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"Il suicidio non è di classe", di Michele Ciliberto

Ci sono molte cose che colpiscono nella crisi profonda, e tragica, che sta attraversando il Paese: allarma ad esempio vedere quanto si stia estendendo l’area della miseria e della povertà. Ma soprattutto colpisce sentire, con una frequenza angosciosa, che un lavoratore oppure un imprenditore hanno deciso di mettere fine alla loro vita, suicidandosi.
La crisi ha cancellato, in modo drammatico, le distinzioni di classe: in diversa misura, e in modi diversi ovviamente, tutti coloro che sono dentro l’universo del lavoro si trovano oggi in una situazione di precarietà, di debolezza che si trasforma in una progressiva perdita di sé, di identità sia sociale che individuale.
Alla base di gesti terribili come questi c’è un senso di totale solitudine, la perdita di qualsiasi fiducia nel futuro, il sentimento di un destino di sconfitta al quale appare impossibile resistere. E c’è la persuasione lucida e intransigente che non ci siano partiti ,sindacati, associazioni, chiese alle quali si possa far appello per avere un aiuto e cercare di ritrovare una strada.
C’è insomma la persuasione che non ci siano strumenti di «mediazione» di alcun tipo, e che ciascuno sia chiamato ad assumersi, da solo, tutte le proprie responsabilità, salendo per protesta su una gru, cercando di farsi giustizia con le proprie mani, fino a decidere di togliersi la vita. Si sono spezzati i tradizionali legami di solidarietà, senza che se ne siano creati altri. Si può dirlo senza retorica: oggi ciascuno è più solo, chiuso nel cerchio ristretto della propria esistenza. Capire perchè succeda questo e perchè un uomo si senta un’isola non è facile. Certo, si potrebbe dire che così accade perché, come diceva un grande filosofo, il lavoro è il predicato dell’uomo e con esso vengono meno i fili che tengono insieme una vita, una persona, qualunque sia il ruolo che ricopre nel processo lavorativo. Qui infatti vengono meno le differenze fra imprenditore e lavoratore, ed entrambi si trovano a misurarsi con una medesima perdita di sé, un medesimo vuoto, con la stessa insopportabile solitudine.
È questa una spiegazione necessaria, ma non sufficiente. Gli individui si disperdono perché, insieme al lavoro, viene progressivamente meno il senso del futuro, la possibilità di uno sguardo che consenta di guardare oltre la quotidianità, di legare il filo della propria esistenza a una visione, a una prospettiva in grado di generare fiducia in se stessi e nella vita. È quando si spalanca questo vuoto che si può aprire la via a decisioni ultime, irrevocabili.
Riaffermare il primato del lavoro è dunque necessario, ma non sufficiente; ed è precisamente qui che si situa il valore nel senso stretto del termine della politica, dell’agire politico. Oggi, a conferma della gravità della crisi, è diventato di moda vedere nella politica l’origine di tutti i mali fino a sostenere, come è stato fatto qualche giorno fa su un giornale che vuole essere di sinistra, che i partiti sono il cancro della democrazia. Ma è vero precisamente il contrario: senza la politica e per politica intendo la capacità di costituire legami che siano in grado di tenere insieme gli individui la società arretra, degrada, si corrompe senza distinzione di classe o di ceto.
Naturalmente c’è politica e politica: c’è la politica degli oligarchi e c’è la politica democratica; c’è la politica che, facendo l’apologia dell’antipolitica, si preoccupa solo dei suoi interessi e c’è la politica che si propone di costituire tra gli individui una nuova rete di legami, muovendo proprio dal lavoro.
Bisogna perciò saper guardare nei gesti estremi di chi si è tolto la vita e cercare di capire cosa esprimono: non sempre e necessariamente una resa, ma spesso la rivendicazione di un diritto a un destino individuale e collettivo differente. La vita è tale perché comprende in sé anche la morte. E da qui dovrebbe prendere le mosse una politica democratica che voglia fare i conti fino in fondo con la crisi attuale, in tutti i suoi aspetti, anche quelli esistenziali: da una seria riflessione su queste morti ristabilendo, proprio attraverso di esse, un nuovo legame con la vita. Oggi la politica si disgrega e perde credito perchè si è separata dalla vita chiudendosi in se stessa, in puro esercizio del potere. È l’eredità più dura e più pesante del berlusconismo, una delle epoche più cupe della recente storia italiana. Se la politica democratica vuole avere un peso, un ruolo, un significato, deve saper ritrovare i legami con la vita degli individui, in tutte le sue forme, riuscendo a proiettarsi verso il futuro. In una parola: deve darsi una visione. Senza un’idea del futuro si precipita nella disgregazione, nella perdita di sé. Senza una visione, non c’è politica, non c’è vita.

L’Unità 18.04.12