuggire senza compromettere la sua vitalità e la sua ragion d’essere. Una reale rifondazione della politica passa necessariamente anche di qui.
Ma passa poi, da sempre, per il problema della partecipazione: democrazia e partecipazione sono due cose in una. E qui ci imbattiamo con un’altra serie di difficoltà. La prima è nella natura stessa della qualità della nostra vita sociale. Nelle democrazie altamente industrializzate i ritmi sempre più frenetici del lavoro e del cosiddetto tempo libero, divenuto esso stesso un «affare economico» di massa e un obbligo consumistico per tutti, lasciano ben poco tempo per una partecipazione attiva alla vita dei partiti e per una conoscenza approfondita dei problemi politici. Un altro dato preoccupante, che va nella stessa direzione, è la disaffezione dei giovani alla lettura dei quotidiani (non si dice dei libri): ormai l’acquisto del giornale è una questione «generazionale»; più la popolazione invecchia, meno giornali, a quanto pare, si vendono. Si diffondono altri sistemi di informazione, assai più rapidi e gratuiti; bellissima cosa, se a essa non seguisse una riduzione e un appiattimento della notizia. Anche la notizia diviene un evento spettacolare, conformisticamente regolato (e in mano per lo più a quei “privati” i cui capitali dovrebbero salvare la democrazia). Si aggiunga un fatto ben noto: che il moltiplicarsi esponenziale delle notizie di ogni genere che riempiono i nuovi media (dallo sport, alla moda, al costume, agli svaghi di massa, agli scandali, alla pornografia ecc.) genera un rumore di fondo il cui effetto è sostanzialmente quello di elidere l’incidenza stessa della notizia. Una fame onnivora di notizie sempre fresche cancella ogni desiderio di approfondimento e di reale coinvolgimento. Trascinata in questo fiume, anche la politica affonda in una esistenza precaria, governata dagli umori e dai clamori del momento e dalla regola del pressappoco. Ogni programmazione, ogni strategia di lungo termine diviene irrealistica, dal momento che essa comunque non riuscirebbe a incidere sulla comprensione razionale degli elettori.
Se questi sono alcuni dei problemi, è evidente che una rifondazione della politica deve affrontare il tema delle modalità effettive della vita democratica nei partiti e nel Paese. Occorre trovare nuove forme di partecipazione e di dialogo, mettendo a frutto gli attuali mezzi di comunicazione e di informazione, ma senza farsene stravolgere. Anche per questo, pubbliche risorse sono indispensabili.

L’UNità 18.04.12

Napolitano: "Pulizia sì, ma senza demonizzare", di Annalisa Cuzzocrea

Invita a distinguere, Giorgio Napolitano. «I partiti non sono il regno del male, del calcolo particolaristico, della corruzione», dice il capo dello Stato. «Il marcio ha sempre potuto manifestarsi, e sempre si deve estirpare: ma anche quando sembra diffondersi e farsi soffocante, non dimentichiamo tutti gli esempi passati e presenti di onestà e serietà politica, di personale disinteresse, di applicazione appassionata ai problemi della comunità». Poi avverte: «Guai a fare di tutte le erbe un fascio, a demonizzare i partiti, a rifiutare la politica».

Non cita Beppe Grillo, non fa riferimento ai fatti degli ultimi giorni, ma le sue parole suonano il contraltare perfetto, la risposta delle istituzioni all’ultimo comizio dello showman, che ha accusato i politici di essere «insaziabili come una metastasi» e ha proposto, richiamando i processi contro i nazisti: «Dobbiamo fare una piccola Norimberga, al cui termine vedremo quale lavoro socialmente utile fargli fare».

E però, nonostante il clima e il bisogno di segnali, alla Camera il tentativo di accelerare la riforma sul finanziamento pubblico si arena per mano del partito che quei soldi li ha usati per comprare auto, diamanti e lingotti d’oro. In nome di una “invocata” trasparenza, e di una legge più incisiva, la Lega ha raccolto le firme contro la “legislativa”, la possibilità di far passare il ddl nelle commissioni di Camera e Senato saltando il dibattito in aula. Ha aspettato che l’emiciclo di Montecitorio votasse il via libera, poi ha calato le carte: 76 firme. Ne bastavano 63, per bloccare l’iter accelerato, ma volentieri si sono uniti Stracquadanio e Bertolini del Pdl, i deputati di Popolo e Territorio, quelli di Grande Sud, Beppe Giulietti del Misto, i liberali per l’Italia.

Così, per il ddl targato Alfano-BersaniCasini, i tempi si allungano. Il relatore Gianclaudio Bressa, pd, assicura che si può andare in fretta anche così, ma in aula ha attaccato apertamente la Lega: «È evidente che teme i controlli che la nuova commissione potrebbe fare sui suoi bilanci del 2011 e del 2012». Vuole perder tempo, è l’accusa. «Vergogna», gli urla contro Raffaele Volpi, che aveva parlato a nome del Carroccio. «Siamo d’accordo sulla legislativa ma la legge è ignobile e immorale nel merito», dice per l’Idv Antonio Di Pietro. «Troppo modesta» la definisce Nichi Vendola. Il leader di Sel – a Repubblica Tv – dice: «Non servono angeli vendicatori che occupino la scena politica. Sonoi partiti che devono assumersi la responsabilità di affrontare la questione morale con le riforme». Che però tardano. Il Pd – complice un sondaggio secondo cui il 75% degli iscritti vuole la riduzione del finanziamento – ha intanto deciso di tagliare del 30 per cento le spese per le amministrative. E sui fondi ha cambiato idea: a fine maggio – quando andrà in aula l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione – proporrà che vengano diminuiti.
“I partiti sono essenziali ma adottino contromisure o vincerà la demagogia ”

La Repubblica 18.04.12

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“Zagrebelsky: la critica non è antipolitica”, di TIZIANA TESTA

«Un tempo, quando scoppiava uno scandalo in un partito, gli altri quasi si rallegravano. Oggi non è più così. Ora ogni scandalo, per l’opinione pubblica, riguarda l’intero sistema politico. Ciò che succede in un partito è imputato a tutti.

Una specie di responsabilità oggettiva di sistema». Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, accetta di rispondere a qualche domanda sul finanziamento pubblico. Lo fa a quasi due mesi da “Dipende da noi”, il manifesto-appello di Libertà e Giustizia che lanciava un allarme in nome della politica e della democrazia. E lo fa partendo dall’antipolitica. Gli ultimi sondaggi danno in grande ascesa il movimento di Grillo. E dicono che è probabile un fortissimo astensionismo.

«Sono molto preoccupato.

Sono due sintomi di declino in cui, alla ragionata indignazione, possono sommarsi pulsioni disprezzo, invidia, semplificazione: terreno ideale per la demagogia. Sa com’è nata l’idea del manifesto? Ero stato a tenere lezione in quattro licei e ai ragazzi avevo chiesto: dopo la maturità, chi è disposto a dedicare un po’ di energia a qualcosa che abbia a che fare con la politica? Ogni volta avevo davanti 150200 studenti e in tutto solo due hanno alzato la mano. Le cause? Sempre le stesse: la corruzionee la mancanza di punti di riferimento ideale. Non si dovrebbe generalizzare. Ma un errore, quando è diffuso fino a trasformarsi in senso comune, diventa un fatto politico. E chi deve dare motivi per distinguere, se non i partiti? Il manifesto che lei ha citato è un invito ai partiti a prendere contromisure, prima che la situazione sfugga di mano».

Sull’ Unità Alfredo Reichlin si è rivolto anche a lei dicendo: stiamo attenti a criticare i partiti come se fossero tutti uguali.

«Io non ho mai detto questo. L’esperienza del governo tecnico è temporanea. Ci sarà bisogno del ritorno a una normalità politica della qualei partiti sono condic i o s i n e qua non.

Non esiste dem o c r a zia senza s t r u t t u r e sociali che diano forma e sostanza alla partecipazione.

L e m o d a l i t à cambiano, ma l’esigenza resta.

C’è chi pensa a una democrazia senza partiti, per esempio alla ‘democrazia telematica’, ma è un’illusione. Il web può accendere gli animi e convocare le piazze ma non costruire politiche (vedi le rivolte in Nord Africa). La critica ai partiti è antipolitica, se è indirizzata a farne a meno; è altamente politica se è rivolta a incalzarli, anche a farli arrabbiare, affinché si s c u o t a n o . D o v r e m m o d i r e , mentendo, che tutto va bene? Questa sì sarebbe una pretesa antipolitica». I partiti stanno affrontando, faticosamente, il problema del finanziamento. Cosa pensa della proposta di legge firmata da Alfano, Bersani e Casini? «Questo tema dovrebbe essere collocato in una riflessione generale sulla politica e sulle sue forme. Il finanziamento, così com’è, è funzionale all’organizzazione oligarchica, centralizzata e priva di controlli dei partiti;a sua volta il sistema elettorale è diventato uno strumento legale di cooptazione: finanziamento ed elezioni oggi producono lo svuotamento della democrazia in basso e la concentrazione del controllo politico in alto. Chi decide della gestione dei fondi e della distribuzione dei posti sta nel cuore del potere. Dunque deve essere messa in discussione la gestione centralizzata delle risorse e delle candidature».

Ma i soldi destinati ai partiti sono troppi? «La vera domanda è: cosa si deve finanziare? E cosa ci aspettiamo dai partiti? Le attività legate alle scadenze elettorali sono più facilmente controllabilie in parte sostenibili non con denaro pubblico ma con servizi pubblici gratuiti. Ma i partiti non sono solo macchine elettorali. Il loro compito è tenere insieme la società attraverso una presenza capillare, a contatto con problemi sociali che, affrontati in solitudine, diventano drammi e affrontati insieme possono trasformarsi in domande politiche. Una funzione fondamentale, soprattutto in tempi di crisi. Ma tutto questo costa». Torniamo ai soldi.

«Si fa un gran parlare dell’ultima tranche di finanziamento, 180 milioni di euro. Ci sono iniziative per congelarli, per devolverli. Ma se ci si limitasse a questo la reazione dei cittadini sarebbe: sono stati colti con le mani nel sacco e fanno un piccolo gesto. La semplice rinuncia ai fondi significa riconoscere d’essere stati degli approfittatori. Invece questa sarebbe l’occasione per fare pulizia, dissociandosi da chi ha usato denaro pubblico per fini privati. Non si dica che nessuno sapeva dei Lusi e dei Belsito. Chi li ha voluti lì e perché? Troppo facile chiamarsi fuori. I tagli sono certo necessari, se è vero che per attività istituzionali i partiti usano poco più di un quinto di quanto ricevuto. Ma il finanziamento è la coda, non la testa del problema». E le donazioni dei privati? «Vanno bene quelle micro, diffuse sul territorio. Sono forme di partecipazione disinteressata. Maè difficile che in questo momento possano essere abbondanti. I grandi finanziamenti, invece, che provengono da imprese e gruppi economici sono sempre dei do ut des.

Quindi devono avvenire nella massima trasparenza. La veridicità dei bilanci, non solo dei partiti ma anche delle imprese, è essenziale. Ma il reato di falso in bilancio è stato svuotato».

E’ ottimista sul futuro? O è tardi per il rinnovamento dei partiti? «Il tempo stringe. Spero che ci sia una scossa, che non ci si illuda che basti glissare perché tutto passa. Vedo un futuro difficile, un impasto di crisi sociale, di insofferenza nei confronti della politica, di demagogia. Ma abbiamo il dovere di credere che non sia troppo tardi».

La Repubblica 19.04.12

"Il suicidio non è di classe", di Michele Ciliberto

Ci sono molte cose che colpiscono nella crisi profonda, e tragica, che sta attraversando il Paese: allarma ad esempio vedere quanto si stia estendendo l’area della miseria e della povertà. Ma soprattutto colpisce sentire, con una frequenza angosciosa, che un lavoratore oppure un imprenditore hanno deciso di mettere fine alla loro vita, suicidandosi.
La crisi ha cancellato, in modo drammatico, le distinzioni di classe: in diversa misura, e in modi diversi ovviamente, tutti coloro che sono dentro l’universo del lavoro si trovano oggi in una situazione di precarietà, di debolezza che si trasforma in una progressiva perdita di sé, di identità sia sociale che individuale.
Alla base di gesti terribili come questi c’è un senso di totale solitudine, la perdita di qualsiasi fiducia nel futuro, il sentimento di un destino di sconfitta al quale appare impossibile resistere. E c’è la persuasione lucida e intransigente che non ci siano partiti ,sindacati, associazioni, chiese alle quali si possa far appello per avere un aiuto e cercare di ritrovare una strada.
C’è insomma la persuasione che non ci siano strumenti di «mediazione» di alcun tipo, e che ciascuno sia chiamato ad assumersi, da solo, tutte le proprie responsabilità, salendo per protesta su una gru, cercando di farsi giustizia con le proprie mani, fino a decidere di togliersi la vita. Si sono spezzati i tradizionali legami di solidarietà, senza che se ne siano creati altri. Si può dirlo senza retorica: oggi ciascuno è più solo, chiuso nel cerchio ristretto della propria esistenza. Capire perchè succeda questo e perchè un uomo si senta un’isola non è facile. Certo, si potrebbe dire che così accade perché, come diceva un grande filosofo, il lavoro è il predicato dell’uomo e con esso vengono meno i fili che tengono insieme una vita, una persona, qualunque sia il ruolo che ricopre nel processo lavorativo. Qui infatti vengono meno le differenze fra imprenditore e lavoratore, ed entrambi si trovano a misurarsi con una medesima perdita di sé, un medesimo vuoto, con la stessa insopportabile solitudine.
È questa una spiegazione necessaria, ma non sufficiente. Gli individui si disperdono perché, insieme al lavoro, viene progressivamente meno il senso del futuro, la possibilità di uno sguardo che consenta di guardare oltre la quotidianità, di legare il filo della propria esistenza a una visione, a una prospettiva in grado di generare fiducia in se stessi e nella vita. È quando si spalanca questo vuoto che si può aprire la via a decisioni ultime, irrevocabili.
Riaffermare il primato del lavoro è dunque necessario, ma non sufficiente; ed è precisamente qui che si situa il valore nel senso stretto del termine della politica, dell’agire politico. Oggi, a conferma della gravità della crisi, è diventato di moda vedere nella politica l’origine di tutti i mali fino a sostenere, come è stato fatto qualche giorno fa su un giornale che vuole essere di sinistra, che i partiti sono il cancro della democrazia. Ma è vero precisamente il contrario: senza la politica e per politica intendo la capacità di costituire legami che siano in grado di tenere insieme gli individui la società arretra, degrada, si corrompe senza distinzione di classe o di ceto.
Naturalmente c’è politica e politica: c’è la politica degli oligarchi e c’è la politica democratica; c’è la politica che, facendo l’apologia dell’antipolitica, si preoccupa solo dei suoi interessi e c’è la politica che si propone di costituire tra gli individui una nuova rete di legami, muovendo proprio dal lavoro.
Bisogna perciò saper guardare nei gesti estremi di chi si è tolto la vita e cercare di capire cosa esprimono: non sempre e necessariamente una resa, ma spesso la rivendicazione di un diritto a un destino individuale e collettivo differente. La vita è tale perché comprende in sé anche la morte. E da qui dovrebbe prendere le mosse una politica democratica che voglia fare i conti fino in fondo con la crisi attuale, in tutti i suoi aspetti, anche quelli esistenziali: da una seria riflessione su queste morti ristabilendo, proprio attraverso di esse, un nuovo legame con la vita. Oggi la politica si disgrega e perde credito perchè si è separata dalla vita chiudendosi in se stessa, in puro esercizio del potere. È l’eredità più dura e più pesante del berlusconismo, una delle epoche più cupe della recente storia italiana. Se la politica democratica vuole avere un peso, un ruolo, un significato, deve saper ritrovare i legami con la vita degli individui, in tutte le sue forme, riuscendo a proiettarsi verso il futuro. In una parola: deve darsi una visione. Senza un’idea del futuro si precipita nella disgregazione, nella perdita di sé. Senza una visione, non c’è politica, non c’è vita.

L’Unità 18.04.12

"La maledizione televisiva", di Giovanni Valentini

Non c’è da meravigliarsi più di tanto che perfino il governo di “impegno nazionale”, quello che dovrebbe traghettare il Paese e portarlo fuori dalle secche della crisi, possa rischiare il naufragio sugli scogli della televisione. Se la Prima Repubblica era fondata sul lavoro, come recita ancora l’articolo 1 della Costituzione, la Seconda Repubblica è fondata infatti sulla tv: cioè sulla formazione e sulla raccolta del consenso attraverso la tv. E per Berlusconi questo è un dogma assoluto.

ÈUNA verità rivelata, una stella polare, oltre che naturalmente una fonte inesauribile di guadagno e quindi un “oggetto oscuro” di interesse privato. Al confronto della “questione televisiva”, aperta ormai da più di trent’anni, anche lo scandalo dei finanziamenti pubblici ai partiti diventa in fondo una bagattella da squallidi tesorieri-faccendieri. Qui c’è ben altro. C’è, dal ’94, un partito-azienda che s’è costituito per supplire alle coperture di cui aveva goduto fino ad allora da parte del vecchio Caf (il sistema di potere con a capo Craxi, Andreotti e Forlani) e per difendere gli affari personali del suo leader. Altro che cartellina “The Family” scoperta nella cassaforte leghista: Umberto Bossi,i suoi figli,i suoi congiunti e tutti i suoi sodali, sono soltanto piccoli epigoni dei fasti berlusconiani.

Ora, finalmente, il “governo tecnico” ha stabilito che le nuove frequenze televisive non verranno più regalate ai plutocrati dell’etere – e cioè a Rai e a Mediaset, come aveva deciso il precedente governo Berlusconi – bensì messe all’asta per essere cedute al miglior offerente e ricavarne magari risorse da destinare agli ammortizzatori sociali, ai pensionati o agli “esodati”. Avendo sollevato il problema su questo giornale alla fine dell’agosto scorso, quando il Cavaliere era ancora a palazzo Chigi, non siamo sospetti di opportunismo retroattivo. E non possiamo perciò che apprezzare questa scelta di equità, nel pieno di una crisi che richiede sacrifici molto pesanti a tutti i cittadini.

Sul piano più strettamente tecnico, la vicenda ha aspetti paradossalie perfino grotteschi che possono interessare meno i lettori. Basterà solo ricordare che tutto deriva da una procedura d’infrazione aperta a suo tempo dall’Unione europea contro l’Italia, per una concentrazione televisiva che minacciava (e ancora minaccia) di riprodursi nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale terrestre. Tant’è che nella stessa delibera del 2009 (n.181), con cui Bruxelles approvò la procedura del “beauty contest” (o concorso di bellezza) per assegnare le nuove frequenze, si prevedeva un tetto antitrust di cinque multiplex (fasci di frequenze), ognuno dei quali avrebbe potuto trasmettere fino a sei canali o programmi.

In realtà Rai e Mediaset dispongono già di quattro multiplex a testa e questi sono più che sufficienti per difendere il vecchio duopolio, con la relativa raccolta pubblicitaria e il relativo fatturato, a patto però di produrre contenuti validie rinnovare la programmazione. Questa è la legge del mercato. Ma adesso, in vista dell’asta, il partito-azienda non accetta che nel decreto del governo venga indicato esplicitamente il limite anti-trust già stabilito dall’Ue: verosimilmente, la riserva mentale del Biscione è quella di trasformare un altro canale già acquisito in precedenza da Mediaset per le trasmissioni televisive sui tivùfonini (Dvb-H, digital video broadcasting handheld, cioè portatile) in un ulteriore canale digitale terrestre (Dvb-T, dove la lettera T sta appunto per terrestrial), aggirando così il tetto di cinque multiplex e arrivando in futuro a sei.

La logica e soprattutto la libera concorrenza, invece, vorrebbero che anche questa pratica venisse compresa nel “pacchetto” delle nuove frequenze. Magari per favorire l’ingresso nel mercato di un operatore indipendente, in grado di offrire (a pagamento) capacità trasmissiva alle tv locali o a qualsiasi altro produttore autonomo di contenuti, come avviene – per esempio – in Francia con il Gruppo Tdf.

Una volta approvato il decreto, comunque, l’intera partita passerà nelle mani dell’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni che dev’essere rinnovataa breve. Alla futura Agcom spetterà il compito di definire le regole dell’asta, possibilmente allargando la platea anche agli operatori delle telecomunicazioni. Poco o tanto che lo Stato riesca a ricavarne, e secondo Mediobanca si tratta di almeno 1-1,2 miliardi di euro, quelle risorse potranno contribuire da una parte a favorire il pluralismo televisivo e dall’altra ad abbassare qualche tassa o a finanziare qualche spesa sociale. Di questi tempi, mentre tutti i partiti sono chiamatia ridurre drasticamente le proprie esigenze per salvaguardare la loro stessa funzione e credibilità, anche il partito-azienda è tenuto pro-quota a ridimensionare le sue pretese.

La Repubblica 18.04.12

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Frequenze tv, il Pdl attacca Monti “Patti traditi su Rai e Mediaset”, di GIOVANNA CASADIO e ALBERTO D’ARGENIO

ROMA – Lo scontro sull’asta per le frequenze tv si abbatte come una tegola sul vertice serale tra Monti e i leader di Pdl, Pd e Terzo Polo. Preparato dal premier per rilanciare la crescita, trovare la quadra finale sulla riforma del lavoro, affrontare i nodi della giustizia e, soprattutto, per blindare il patto politico con Alfano, Bersani e Casini, si trasforma in una resa dei conti dentro una maggioranza già in fibrillazione.

E il convitato di pietra è Silvio Berlusconi, che Monti incontrerà domani a colazione, infuriato perché giudica danneggiata Mediaset dalle decisione sulle frequenze. Tutto alla vigilia del cruciale consiglio dei ministri di oggi che approverà il Documento di economia e finanza (il vecchio Dpef) e il Piano nazionale di riforme da mandare a Bruxelles.

Le ore che precedono la cena di Palazzo Chigi si trasformano in un drammatico conto alla rovescia. Tutto succede alla commissione Finanze della Camera, dove si vota l’emendamento al decreto fiscale approvato lunedì dal governo che cancella il beauty contest (l’assegnazione gratis delle nuove frequenze digitali) e indice l’asta a pagamento. Il Pdl parte all’attacco e accusa: dopo un blitz del Pd il testo arrivato a Montecitorio è diverso da quello concordato in precedenza con Passera. Ma l’emendamento passa nonostante il no del Popolo della libertà e Grande Sud. Nel Pdl si narra di un Berlusconi infuriato in particolare con Gianni Letta, che avrebbe seguito la partita dietro le quinte. L’ex ministro Paolo Romani minaccia: «È un fatto gravissimo e da irresponsabili». Accusa Passera di non avere mantenuto i patti e svela la rabbia di Cologno Monzese: «Così com’è l’emendamento non consentirà a Rai e Mediaset di partecipare alla gara ». Se l’Unione europea, per bocca del commissario Almunia, dà il via libera all’asta ( «promuove la concorrenza»), a Roma è guerra. Romani protesta con Passera e Catricalà. Chiede ad Alfano di sollevare il tema nel vertice serale, di spingere per ritirare l’emendamento e dare tempo di trovare un accordo tra i partiti. Ma Bersani è categorico: «Il governo vada avanti». Lo staff di Passera intanto parla di “serenità” per quanto fatto, rimandando al mittente le accuse di inciucio con il Pd. Questo l’oggetto del contendere: il governo ha inserito il tetto di 5 Multiplex, che corrispondono a circa 5 canali digitali ciascuno. Rai e Mediaset ne hanno già quattro e aspettano la conversione di vecchie frequenze (Dvbh) in digitale (Dvtb). Per Romani la conversione avverrà entro 90 giorni, quindi prima della gara escludendo di fatto i due ex monopolisti che avrebbero già 5 Multiplex. Per il ministero dello Sviluppo «è falso»: «Non è automatico che avranno la conversione e comunque non arriverà prima della gara», spiegano i tecnici di Via Veneto. «E comunque il tetto è chiesto dalla Ue». Certo, aggiungono con malizia gli esperti del Pd, con il beauty contest scritto dal governo Berlusconi «questo limite veniva aggirato».

Tanto basta per guastare il vertice della distensione, sul quale piombano anche i dati negativi dell’Fmi. Monti aveva avvertito ABC ricordando che «non dobbiamo e non possiamo abbassare la guardia, dobbiamo proseguire con le riforme e con il risanamento». Un tema, quello della crescita, su cui Bersani insiste con un elenco di proposte per cercare di limitare i danni della recessione. Alfano punta alla diminuzione delle tasse, intestandosi la rateizzazione dell’Imu, altro elemento di tensione con il Pd. Casini media e ricorda che non possiamo pensare di uscire dalla crisi senza affrontare la «vertenza europea sulla crescita». «La crescita – ribadisce Monti – è il tallone d’Achille dell’Ue».

La Repubblica 18.04.12

"L’Italia iniqua inizia nelle scuole", di Mila Spicola

Scuola e dispersione scolastica: quello italiano è un sistema dell’iniquità? Le funzioni storiche della scuola sono largamente note e generalmente condivise: garantire a tutti un buon livello d’istruzione, trasmettere valori e saperi della cultura nazionale e dell’umanità, offrire contesti formativi per la socializzazione e l’integrazione nel rispetto delle differenze. Proprio per queste sue funzioni di istruzione e educazione la scuola è un diritto umano, un organo costituzionale, un’istituzione sociale. E ancora, la scuola in quanto fonte di investimento sulle giovani generazioni è allora motore dello sviluppo della società. Questi obiettivi e mete istituzionali compaiono nella grande maggioranza delle carte costituzionali dei paesi europei e del mondo, per essere garantiti come diritti inalienabili dell’umanità: tuttavia troppo spesso si sono trasformati in slogan politici.

Il cuore del problema è presentato da una semplice domanda: queste funzioni, obiettivi e finalità sono davvero raggiungibili? Oppure sono pure mete e obiettivi per il futuro? In altre parole, le azioni e strategie di intervento puntano davvero al contrasto della dispersione scolastica, al raggiungimento di equità nei sistemi di istruzione, a portare tutti, ma davvero tutti, a quelle competenze necessarie per essere considerati liberi cittadini? La scuola e l’istruzione in generale sono da sempre sotto i riflettori dell’opinione pubblica, soprattutto nei momenti di trasformazione, di riforma, o quando gli investimenti si riducono drasticamente, come nei tempi che stiamo vivendo. Altre volte, e ciò avviene con maggiore frequenza negli ultimi anni, quando si analizzano i risultati scolastici raggiunti dagli studenti alla luce di indagini campionarie e in un’ottica comparativa, nazionale o internazionale. In tutti questi casi ritorna prepotentemente la questione di fondo: quanto la scuola favorisce apprendimenti significativi, tenendo conto delle differenze individuali e di partenza? Quanto la scuola riesce a perseguire quella semplice finalità che molti, da Eraclito a Morin, hanno indicato: educare non è riempire un secchio ma accendere un fuoco? Bisogna riconsiderare il problema delle diseguaglianze educative del sistema scolastico italiano, riprendendo quella sintetica ma assai realistica denuncia che la scuola di Barbiana lanciò agli inizi degli anni Sessanta: “in realtà la scuola ha un solo problema, i ragazzi che perde”.

A Palermo si verificano i massimi livelli di dispersione scolastica in Italia, una media del 27% con punte del 30%. In altre parole: le nostre scuole, malgrado l’impegno e le intenzioni, continuano a riempire le teste ma spengono i fuochi, le curiosità e le potenzialità di apprendimento nei ragazzi che maggiormente ne avrebbero bisogno. E’ vero, molto è cambiato dai tempi di Don Milani per lo sviluppo economico e il progresso scientifico. Ma la scuola risulta essere, adesso come allora, “diseguale”, vale a dire non riesce a colmare le differenze socio-culturali e gli svantaggi sociali, cioè dare di più a chi ne ha più bisogno. Amaramente bisogna constatare che, a fronte di tantissime iniziative nazionali e regionali, normative, progettuali e di sistema, che in questi ultimi anni si sono succedute, e forse per i troppi tentativi disorganici e sicuramente non sistematici, i risultati , viste le cifre di sopra, sono sostanzialmente inconsistenti. E i mali della scuola, denunciati cinquant’anni fa al momento dell’istituzione della scuola media unica, che doveva essere volano per superarli, ci sono ancora: selezione sociale, dispersione scolastica, disillusione e demotivazione giovanile, mancato accordo con il sistema-lavoro. Si sono sviluppate negli anni piste di riflessione, strumenti e progetti di intervento. Analisi e critiche sempre costruttive, certo, ma che mettono a nudo le diseguaglianze presenti e la scarsa equità del sistema, offrendo a studenti e a studiosi un quadro della problematica esistente a cinquant’anni dalla nascita della scuola media unica (o secondaria superiore di primo grado), nata per essere la chiave di volta del processo di alfabetizzazione e di crescita culturale orizzontale del nostro paese per ridurre le diseguaglianze sociali presenti nell’Italia degli anni Sessanta. Quelle diseguaglianze persistono oggi per intero.

Si è detto più volte che troppi segnali nella scuola di oggi indicano quanto la scuola si trovi in difficoltà rispetto alle proprie funzioni strutturali e mete educative. I segnali di dispersione nel sistema, di disaffezione e distacco da parte degli studenti, famiglie, ma anche docenti (quattro docenti su dieci cambierebbero mestiere) e formatori sono crescenti e differenziati. La scuola non sembra rispondere più a quelle funzioni, auspicate e spesso idealizzate, di ascensore sociale, di luogo di riscatto per alcuni strati della società, di acquisizione dei saperi e di promozione della cultura. Una scuola che nelle sue funzioni, ma anche nelle intenzioni e aspirazioni degli studenti, come anche nella pratica sociale, non risponde più alle richieste della società, non può essere attrattiva, non solo, ma difficilmente promuove e raggiunge gli obiettivi di inclusione e integrazione anche a chi è portatore di bisogni speciali: “gli ultimi della classe”.

Una scuola così la si può lasciare senza rimpianti, o, che è peggio, la si può frequentare senza illusioni, con il “moto inerziale” che non produce apprendimenti, né, figurarsi, “accendere fuochi”. Lasciare la scuola prima del tempo o lasciarla con la consapevolezza di aver aprreso poco o nulla è un problema, non solo del singolo allievo “speciale”, ma è un problema di tutti, perché si riflette sui dati complessivi che riguardano la crescita sociale collettiva. Specialmente di fronte a tale entità del fenomeno. Provare a contrastare questa deriva e rilanciare le funzioni non solo culturali, ma in special modo sociali dell’istituzione scolastica significa in fin dei conti, riflettere sui problemi derivanti dalla dispersione scolastica nell’accezione più ampia e condivisa e cioè come problema sociale e non semplicemente di “ambito” specificatamente scolastico.

Troppo spesso si è puntato il dito sulla scuola, dimenticando che essa è lo specchio della società, sottolineando la difficile o scarsa motivazione degli studenti nello studio, specie in certi ambienti sociali, la persistenza di pratiche didattiche poco attive o laboratori ali, oppure lo scollamento che spesso le istituzioni scolastiche hanno nei confronti della società e del territorio o ancora altro. Ma anche i mali della scuola sono sempre stati oggetto di riflessioni psico-pedagogiche e socio-politiche, di molti interventi legislativi, e di politiche scolastiche, in questi ultimi anni, proprio a fronte dei cambiamenti nella/della società, la scuola italiana sta rischiando di mancare l’appuntamento con quegli obiettivi inderogabili che è chiamata a raggiungere: istruzione e inclusione sociale per tutti e sono tanti i segnali che si vanno diffondendo e che testimoniano la scarsa equità del sistema di istruzione e formazione in Italia.

Da alcuni anni le riflessioni sull’efficacia dei sistemi di istruzione e formazione hanno cercato di chiarire quanto il concetto stesso di “uguaglianza” vada relativizzato rispetto ai punti di vista dell’individuo, dei gruppi sociali, delle istituzioni. E quanto più il processo di scolarizzazione si è allargato alla totalità degli individui, e quindi alle diverse fasce di popolazione, nei diversi contesti sociali e geografici, tanto più il discorso sull’uguaglianza ha fatto parlare di selezione scolastica e di forme di dispersione nella fruizione nell’istruzione. La doppia accezione di uguaglianza negli accessi alla scolarizzazione e negli apprendimenti, oltre a definire i diritti inalienabili per i cittadini alle diverse latitudini terrestri, allarga la questione aglin investimenti (politici ed economici) sull’istruzione e la formazione che le società sono pronte a compiere. Una recente analisi dell’OCSE sui risultati italiani conferma quanto da anni molte indagini hanno tristemente sottolineato: l’istruzione italiana conserva un basso livello di mobilità sociale; le differenze tra le regioni nascondono non solo differenze di risorse, ma anche la persistenza di fattori socio-economici nelle scelte delle scuola secondaria superiore per i propri figli.

L’istruzione come diritto porta dunque a discutere il piano delle disuguaglianze nella società e nella scuola, delle uguaglianze negli accessi e nei risultati. E come ben si è chiesto il premio Nobel per l’economia Amartya Sen: “eguaglianza di che cosa?”. Di opportunità, di trattamenti, di risultati? E il discorso si allarga ancora se si analizzano i destinatari: “eguaglianza tra chi?”. Uomini e donne, giovani e adulti, italiani e stranieri. Il concetto di equità sociale nell’istruzione introduce quindi il necessario collegamento tra uguaglianza e giustizia sociale, tra finalità e mezzi procedurali da adottare per il loro raggiungimento. No asta essere egualitari: l’eguaglianza deve essere “giusta”, non di parte e quindi avvantaggiare solo alcuni. In tale ottica gli studi, gli interventi e i progetti a contrasto della dispersione scolastica si sono differenziati e moltiplicati enormemente in questi decenni. Cresce la consapevolezza della complessità e multidimensionalità del fenomeno e della necessità di adoperare strategie e forme di intervento su diversi livelli. Ma di cosa parliamo, quando parliamo di dispersione scolastica e di equità nel sistema di istruzione? Di molte e diverse cose insieme.

E’ necessario esaminare il fenomeno attraverso l’analisi delle differenti forme di dispersione nel sistema di istruzione e formazione, per distinguere la sua complessa fenomenologia e per indicare le modalità progettuali di intervento maggiormente mirate. Che la dispersione scolastica sia un sintomo delle irregolarità e delle difficoltà di percorso è evidente. Ma che queste difficoltà siano significativamente collegate a studenti con specifiche caratteristiche personali e/o condizioni socio/economiche, o ancora ad alcuni contesti territoriali e tipologie di percorsi di studi, allarga il discorso all’equità del sistema.

La Costituzione del mio paese, l’Italia, sottolinea il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi ai capaci e meritevoli, fornendo a tutti un’istruzione obbligatoria e gratuita, ma c’è da chiedersi come mai il fenomeno della dispersione scolastica continui a toccare in modo evidente alcuni segmenti formativi e soggetti sociali in modo così consistente. Se continua ad esserci dispersione significa che quel mandato, che è obbligo, costituzionale è solo formalmente garantito, che non si riesce per molti casi a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (Art.3 Costituzione Italiana) e di fatto, le differenze all’ingresso, tra gli studenti, continuano a rimanere tali per tutta la durata del loro percorso scolastico e negli esiti negativi di tale percorso. Altrimenti bisognerebbe riprendere l’interpretazione che ne dava agli inizi degli anni Sessanta don Milani, ricordando che “il buon Dio avrebbe fatto nascere cretini e svogliati nelle case dei poveri”.

Ogni docente, formatore, dirigente scolastico o responsabile di strutture formative che abbia lavorato in questi ultimi anni sa, con estrema evidenza e consapevolezza, che sempre più le istituzioni scolastiche e formative attuano interventi volti ad “accogliere” gli studenti, a promuovere socializzazione e inclusione, alla prevenzione del disagio, al recupero degli svantaggi e delle difficoltà di apprendimento, al sostegno della genitorialità, alla lotta delle discriminazioni e della selezione scolastica, all’integrazione tra istituzione scolastica e agenzie formative. E tutti questi interventi sono direttamente o indirettamente collegati alle azioni volte alla prevenzione e contrasto della dispersione e degli abbandoni scolastici. E’ evidente che, visti i fallimenti delle azioni, perché tale è la sostanza dei fatti, specie in aree altamente depresse del sud del paese con punte massime del 30% di dispersi raggiunte nella città di Palermo, che il termine e il fenomeno “dispersione” rimanda sì ad alcune dimensioni “interne” al sistema scolastico, ma a molte, molte e molte altre dimensioni esterne” a quel sistema di carattere via via: psicologico, familiare, economico, giuridico, di contesto, ambientale, …dimensioni tutte correlate all’interno di quel vissuto totalizzante che è l’individuo con bisogni speciali, quale è un ragazzo propenso all’abbandono scolastico.

L’apprendimento scolastico, il disagio giovanile, le difficoltà genitoriali, l’inclusione sociale sono obiettivi che rimandano a “soggetti” e “contesti”diversi che necessitano di analisi, approcci e azioni di tipo speciale. E dunque anche risorse umane speciali per tali bisogni speciali e dunque formazione specifica: di tipo psicologico, pedagogico, sociale, giuridico,…con supporti professionali altri oltre quelli dell’insegnante o del contesto scolastico in senso stretto. Cosa che manca ed è mancata nel sistema scolastico italiano.

Nel corso del complesso processo della “crescita” complessiva di un individuo, gli elementi dell’universo scolastico si fondono con quelli dell’extra scolastico e i molti problemi della scuola, della scolarizzazione, dell’istruzione e della formazione diventano temi e problemi della società che istituisce e regola quelle istituzioni. Faccio il caso della mia città: ogni ragazzo disperso è un “piccolo mondo” che riassume e riflette i problemi interi della città che sono di ordine culturale, sociale, economico, psicologico, giuridico…E’ assolutamente inutile agire su uno solo di quei problemi pensando di risolverli tutti. E’ proprio la multidimensionalità del fenomeno che ne rende opaco il concetto e la “dispersione” diventa termine-contenitore per comprendere fenomeni di differente natura e problematiche che andrebbero distinte.

Più che di dispersione sarebbe meglio parlare di differenti dimensioni o livelli di dispersione, per distinguere:

– Le forme della dispersione nei percorsi scolastici, di tipo materiale, che riguardano gli studenti che rallentano o cambiano percorso nel sistema di istruzione e formazione (questo livello rimanda all’analisi dei flussi, vale a dire delle ripetenze, delle non re iscrizioni, dei trasferimenti, ritiri o passaggi degli studenti all’interno del sistema di istruzione);

– Le forme di dispersione dell’apprendimento e nel processo di istruzione scolastica (questo livello rimanda all’analisi dei debiti scolastici o dei giudizi di non sufficienza, dei tassi di bocciatura, dei livelli raggiunti nelle distinte competenze disciplinari o trasversali, di scuola o a carattere comparativo nazionale/internazionale, e quindi la qualità degli apprendimenti);

– Le forme di dispersione nell’integrazione e relazione sociale (questo livello riguarda l’analisi del disagio, devianza e disaffezione delle regole, contesti sociali e valori condivisi a scuola e nella società civile);

– Le forme di dispersione tra titoli di studio e competenze acquisite da un alto ed entrata nella vita professionale dall’altro (corrispondenza tra titoli e reclutamenti o contratti, ricaduta sociale degli investimenti nell’istruzione) .

Solo distinguendo i piani e le dimensioni della dispersione e analizzando tutti i livelli di interazione tra essi, è possibile progettare e attuare piani di intervento efficaci, proponendo la scuola, e tutte le istituzioni di istruzione e formazione , come punto di snodo insostituibile per la difesa del diritto allo studio di e all’istruzione di tutti (non uno di meno), in questo caso i “peggiori”, i primi ad essere esclusi/espulsi dal sistema d’istruzione così come è concepito. Concepire un sistema che non moltiplichi le diseguaglianze sociali ma viceversa offra gli strumenti opportuni (professionali e di risorse) agli operatori che vi lavorano per recuperare e appianare tali diseguaglianze. Istruire ad istruire allievi e formatori in un lavoro artigianale e potente che comprenda dentro di se una forte dose motivazionale in primis nei docenti, per poterla trasferire ai discenti con la consapevolezza che sono altri ambiti a dover essere “aggrediti” o “colpevolizzati” per ogni insuccesso scolastico.

In altre parole, la scuola, puntando sulla prevenzione e riduzione della dispersione scolastica, e tenendo conto delle diseguaglianze delle condizioni di partenza dei singoli studenti (dare di più a chi ha di meno), mira all’uguaglianza delle opportunità formative e del successo negli apprendimenti. Per ciascuno di loro. E se quindi la dispersione nella scuola rimanda alla dispersione “della” scuola tra le componenti formative (disgregate, poco motivate e supportate socialmente), occorre allargare la visuale affrontare le distinte dimensioni, che non sono è bene ripeterlo, scolastiche, ma extrascolastiche, in un’ottica di sistema che consideri le strette relazioni tra istituzioni scolastiche e società. Progetti dunque articolati e integrati nei contesti, nel rispetto della continuità educativa e della persistenza orizzontale nel territorio e verticale nella vita scolastica dell’allievo.

La scuola è di tutti, sì, ma non può essere pensata come se tutti siano uguali, perché i bisogni in partenza e all’ingresso sono diversi e speciali. Deve essere “diseguale” ma equa, per colmare le differenze e iniquità sociali. Non può essere ciecamente egualitaria. Occorre ripensare la scuola. Occorre individuare leve teoriche, risorse, principi organizzativi e di rete che sappiano garantire il raggiungimento per tutti gli studenti di uan consapevole formazione di comptenze, saperi e valori.

La scuola è un insieme e un’organizzazione complessa, dentro la quale occorre distinguere livelli e piani per l’analisi e per la programmazione efficiente di interventi efficaci. Parlare di dispersione scolastica significa parlare di scuola, di come è organizzata e vissuta da parte di studenti, maestri, insegnanti, famiglie e dunque della società intera. Un discorso sulla scuola implica un discorso sulla società intera, come un discorso sui dispersi di Palermo implica un discorso su Palermo, sulla città intera.

L’Unità 17.04.12

"Una scuola ripensata a misura di Lucignolo", di Elisabetta Rosaspina

Cura anime ferite, il professor Francesco Dell’Oro. Pazienti fragili che, fino a non molto tempo prima, sarebbero stati liquidati genericamente e irrevocabilmente come «lavativi». Li incontra ogni giorno. In genere, li riconosce al primo colpo d’occhio, quando entrano riluttanti o strafottenti nel suo ufficio, tappezzato di disegni umoristici, al Servizio orientamento scolastico del comune di Milano. Altre volte li individua nella platea attenta che lo aspetta nelle scuole milanesi per lasciarsi guidare nei misteriosi meandri dell’istruzione secondaria: genitori, insegnanti. E, ovvio, studenti. Ma lui preferisce definirli soltanto «adolescenti». Perché è dalla loro parte che si colloca, sempre, questo ex «pelandrone», predestinato una cinquantina d’anni fa a incidere targhe, medaglie e trofei dalle parti di Lecco. Più o meno quando una professoressa diagnosticò senza esitazioni, agli scrutini finali di terza media: «Francesco, la scuola non fa per te», e qualcuno gli indicò la via salvifica di una bottega.
Della scuola, il professor Dell’Oro è diventato invece un esperto. Da quel giudizio affrettato e sofferto, ha tratto utili cognizioni per trasformarsi nell’uomo-bussola che almeno mezzo migliaio di adolescenti utilizzano ogni anno per trovare o ritrovare la loro strada. Verso il successo. Anzi no, molto meglio: verso una possibile felicità. Ma, prima di tutto, verso il recupero dell’autostima, spesso sbadatamente disboscata dagli adulti, ancor prima di germogliare: «Chi ha avuto qualche difficoltà a scuola, ha più cartucce per capire e per stabilire una comunicazione attraverso il linguaggio degli adolescenti. Quello delle emozioni, più che delle parole»: così non riesce difficile a un professore di oltre 60 anni immedesimarsi nell’imbarazzo del ragazzino al primo banco, irriso dai compagni perché ha confessato di voler diventare un cuoco.
Cuoco? «No, chef, — spiega l’uomo-bussola alla classe — un esperto di scienza dell’alimentazione. Una specializzazione che offre molte opportunità». Come restituire la sua giusta dignità al sogno di un adolescente. Magari è meno facile convincerne i genitori, fissati con il mito del liceo classico, «perché apre la mente». Ma uno dei cardini dell’opera di orientamento del professore sta nella convinzione che la società non vada divisa fra poeti e meccanici.
Banalizzando un po’ si potrebbe ipotizzare che Dell’Oro, per professione e missione, raccolga gli ex scolari lasciati da Marcello D’Orta sulla soglia della scuola media assieme alle loro fatalistiche aspettative: «Io speriamo che me la cavo».
Ma Dell’Oro assicura che il suo libro, Cercasi scuola disperatamente. Orientamento scolastico e dintorni (in libreria da oggi per le edizioni Urra, pp. 210, 13) non è il seguito ideale del best seller napoletano, ormai ventenne, né si addentra in «quel tipo di disagio infantile». È piuttosto un viaggio nelle aule di oggi, visitate nel momento cruciale del passaggio dalla scuola secondaria inferiore a quella superiore, tra personaggi, caricature, situazioni paradossali, riflessioni storico-pedagogiche e tecniche «seduttive» di un estroso talent scout, allevato da un papà attore di teatro.
Nel suo ufficio o nell’aula magna di una scuola, e ora attraverso le pagine del libro, Dell’Oro attacca sempre in contropiede (ha anche una lodevole esperienza calcistica, sebbene maturata a detrimento del suo antico profitto scolastico). Ai genitori suggerisce: «Immaginate di essere affacciati a un oblò, una finestrella, e di osservare l’universo e in particolare quattro pianeti. Adolescenti, Famiglia, scuola, Lavoro. Vorrebbero restare uniti, ma si muovono in direzioni diverse, si allontanano oppure entrano in rotta di collisione. Il problema sta nelle differenze di linguaggio». Lui sceglie quello delle favole.
Bisogna saper spiazzare il Lucignolo di turno: «Sei un’anima bella, mi hai fatto una buona impressione». E lo dice con sincerità: «Anche quando gli elementi a mia disposizione per sostenerlo sono magari un po’ deboli. Ma sono davvero sicuro che tutti, proprio tutti, abbiano un talento. Non esistono i lavativi». Quell’atto di fiducia inatteso, unito alla sensazione insolita di non essere sotto accusa, pare smuova anche i più granitici scalda-banco, pietrificati da troppi giudizi espressi in cifre. A volte, curiose: «Stamattina ho saputo di un insegnante che ha gratificato un suo allievo di uno “0+”. E perché più, viene da chiedersi. “Per incoraggiarlo”, è stata la sua incredibile risposta».
Sarà stato il trauma infantile, ma Dell’Oro non sopporta i voti e, ancor meno, quelle sfumature («da bilancino del farmacista», dice) che consentono di attribuire un 4,9 a una traduzione di latino e un 2 meno, meno, meno; o addirittura un 5,95, assimilabile alla vecchia sufficienza per il rotto della cuffia.
«Non è una critica al corpo docente. Ci sono insegnanti di straordinaria sensibilità e dedizione. Ma la nostra scuola funziona bene per i ragazzi bravi, non per quelli meno tagliati per lo studio. La scuola per me dovrebbe essere come un pronto soccorso dove si cura chi sta male, non chi sta bene».
Lui comincia mimando ai ragazzi il loro pomeriggio, il tempo perso tra computer, telefonate, frigorifero, iPod. Non tanto diverso, nuove tecnologie a parte, da quello delle generazioni precedenti. La classe ride, sta allo scherzo che esorcizza le difficoltà, e accetta la sfida: proviamo a cambiare?
La conferma del risultato arriva di frequente via email: «Sono Carla, l’anima bella. Ho preso il mio primo 8. In francese!». Ma può capitare che non ne arrivino: «E allora — si adombra Dell’Oro — è una sconfitta per tutti».

Il Corriere della Sera 18.04.12

"Senza l’aiuto dei pensionamenti, gli esuberi sfioreranno le 11 mila unità", da Tuttoscula

3.638 docenti in più al sud, 3.153 nelle Isole, 1.491 nelle regioni centrali e 2.004 in quelle del Nord. Notizie ufficiose sui pensionamenti del personale docente statale a decorrere da settembre danno in uscita dal servizio 21.114 persone. Se si considera che vi sono 10.443 docenti in soprannumero da sistemare, aritmeticamente l’operazione per assegnare un posto a chi l’ha perso sembra facile, con un avanzo addirittura di 10.700 unità circa di posti.

Le cose non stanno proprio così, perché i conti non si fanno sui dati nazionali, bensì su quelli territoriali per ogni provincia; si fanno anche settore per settore; e nella secondaria di I e di II grado si fanno sulle classi di concorso.

A questa quadratura del cerchio si aggiunge anche il fatto che nella determinazione degli organici del personale docente per l’anno prossimo, anche se rispetto all’organico di quest’anno non viene tolta o aggiunta nemmeno una unità di personale (il confronto finale dà zero), nei singoli territori c’è chi riceve posti e chi ne cede.

Ad esempio, in Sicilia, dove vi sono complessivamente 2.083 docenti in esubero (di cui 1.124 prof. delle superiori), per effetto di nuove riduzioni di organico i docenti in soprannumero dovrebbero aumentare complessivamente di 290 unità (di cui 246 tra i prof), senza considerare la disponibilità di posti che potrebbe venire dai pensionamenti.

Insomma, tra attuali docenti in soprannumero e nuovi perdenti posto – senza computare i nuovi pensionamenti – vi sarebbe questa poco allegra situazione: 3.638 docenti in più al sud, 3.153 nelle Isole, 1.491 nelle regioni centrali e 2.004 in quelle del Nord.

Vi sarebbero, quindi, 10.276 docenti ancora da sistemare, tra vecchi e nuovi esuberi. C’è soltanto da sperare, a questo punto, che l’incrocio tra posti lasciati vacanti dai pensionati e sedi da assegnare ai perdenti posto o in esubero trovi coincidenza.

In caso diverso, oltre al disagio di chi dovrà adattarsi in qualche modo ad una sede precaria di servizio, vi saranno, ancora una volta due conseguenze negative: un minor numero di posti disponibili per i precari e una maggior spesa per l’Amministrazione scolastica per mantenere i docenti fuori organico non utilizzati.

da Tuttoscuola 18.04.12