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"Bisogna ridare il giusto valore al titolo di studio", di Giacomo Vaciago

C’è ancora tempo fino al 24 aprile per partecipare – sul sito del ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca – alla consultazione pubblica sul “valore legale del titolo di studio”, un tabù non minore di quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. E per motivi molto simili: manca il coraggio di confrontarsi con le altrui best practices, pur sapendo che solo grazie alla loro emulazione troveremo la necessaria spinta per tornare a crescere. Venendo al tema della consultazione, decisa dal Consiglio dei ministri il 27 gennaio scorso, ricordiamo anzitutto che il “valore legale” in questione ha due significati:
1) il titolo di studio è stato conseguito nel rispetto della legge;
2) il titolo viene utilizzato per finalità (accesso alle professioni e al pubblico impiego) e con modalità definite dalla legge.

Ciò vale ovviamente per ogni “titolo” di cui la legge regola sia il conseguimento sia l’uso: dal passaporto alla patente di guida. In altre parole, non ha molto senso dire che si vuole “abolire” qualcosa che intanto esiste in quanto c’è una legge che lo regola. Ma si può ben modificare quella legge, per ciascuno dei due ambiti rilevanti.

La consultazione decisa dal Governo e gestita dal ministero dell’Istruzione – come risulta evidente dalle domande cui si può rispondere – è tuttavia concentrata sul solo aspetto del pubblico impiego, per il quale è comunque prevedibile un esito di buon senso del tipo: ciò che davvero conta è che siano fatti bene i concorsi. C’è qualcuno che non è d’accordo su questo?

Ma così viene completamente evitato il vero problema, che già Luigi Einaudi aveva in mente quando irrideva il valore legale del “pezzo di carta”. Il problema, che è di natura politica prima che giuridica, riguarda – da un lato – il rapporto tra la libertà di scelta degli studenti (e delle loro famiglie) e – dall’altro – la penetrante quotidiana attività che il ministero da sempre svolge per garantire il più possibile l’uniformità delle 300 sedi universitarie italiane.

La stessa – già decisa – attività di valutazione delle università e la successiva conseguente distribuzione loro dei fondi pubblici servirà più che a correggere le divergenze ad esaltarle: a chi più ha, più sarà dato.

Dobbiamo quindi ricordarci che, pur con grande cautela e gradualità, ci siamo avviati, finalmente, sulla strada di una crescente autonomia delle università: abbastanza autonome da poter tra loro competere per attrarre i migliori studenti. Il che significa che, se non siamo ancora pronti a ridimensionare il valore legale della laurea, siamo peraltro già incamminati su quella strada.

E dovremmo seriamente discutere di due cose che ci possono aiutare a rinforzare quel percorso, rendendolo più serio, essendo ambedue ispirate al principio della competizione tra le università: da un lato borse di studio e dall’altro collegi universitari. La gravità della crisi economica e la sofferenza in cui si trovano le famiglie italiane rischiano infatti di pregiudicare gli sforzi che si intendono dedicare al miglioramento delle nostre università, se non garantiamo con gli strumenti opportuni (monetari e reali) la mobilità degli studenti. Nella nostra Costituzione è chiaramente indicato il diritto dei giovani “capaci e meritevoli” di andare a studiare nelle università migliori, diritto che non potrà essere garantito tenendo basse tutte le tasse universitarie.

Ci vuole un po’ di coraggio, politico prima che tecnico o giuridico, nel riconoscere che la priorità è quella di “ridare valore” al titolo di studio, e che a tal fine la consultazione in corso serve poco.

Molto servirebbe – anche per dare una mano all’economia – un programma di costruzione di collegi universitari e uno spostamento di una quota di fondi pubblici destinati alle università dal finanziamento dell’offerta a quello della domanda, cioè dal finanziamento degli stipendi dei professori a quello delle borse di studio degli studenti.

Il Sole 24 Ore 16.04.12

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