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"Borse di studio arriva la tassa. Ricercatori in rivolta", di Flavia Amabile

Per gli ospedali italiani non saranno due giorni tranquilli: oggi e domani i venticinquemila specializzandi in medicina generale scioperano contro il governo. Non protestano per una norma ad hoc, in realtà sono i più colpiti da un provvedimento che riguarda tutti i dottorandi. Chiedono infatti la cancellazione della norma prevista dal decreto fiscale in discussione alla Camera che impone la tassazione Irpef su tutte le somme corrisposte a titolo di borsa di studio. Un emendamento approvato al Senato ha solo lievemente addolcito la novità, stabilendo che si applicherà alle somme che formano il reddito per la parte eccedente gli 11.500 euro. Saranno infatti sottoposte a prelievo fiscale le borse di studio per la frequenza dei corsi di dottorato di ricerca, di perfezionamento e di specializzazione erogate dalle Università e i contratti di formazione medica specialistica a queste equiparate, nonché gli assegni erogati dalle Regioni. Insomma, una platea molto più ampia dei giovani medici.
Si dirà: pochi mesi fa il decreto Salva-Italia ha bloccato la indicizzazione di tutti gli assegni da pensione superiori ai 1400 euro.
Dunque, perché non chiedere un contributo anche ai giovani ricercatori? Ma è pur vero che in Italia la ricerca universitaria è in affanno, e la fuga dei cervelli all’estero è un tema all’ordine del giorno. Insomma, provvedimenti come questo non fanno che penalizzarla ulteriormente.
Finora i vincitori di borse di dottorato e assegnisti di ricerca avevano percepito redditi interamente esenti da Irpef grazie ad una legge del 1984. «Con questo emendamento – denuncia Alexander Schuster, componente del direttivo dell’Adi (l’associazione dei dottori e dottorandi italiani) di Trento – l’esenzione sarebbe implicitamente abrogata per la parte eccedente gli 11.500 euro con un’aliquota e una detrazione fiscale che dipenderà dall’importo del reddito complessivo. Ma questi redditi potrebbero persino non beneficiare della detrazione da lavoro dipendente.
Oltre al danno, la beffa, motivano i ricercatori trentini portando ad esempio l’importo lordo della borsa di dottorato (pari a 13.638,48 euro), tale che così gli oltre 2.138 euro di parte eccedente sarebbe tassata per un aggravio di circa 700 euro». Le associazioni dei giovani medici calcolano una riduzione delle borse di studio di circa 200-300 euro al mese rendendo l’assegno al netto delle spese di poco di superiore ai 1.000 euro.
I medici in formazione italiani sono quelli meno pagati in Europa – ricorda la Federspecializzandi – e devono pagarsi le spese professionali con la propria borsa di studio (iscrizione all’Ordine dei medici, quota previdenziale all’Enpam, assicurazione contro la colpa grave).
Per il segretario dell’Adi Francesco Vitucci il danno sarebbe molto superiore rispetto ai guadagni perché «gli introiti per lo stato sarebbero particolarmente esigui».
Non solo: la norma avrebbe effetti paradossali perché costringerebbe i dottorandi a fare la dichiarazione dei redditi per poi non versare nemmeno un euro di tasse perché il loro reddito calcolato sarebbe così basso da avere diritto comunque all’esenzione. «Diventerebbero quindi dei lavoratori, non più a carico del nucleo familiare, con la rinuncia a tutte le tutele per gli studenti pur essendo considerati da tutti come studenti».
Non è dunque un caso se alla Camera – dove ora è in discussione il decreto – sono molti gli emendamenti che chiedono la cancellazione della norma. Uno di questi è firmato dai deputati Pd Manuela Ghizzoni, Marco Meloni, Andrea Sarubbi e Salvatore Vassallo. «E’ certamente auspicabile che si proceda rapidamente a una revisione dei contratti dei ricercatori nella fase post-dottorato e pre-ruolo, ma la soluzione adottata dal Senato è sbagliata e va cassata», scrivono in una nota Ghizzoni e Meloni.

La Stampa 16.04.12

"Il personaggio Il candidato socialista ancora in testa ai sondaggi a sei giorni dal voto", di Anais Ginori

Sulla linea della metropolitana, i militanti socialisti che vanno a vedere François Hollande fino al Château de Vincennes, nell’est della capitale, passano per la fermata Concorde, dove si tiene il comizio di Nicolas Sarkozy. Qualcuno fischia, altri intonano “François Président”.
C’è anche chi non dice nulla, alza solo lo sguardo, come un gesto di preghiera a invocare la sospirata vittoria. «Sono pronto» ripete diverse volte il candidato socialista sul palco, davanti alle bandiere con la rosa nel pugno. Hollande vuole esprimere l’urgenza della sfida che si sta per compiere.
Mancano solo sei giorni al voto del primo turno ma è almeno da un decennio, ricorda il candidato socialista, che la gauche è condannata all’opposizione.
Le changement c’est maintenant, il cambiamento è adesso, martella lo slogan disseminato sui manifesti. «Nessuno ci fermerà» aggiunge Hollande che ha organizzato il raduno come una festa popolare, bancarelle con vino e salsiccia, orchestrine e teatro di marionette per i bambini.
Sullo sfondo il maestoso castello voluto da Carlo V. Il fraseggio del candidato socialista è sempre pacato, quasi monocorde, se non fosse per la voce rauca, che ogni tanto si abbassa. La sua compagna Valérie Trierweiler, ai piedi del palco, sta cercando di curarlo con tè caldo e miele. Insieme, fanno un lungo bagno di folla. Salutano, stringono mani.
Lei, ostinatamente riservata, scrive sul suo conto Twitter: “Giornata particolare. Emozioni. Giovani. Destino. Primavera”. Hollande è sorridente, rilassato, non vuol far credere di dare l’elezione per scontata. Continua a lanciare messaggi ai moderati. «La nostra vittoria può spaventare i mercati? No, solo il presidente-uscente» commenta, fedele alla strategia di nominare mai Sarkozy per nome.
Durante quaranta minuti di un discorso sobrio, Hollande parla di «sogno francese», immagina una «nuova frontiera», citando implicitamente John Fitzgerald Kennedy. Più che scaldare le folle con citazioni storiche e toni lirici, argomenta, snocciola i motivi per non disperdere i voti della sinistra. «Sono il candidato dell’esclusionee della rabbia. Ma devo tradurre questi sentimenti in governo» spiega, lanciando un messaggio agli elettori di JeanLuc Mélenchon, leader del Front de la Gauche. Molti militanti sono venuti a Vincennes incollandosi addosso un adesivo. «Ricordatevi cos’è successo il 22 aprile».
La data evoca lo spauracchio del primo turno alle presidenziali del 2002, quando il socialista Lionel Jospin non arrivò al ballottaggio anchea causa delle rivalità interne alla gauche. Non a caso, dietro a Hollande, è schierato lo stato maggiore del Ps. Il segretario Martine Aubry, la candidata del 2007 Ségolène Royal, gli ex premier Laurent Fabius e Jospin. La fotografia d’insieme non dà l’idea di rinnovamento, se non fosse per le due giovani a cui tocca intrattenere i militanti in apertura del comizio: la deputata Aurélie Filipetti e la portavoce di Hollande, Najat Vallaud-Belkacem, astri nascenti del partito.
«Non fate vincere il fatalismo e la rassegnazione: andate a votare» è l’incitamento di Hollande.
L’altra minaccia che plana sul voto è l’astensionismo. Il 30% degli elettori potrebbe non recarsi alle urne, record degli ultimi anni.
«Oggi, non vi chiedo di aiutarmi, vi chiedo di aiutare la Francia» dice ancora il candidato socialista, capovolgendo l’appello lanciato da Sarkozy. I riferimenti al rivale sono sempre indiretti, anche se l’anti-sarkozysmo è uno straordinario collante per la sinistra.
Hollande attacca il governo, le promesse non mantenute, parla di una nazione «divisa» al suo interno e «sminuita» sul piano internazionale. Ma anche gli accenni polemici sfumano rapidamente. Conta, sopra ogni cosa, tagliare il nastro del traguardo.

La Repubblica 16.04.12

"Bisogna ridare il giusto valore al titolo di studio", di Giacomo Vaciago

C’è ancora tempo fino al 24 aprile per partecipare – sul sito del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca – alla consultazione pubblica sul “valore legale del titolo di studio”, un tabù non minore di quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E per motivi molto simili: manca il coraggio di confrontarsi con le altrui best practices, pur sapendo che solo grazie alla loro emulazione troveremo la necessaria spinta per tornare a crescere. Venendo al tema della consultazione, decisa dal Consiglio dei ministri il 27 gennaio scorso, ricordiamo anzitutto che il “valore legale” in questione ha due significati:
1) il titolo di studio è stato conseguito nel rispetto della legge;
2) il titolo viene utilizzato per finalità (accesso alle professioni e al pubblico impiego) e con modalità definite dalla legge.

Ciò vale ovviamente per ogni “titolo” di cui la legge regola sia il conseguimento sia l’uso: dal passaporto alla patente di guida. In altre parole, non ha molto senso dire che si vuole “abolire” qualcosa che intanto esiste in quanto c’è una legge che lo regola. Ma si può ben modificare quella legge, per ciascuno dei due ambiti rilevanti.

La consultazione decisa dal Governo e gestita dal ministero dell’Istruzione – come risulta evidente dalle domande cui si può rispondere – è tuttavia concentrata sul solo aspetto del pubblico impiego, per il quale è comunque prevedibile un esito di buon senso del tipo: ciò che davvero conta è che siano fatti bene i concorsi. C’è qualcuno che non è d’accordo su questo?

Ma così viene completamente evitato il vero problema, che già Luigi Einaudi aveva in mente quando irrideva il valore legale del “pezzo di carta”. Il problema, che è di natura politica prima che giuridica, riguarda – da un lato – il rapporto tra la libertà di scelta degli studenti (e delle loro famiglie) e – dall’altro – la penetrante quotidiana attività che il ministero da sempre svolge per garantire il più possibile l’uniformità delle 300 sedi universitarie italiane.

La stessa – già decisa – attività di valutazione delle università e la successiva conseguente distribuzione loro dei fondi pubblici servirà più che a correggere le divergenze ad esaltarle: a chi più ha, più sarà dato.

Dobbiamo quindi ricordarci che, pur con grande cautela e gradualità, ci siamo avviati, finalmente, sulla strada di una crescente autonomia delle università: abbastanza autonome da poter tra loro competere per attrarre i migliori studenti. Il che significa che, se non siamo ancora pronti a ridimensionare il valore legale della laurea, siamo peraltro già incamminati su quella strada.

E dovremmo seriamente discutere di due cose che ci possono aiutare a rinforzare quel percorso, rendendolo più serio, essendo ambedue ispirate al principio della competizione tra le università: da un lato borse di studio e dall’altro collegi universitari. La gravità della crisi economica e la sofferenza in cui si trovano le famiglie italiane rischiano infatti di pregiudicare gli sforzi che si intendono dedicare al miglioramento delle nostre università, se non garantiamo con gli strumenti opportuni (monetari e reali) la mobilità degli studenti. Nella nostra Costituzione è chiaramente indicato il diritto dei giovani “capaci e meritevoli” di andare a studiare nelle università migliori, diritto che non potrà essere garantito tenendo basse tutte le tasse universitarie.

Ci vuole un po’ di coraggio, politico prima che tecnico o giuridico, nel riconoscere che la priorità è quella di “ridare valore” al titolo di studio, e che a tal fine la consultazione in corso serve poco.

Molto servirebbe – anche per dare una mano all’economia – un programma di costruzione di collegi universitari e uno spostamento di una quota di fondi pubblici destinati alle università dal finanziamento dell’offerta a quello della domanda, cioè dal finanziamento degli stipendi dei professori a quello delle borse di studio degli studenti.

Il Sole 24 Ore 16.04.12

Stuprata, si gettò dal balcone «Cinque anni senza giustizia», di Mariagrazia Gerina

Il 15 aprile del 2007 Carmela Cirella si tolse la vita, lanciandosi
dal balcone di un palazzo del rione Paolo VI di Taranto, perché era stata violentata e nessuno le credeva. Aveva solo tredici anni. Ci sono eventi che misurano il tempo senza alcuna pietà. Cinque anni fa, nel rione Paolo VI di Taranto, una ragazzina di tredici anni, vittima da pochi mesi di uno stupro di gruppo, «volava giù» dal balcone per sette piani. Si chiamava Carmela Cirella: «Io sono Carmela», era la frase che gettava in faccia al mondo quando voleva sentirsi viva. Quel giorno non ha avuto neppure la forza di ripetersi allo specchio la sua frase-amuleto. «Nel primo dei due centri per minori dove avevamo lasciato che la seguissero dopo lo stupro, le avevano somministrato degli psicofarmaci a nostra insaputa…». Era il 15 aprile 2007.
«Quinto vergognoso anniversario senza giustizia per Carmela, figlia, suo malgrado, di questo paese ipocrita e incivile, che con il suo silenzio e la sua indifferenza si rende complice», scandisce l’orologio impietoso che ha spinto, ieri, suo padre adottivo (quello naturale morì quando Carmela aveva un anno), Alfonso Frassanito, a scrivere ancora una volta, per denunciare: «Stato, istituzioni, giustizia, ministri: dove siete?». Una lettera aperta, stavolta. Dopo altre, rimaste senza risposta. Una in particolare, rivolta al ministro di Giustizia, recapitata di persona in via Arenula, nel 2009. «Mi dissero che sarei stato riconvocato dopo Natale, sto ancora aspettando».
Giustizia, continua a chiedere Alfonso, anche a nome di sua moglie, Luisa. «Lei non ha neppure la forza di parlare…», spiega. Conserva le energie per la prossima udienza, il 27 aprile: la quarta in un processo che sembra non dover mai finire. Sul banco degli imputati, tre uomini, accusati di aver stuprato Carmela, nel novembre del 2006, quando appena compiuti i suoi tredici anni, la ragazzina scappò di casa. E si ritrovò all’inferno.
«Tutto nasce dalle molestie che mia figlia aveva subito da un adulto», racconta oggi Alfonso, che denunciò anche quell’episodio. Poi archiviato. Carmela era inquieta. «Per questo scappò».
Nel diario, quello dove annotava ogni cosa, aveva descritto anche quello che le era accaduto in quei quattro giorni di fuga: lo sbando, le violenze subite da più persone. La ritrovarono drogata e sotto shock. E quello che aveva scritto sul diario, lo ripetè poi anche alla polizia che però – racconta il padre – stentava a crederle. «È stato un calvario ottenere che fossero portate fino infondo le indagini, pensi che ci stavano riconsegnando gli indumenti di Carmela senza che le tracce biologiche fossero periziate», ripete Alfonso, che si ritrova per l’ennesima volta a ripercorrere l’intera sequenza. Le violenze, lo shock di quella ragazzina, la difficoltà anche per lui e sua moglie di gestire quel trauma più grande di loro. «Ci suggerirono un centro per minori, fu lì che le somministrarono a nostra insaputa gli psicofarmaci. Riuscimmo a farla trasferire in un altro centro, dove avevano iniziato a diminuirle quella terapia che a noi sembrava spropositata», racconta Alfonso, che non si riesce a darsi pace.
«IO SONO CARMELA»
Cinque anni dopo, il suo esposto contro il centro per minori dove fu ricoverata sua figlia è stato archiviato, due ragazzi, all’epoca minori, accusati di averla stuprata «hanno evitato la condanna e se la sono cavata con una messa in prova». «Nessuno
è stato mai arrestato, neppure i tre che ora sono sotto processo», ripete Alfonso. E le udienze si trascinano stancamente: «Di sei mesi in sei mesi, siamo ancora alla quarta udienza», denuncia il padre adottivo di Carmela, che vede la giustizia allontanarsi sempre di più.«A questo punto – dice – ci basta che emettano una
sentenza, una qualunque, almeno avremo in mano qualcosa per appel-
larci». Lui e sua moglie – spiega – sono pronti a ricorrere anche alla Corte di giustizia europea. Nel frattempo, da quella traccia
cocciuta stampata nel suo diario è nata una associazione: «Io sò Carmela». Pensata perché altri genitori che si trovino ad affrontare violenze subite dai figli si sentano meno soli: «Ogni volta che c’è uno stupro – denuncia ancora Alfonso, a nome anche degli altri – scatta un garantismo eccessivo verso gli accusati e contemporaneamente per le vittime inizia il martirio, vergognoso, specie, se come nel caso di Carmela, le vittime sono bambine».

L’Unità 16.04.12

«Pagati viaggi per Formigoni e il fratello», di Luigi Ferrrella e Giuseppe Guastella

Dall’indagine sulla sanità lombarda risultano «pagamenti di viaggi» al presidente della Regione, Roberto Formigoni, e al fratello del governatore, Carlo. Sono indicati nel verbale-fiume reso dal fiduciario svizzero di Pierangelo Daccò, arrestato nell’inchiesta sul crac dell’ospedale San Raffaele di Milano.
«Un presidente di Regione conosce tanta gente, nulla di male ad aver passato alcuni giorni di vacanza con Pierangelo Daccò». Il governatore lombardo Roberto Formigoni ha sempre risposto così sui suoi rapporti con il «”faccendiere” della sanità» (definizione degli inquirenti). Sì, ma chi pagava? L’interrogatorio di Giancarlo Grenci, il fiduciario svizzero di Daccò indagato per associazione a delinquere, e alcune contabili da lui consegnate ai magistrati, mostrano «pagamenti di viaggi» a Formigoni, al suo collaboratore Alberto Perego, al fratello del governatore, Carlo, e una parente, tutti a carico di Daccò, in carcere dal 15 novembre per 7 milioni di fondi neri del San Raffaele e arrestato venerdì per altri 56 milioni della Fondazione Maugeri.
In un verbale-fiume del 14 dicembre, Grenci, riferendosi al rapporto tra Daccò e Formigoni, rivela: «So che erano in rapporti di amicizia e che risultano pagamenti con carte di credito di viaggi». E per dimostrare quanto dice, consegna l’estratto conto di una delle tante carte di credito di Daccò dalla quale risulta un viaggio pagato per un biglietto a nome Roberto Formigoni e Perego, valore oltre 8.000 euro, di cui un mese dopo Air France rimborsa a Daccò circa un quarto. Fino a tarda sera, ieri non è stato possibile rintracciare il governatore per una replica su una vicenda che, pur se per ora sembra penalmente non rilevante, appare però imbarazzante politicamente.
Grenci parla per più di 9 ore riempiendo 12 pagine di verbale depositato agli atti dell’inchiesta parallela sulla Fondazione Maugeri di Pavia che venerdì ha portato a 6 arresti, tra cui quello di Daccò e dell’altro imprenditore ciellino Antonio Simone. È uno degli interrogatori-chiave dei 7 resi da Grenci. «Che idea si è fatto lei dell’attività che svolgeva Daccò, posto che ci ha detto che ha ricevuto diversi milioni di euro da ospedali e case di cura, che tali pagamenti sono supportati da documentazione falsa, che gli importi sono spropositati rispetto all’oggetto delle prestazioni peraltro inesistenti e che Daccò non risulta avere alcuna competenza specifica nel settore sanitario?», chiedono i pm. Grenci risponde riferendo ciò che lo stesso Daccò gli ha detto: «Svolgeva un’attività di consulenza nel senso che risolveva problemi relativi a rimborsi e finanziamenti che gli enti per i quali lavorava facevano fatica ad ottenere dalla Regione Lombardia. Tale attività, più che su competenze specifiche, si fondava su relazioni personali e professionali che lo stesso Daccò aveva all’interno della Regione».
Su chi poteva contare Daccò? Secondo Grenci anche su Alessandra Massei, di recente diventata dirigente nell’unità organizzativa di Programmazione sanitaria, il cui ufficio è stato perquisito il 16 novembre dopo l’arresto di Daccò per i fondi neri del San Raffaele. Grenci dichiara che Massei (alla quale furono sequestrati documenti che annotavano riferimenti a un conto corrente Ocean Bank, emerso l’altro giorno tra i conti interessati dalle operazioni estere di Daccò per quasi 800 mila euro tra novembre 2008 e febbraio 2009) gli fu presentata da Daccò come una persona che «oggi occupa un posto importante» al Pirellone, e poi rivela anche che «è socia in una serie di attività con Daccò soprattutto in Sudamerica». Finita la frase, Grenci aggiunge una notizia in sé non nuova: «So che Daccò e Simone ospitavano spesso sulle loro barche Roberto Formigoni. Tale circostanza mi è stata riferita da loro stessi. So che facevano le vacanze insieme, in particolare ricordo alcune vacanze a Saint Martin. Anche questo mi è stato riferito da Daccò». A questo punto, però, svela un particolare fino ad ora sconosciuto: «So che erano in rapporti di amicizia e che risultano pagamenti con carte di credito di viaggi».
Per provare quanto dichiara, Grenci consegna ai pm l’estratto conto della carta di credito di Daccò dal quale «risultano — precisa — pagamenti di viaggi anche a Formigoni Carlo, fratello del presidente, ad Anna Martelli, forse compagna di Formigoni Carlo, ad Alberto Perego, segretario del presidente (così lo qualifica Grenci, ndr ). Risultano pagamenti di viaggi a favore di Renato Pozzetto» (probabilmente l’attore comico, grande amico di Daccò, ndr ). Solo voli, soggiorni niente? «Non lo so — risponde Grenci —, tuttavia risultano pagamenti di affitti di ville da 80/90mila euro ai Caraibi per 2-3 settimane e ritengo che fossero ragionevolmente destinate ad ospitare più persone».
La prima ricevuta consegnata è del 12 dicembre 2008. La carta di credito è di quelle per vip: 20 mila euro di limite massimo. Il conto è intestato a Pierangelo Daccò di cui riporta la residenza in Inghilterra. Con questa carta di credito il 27 novembre 2008 risulta pagato un volo a nome di Formigoni/Roberto, partenza il 27 dicembre 2008, poco prima di Capodanno, biglietto numero 05733298313724 nell’agenzia «Buon viaggio» da Milano Malpensa (MXP) a Parigi Charles De Gaulle (CDG). Costo: 4.080,80 euro. Stesso biglietto, stessa somma e stessa destinazione per Perego/Alberto. In tutto 8.161,60 euro. Un quarto, e cioè 2.594 euro, vengono rimborsati da Air France a Daccò (per i biglietti intestati agli stessi due cognomi, Formigoni e Perego, mancano i nomi di battesimo) il 30 gennaio 2009, non è dato capire se per un servizio non usufruito in tutto o in parte. Dagli atti non è dato sapere se vi siano state regolazioni anche per gli altri soldi, e se regolazioni vi siano state eventualmente anche per il denaro che Daccò spende poi fare volare Carlo Formigoni e Anna Martelli il giorno di Capodanno 2010. Per loro, stesso tragitto Milano (stavolta Linate) – Parigi. Prezzo addebitato sul conto di Daccò: 3.573,80 euro a testa. La stessa coppia vola per 120,39 euro a testa con volo Air France tra aprile e maggio 2010: infatti non c’è la data del volo ma l’operazione viene iscritta il 23 aprile con valuta 13 maggio. Perego, invece, risulta su un biglietto Alitalia da Linate a Fiumicino per 244,85 euro nel 2005. All’attore Pozzetto, è intestato un biglietto da Malpensa a Parigi di Air France per il 27 febbraio 2010, costo, stando alle carte, 12.532,32 euro.
Gli atti allegati agli arresti di venerdì sulla fondazione Maugeri di Pavia registrano anche i giorni concitati trascorsi da uno degli arrestati, Costantino Passerino, il direttore amministrativo della Fondazione, già ascoltato come testimone il 30 novembre 2011. Gli investigatori lo intercettano mentre va in Croazia dove trasferisce 500 mila euro e acquista alcune schede telefoniche locali per sé e per la moglie per «organizzare attività di disturbo delle indagini», scrivono i pm al gip Tutinelli. L’allarme scatta il 5 aprile quando la polizia giudiziaria Ps-Gdf segnala ai pm alcune intercettazioni dalle quali emerge anche un interessamento a ciò che Passerino e l’avvocato civilista della Fondazione, Loriana Zanuttigh temono che i giornali possano in futuro scrivere sulla vicenda, in quel momento non ancora alla ribalta delle cronache. La legale assicura di essere in grado di monitorare due testate, l’Espresso e il Corriere della Sera , perché, afferma, ha «trovato un importante aggancio» in entrambi ed è sicura che sul settimanale non uscirà niente. Ma sbaglia: l’Espresso pubblica un articolo, che in edicola il giorno degli arresti, venerdì, parla dell’inchiesta e di 30 milioni di euro che sarebbero spariti.

Il Corriere della Sera 16.04.12

"Voto a ottobre destabilizzante ma l'antipolitica può travolgerci", di Giovanna Casadio

«Dai vertici di maggioranza usciamo sempre con qualcosa di cui non siamo contenti». Bersani confessa. Con Alfano «su tantissime cose non mi trovo d’accordo».È la prova- per il leader Pd – che «il bipolarismo c’è», è nelle cose. Un disaccordo tra Democratici e Pdl che – dopo le tensioni di questi giorni e in vista delle amministrative del 6 maggio – sarà squadernato nella riunione di domani con Monti. Il Pd chiede al governo un impegno straordinario per la crescita (Bersani si presenterà con una cartellina di proposte); il Pdl si fa portavoce della Marcegaglia per modificare la riforma del lavoro e punta a ottenere una riduzione delle tasse,a cominciare dalla rateizzazione dell’Imu. Come? Attingendo a quel fondo che deriva dalla lotta all’evasione, di cui oggi si parlerà in consiglio dei ministri.

Quindi, settimana cruciale per il governoe per la maggioranza alle prese con crescita, lavoro e anche con la partita sulla Rai. Due i consigli dei ministri in calendario; in mezzo il vertice; fiato sospeso per l’andamento dello spread. Ma c’è un’altra questione che ABC – Alfano, Bersani e Casini – non possono ignorare: monta l’antipolitica. Il leader del Pd lancia l’allarme: «Siamo nei guai. Se c’è qualcuno che pensa di stare al riparo dell’antipolitica si sbaglia. Se non la contrastiamo spazza via tutti».E di “apprendisti stregoni”, dice, ce ne sono tanti che sollevano «un vento cattivo».

Però soffiare su questo fuoco significa alimentare il populismo.

Avverte Bersani: «Siamo nella crisi economico-finanziaria più grave dal 1929 e nella crisi della credibilità politica più grave di quella del 1992». Un rischio che anche Vendola, il leader di Sel, denuncia, attaccando Grillo e la possibilità che i voti della lega finiscono al movimento “5 Stelle”: «Grillo è un fenomeno populista che non ha le caratteristiche per offrire una prospettiva al nostro paese, mi preoccupa». I sondaggi danno Grillo in forte crescita. Lo sottolinea anche il ministro Andrea Riccardi: «C’è bisogno dei partiti politici in maniera vitale, non si può indulgere nell’antipolitica».

Spetta tuttavia ai partiti riformarsi. Alle elezioni politiche manca un anno, il tempo c’è. Bersani boccia l’ipotesi di un voto anticipato. Voto a ottobre? «No, sarebbe destabilizzante». Anche se tra la gente la sofferenza c’è «ed è tanta», anche se la cura «è dura», e pensionati, lavoratori, piccoli imprenditori «sono in ansia», il governo Monti va sostenuto. Vanno anche buttate le basi, aggiunge il segretario Pd, per un patto di legislatura che veda un’allenza di centrosinistra e che «guardi alle forze centriste». Un patto che «per uscire dal populismo». Al contrario Vendola ritiene sbagliata la strada intrapresa dal governo Monti «che si è mostrato debole con i forti e forte con i deboli», e chiede la patrimoniale come «atto di decenza».

Nel vertice di domani si parlerà di esodati. E della riforma del lavoro, i cui emendamenti al Senato vanno presentati entro venerdì. Un punto di equilibrio si troverà, per Bersani per il quale «adesso bisogna creare posti di lavoro». Fassina accenna alle proposte democratiche, tra cui l’allentamento del patto di stabilità per i Comuni.

La Repubblica 16.04.12

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Bersani, allarme antipolitica «La demagogia uccide il Paese», di Andrea Carugati

«Abbiamo in giro molti apprendisti stregoni che sollevano un vento cattivo. Se c’è qualcuno che pensa di stare al riparo dall’antipolitica si sbaglia alla grande. Se non la contrastiamo, spazza via tutti». Pier Luigi Bersani insiste. «Controcorrente», come ammette lui stesso ai microfoni diTgcom 24, nel difendere l’ossatura della democrazia rappresentativa dallo tsunami dell’antipolitica che, anche grazie ai recenti scandali Lusi e Lega Nord, ha portato la fiducia nei partiti al 2% e quella nel Parlamento all’11%.
Numeri da far impallidire.Eil leader Pd ci prova a rovesciare questo senso comune. Come? Bersani ricorda che, con le norme vigenti, dal 2015 i rimborsi ai partiti passeranno dai 285 milioni del 2008 a 145. «È un dimezzamento, saranno meno che in Francia e Germania. Per me va bene fare ancora di più, ma se non mettiamo tutti un argine a questa ondata di antipolitica non basterà neanche questo». «Ad una politica che si finanzi andando a battere cassa a grandi manager e banchieri io dico no e poi no», ribadisce
il leader Pd. La strada è questa: subito una legge per la trasparenza e i controlli sui fondi e il rinvio della tranche da
100 milioni di cui si sta discutendo. E, nel giro di due mesi, nuove norme che ridisegnino il meccanismo dei finanziamenti. «Non accetto che il mio Paese muoia di demagogia», insiste Bersani. Perché l’Italia soffre più degli altri grandi europei, per il combinato disposto della crisi economica e della «crisi politica più grave dal 1992». «In Francia e Germania non c’è questo discredito della politica, nato con Tangentopoli e aggravato dagli anni di populismo di Berlusconi».
Anche Vendola batte sugli stessi tasti. «La politica non la possono fare soltanto i ricchi e i faccendieri. Dopo il 1992 l’onda dell’antipolitica ha prodotto Berlusconi. Non si può fare a meno del finanziamento ai partiti, quello che è insopportabile è il suo carattere faraonico». Il leader di Sel chiede che «un tetto per legge alle spese per le campagne elettorali», e trasparenza sulle erogazioni dai privati «dai 5mila euro in su». E boccia la bozza di accordo tra Pd, Pdl e Udc: «Non affronta l’emergenza con radicalità».
NO AL VOTO IN OTTOBRE
«No alle elezioni anticipate adottobre», dice Bersani. «Non abbiamo bisogno di destabilizzazione». E quando ci si arriverà, nella primavera 2013, «noi non metteremo sul simbolo il nome del leader». Sì invece all’indicazione pubblica del candidato premier, fatta da un partito o da una coalizione. Lo schema per il 2013 non
cambia: «Ho in testa sia un patto di legislatura con le forse di centrosinistra ma che guardi anche alle forze centriste. Un patto che ci porti fuori dal populismo», spiega il leader Pd. Un’alleanza che metta insieme «pezzi di diverse foto», quella di Vasto con Vendola e quella di palazzo Chigi con Casini.
Per il momento, bastano le amministrative e le presidenziali francesi. «Se ci sarà uno spostamento a sinistra, faremo sentire la nostra voce, magari con i francesi, perché non si aspettino le elezioni tedesche del 2013 per correggere la politica europea». «Miracoli non ne fa nessuno», insiste Bersani. «Se l’Europa non trova una politica che metta l’austerità in compagnia con gli investimenti, la crescita e l’alleggerimento di un po’ di debito a carico della finanza, non si va da nessuna parte».
Il bipolarismo non si tocca, quello c’è, come dimostrano anche i vertici di questa strana maggioranza dove «con Alfano non mi trovo d’accordo su molte cose». Domani, con Monti, Bersani insisterà sulla crescita. «Porteremo una qualche idea per dare un minimo di dinamismo all’attività economica».
Sulla riforma del lavoro, sì a qualche «aggiustamento», ma barra dritta sull’articolo 18, nonostante le proteste di Confindustria. «Non c’è nessun arroccamento sul passato. Io ho solo ribadito un principio: in ultima analisi il posto di lavoronon può essere solamente monetizzato. Non è una questione sindacale ma morale e
civile».
Il Pd non molla la presa neppure sui cosiddetti esodati.«Non è possibile che un lavoratore perda l’occupazione, non abbia pensione e non goda di un ammortizzatore sociale», insiste Bersani. «In giro per l’Italia incontro pensionati, o gente che doveva andare in pensione, lavoratori, piccoli imprenditori: sono in ansia. C’è un bisogno estremo di riconciliare questo popolo con la politica. La gente capisce quello che stiamo facendo per fronteggiare l’emergenza, ma la cura è dura…».

L’Unità 16.04.12

"Docenti italiani strapagati? CGIL e professori dicono di no", di Andrea Mari

È stato pubblicato in questi giorni uno studio, realizzato dai ricercatori P.J. Altbach, L. Reiseberg, M. Yudkevich, G. Androuschak e I.F. Pacheco, intitolato Paying the Professoriate. A Global Comparison of Compensation and Contracts e pubblicato dalla prestigiosa casa editrice Routledge, nel quale vengono messi a confronto gli stipendi dei docenti universitari (suddivisi nelle tre fasce di ricercatori, associati ed ordinari) di 28 tra i principali Paesi del mondo. Il quotidiano “la Repubblica” ha anticipato, in un articolo firmato da Corrado Zunino e prontamente ripreso dal sito del governo, che da questo studio risulterebbe che i docenti italiani sono tra i più pagati del mondo, addirittura secondi (dietro il Canada) nella classifica dei 28 Paesi stilata dagli autori della ricerca. Il giornalista del quotidiano diretto da Ezio Mauro, nel confrontare la situazione dei nostri docenti con quella dei professori universitari nei Paesi anglosassoni, afferma che, mentre là i docenti vengono retribuiti solo nei periodi in cui effettivamente insegnano, “…da noi, lo stipendio si prende tutti i mesi – anche in estate, con le università chiuse – e a Natale invece del tacchino arriva la tredicesima”: un modo come un altro per dire che i professori dei nostri atenei sono una massa di bambini viziati, che non sanno fare altro che piangere continuamente miseria mentre incassano stipendi favolosi.

L’uscita di Zunino non è stata delle più felici: su vari siti e blog, tra cui quello della Flc-Cgil, sono apparse, all’indomani della pubblicazione dell’articolo, una serie di repliche nelle quali si dimostra con dovizia di particolari che le cifre fornite dal pezzo di “Repubblica” (non quelle dello studio, che per ora sono note solo parzialmente tramite anticipazioni giornalistiche) circa l’enormità degli stipendi dei docenti italiani sono completamente sballate e tese soltanto a denigrare una volta di più i nostri professori, evidentemente non abbastanza “bastonati” negli ultimi anni dai media e dal governo Berlusconi.

Non è qui possibile, per ovvie ragioni di spazio, citare tutte le inesattezze rilevate nell’articolo di Zunino da parte di professori, ricercatori, sindacalisti ed altri operatori dell’informazioni presenti online. Limitiamoci all’errore più evidente: nell’articolo di “Repubblica” si fa riferimento ad uno stipendio “medio” netto di 4.345 e lordo di 7.423 euro, peraltro senza dire in che modo vengono ricavate tali cifre. Ammettendo comunque che siano vere, basterebbero da sole a smentire l’affermazione sui docenti italiani secondi al mondo per soldi incassati: infatti, uno stipendio come quello riportato sopra collocherebbe i nostri professori non solo dietro a quelli canadesi, ma anche alle spalle di quelli statunitensi, inglesi, sudafricani, arabi, malesi ed australiani. Il problema è che queste cifre non sono neppure vere, in quanto da esse si devono sottrarre le addizionali Irpef e, soprattutto, il calcolo degli anni di anzianità, perché in base alla legge Gelmini il passaggio da una fascia di docenza all’altra comporta la perdita di anni di anzianità (così, ad esempio, un professore associato con vent’anni di servizio ne mantiene solo otto se diventa ordinario, e lo stesso discorso vale per chi, da ricercatore, passa ad essere associato).

Ovviamente varrebbe la pena di leggersi tutto lo studio, per capire davvero se, al netto delle semplificazioni giornalistiche (non si sa quanto interessate), la conclusione alla quale sono giunti gli autori è la stessa riportata da “Repubblica”: se così fosse, sarebbe un brutto errore da parte loro, perché, alla luce dei fatti, è difficile dire che i nostri docenti (non parliamo, ovviamente, dei famigerati baroni, ma dei normalissimi professori e ricercatori, che sono poi la stragrande maggioranza) se la passino così bene come tanti vorrebbero farci credere.

da Controcampus