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"Monti teme la Grande Palude", di Claudio Tito

«Il mio compito è salvare il Paese. Sono stato chiamato per questo, per metterlo in sicurezza. Deve essere chiaro». I mercati tornano a fibrillare, la Borsa di Milano subisce un altro pesante scossone, lo spread con i bund tedeschi si impenna fino a sfiorare la soglia psicologica dei 400 punti, i tassi sui nostri titoli di Stato crescono. Una situazione che certo non lascia tranquillo Mario Monti. Alle prese con un sisma che seppure ha l´epicentro in Spagna, allarga il raggio delle sue scosse anche all´Italia.
Tutti elementi di allarme che si affiancano, però, ad un fattore considerato a Palazzo Chigi ancora più preoccupante: il nervosismo che sta agitando la maggioranza. In particolare i distinguo con cui il Pdl sta affrontando la riforma del lavoro costituiscono un dato di inquietudine. Non tanto per la semplice richiesta di modificare il provvedimento, ma per il senso di instabilità che stanno trasmettendo dentro l´esecutivo e nella comunità internazionale.
Il presidente del consiglio è convinto che nessuno – né il Pdl, nè il Pd – in questo momento coltivi la tentazione di far cadere tutto e far precipitare il Paese verso le elezioni anticipate. Le conseguenze sui nostri fondamentali dell´economia, a partire dal pil che nel 2012 è stimato sempre più in discesa, sarebbero devastanti. Il timore però è quello di ritrovarsi in una gabbia, in una «palude» di veti incrociati in cui è di fatto impossibile dare una direzione al governo e in cui la squadra “montiana” perde ogni forma di autonomia. A quel punto ogni passo di Palazzo Chigi o dei ministri verrebbe contraddetto o smentito di volta in volta da un pezzo della maggioranza. Uno degli esempi che circola alla presidenza del consiglio fa riferimento a quel che è accaduto proprio ieri sulla vicenda Imu. Con il relatore di maggioranza, il pidiellino Conte, che annuncia un emendamento per rateizzare l´imposta senza concordarlo o perlomeno annunciarlo agli uomini del Professore. E il segretario del Pd Bersani che per tutta risposta rispolvera l´idea della “patrimoniale” proprio per contestare la linea berlusconiana. Una miscela esplosiva, insomma, di cui il presidente del consiglio è consapevole. Un episodio che spiega le ansie che assillano il Professore in queste ore.
Del resto, le mosse compiute di recente dal Popolo delle Libertà hanno provocato un certo disorientamento. L´accordo siglato dal segretario Alfano sulla riforma del lavoro è stato poco dopo messo in discussione. Il timore del premier è che una parte consistente del partito di maggioranza relativa stia remando anche contro l´ex ministro della Giustizia. In particolare il gruppo “anziano” dei berlusconiani e gli ex An che tentano di strappare un ruolo nella nuova fase. Così come nessuno nel governo ha trascurato l´asse che improvvisamente si è saldato con il presidente uscente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Quel giudizio – «very bad» – rilasciato sul Financial times ha fatto letteralmente infuriare Monti proprio per l´immagine che si dava all´estero del Paese. E la successiva “alleanza” con il Pdl ha fatto sorgere in molti il sospetto che ci sia un disegno per il coinvolgimento «politico» della imprenditrice.
Lo stesso presidente del consiglio e il ministro del Lavoro Fornero stanno già predisponendo alcune soluzioni sulla “flessibilità in entrata” per accogliere in parte le richieste di Alfano. Ma gli interrogativi di Palazzo Chigi riguardano gli obiettivi «generali» e non quelli circoscritti alla “riforma Fornero”. La paura che in prossimità del voto amministrativo del 6 maggio, la campagna elettorale prenda il sopravvento sulla solidarietà di coalizione. Perché la bussola che orienta il capo del governo – sempre in contatto con il Quirinale – si ferma sempre su un punto: «Sono stato chiamato per salvare il Paese, e i compromessi possono essere siglati solo per il bene del Paese. E non al ribasso». Del resto, proprio nell´ultimo vertice a palazzo Grazioli, Silvio Berlusconi è stato esplicito su questo confermando i timori del suo successore: «Non dobbiamo mettere a rischio il governo, ma nello stesso tempo dobbiamo cogliere l´occasione di quel che sta accadendo nella Lega per tuffarci sul loro elettorato. E per farlo non possiamo lasciare spazio alle parole d´ordine del Carroccio, a cominciare dal lavoro». E quindi prendere indirettamente le distanze. Un modo anche per instaurare il metodo dello scambio su alcune materie sensibili come la giustizia. Su cui il ministro Severino sta subendo costanti «pressioni» proprio dalla componente meno dialogante del Pdl.
Non solo. Con la tornata di maggio, si apre di fatto la campagna elettorale per le politiche. E tra gli uomini del Professore c´è chi prende in considerazione la possibilità che qualcuno sia interessato a diluire il ruolo di Monti, a sfibrarlo e a scaricare su di lui le eventuali responsabilità di una crisi economica perdurante per poi tentare di presentarsi alle urne come unico soggetto affidabile.
Un clima dunque che rischia di trasformare Palazzo Chigi in un fortino nel quale asserragliarsi per organizzare una difesa sia dal fuoco esterno, quello dei mercati finanziari, sia da quello «amico», alcuni dei partiti di maggioranza. Anche per questo il premier ha convocato per martedì prossimo un vertice con i tre segretari Alfano, Bersani e Casini. Per reclamare un chiarimento. E ha rinunciato al G8 dei ministri finanziari che si riunisce a Washington per affrontare la situazione e non stare lontano da Roma per troppo tempo.
Un clima che in settori del Pdl sta facendo circolare la tentazione di far naufragare il vascello di Monti in estate e votare in autunno. Una soluzione contro cui, però, il Cavaliere e anche il segretario del Pd stanno attrezzando una sorta di trincea di «fine legislatura». Che tuttavia rischia di essere spazzata via se il patto sulle riforme – compresa quella elettorale – dovesse saltare nelle prossime settimane. Tanti indizi, quindi, che stanno facendo scattare il campanello d´allarme a Palazzo Chigi. Anche se nel corso del consiglio dei ministri di ieri, il Professore ha rassicurato suoi colleghi: «Andiamo avanti, nonostante i tentativi di rallentarci e di guadagnare qualche in voto in più alle prossime amministrative».

La Repubblica 14.04.12

"Da rifare gli organici dell'ultimo triennio?", da Tuttoscuola

Nel determinare gli organici del personale docente non bastano tabelle e dati per la distribuzione dei posti sul territorio nazionale. Occorrono criteri trasparenti e ragionevoli, altrimenti anche le buone ragioni, se non sono espresse, diventano colpe. Ne sa qualcosa ora il Miur che dovrà fronteggiare una sentenza (n. 2032/2012) del Consiglio di Stato (ne ha parlato Orizzontescuola) che condanna il ministero dell’istruzione a subire il commissariamento se non provvederà entro quattro mesi a emanare nuovi decreti motivati per l’assegnazione dei posti di docente dell’ultimo triennio.

La storia di questa ennesima vicenda sugli organici nasce un po’ di tempo fa a seguito di un ricorso presentato nel 2010 da alcuni docenti supplenti delle province di Enna e Catania iscritti nelle graduatorie ad esaurimento che avevano ritenuto sperequata e non giustificata la distribuzione dei posti di organico dei docenti che si era conclusa, secondo i ricorrenti, a favore del Nord.

Il Consiglio di Stato non aveva ritenuto fondata l’accusa, ma aveva comunque rilevato la mancanza di un’adeguata motivazione della decisione ministeriale e aveva invitato l’Amministrazione a provvedervi adeguatamente.

Il Miur aveva eseguito una prima ordinanza istruttoria del Consiglio di Stato indicando come criterio “quello della proporzionalità dei posti disponibili”, ma non aveva eseguito invece una seconda ordinanza volta a “conoscere le modalità aritmetiche e logiche con cui si è provveduto alla concreta applicazione”.

Da qui la nuova decisione del Consiglio di Stato di considerare nulli i provvedimenti di determinazione degli organici degli ultimi tre anni e di disporre che il Miur provveda ad emanarne dei nuovi in sostituzione e nel rispetto della norma. Se non vi provvederà entro 120 giorni, spetterà al commissario ad acta – già individuato dal Consiglio di Stato nel Capo dipartimento per l’istruzione, Lucrezia Stellacci – provvedere nei termini indicati dalla sentenza.

Ci si chiede ora se basterà motivare criteri e modalità aritmetiche per confermare di fatto quanto già deciso o se invece vi sarà anche una riforma della ripartizione degli organici con assegnazione diversa ai vari territori come aveva richiesto a suo tempo i ricorrenti siciliani.

da Tuttoscuola 14.04.12

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“Tra Nord e Sud, immissioni in ruolo da rivedere”, di Dino Caudullo

Il Ministero dell’istruzione è stato messo alle corde dal Consiglio di Stato il quale, con la sentenza 2032 del 5 aprile scorso, ha ordinato all’Amministrazione scolastica di rivedere entro il termine di 120 giorni la ripartizione del contingente nazionale fra le varie province italiane al fine delle immissioni in ruolo ed in particolare quello per le province di Catania ed Enna. Già nominato un commissario ad acta. Cronistoria dei fatti.
Bisognerà, dunque, provvedere alla nuova individuazione dei posti vacanti in ciascuna provincia, per gli anni scolastici 2008/2009 e 2009/2010 e rinnovare i decreti di immissione in ruolo per tali anni. E’ già stato nominato un commissario ad acta, per il caso di inerzia da parte dell’Amministrazione.
La decisione emessa da Consiglio di Stato, in sede di ottemperanza al giudicato formatosi su una sentenza (la n. 4286/2011) pronunciata dagli stessi Giudici di Palazzo Spada, rischia di determinare un vero e proprio terremoto, dato che impone la totale revisione della ripartizione dei contingenti dei posti destinati alle immissioni in ruolo per il biennio 2008/2010, con la conseguente possibilità di revisione di tutte le immissioni in ruolo disposte nel periodo in questione.
Per meglio comprendere la portata dell’obbligo di fare ordinato all’Amministrazione scolastica, è opportuno ripercorrere le fasi che hanno preceduto il giudizio di ottemperanza.
Un gruppo di docenti che, avendo maturato un elevato punteggio con titoli di specializzazione e di perfezionamento, aspiravano all’immissione in ruolo, ed un gruppo di genitori di alunni disabili, avevano impugnato innanzi al Tar Lazio i decreti ministeriali n. 61/2008 e n. 73/2009 e le relativa tabella di distribuzione del contingente di nomine per gli anni scolastici 2008/2009 e 2009/2010, ritenendoli illegittimi per due ordini di motivi.
In primo luogo ritenevano sottodimensionato il numero delle assunzioni disposto a livello nazionale rispetto alla programmazione del 2007 e quindi la mancata assunzione a tempo indeterminato di quanti, come i ricorrenti, non erano rientrati nelle procedure di stabilizzazione, seppure ricompresi nelle graduatorie ad esaurimento, ed in secondo luogo perché ritenevano comunque illegittima in quanto immotivata la distribuzione di posti tra le province del Nord e quelle del Sud, risultando queste ultime ingiustamente penalizzate.
Siffatta condotta dell’Amministrazione, secondo la tesi dei ricorrenti, si poneva in contrasto con i principi costituzionali del diritto allo studio (art. 34 Cost.) della giusta ed equa retribuzione (art. 35 Cost.) e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.); violando pure il principio di continuità didattica e, nel caso degli alunni portatori di handicap, provocando un avvicendamento reiterato dell’insegnante di sostegno, rendendo proibitivo il percorso di apprendimento e di inserimento dell’alunno disabile, in violazione dell’art. 38 Cost. che tutela il diritto all’educazione e all’avviamento professionale dei disabili ed in violazione delle norme internazionali sull’argomento.
Il Tar Lazio, a conclusione del giudizio di primo grado, ha rigettato il ricorso ritenendolo infondato in quanto, il programma che il Ministero si era posto, di riassorbire i 150.000 precari c.d. “storici” della scuola a partire dall’a.s. 2007/2008, era necessariamente subordinato ai riscontri di bilancio necessari per la sua attuazione, oltre che alla necessità della sussistenza dei posti vuoti in organico, tali da consentire la stabilizzazione annuale di un certo contingente di precari; inoltre l’amministrazione scolastica aveva rappresentato che le assunzioni del personale docente precario avvenivano proporzionalmente mediante l’assegnazione del 49% dei posti disponibili, e tale criterio, del quale l’amministrazione non aveva esplicitato alcuna origine normativa o regolamentare, essendo basato solo su esigenze di tipo finanziario, non è stato autonomamente impugnato dai ricorrenti.
Avverso la sentenza di primo grado, gli interessati hanno proposto appello innanzi al Consiglio di Stato il quale, con sentenza n.4286 depositata il 14 luglio 2011, ha riformato la decisione del primo giudice, accogliendo le doglianze dei ricorrenti.
In particolare, i Giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato che, sul primo versante, i ricorrenti hanno lamentato illegittimità del sottodimensionamento delle assunzioni disposto a livello nazionale rispetto alla programmazione del 2007, come risultante dall’art. 1, comma 605, lett. c) della legge n. 296/2006 (laddove stabiliva che il Ministero dell’istruzione si dotasse di un piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato di personale docente per gli anni 2007-2009 di 150.000 unità) e dal decreto che aveva disposto di programmare per l’a.s. 2007/2008 l’assunzione di 50.000 unità e per gli anni scolastici successivi (2008/2009 e 2009/2010) delle restanti 100.000 unità.
I ricorrenti hanno sostenuto l’assenza di un’adeguata motivazione, e di una congrua istruttoria, a sostegno della disposta ripartizione del contingente fissato di assunzioni tra le province meridionali e quelle del Centro Nord, rilevando a titolo esemplificativo che, nel caso di Brescia, pur essendovi una minore popolazione scolastica e quasi tutte le graduatorie dei precari già esaurite, la provincia ha ottenuto un contingente di immissioni in ruolo sensibilmente superiore a quello di Catania, provincia più affollata di studenti e ad alto tasso di precariato; hanno anche soggiunto che la provincia di Enna è stata destinataria di sole 72 immissioni in ruolo.
Sotto un primo aspetto il Consiglio di Stato ha condiviso quanto sostenuto dal primo giudice, laddove ha disatteso le censure con cui è stata dedotta l’illegittimità del sottodimensionamento delle assunzioni disposto a livello nazionale rispetto alla programmazione del 2007, in quanto il legislatore aveva subordinato il riassorbimento dei 150.000 precari cd. “storici” della scuola a partire dall’a.s. 2007/2008 ai necessari riscontri di bilancio, oltre che alla necessità della sussistenza dei posti vuoti in organico, tali da consentire la stabilizzazione annuale di un certo contingente di precari.
Il giudice d’appello ha, invece, condiviso i rilievi dei ricorrenti riguardanti la lamentata assenza di un’adeguata motivazione ed, a monte, di una congrua istruttoria a sostegno della disposta ripartizione del contingente fissato di assunzioni tra le province meridionali e quelle del Centro Nord, considerato che queste ultime sarebbero state favorite rispetto a quelle meridionali, penalizzate da una irragionevole ripartizione dei posti per le assunzioni.
Ritenendo necessario acquisire alcune informazioni ai fini di verificare il concreto iter logico seguito dall’Amministrazione nell’attendere alla suddivisione del personale da stabilizzare tra le diverse province e regioni italiane, il Consiglio di Stato ha disposto l’acquisizione di documenti e di una relazione ministeriale volta ad indicare, tra l’altro, le operazioni, logiche o aritmetiche, compiute e sottese alla determinazione, regione per regione e provincia per provincia, del numero di personale da assumere.
Dalla documentazione prodotta in giudizio dall’Amministrazione, non sono però emerse le modalità aritmetiche o logiche con cui si è provveduto alla concreta applicazione del criterio della “proporzionalità al numero dei posti disponibili”, dall’Amministrazione indicato quale canone seguito nella ripartizione del personale da assumere tra le diverse regioni e province.
Alla luce di ciò, il Consiglio di Stato ha quindi ritenuto fondate le censure di difetto di istruttoria formulate dai ricorrenti riguardo alla disposta ripartizione del contingente fissato di assunzioni tra le province meridionali e quelle del Centro Nord, accogliendo quindi l’appello con il conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati.
A fronte dell’inerzia dell’Amministrazione, che non ha eseguito la predetta sentenza, i ricorrenti si sono rivolti nuovamente al Consiglio di Stato affinché ordinasse al Miur di ottemperare al giudicato formatosi sulla decisione.
I giudici di Palazzo Spada nell’evidenziare che i provvedimenti annullati con la sentenza n. 4286 del 2011 sono attuativi della normativa di legge con cui è stata disposta la definizione di un piano triennale di assunzioni nella scuola (art. 1, comma 605, lett. c), della legge n. 296 del 2006), hanno puntualizzato che l’Amministrazione deve nuovamente provvedere con la riemanazione dei detti decreti poiché resterebbe altrimenti inattuata la disposizione legislativa per quanto attiene alla ripartizione del contingente nazionale fra le varie province italiane al fine delle immissioni in ruolo.

La Tecnica della Scuola 14.04.12

"Produzione industriale a febbraio rosso del 6,8%", di Tonia Mastrobuoni

A febbraio la produzione industriale è crollata del 6,8 per cento rispetto a un anno fa. È il sesto calo consecutivo su base tendenziale (anno su anno) ed è il dato più negativo da novembre del 2009. Ma anche rispetto al mese precedente uno dei principali termometri dell’economia italiana ha subito una flessione dello 0,7 per cento, fa sapere l’Istat. Tra dicembre e febbraio il calo è stato dunque dell’1 per cento mentre a gennaio e febbraio la produzione industriale ha totalizzato una contrazione del 5,7 per cento rispetto agli sessi mesi del 2011.

Il ministro dello Sviluppo Corrado Passera ha commentato il dato sottolineando che «dobbiamo rimettere in moto la crescita e battere le previsioni. È necessario fare in modo che l’Italia esca dalla recessione prima di ciò che indicano enti di ricerca e istituzioni». Per il ministro va affrontato con particolare impegno «un disagio sociale di grandissima serietà. E non parliamo solo dei disoccupati ma anche degli inoccupati, dei cassintegrati e dei sotto-occupati».

Confindustria ha reagito al dato Istat con le consuete previsioni «flash». A marzo stima una variazione nulla rispetto a febbraio e nei primi tre mesi dell’anno prevede ancora un dato che offre un chiaro sintomo della recessione in atto: -2,3 per cento rispetto al trimestre precedente. E le prospettive per il prossimo, osserva il centro studi di viale dell’Astronomia, sono incerte.

Se è vero che gli imprenditori vedono un po’ più rosa a marzo, è vero anche che le valutazioni dei direttori di acquisto sugli ordini ricevuti dalle imprese manifatturiere (gli ordini rappresentano la domanda di prodotti e dunque sono una «sentinella» per capire come va la produzione industriale nel futuro immediato) segnalano arretramenti marcati, secondo Confindustria. In particolare l’indice del Pmi manifatturiero si è collocato a 45,7 da 46,4 di febbraio. Dovuto a una «significativa» debolezza della domanda interna. I consumi, insomma languono. L’unica luce, in questo quadro buio, è l’export. Dopo sette mesi di flessione consecutivi gli ordini esteri raccolti da Confindustria nell’indagine tra gli imprenditori sono tornati di nuovo a crescere dal 49,6 di gennaio al 51,4 di febbraio.

Fa impressione il paragone tra la caduta di febbraio e un mese ancora vivace della fase pre-crisi, aprile del 2008: da allora la produzione industriale italiana è crollata del 22,1 per cento. Mentre rispetto al momento più buio della recessione, marzo 2009, c’è stato un recupero del 5,4 per cento, fa sapere viale dell’Astronomia.

Guardando nel dettaglio i dati Istat è evidente la flessione pesante nei beni di consumo, sia durevoli (autoveicoli in caduta dell’,11,2 per cento) ma anche non durevoli (il tessile e abbigliamento è sceso del 12,9 per cento). Il balzo dell’energia dell’11 per cento si spiega invece con l’inverno che è tornato a mordere e che ha fatto impennare i consumi di energia elettrica, gas e vapore.

Preoccupati i sindacati: la Cgil punta il dito contro il governo, reo di «un grave ritardo determinato dall’assenza di politiche per la crescita»; le fa eco la Cisl che definisce il dossier ancora «debole», mentre la Uil non è sorpresa: «un crollo della produzione scontato».

La caduta della produzione non è stata l’unica notizia uscita ieri dall’istituto di via Balbo che desta preoccupazione. L’inflazione ha raggiunto a marzo il 3,3 per cento rispetto a un anno fa ed è salita dello 0,5 per cento rispetto a febbraio. Un combinato disposto, quello di un aumento dei prezzi a ritmi sostenuti e un’economia che non riesce a riprendersi dalla recessione, che non induce ad essere ottimisti, almeno per ora.

La Stampa 14.04.12

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Crolla la produzione mai così male dal 2009″, di Luciano Costantini

L’Istat continua a sfornare risultati scoraggianti, Confindustria delinea scenari piatti. Quadro di sintesi della produzione industriale: sul passato recente e sul futuro prossimo. Un trend negativo che resta costante da sei mesi a questa parte. Il nostro istituto di statistica dice che a febbraio la produzione è in calo dello 0,7% rispetto a gennaio (dato destagionalizzato) e del 6,8% su base annua (dato corretto per gli effetti del calendario). Si tratta del picco più basso registrato dal novembre del 2009 quando l’arretramento arrivò al -9,3%. In generale rimangono bloccati i beni di consumo e resta in profondo rosso il settore automobilistico.
A gennaio la flessione era stata del 2,6%, nella media del trimestre dicembre-febbraio l’indice risulta diminuito dell’1,0% rispetto ai tre mesi precedenti. Nella media dei primi due mesi dell’anno la produzione è scesa del 5,7% sullo stesso periodo del 2011.
Passando ad analizzare i principali settori industriali, a febbraio l’indice destagionalizzato segna variazioni positive congiunturali nel comparto dell’energia (+5,7%) e in quello dei beni strumentali (+2,0%). Variazioni negative per i beni di consumo (-2,3%) e per i beni intermedi (-1,9%). In termini tendenziali l’indice corretto per gli effetti del calendario segnala rialzi per il solo comparto dell’energia (+3,3%), evidentemente sulla spinta di un clima particolarmente rigido. Diminuiscono in modo significativo i beni intermedi (-10,6%) e quelli di consumo (-9,6%). Aumenti marcati, invece, per la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (+11,0%), della fabbricazione di computer, prodotti di elettronica ed ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (+5,0%). I cali più evidenti nel settore della fabbricazione di prodotti chimici (-13,9%), nell’industria tessile, abbigliamento, accessori e pelli (-12,9%) e nell’industria del legno, della carta e della stampa (-12,8%). In forte arretramento la produzione di automobili che a febbraio fa registrare un meno 11,2% rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Nel primo bimestre del 2012 la flessione è stata addirittura del 23,5% rispetto al gennaio-febbraio dello scorso anno.
E Confindustria non vede schiarite all’orizzonte. Il Centro Studi di viale dell’Astronomia prevede per marzo una variazione nulla rispetto a febbraio. Cioè prospettive incerte. Il Csc precisa che il recupero dai minimi della recessione (marzo 2009) si è attesta al 5,4% e al -22,1% la distanza dal picco di attività pre crisi (aprile 2008). Prevista una flessione degli ordini, spiegata con una «significativa debolezza della domanda interna», mentre per l’estero, dopo sette mesi di contrazione, la domanda torna in segno positivo.
I sindacati ancora una volta fanno risuonare l’allarme puntando il dito sulla scarsa crescita, causa principale delle deffailances dell’industria. Il segretario confederale della Cgil, Vincenzo Scudiere, denuncia «i gravi ritardi» del governo. «I dati Istat – avverte Luigi Sbarra della Cisl – possono essere il preludio di una gelata dell’economia». Con una pressione fiscale sempre più rilevante, commenta Paolo Pirani della Uil «non ci si poteva attendere un dato positivo». Per Paolo Varesi dell’Ugl «servono fatti e non parole».

Il Messaggero 14.04.12

"Non sarà solo colpa dei partiti", di Stefano Menichini

Di chi sarà stata la responsabilità, se andrà a finire come cominciano a ipotizzare i sondaggisti (Paolo Natale oggi su Europa), cioè con un movimento irriducibile a qualsiasi logica di governo che schizza oltre il 10 per cento, e in generale un’area di vario estremismo che sale oltre il 25 per cento?
Conosco la risposta più gettonata. È la più facile. Sarà stata colpa dei partiti: incapaci di autoriformarsi, di emendarsi degli errori e degli orrori commessi coi soldi pubblici, di ritrovare sintonia con un paese esausto e arrabbiato.
Non è una risposta soddisfacente. È solo una parte della verità. Anzi, non è neanche del tutto vera. La prima parziale riforma del finanziamento pubblico che i giornali hanno definito con tono liquidatorio «al ribasso» impedirebbe già da sola, da subito, il ripetersi dei casi Lusi e Belsito. In più, si inquadra in un progetto che richiede un tempo minimo per introdurre una novità assoluta nella storia repubblicana: lo status giuridico dei partiti; l’introduzione di regole di trasparenza, democrazia e controllo là dove regnano da decenni discrezionalità, opacità, tribalismo.
Ma questo non è più sufficiente a soddisfare la fame di devastazione che divora i critici della famigerata partitocrazia. Come non basterebbe il taglio dei rimborsi elettorali proposto saggiamente da Fassino: un solo euro per voto espresso. La furia s’è già scatenata: «Non un euro, zero euro!». Che vuol dire: partiti, dovete chiudere. Basta.
Abbiamo sempre dissuaso il Pd dal commiserarsi con l’argomento del complotto ai suoi danni da parte di poteri e gruppi editoriali forti. Ognuno però deve prendere ora le responsabilità che competono. La narrazione che sta passando in Italia non è scritta dai partiti, né i partiti da soli sono in grado di invertirne il senso. La domanda non è: «riformatevi». La domanda è: «scomparite». E se anche i partiti si riformassero più radicalmente di quanto siano capaci di fare, la pressione non si alleggerirebbe. Anzi.
Tutto questo avrebbe una logica se davvero si puntasse a costringere i partiti in uno stato di necessità che li obblighi a prolungare la stagione dei governi tecnici: opzione discutibile, per qualcuno nel Pd inaccettabile, ma in sé non tragica per il paese.
Solo che esiti del genere non si possono pianificare a tavolino. Quando una diga si rompe, l’acqua trova strade impreviste. E i fautori dichiarati od occulti della purga benefica al sistema dei partiti potrebbero ritrovarsi domani, avendo sperato nel trionfo dello stile Monti, col trionfo dello stile Beppe Grillo. Che vuol dire No Tav, no riforma del lavoro, no rilancio delle opere pubbliche, no liberalizzazioni, no tutto: centinaia, migliaia di no ripetuti rabbiosamente in ogni parte d’Italia.
Il sistema dei partiti uscito malconcio dalla crisi della Seconda repubblica (e siamo appena agli inizi) non è in grado di imporre una convincente exit strategy. Non lo vogliamo né lo possiamo assolvere. Nella nostra prossimità al Pd ci battiamo attivamente contro la leggenda del ritorno al partito di massa anche perché sappiamo che, non potendosi realizzare nelle masse, esso si invererebbe intanto nel rigonfiamento degli apparati. Il finanziamento pubblico è un elementare fattore democratico di bilanciamento di forze, però sono corsi davvero troppi soldi.
Essendo anche noi di Europa parte di questo mondo, faremo per primi ogni cosa possibile per ridurne il costo e il peso.
Però non possiamo neanche caricare i partiti di una missione titanica di rigenerazione democratica sapendo che marciano con le gomme bucate.
Ognuno allora deve fare il proprio mestiere. L’informazione per esempio non ha solo il compito di raccontare, amplificare, denunciare, tutte cose che si stanno facendo benissimo: per sua stessa costituzione commenta, propone, indica vie alternative percorribili che non siano l’intimazione al suicidio, intuisce gli esiti possibili compresi quelli peggiorativi dell’esistente.
Insomma, offre all’opinione pubblica una narrazione: l’attuale è in gran parte frutto di un mainstream che non s’è accontentato dall’uscita di scena di Berlusconi e trova nuova forza nelle obiettive nefandezze di inqualificabili pezzi di classe dirigente. Non si corre il rischio dell’autocensura. Quello di montare una valanga senza interrogarsi su dove questa vada a cadere sì.
Stiamo facendo bene questo nostro lavoro, lo stanno facendo bene coloro che hanno maggiore peso, impatto, responsabilità? Non lo so, ho forti dubbi. Prevale soprattutto la voglia di calciare forte la palla e vedere quale finestra si rompe. Inevitabilmente, anche quest’ultimo tentativo dei partiti si infrange contro un muro di diffidenza popolare: è una cattiva notizia.
Non vorrei ritrovarmi fra qualche anno a leggere le recriminazioni già ascoltate negli anniversari di Tangentopoli da chi s’era illuso e aveva alimentato speranze di palingenesi, per poi ritrovarsi disgustato dal reale, concreto, corso della storia.

da www.europaquotidiano.it

"Norme sui rimborsi, la Camera frena. A rischio il rinvio dei cento milioni", di Monica Guerzoni

Il piccolo vascello della riforma dei partiti si è già incagliato. Una manciata di ore dopo l’approvazione della bozza da parte dei leader dei partiti, l’emendamento con le norme sulla trasparenza dei bilanci è stato dichiarato inammissibile dal presidente della Camera Gianfranco Fini. A sera, sia pure dopo una giornata travagliata, la riforma ha ripreso il suo viaggio. Ma ora il rischio è che salti l’impegno dei leader a far slittare l’ultima tranche dei rimborsi elettorali.
Il problema non è tanto il contenuto, quanto lo strumento che Pd, Pdl e Terzo polo hanno scelto per affrontare l’iter parlamentare. L’idea di accelerarne l’approvazione agganciando il provvedimento al decreto semplificazioni fiscali, in discussione alla commissione Finanze della Camera, è stata stoppata da Lega, Idv e Radicali. Ma poi anche Fini, che ha esaminato il caso nel pomeriggio, ha dovuto prendere atto della estraneità dell’emendamento alla materia del decreto e della mancanza dell’unanimità da parte dei gruppi. E così ha scritto al relatore Giorgio Conte e gli ha comunicato la bocciatura. Decisione non semplice, alla quale il presidente è giunto anche per la moral suasion del Quirinale, contrario com’è noto ai decreti trasformati in «leggi omnibus». Il capo dello Stato ne avrebbe parlato al telefono con Fini e, de visu al Colle, anche con Casini.
Il dietrofront causato dalla «incongruità» del provvedimento ha messo in seria difficoltà i leader, che rischiano di perdere la faccia su una questione che molto sta a cuore ai cittadini. Ore di nervosismo e contatti frenetici, che hanno visto i tecnici dei partiti in grande agitazione per la sconfessione subita dopo che la presidenza della Camera, così raccontano, aveva loro offerto rassicurazioni sull’ammissibilità del testo. A tempo di record Alfano, Bersani e Casini si sono visti costretti a mettere a punto un «piano B», un disegno di legge da approvare in sede legislativa in commissione Affari costituzionali, senza passare per l’Aula. Un’ora dopo il «niet» di Fini, il nuovo testo era già pronto. Ma non sarà una passeggiata. Il radicale Maurizio Turco annuncia il suo voto contrario all’iter in commissione: «Credono di essere Qui, Quo e Qua nel Club di Topolino? Loro decidono e gli altri ratificano?». Per ottenere la sede legislativa serve l’unanimità dei gruppi e le perplessità, per la Lega come per l’Idv, riguardano anche il merito. Il Carroccio rischia di vedersi applicate le sanzioni prima di incassare l’ultima tranche dei rimborsi e di dover pagare multe molto salate, perché dunque dovrebbe dare il via libera al provvedimento? Il testo intanto sta subendo ritocchi.
Il passaggio più delicato è l’istituzione della Commissione trasparenza, perché i presidenti di Corte dei Conti, Consiglio di Stato e Cassazione non avrebbero gradito la decisione che tocchi a loro passare al setaccio i conti delle forze politiche. I partiti dovranno far valutare i loro bilanci da società di revisione esterne e non potranno investire se non in titoli emessi dallo Stato. Le donazioni private che eccedono i cinquemila euro dovranno essere pubbliche e i bilanci saranno visibili sul portale della Camera. Quanto ai finanziamenti, non c’è alcun ripensamento in vista. I tagli sono rinviati alla fine di maggio, quando la commissione Affari costituzionali della Camera si occuperà della riforma dei partiti, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.

Il Corriere della Sera 13.04.12

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“Finanziamenti, ABC puntano alla fase 2 ma intanto s’ingorga anche la fase 1”, di Fabrizia Bagozzi

Mentre si ragiona della riforma dei rimborsi, l’accordo alla prova della commissione in sede legislativa
A dispetto di ogni polemica e dei tanti scetticismi che circolano (e non solo fuori dai propri partiti), gli sherpa della maggioranza ribadiscono che il – faticoso – accordo di mercoledì non è che la prima indispensabile puntata di un processo che arriverà entro la fine di maggio, al massimo ai primi di giugno, alla revisione dei criteri del finanziamento pubblico ai partiti.
Questo si erano detti nel lungo pomeriggio di due giorni fa a Montecitorio in cui, però, sul tema delle risorse si è arrivati a stabilire solamente il blocco dei 100 milioni di euro (più 60 se si contano anche le europee 2009) in arrivo entro luglio.
Uno stop connesso all’entrata in vigore dei nuovi controlli: la commissione ad hoc guidata dal presidente della Corte dei conti avrà il compito di valutare già i bilanci 2011 e in caso di irregolarità proporre sanzioni che spetterà ai presidenti di camera e senato applicare. Dati i tempi, anche per togliere argomenti a chi, come Di Pietro, parla di «accordicchio » (e tanto più che il Quirinale mantiene sulla questione un occhio vigile) arrivare realmente e in fretta alla fase 2 è ineludibile.
Per quanto tutt’altro che semplice e non solo per gli ovvi riflessi di autotutela del sistema. Sul tavolo, la revisione dei meccanismi di erogazione dei rimborsi, la loro eventuale riduzione (in una fase in cui, per effetto delle varie manovre, i contributi pubblici si sono comunque dimezzati negli ultimi due anni), la corrispondenza fra spese effettivamente sostenute (tenendo conto dell’attività politica ordinaria e delle strutture dei partiti) e risorse percepite, e l’eventuale affiancamento di forme di contribuzione dei cittadini (sul modello del 5 per mille sostenuto dal Pdl, per una volta d’accordo con l’Italia dei valori). Nel mezzo, tutto il dibattito sull’abolizione del finanziamento pubblico e del suo superamento sul modello americano.
Un lavoro non da poco e da chiudere al massimo in un mese e mezzo, visto che la discussione della legge sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione (status e democrazia interna dei partiti) in cui la riforma verrà incastonata sarà in aula a maggio. Ma se la fase 2 si annuncia decisamente impegnativa, parte in salita anche la fase 1. Ieri, infatti, Fini ha dichiarato inammissibile l’emendamento che recepiva l’accordo ABC nel decreto fiscale poiché l’argomento non è attinente al provvedimento. Tutto da rifare.
Il piano b della maggioranza è la presentazione di un disegno di legge in commissione affari costituzionali riunita in sede legislativa (primi firmatari Alfano, Bersani e Casini). Ma anche qui son dolori. Perché per il via libera alla “legislativa” (il provvedimento si chiude in commissione senza passare dall’aula) serve il sì di tutti i capigruppo oppure l’assenso dei quattro quinti dei membri, ovvero 38 su 47. Basta dunque che in 9 non siano d’accordo e si blocca tutto: Lega e Idv contano 7 membri.
Il radicale Maurizio Turco dirà di no. Un solo altro dissenso, e la valutazione se tenere la procedura legislativa passerà all’aula. Dove si vota per alzata di mano ma se il governo o un decimo dei membri della camera (cioè 63) non è d’accordo non si può procedere. A 63 si arriva facilmente contando Idv, Lega e Radicali. Nella valutazione dell’accordo Di Pietro non ha lasciato dubbi, ma il capogruppo Idv a Montecitorio Donadi ha tenuto uno spiraglio aperto: «È una riformicchia ma non bisogna dare l’occasione di dire: non abbiamo cambiato nulla per colpa di Idv».
Tonino alla fine ha confermato: «L’Idv è disponibile a qualsiasi intervento normativo per modificare l’attuale legge sul finanziamento dei partiti con una norma da adottarsi direttamente in commissione in sede legislativa» o in altro modo.

da Europa Quotidiano 13.04.12

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Soldi ai partiti, ecco come saranno controllati ma l’emendamento è inammissibile

Già presentato un disegno di legge a firma Alfano, Bersani, Casini. Per velocizzare l’iter andrà in commissione in sede legislativa, cioè senza passare dall’aula. Allo scopo di garantire la trasparenza e la correttezza nella gestione contabile e finanziaria, i partiti e i movimenti politici» dovranno avere i loro bilanci certificati da «società di revisione iscritte all’albo speciale tenuto dalla Consob». Recita così il primo comma dell’emendamento al decreto legge fiscale depositato dal relatore Gianfranco Conte, ma subito giudicato inammissibile dal presidente della Camera Gianfranco Fini «vista l’estraneità di materia e preso atto della mancanza di consenso unanime dei gruppi -scrive Fini- sull’esistenza di aspetti problematici che rende inammissibile l’emendamento». A questo punto l’unica strada resta quella del disegno di legge che per molti vuol dire un rinvio a tempi più lunghi per intervenire su un tema tornato di grande attualità dopo lo scandalo che ha travolto la Lega.

ITER RAPIDO – Ma i leader della maggioranza pensano ad un percorso a tappe forzate: un ddl che porta la firma dei leader di Pdl, Pd e Terzo Polo, Alfano, Bersani e Casini da approvare in commissione Affari Costituzionali in sede legislativa, ovvero senza passare dall’aula. Appunto un iter ultrarapido. Era questa l’ipotesi su cui si ragionava già nei giorni prima del tentativo, andato male, di inserire le nuove norme sui bilanci dei partiti nel decreto fiscale. Tuttavia anche il tentativo di approvazione lampo potrebbe saltare: per l’approvazione in sede legislativa occorre infatti il via libera all’unanimità della commissione. Bastano le firme di nove deputati per stoppare la «legislativa» e in commissione Affari Costituzionali Idv e Lega possono contare su sette deputati, l’ottavo no è gia arrivato dal radicale Maurizio Turco. A questo punto basterebbe un solo franco tiratore per far saltare tutto.

TESTO IDENTICO – Spiega il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto: «A questo punto l’unica strada è la presentazione di un disegno di legge alla Commissione Affari Costituzionali puntando a farlo approvare in via legislativa». «Prendiamo atto della valutazione di inammissibilità dell’emendamento al decreto fiscale che contiene le norme sulla trasparenza dei bilanci dei partiti -aggiunge il capogruppo del Pd Dario Franceschini- è una valutazione del presidente della Camera che rispettiamo. La volontà dei gruppi che sostengono quel testo era quella, attraverso l’emendamento al decreto, di fare entrare in vigore la norma in tempi brevissimi». «In nome di questo obiettivo -aggiunge- c’è già un accordo fra i gruppi che sostengono il governo per una proposta di legge con identico testo da approvare in commissione Affari Costituzionali in sede legislativa in tempi brevissimi».

BUFERA IN COMMISSIONE – In commissione finanze la Lega e l’Idv di Di Pietro si erano opposte con forza alla strada dell’emendamento e lo stesso presidente della Commissione Finanze Gianfranco Conte aveva già ravvisato che l’emendamento era a forte rischio. «Allo stato è da ritenersi inammissibile» aveva spiegato al termine della seduta della commissione. «Lo sottoporremo al presidente della Camera -aveva aggiunto- ma credo che anche lui sarà d’accordo su questa posizione. In un primo momento sembrava ci fosse unanimità tra i gruppi poi questa unanimità è venuta meno». Anche un esponente del Pd, Salvatore Vassallo, seppur a titolo personale, aveva espresso perplessità sull’ammissibilità. «C’è stato un dibattito piuttosto animato -ha spiegato Vassallo- è discutibile che lo si possa fare alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale sugli emendamenti estranei per materia ai decreti legge, come ha sottolineato anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Non si può inserire nel decreto fiscale una norma che non riguarda il flusso delle risorse che vanno ai partiti ma sulla rendicontazione».

DI PIETRO SU TWITTER – Antonio Di Piero si affida invece a Twiitter per criticare anche nel merito la riforma. «Incredibile: secondo la proposta ABC le multe ai partiti per irregolarità le decideranno presidenti di Camera e Senato». E ancora: «Il paradosso e la malattia antica della politica italiana: il controllato che nomina e controlla il controllore». Ma la maggioranza difendono sostanza e procedura seguita. Spiega il presidente dei deputati del Pd Fabrizio Cicchitto: «Abbiamo condiviso la presentazione di un emendamento al decreto sulla semplificazione tributaria che riproduce il testo riguardante la regolamentazione dei controlli sulle finanze dei partiti concordato fra il Pdl, il Pd, l’Udc e il Fli per l’urgenza che la questione presenta». Mentre da Monasterace era intervenuto anche il segretario del Pd Luigi Bersani: «Spero di mettere in un decreto queste prime norme sui contributi ai partiti, su cui abbiamo trovato l’accordo, se ce ne danno la possibilità i presidenti delle Camere. Questo per farle partire immediatamente».
I PUNTI SALIENTI – Resta comunque l’intesa nel merito raggiunta da Pdl, Pd e Terzo Polo per controllare la gestione del finanziamento pubblico. Questi i punti qualificanti dell’emendamento giudicato inammissibile. Oltre al Controllo da parte di società di revisione era prevista l’istituzione di una Commissione per la Trasparenza «Avrà sede presso la Camera che provvederà, insieme al Senato, ad assicurarne l’operatività anche attraverso la dotazione di personale di segreteria -si legge nel testo- L’organismo sarà composto dal presidente della Corte dei Conti che coordina, da quello del Consiglio di Stato e dal primo presidente della Cassazione. Ciascuno di loro potrà avvalersi fino a un massimo di 2 magistrati appartenenti ai rispettivi ordini giurisdizionali». Nessuno di loro percepirà «alcun compenso». E ancora «sul sito internet di ogni partito e di quello della Camera, entro il 15 giugno di ogni anno, dovranno essere pubblicati il rendiconto di esercizio dei partiti; la relazione del collegio sindacale; quella della società di revisione; i bilanci delle imprese partecipate; il verbale di approvazione del rendiconto». Tra l’altro è poi previsto il divieto «di investire i soldi pubblici ricevuti in strumenti finanziari diversi dai titoli di Stato italiani».

da www.corriere.it

"Finanziamenti pubblici", di Vincenzo Cerulli Irelli

Le notizie che provengono in questi giorni da fatti di malfunzionamento della finanza dei partiti, sprechi, assenza di controlli, spesso distorsioni delle spese da quelle attinenti l’attività politica, hanno messo in allarme l’opinione pubblica e rendono necessario da parte delle forze politiche un rapido e incisivo intervento di riforma.
Si deve aver chiaro che la legge attualmente vigente, adottata nel 1999 e modificata nel 2006, è diretta a disciplinare il rimborso delle spese per consultazioni elettorali e referendarie, non a finanziare i partiti politici nel loro funzionamento. La precedente legge di finanziamento dei partiti (n. 195/74) fu abrogata, come è noto, dal referendum del 1993.
Il legislatore trovò attraverso il rimborso per le spese elettorali un modo per arrivare a un risultato simile a quello cui direttamente non si poteva più arrivare, cioè appunto il finanziamento dei partiti. A questo fine il meccanismo di rimborso delle spese elettorali è stato tenuto negli anni a livelli assai più alti di quelli che il suo oggetto, cioè le spese elettorali effettivamente sostenute, richiederebbe. L’ancoraggio del rimborso, nell’ultima versione, alla moltiplicazione di un euro per il numero dei cittadini iscritti nelle liste per le elezioni della Camera, da corrispondersi in rate annuali, ha prodotto negli anni un surplus di risorse finanziarie nelle mani dei partiti. Il dato emerso dall’ultima relazione della Corte dei conti, che i giornali hanno ampiamente diffuso, che in termini globali evidenzia un divario tra le spese effettivamente sostenute (circa 500 milioni di euro dal 1994 al 2008) e i contributi statali erogati (oltre 2 milioni e 200 mila euro), ha impressionato l’opinione pubblica. Ciò al di là del fatto che queste somme siano state spese correttamente, cioè per il funzionamento dell’attività politica come probabilmente è avvenuto nella gran parte dei casi, ovvero per scopi personali, addirittura per appropriazioni a carattere delittuoso, come è avvenuto in determinati casi.
È emerso anche il fatto, in gran parte non conosciuto dalla opinione pubblica, che la spendita dei finanziamenti erogati dallo Stato a titolo di rimborso per le spese elettorali ma in verità per il finanziamento dei partiti, avviene sostanzialmente in assenza di controlli, se non il controllo generico sui rendiconti, dietro ai quali tuttavia si celano molteplici atti di spesa non soggetti a controllo. E sul punto emerge prepotente il rilievo, che ha anche un evidente valore giuridico e costituzionale, che queste somme erogate ai partiti sono denaro pubblico, così come tutte le altre somme destinate al funzionamento della pubblica amministrazione. E il denaro pubblico, come patrimonio della collettività, non può essere per principio sperperato; e al controllo che questo sperpero non avvenga presiedono apposite istituzioni, come la Ragioneria dello Stato o la Corte di conti, che viceversa in questa materia sono assenti.
Però, dietro questi fatti e l’esigenza che indubbiamente essi suscitano di una rapida riforma, si nasconde un tema assai serio, la cui serietà rischia di venire stravolta dalle polemiche e dagli scandali. I partiti politici, anche sulla base della Costituzione, sono istituzioni alle quali tutti i cittadini hanno diritto di partecipare, che svolgono la funzione pubblica fondamentale di elaborare gli indirizzi dell’azione di governo, di partecipare attraverso le competizioni elettorali all’individuazione dei titolari delle cariche di governo; di determinare la politica nazionale, afferma incisivamente l’articolo 49. Sarebbe affermazione troppo ovvia, che senza partiti politici, plurimi e in lotta tra loro per la conquista del potere e per l’affermazione dei rispettivi programmi di governo, la democrazia non esisterebbe. E perciò ritenere che alla vita dei partiti, al loro corretto funzionamento, al fine di assicurarne gli obiettivi nell’interesse generale della società, la finanza pubblica non debba contribuire, è cosa non facilmente accettabile.
Lo Stato finanzia molteplici istituzioni, pubbliche e anche private, nell’economia, nel sociale, nella cultura, nello sport. Non si vede perché lo Stato non possa finanziare i partiti che ne costituiscono l’ossatura fondamentale. Ma a tal fine occorre che la legge dello Stato a sua volta garantisca l’assetto organizzativo dei partiti secondo i chiari principi posti dalla Costituzione. Una volta che la norma costituzionale venisse attuata, sarebbe del tutto agevole reintrodurre in forme corrette e ovviamente in termini contenuti, un finanziamento ai partiti chiaro e trasparente per il loro funzionamento, del quale ovviamente i partiti stessi sarebbero chiamati a rendere conto.
Mentre tutt’altra cosa è il rimborso delle spese elettorali, che in quanto tale non può che essere rapportato a fatti concreti e documentati, cioè alle spese effettivamente sostenute dai partiti (a parte quelle che i singoli candidati o i partiti stessi si procurino da fonti private) nelle singole consultazioni elettorali.
A fronte di questo quadro, occorre procedere per successivi passaggi. Il primo è quello che pare sia stato avviato nel vertice di ieri tra i partiti della maggioranza che sostiene il governo; cioè, nella sostanza, introdurre con efficacia immediata un sistema di controlli credibile circa tutti gli andamenti della spesa interna dei partiti, disciplinare le regole per il finanziamento da fonti esterne, e così via. Ma il secondo passaggio è quello più delicato perché riguarda la legge sui partiti, attuativa della Costituzione, quella che ne garantisca l’organizzazione interna e il funzionamento secondo regole democratiche e trasparenti, che potrebbe consentire la reintroduzione di forme palesi di finanziamento, senza incontrare le difficoltà poste dal vecchio referendum. Il terzo passaggio è quello della nuova disciplina dei rimborsi che non potrebbe che rispondere al criterio ovvio della corrispondenza tra spese effettuate e contributi erogati.
Io non credo nella propaganda circa la non fiducia dei cittadini nei partiti (o come anche si dice, nella politica). I cittadini sono arrabbiati proprio perché hanno bisogno dei partiti e ne vorrebbero di migliori al fine di partecipare alle scelte della politica nazionale. Ma occorre che i partiti facciano chiarezza su sé medesimi e assicurino che le loro scelte interne, particolarmente quelle che toccano la tasca dei cittadini, siano pubbliche e trasparenti.

L’Unità 13.04.12

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“Non tutti i dem soddisfatti”, di Rudy Francesco Calvo

«Finanziare i partiti è un fatto di democrazia». Pier Luigi Bersani tiene ferma la barra e ricorda che «entro il 2015 i partiti in Italia riceveranno meno fondi e si adegueranno a quelli che vengono considerati parametri ordinari a nazioni come quelle citate». Dentro il Pd, però, c’è chi pensa (e non sono pochi) che si sarebbe dovuto fare di più. Subito, senza aspettare la legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione.
Roberto Giachetti ha già preparato una propria proposta, che prevede che dalla prossima legislatura solo i partiti che accedono in parlamento possano avere una quota, ridotta rispetto a quella attuale, di finanziamento pubblico, per evitare le pressioni lobbistiche. A questa si aggiunge la possibilità di partecipare all’assegnazione del cinque per mille, estesa anche agli altri partiti. «Non si può dire a tutti gli italiani che bisogna fare sacrifici – spiega il deputato dem – anche i parlamentari nel loro piccolo si sono tagliati gli stipendi e invece i partiti difendono lo status quo. Solo facendo qualcosa, si possono respingere le pulsioni dell’antipolitica».
Ettore Rosato, tesoriere del gruppo Pd alla camera, ricorda che la riduzione dei fondi è già prevista e precisa: «Non è vero che i partiti utilizzano solo in piccola parte le risorse assegnate. Ciò avviene solo negli anni in cui non si vota, ma il surplus compensa le spese maggiori effettuate in campagna elettorale».
Per Salvatore Vassallo l’accordo rappresenta «solo un piccolo passo». L’esponente di MoDem contesta il fatto che «una non meglio specificata attività di controllo sia affidata a un organismo sui generis e che le eventuali sanzioni siano messe nelle mani di quegli stessi presidenti delle camere che fino a oggi non hanno vigilato».
Un’affermazione derubricata da Gianclaudio Bressa come «a titolo personale». Più ampia è l’analisi di Walter Verini: «Dal Lingotto in poi, abbiamo sempre sostenuto la necessità di ridisegnare il profilo dei partiti, riducendone i costi, certo, ma soprattutto lasciandoli fuori da campi che non sono di loro competenza. Non si recupera la stima dei cittadini tagliando i finanziamenti e continuando a nominare cda e dirigenti delle Asl. Su questo bisogna intervenire».

da Europa Quotidiano 13.04.12

Bindi: "L'alternativa ai partiti? Populismo e tecnocrazia", di Rosy Bindi

Rosy Bindi, secondo alcuni commentatori di autorevoli quotidiani bisognerebbe eliminare i rimborsi elettorali ai partiti, anzi bisognerebbe fare a meno anche dei partiti.
«Non risponderò mai che ci vorrebbe una società senza giornali».
Ammetterà che lo scandalo Lusi prima e quello della Lega ora hanno messo il dito nella piaga. Soldi pubblici finiti nelle tasche private dei politici.
«Sono molto amareggiata dal fatto che a scatenare tutta questa offensiva contro i partiti e il finanziamento pubblico sia stata la vicenda della Lega. È come se per qualcuno fosse crollato l’ultimo baluardo della legalità e della moralità. Non sono soltanto amareggiata ma anche indignata: ritenere la Lega un serbatoio di moralità è il segno di come una società e alcuni commentatori non abbiano memoria di quello che è accaduto negli ultimi anni. La Lega ha finito per rappresentare tutte le contraddizioni di questo Paese».

Per Bossi è stato fatale l’abbraccio con Berlusconi?

«L’alleanza con Berlusconi ha avuto il suo peso, ma non è solo questo. Stiamo parlando di una forma partito ispirata a principi antidemocratici, dove il capo decide e il suo cerchio magico tiene in mano le sorti dell’organizzazione interna. La Lega in questi anni ha cercato di spaccare il Paese e inveito contro la solidarietà e gli immigrati».

Il risultato è che mai come ora i partiti sono stati così impopolari. Come si restituisce fiducia? Può essere una risposta sufficiente l’accordo di maggioranza raggiunto oppure è, come qualcuno lo ha definito, solo «melina»?

«Guardi che noi tutti dovremmo essere contenti che un sistema come quello sia crollato perché in un Paese dove c’è un organizzazione politica che si ispira a principi antidemocratici come quelli della Lega è un virus per tutti».

Lo ritiene davvero finito quel sistema?

«Sicuramente è finita l’illusione che loro fossero i duri e puri. Detto questo è chiaro che qui non siamo solo davanti a mele marce come Lusi o Belsito. Siamo di fronte ad un sistema nel quale le mele marce possono annidarsi, quindi va cambiato e democratizzato. L’utilizzo delle risorse, poi, deve prevedere una collegialità delle decisioni e rigidi controlli da parte di tutti gli elettori e mi sembra che le decisioni prese da Pd, Pdl e Terzo Polo vadano in questo senso. Soltanto chi non vuole più i partiti può sostenere il contrario».

E rispetto ai finanziamenti che cosa pensa?

«Il primo punto è la trasparenza perché abbiamo accertato che i tesorieri sono sottoposti a controlli. Ma è evidente che si dovrà affrontare anche il tema della consistenza dei rimborsi elettorali, purché si parta dalla riaffermazione decisa del principio che il finanziamento pubblico ai partiti è necessario e, per quanto mi riguarda, nettamente preferibile a quello privato».

Anche in questo caso meglio guardare all’Europa che agli States?

«Certo. Il finanziamento privato, anche il più trasparente, dai cinquemila euro in su come è stato deciso, è comunque una forma di condizionamento della politica di un partito. Io non voglio una politica prigioniera delle lobby, l’America da questo punto di vista insegna».

Ma oggi arrivano fiumi di soldi. Non andrebbero ridotti?

«Credo che vada cambiato il sistema dei rimborsi: i partiti devono certificare le spese effettivamente sostenute ma non sono quelle elettorali. I nostri partiti non sono comitati elettorali e la nostra Costituzione prevede una partecipazione a tempo pieno. Non possiamo pensare di rimborsare i manifesti elettorali e non la vita di un partito che dovrebbe essere addirittura più vivace di quanto non lo sia oggi».

Lei, come Bersani, sta difendendo i partiti e la loro vita interna, ma in questo periodo riscuote molto più successo chi dice che non devono prendere più un euro dal pubblico.

«Io difendo, come il segretario del Pd, la democrazia partecipata che dura tutto l’anno e il ruolo dei partiti che hanno strumenti, strutture, organizzazioni, studio e militanza che devono funzionare sempre, non solo in periodo elettorale. Detto questo, possiamo anche ragionare sul quanto. Dobbiamo cioè stabilire un nuovo equilibrio dell’ammontare del finanziamento alla luce del momento economico difficile che sta vivendo il nostro Paese. E questa può essere un’occasione per razionalizzare il funzionamento dei partiti stessi e delle loro spese, tenendo conto che in questi anni abbiamo già diminuito i fondi del 30%».

Don Ciotti propone di destinare la tranche di luglio al sociale. È d’accordo?

«Siamo realisti. Si può dare un segnale importante, non c’è dubbio, ma ci sono delle organizzazioni in piedi che hanno un loro costo. A una macchina in corsa si può chiedere di andare più piano ma non di arrestarsi all’improvviso, oltre al fatto che ridurre la disponibilità economica nell’anno in cui ci sono le elezioni politiche può significare penalizzare quei partiti che hanno meno facilità di altri a procurarsi fondi. Il pericolo vero di questo momento è che qualcuno vuole inchiodare il Paese ad un’alternativa tra populismo e tecnocrazia e purtroppo l’Italia è più incline di altri a questo rischio come la storia ci ha più volte dimostrato. Per questo i partiti devono essere ora più che mai credibili».

Teme che il governo dei tecnici possa far illudere che non ci sia bisogno dei politici?

«Non credo, ho l’impressione che sia iniziata la fase difficile anche per il governo che invece va sostenuto, non è il nostro nemico. In questi mesi l’esecutivo ha capito che o fa l’alleanza con i partiti e il Parlamento o non può esserci una fase due della sua azione politica».

L’Unità 13.04.12