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"Genitori, sì ai congedi fino ai 18 anni dei figli", di Maria Novella De Luca

Diritto al part time e congedo parentale per i nonni al posto dei genitori. Innalzamento, fino ai diciotto anni di età dei figli, della possibilità di usufruire dell´astensione facoltativa dal lavoro post-maternità. E poi: più mesi a casa per le mamme di bimbi prematuri, sottoposti a lunghe ospedalizzazioni, e tutela della carriera delle lavoratrici madri. È racchiusa in sette punti, che vanno diritti al cuore della materia, la “rivoluzione dei congedi parentali”, firmata da Andrea Riccardi, ministro per la Cooperazione e l´integrazione, con delega anche alle Politiche per la Famiglia. Sette brevi articoli che Riccardi presenterà alla Camera non appena inizierà la discussione del disegno di legge sulla riforma del lavoro, ad integrazione di quei due punti di “sostegno alla genitorialità” già elaborati dal ministro Elsa Fornero. Due proposte, quelle del testo Fornero, che prevedono l´obbligo per i neo-padri di usufruire di tre giorni di astensione (retribuita) dal lavoro alla nascita del figlio. E, in secondo luogo, la possibilità per le mamme di tornare subito al lavoro, rinunciare ai sei mesi di congedo, ma ricevendo in cambio per gli undici mesi successivi, dei voucher per pagare servizi di baby sitting.
Nel dettaglio, alcuni articoli del testo messo a punto dal dipartimento per la Famiglia, sono particolarmente innovativi. I congedi parentali sono quei 6 mesi, non retribuiti, che la madre o il padre possono prendere, tutti insieme o frazionati, dal primo anno di vita del bambino, fino ai suoi otto anni. Allo scadere degli otto anni, che se ne sia usufruito o meno, il diritto decade. Il testo del ministro Riccardi propone di estendere fino ai 18 anni la possibilità di utilizzare quegli stessi sei mesi. E questo per dare modo ai genitori, anche adottivi, di seguire i figli nell´adolescenza. Altro elemento di novità, ma sul quale potrebbe aprirsi un dibattito tra fautori e contrari, è l´idea di dare ai nonni, in alternativa ai genitori, la possibilità di usufruire del congedo parentale. Una proposta già avanzata in Germania, ma che nel nostro paese affonda le radici nel dramma del lavoro precario delle coppie giovani, le quali, proprio per questo, con estrema difficoltà mettono al mondo dei bambini. Visto che oggi, molto spesso, si legge nel testo, “il genitore ha un lavoro precario che non gli consente, di fatto, di avere il congedo”, anziché perderlo questo potrebbe essere usufruito dal nonno o dalla nonna, che magari hanno ancora un lavoro dipendente.
Spiega Andrea Riccardi: «Ho molto apprezzato le norme che il ministro Fornero ha voluto introdurre nel provvedimento sul lavoro a sostegno della genitorialità. Come titolare del dipartimento della Famiglia ho elaborato un pacchetto di ulteriori proposte che spero possano essere condivise. Bisogna essere attenti alla vita concreta e tenere in maggior conto il ruolo insostituibile che la famiglia svolge all´interno della società. Sostenendola in particolar modo nei periodi più delicati. La gestazione, il parto, l´allattamento, la necessità di accudire i figli durante le malattie, la loro educazione, non devono diventare un peso insostenibile per i genitori, specie per le madri». Inserendo in questo quadro anche situazioni delicate, come ad esempio i parti pre-termine. Quando nasce un bimbo prematuro spesso i suoi primi mesi di vita si svolgono nella nursery di un ospedale. Settimane, giorni, in cui si “consumano” i 3 o 4 mesi di astensione post partum delle madri. Le quali magari, non appena riescono a tornare a casa con il loro (delicatissimo) bambino, si trovano già a dover riprendere il lavoro. E l´idea di Riccardi, d´accordo con il ministero della Salute, è di scorporare i mesi di ospedale dal conteggio del congedo obbligatorio.
«Le mie proposte – aggiunge Riccardi – che non implicano particolari aggravi per le finanze pubbliche, vanno in due direzioni: la prima, estendere e rendere più elastiche le norme sui congedi parentali, ampliando la possibilità e le persone – basti pensare a quanto sono importanti oggi i nonni – che possono usufruirne. La seconda, estendere le garanzie per le donne lavoratrici. Aiutare la famiglia oggi significa sostenere il più grande ammortizzatore sociale di cui l´Italia dispone».

La Repubblica 10.04.12

"Ecco come cambieranno i finanziamenti ai partiti", di Simone Collini

Controllo dei bilanci da parte della Corte dei conti, obbligo della pubblicazione su internet dei rendiconti finanziari, abbassamento della soglia per le donazioni anonime. E, per rendere stringente il tutto, sanzioni crescenti per chi non rispetti i criteri indicati dalla legge. È attorno a questi punti che Pd, Pdl e Terzo polo stanno siglando un’intesa per modificare in tempi rapidi le norme che regolano la trasparenza e i controlli dei bilanci di partiti. Bersani, Alfano e Casini ne stanno discutendo dalla scorsa settimana e nelle prossime ventiquattr’ore gli sherpa delle tre forze politiche che in Parlamento sostengono Monti definiranno una bozza da portare poi in commissione Affari costituzionali della Camera come proposta di legge.

Incaricati di mettere nero su bianco l’intesa raggiunta dai segretari sono Misiani e Bressa per il Pd, Della Vedova e D’Alia per il Terzo polo, Cicchitto e Calderisi per il Pdl. In attesa che nei prossimi colloqui vengano sciolti alcuni nodi, l’accordo è già stato trovato sulla necessità di affidare a un organismo che abbia funzioni giurisdizionali il controllo dei bilanci, visto che i revisori chiamati dal Parlamento a supervisionare i rendiconti, come loro stessi hanno scritto recentemente ai presidenti delle Camere, possono condurre verifiche solo «formali» e «insufficienti» a garantire la necessaria trasparenza.

Negli ultimi giorni si è discusso se affidare tale mansione ad una Authority ad hoc,mala necessità di stringere i tempi e di evitare appesantimenti burocratici ha fatto prediligere la scelta della Corte dei conti, che già oggi controlla i rendiconti elettorali (e il fatto che il presidente di questo organismo, Luigi Giampaolino, si sia espresso a favore di questa ipotesi ha convinto le forze politiche dell’opportunità della scelta).

Un altro punto su cui Pd, Pdl e Terzo polo non hanno avuto difficoltà a convergere riguarda la necessità di rendere noti i rendiconti. La pubblicazione su internet è apparsa a tutti la soluzione più semplice. Pd e Udc si sono trovati subito d’accordo anche sull’opportunità di abbassare la soglia per le donazioni anonime dagli attuali 50 mila euro a 5 mila euro. Subito d’accordo anche il Pdl sul fatto che per dare efficacia alle nuove norme si debba prevedere un sistemadi sanzioni via via più pesanti per i partiti che non rispettano la nuova legge.

Il Pd propone il decurtamento delle risorse garantite dal rimborso elettorale fino al loro completo azzeramento, ma la discussione è ancora aperta sia su questo che su come rendere tecnicamente possibile la cosa. C’è poi condivisione sul fatto che i partiti che non esistono più non debbano continuare a ricevere finanziamenti pubblici. Oltre a questo ci sono sul tavolo alcune altre proposte su cui i tre partiti stanno ancora discutendo.

L’Udc propone di inserire l’obbligo, in caso un partito voglia fare investimenti, di rendere l’operazione possibile solo per i titoli di Stato italiani (il che impedirebbe speculazioni immobiliari o l’approdo verso fondi finanziari stile Tanzania). Il Pd, che è d’accordo con questa proposta, chiede di prevedere tra le nuove norme, oltre al controllo da parte della Corte dei conti, anche la certificazione dei bilanci da parte di società di certificazione professionali (il partito di Bersani da tempo si affida all’inglese Pricewaterhouse Coopers, che certifica tra gli altri il bilancio della Banca d’Italia).

fIl Pdl chiede di dare il via libera a forme di finanziamento «all’americana », andando cioè verso un sistema in cui sarebbero possibili ingenti contributi da parte dei privati. La necessità di chiudere subito l’accordo e di scrivere una proposta di legge da far approvare in tempi rapidi consiglia però a tutti di evitare atteggiamenti rigidi. Così il Pd potrebbe accontentarsi del controllo da parte della Corte dei conti e rinunciare all’obbligo di bilanci certificati, mentre il Pdl potrebbe non insistere su una norma che obbligherebbe a discutere l’intero sistema dei finanziamenti. Argomento che, incassato il via libera sulle regole che dovrebbero garantire maggior controllo e trasparenza, potrà essere discusso nell’ambito delle proposte per l’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione e la riforma dei partiti.

L’Unità 10.04.12

"Tv, governo azzera il 'beauty contest' frequenze messe all'asta a pacchetti", di Goffredo De Marchis

Svolta del governo sull’assegnazione delle frequenze televisive. Non saranno concesse gratuitamente, annuncia il ministro Passera. Per lo Stato introito possibile fino a 1,2 miliardi. Mediaset ora punta a uno sconto sul canone. Nessuna frequenza in regalo per le televisioni. Mediaset e gli altri network non avranno gratis nuovi canali di trasmissione. “Il beauty contest verrà azzerato”, annuncia Corrado Passera confermando l’orientamento espresso da Monti e dallo stesso ministro dello Sviluppo economico al momento del loro insediamento.
Tra nove giorni scade la pausa di riflessione che il governo si era preso per esaminare la decisione del precedente esecutivo. Ma Passera ha già sciolto il nodo e individuato il percorso per assegnare i multiplex di frequenze d’intesa con l’Europa e l’Autorità delle Comunicazioni.
Si farà una vendita pubblica, ma il bene complessivo verrà spacchettato. “La prossima asta – spiega Passera – sarà fatta di pacchetti di frequenze con durate verosimilmente diverse”. È una riapertura dei giochi in piena regola, è un segnale che va nella direzione di un mercato veramente aperto.
Un’ipotesi è che la banda larga 700 (2 o 3 multiplex dei 6 totali in palio) venga aggiudicata per un periodo di 3 anni, da qui al 2015. Per quella data infatti una commissione dell’Onu ha previsto lo spostamento di reti dalle tv all’accesso a Internet.

Ed è proprio la banda 700, una rete superveloce, il bene più prezioso del lotto visto che fa gola agli operatori del web, cioè al futuro delle comunicazioni. Il resto dei canali più strettamente televisivi può invece essere assegnato per un periodo più lungo.
La scelta del governo deve ora passare al vaglio della commissione europea. E all’esame dei partiti di maggioranza, senza dimenticare l’incrocio delicato con il rinnovo dei vertici della Rai. Sarà poi l’Agcom a stabilire tempi e modalità dell’asta. Già domani possono arrivare risposte importanti.
Il commissario Ue all’agenda digitale Neelie Kroes sarà infatti a Roma per un convegno della Confindustria con Passera. L’occasione buona per fare il punto sulle frequenze tv. Secondo Mediobanca lo Stato può incassare 1-1,2 miliardi dalla vendita dei multiplex. Se non ci saranno intoppi, prima dell’estate l’Authority potrebbe indire l’asta.
SI RIPARTE DA CAPO
Il governo Berlusconi, per scelta del ministro dello Sviluppo Paolo Romani, aveva stabilito l’assegnazione di 6 multiplex di frequenze tv attraverso il beauty contest, in italiano concorso di bellezza. In pratica, niente asta ma una concessione gratuita dei canali a chi aveva i requisiti.

La pratica del beauty contest non è una prerogativa solo italiana. Lo è invece il conflitto d’interessi che coinvolge il Cavaliere e fece leggere la decisione del precedente governo come un regalo a Mediaset. Peraltro la “gara” indetta imponeva un vincolo di proprietà di soli 5 anni. Cioè: l’omaggio di oggi poteva essere rivenduto a caro prezzo in tempi brevi.
Monti e Passera, dopo il loro insediamento, stabilirono di sospendere il beauty contest. “Non credo sia buona cosa cedere gratuitamente beni di valore dello Stato”, disse il nuovo ministro dello Sviluppo economico. La pausa di riflessione è finita. La decisione del 19 aprile viene ora anticipata da Passera. La vecchia procedura sarà azzerata.

LA NUOVA GARA
Si punta a introdurre regole diverse in funzione di alcune prese di posizione internazionali e di un’apertura del mercato verso soggetti diversi da quelli puramente televisivi. L’asta verrà spacchettata. Una tranche di multiplex, quella forse più appetibile, verrà ceduta a concorrenti tv solo per tre anni, fino al 2015. Dopo quella data le Nazioni unite hanno stabilito che una serie di reti vengano trasferite dalla televisione all’accesso a Internet. Si parla della banda larga 700 che dovrebbe interessare 2 o 3 multiplex dei 6 complessivi.
Su quella “strada” digitale possono correre contenuti a velocità super e gli operatori del web attendono gli sviluppi del mercato per valutare nuove offerte e nuove possibilità. In sostanza, ciò che oggi vale 10 domani può valere 100.
Le compagnie telefoniche, Tim, Vodafone, Wind e 3, si sono tirate fuori da questa partita. Non più tardi di sei mesi fa hanno investito quasi 4 miliardi per la LTE, il 4G. Ma non è escluso che a breve siano in grado di tornare a competere. Il resto dei multiplex, meno preziosi, verrebbe invece assegnato per un periodo più lungo a imprese puramente televisive.
IL VALORE
Il bollettino di Mediobanca di febbraio ha calcolato in 1-1,2 miliardi il possibile incasso dello Stato dall’asta delle frequenze tv. Non siamo ai livelli del 4 G, costato circa 370 milioni a multiplex (erano 9). Ma rispetto al regalo è una cifra considerevole. Se i passaggi parlamentari e in sede europea avranno buon esito, l’Autorità delle Comunicazioni seppure in fase di rinnovo, è in grado di varare il nuovo bando entro l’estate.

LA REAZIONE DI MEDIASET
Al momento della sospensione, Fedele Confalonieri aveva attaccato Passera e l’azienda si preparava a ricorsi in tutte le sedi, italiane ed europee. Adesso il network di Berlusconi punta ad alzare la posta su altri fronti. Ad esempio, il canone sulle frequenze. Mediaset lamenta il pagamento di 32 milioni l’anno, calcolati sulla base del fatturato.

Nessun altra tv paga così tanto. Confalonieri chiede al governo un criterio diverso per il canone fondato sul valore dei canali. In questo caso non si esclude che Cologno Monzese possa anche partecipare all’asta per la banda 700. Risparmiando in 3 anni 96 milioni di euro.

da repubblica.it

"Il Pd in Europa. Un fronte più ampio dei progressisti" di Luciano Vecchi

Bene ha fatto il responsabile della politica estera del Partito democratico, Lapo Pistelli, a puntualizzare – su l’Unità del 5 aprile – come l’iniziativa internazionale ed europea del Partito democratico stia riscontrando un grande e generale apprezzamento da parte delle forze progressiste proprio perché si pone l’obiettivo di contribuire a costruire una agenda per il nuovo mondo, allargando il fronte delle forze che possono, se alleate e convergenti, disegnare un nuovo ordine internazionale. D’altronde è questo un elemento costitutivo e, persino, identitario del Partito democratico. «Il processo di unificazione europeo è ancora frenato dalle forti resistenze degli egoismi nazionalistici, che il Partito democratico vuole contrastare per realizzare una compiuta integrazione politica e democratica: tale processo va accelerato, rafforzando la legittimazione e le basi democratiche dell’Unione. Il Partito democratico intende contribuire a costruire e consolidare, in Europa e nel mondo, un ampio campo riformista, europeista e di centrosinistra, operando in un rapporto organico con le principali forze socialiste, democratiche e progressiste e promuovendone l’azione comune». Si tratta di uno dei passaggi più significativi del “Manifesto dei valori del Partito democratico” che rappresenta sia il «patto costituente» tra coloro che hanno dato vita al Pd, che la definizione di alcuni degli obiettivi strategici della nostra azione. La proiezione internazionale del Partito democratico – mi pare – si è sempre attenuta a questa sorta di «mandato» e, proprio in questi mesi di crisi europea, sta mostrando tutte le sue potenzialità. L’incontro dei leader progressisti a Parigi, la fitta rete di incontri bilaterali in Europa, la costruzione di un network a livello extracontinentale con i principali partiti progressisti dei «paesi-continente» (dai democratici statunitensi al Pt brasiliano, ecc.) sono la dimostrazione plastica di come il Partito democratico sia oggi al centro di un sistema di relazioni internazionali quanto mai ricco e articolato. L’urgenza «storica» di promuovere una nuova piattaforma ideale e programmatica dei progressisti europei e su scala globale è stata, giustamente e finalmente, collocata dal segretario del Pd al centro dell’iniziativa del partito, non solo – e questa è la vera novità – come «appendice esterna» del lavoro dei democratici ma come «elemento essenziale» della credibilità della nostra proposta politica.
Se questa è la sfida credo che la cosa peggiore che potremmo fare sarebbe quella di piegare riflessione e iniziativa internazionale del Pd alle esigenze della dialettica interna al partito. Lo voglio dire con grande nettezza: chi sostiene una delle due posizioni speculari «mai nel Pse» o «solo nel Pse» non contribuisce alla qualità della nostra proiezione esterna e rischia di condurci ad un cul de sac ideologico di cui certo non abbiamo bisogno. Di tutto abbiamo bisogno fuorché di aut aut paralizzanti ed autoreferenziali. Non vi è alcun dubbio che quando si parla, almeno in Europa, di «campo progressista» ci si riferisce innanzitutto ai partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti, in gran parte rappresentati dal Pse. È sulla base di questa evidenza che il Pd – assieme al Pse ha saputo costruire l’innovazione più significativa nello scenario politico delle istituzioni europee, con la costruzione del Gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (S&D) al Parlamento europeo, che ha dimostrato di saper essere (pur in una situazione di rapporti di forza non favorevoli ai progressisti) il punto di riferimento per l’aggregazione di un’area di centro-sinistra che, al Parlamento europeo, è riuscita a creare convergenze, spesso vincenti, sulle principali politiche europee. Il Pd ha, in questi anni, costruito un rapporto organico – nel rispetto delle reciproche autonomie ma anche nella costante ricerca di una positiva interazione – con il Pse anche in quanto partito politico europeo, nel reciproco riconoscimento che, in un quadro politico plurale ed in evoluzione in Europa e nel mondo, il Pse è il partito politico di rilevanza fondamentale per i progressisti in Europa e che il Pd (partito sorto dalla convergenza delle diverse culture riformiste italiane) è il riferimento fondamentale del campo progressista in Italia. Oggi il Pd partecipa quindi a tutte le attività ed iniziative del Pse pur senza esserne membro effettivo così come, a livello internazionale, anche considerata la profonda crisi in cui versa l’Internazionale Socialista, opera, spesso in convergenza con i principali partiti europei, per la costruzione di un nuovo ed ampio quadro progressista. In questo importante lavoro di costruzione di convergenze, in cui è impegnato il Pd, la definizione condivisa di un’idea democratica e progressista di Europa è il tema centrale. Oggi spetta a noi – cioè a quell’ampio nucleo costituitosi nell’Alleanza S&D al Parlamento europeo – costruire quel fronte che sappia dire con chiarezza che non ci serve un’Europa intergovernativa, mercantilista, che cerca il suo equilibrio finanziario nella riduzione del modello sociale ma che serve invece un’Europa federale, con istituzioni pienamente democratiche, orientate alla crescita, al lavoro e ai diritti, con un adeguato sviluppo del mercato interno. I Partiti socialisti e democratici europei devono comprendere che nel ripiegamento nazionale vince la destra e che le forze progressiste possono trovare una vera funzione solo portando i problemi e le soluzioni alla loro vera dimensione che è quella sovranazionale. Questa sfida troverà uno snodo importante attorno alle prossime elezioni europee del 2014 dove i nostri partiti dovranno saper mobilitare i cittadini sull’idea di un’Europa democratica e di progresso, anche indicando per la prima volta il candidato progressista alla Presidenza della Commissione europea, magari scelto attraverso meccanismi partecipativi, sul modello delle primarie italiane.

L’Unità 10.04.12

"Addio Miriam, libera e battagliera."La nostra politica si è fatta storia", di Alfredo Reichlin

Mi è molto difficile dire addio a Miriam Mafai, cara amica, rara. È triste, perfino angoscioso, per me almeno, scrivere queste righe nell’Italia volgare e corrotta di oggi. E avendo nella mente l’immagine fulgente di quella ragazza di allora: come io la conobbi. In un’altra Italia. Nella Roma che usciva dalla guerra povera e affamata nel senso letterale della parola. Ma piena di slancio, di speranze, e soprattutto di fiducia: l’enorme fiducia nell’avvenire di noi ragazzi che avevamo preso le armi. Libertà e giustizia erano lì alla nostra portata. E non parlo solo della libertà politica ma quella di essere se stessi, di crescere, di pensare. Tante cose di quel tempo io ho dimenticato ma non l’ebbrezza della felicità: l’immensa felicità della politica che si fa storia. È lì che conobbi Miriam: bella e ridente, la sua travolgente risata. Era una donna vera. E si portava dietro tante cose: una famiglia straordinaria, il padre Mario Mafai pittore grandissimo e la madre Antonietta Rafael scultrice, misteriosa, l’immagine stessa dell’artista che viene non si sa da dove e la cui meta è sconosciuta. E poi Miriam e le sue sorelle. È soprattutto lei, la prima donna che mi intimidiva per la sua padronanza di sé, ironica, sottile. Forte e al tempo stesso molto terrestre (anche antiretorica: «Non raccontiamoci balle»).
Il Pci ci travolse. La ritrovai a Pescara, moglie del segretario di quella federazione, un popolano molto intelligente, Umberto Scalia. Lei era immersa nella lotta dei braccianti della Marsica e dei minatori dell’alta valle del Pescara. Io redattore dell’Unità, uscivo dalla mitica scuola di Frattocchie e venivo mandato come molti altri per alcuni mesi in una piccola provincia per imparare
che cos’è l’Italia vera e come si parla alla gente e si organizzano le lotte. Abbiamo fatto tanti comizi insieme: Bussi, Popoli, Manoppello. Poi lei tornò a Roma. Diventò una grande
giornalista, unì la sua vita a quella di Giancarlo Pajetta,uomo difficile e straordinario. Diventò insomma Miriam Mafai, quella protagonista dell’Italia repubblicana e democratica che tutti hanno conosciuto. Io so di chi parlo perché è con Miriam che ho avuto un dialogo abbastanza fuori dall’ordinario. È lì che capii meglio chi era: un impasto di ragioni ideali e di realismo, fino al limite dello scetticismo. Speranze ma senza illusioni. E soprattutto una grande curiosità per gli altri e l’amicizia con le persone più diverse, perfino troppo diverse per i miei gusti almeno.
Tutto ciò mi apparve molto chiaro dopo quel giorno (erano gli anni 90) in cui Vittorio Foa mi telefonò per chiedermi, con mio grande stupore: posso intervistarti? E mi spiegò una sua idea di cui aveva già parlato con Miriam, quella di pubblicare uno scambio di lettere tra lui e due persone, una donna e un uomo, che lui considerava significativi, sul tema che lo assillava: il silenzio dei comunisti. Voi, diceva, dovete farmi capire questo mistero. Da posizioni sia pure diverse eravate esponenti di un grande partito che per lungo tempo aveva occupato le menti e i cuori degli italiani. Milioni di persone votavano per voi, molte migliaia militavano in esso, e combattevano e sacrificavano se stessi, animati da una fede che spinse molti di loro a sacrifici estremi.A
un certo punto, quasi d’improvviso su tutto questo è calato il silenzio. Perché?E perché quelli che sono venuti dopo di voi, ai vertici della sinistra tacciono o non sembrano molto interessati a questa domanda?
Dopo tutto stiamo parlando della storia italiana, non di una setta.
Scrivemmo, discutemmo, ci interrogammo nella umile casa di Vittorio e di Sesa Foa a Formia, mangiando insieme e chiacchierando nel piccolo giardino dei limoni. Miriam scelse la strada di lasciarsi alle spalle le ideologie e di riflettere soprattutto su se stessa, la ragazza e la donna che era stata. E quella che era adesso, così diversa e anche lontana, ma la cui base morale restava quella: aver lottato per la giustizia e perché, diceva, i figli dei braccianti del Fucino, nell’ex feudo dei principi Torlonia, potessero smettere di andare scalzi a scuola.
Aveva un solo rammarico: mi sono occupata poco dei miei figli. E qui che Foa pose a lei come a me una domanda cruciale: ma voi credevate davvero nella rivoluzione? Non sto a ricordare le nostre risposte. La mia, dopotutto non fu molto diversa da quella storia del Fucino. Abbiamo creduto e abbiamo lottato perché finalmente in Italia, «gli ultimi», quelli senza scarpe potessero alzare la testa e cominciare a contare. È poco? Miriam Mafai è stata anche molte altre cose. Ma se non ci fossero state persone come lei questo Paese italiano sarebbe diverso, peggiore. Qualcuno dovrà pure riempire questo vuoto che provo di fronte alla dipartita di questa magnifica donna italiana.

L’Unità 10.04.12

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“Miriam Mafai la verità a ogni costo” di Lucia Annunziata

Miriam Mafai, morta ieri a Roma dopo una lunga malattia, era nata a Firenze nel 1926 e aveva vissuto una giovinezza antifascista a Roma nelle file del Partito comunista. Ha scritto per l’Unità , Paese Sera , Repubblica , ha diretto dal 1965 al ’70 la rivista “Noi donne” e tra il 1983 e l’86 è stata presidente della Federazione nazionale della stampa
Lasciatemi innanzitutto dire che Miriam Mafai morta ieri a Roma, a 86 anni, dopo una lunga malattia – aveva una risata alla quale era impossibile sfuggire. Per tono e per entusiasmo. Cominciava con un urlo e gorgogliava via, riempiendo l’intera stanza, e, se c’erano più stanze, tutto il resto della casa. Era un rito di saluto e di approvazione, e non c’era assolutamente nulla che più meritasse una di queste sue gloriose risate di un racconto, del disvelamento di un dettaglio, di un retroscena, di una notizia, insomma. Perché soprattutto e sopra ogni cosa – eccetto, naturalmente, i suoi figli, i suoi nipoti, le sue pronipoti e il suo Nullo, Giancarlo Pajetta – Miriam amava la notizia.

«Eh, questa è buona», era il suo intercalare, «questa bisogna scriverla». Militante appassionata, figura centrale del mondo esclusivo ed escludente che per lungo tempo è stato il Pci, pure, davanti a una notizia, non ha mai avuto nessun dubbio: bisognava scriverla. Non importa chi riguardasse, non importa quale sancta sanctorum violasse, «bisognava scriverla».

Riposava ieri, una esile sagoma, sul piccolo letto della sua stanza, una semplice rete, un materasso sottile, lenzuola bianche. Uno spazio spartano, al centro di una casa piena di libri, dominata dalla opere di suo padre e sua madre, grandi artisti della Scuola Romana. Questo mix di storia, cultura e austerità illustrava il mondo che Miriam e i comunisti della sua generazione avrebbero voluto. E che non hanno mai visto, salvo nelle loro ostinate convinzioni.

Oggi vi diranno tutti che la Mafai è stata una figura femminile importantissima. Lo è stata certo. Ma lei si sarebbe fatta una delle sue risate a ritrovarsi nella parte femminile dell’elenco della storia. Quella generazione lì ha visto e segnato infatti tante più cose della differenza di «genere».

Miriam nasce a Firenze, nel 1926. Figlia di una coppia di noti artisti italiani del XX secolo, Mario Mafai e Antonietta Raphael, ha una giovinezza antifascista a Roma nelle file del Pci. Separata con due figli, negli Anni Sessanta incontra il compagno della sua vita, il «ragazzo rosso» Giancarlo Pajetta con cui condividerà trent’anni. Scrive per l’ Unità , è direttore di Noi donne dal 1965 al 1970, inviato speciale di Paese Sera , e negli Anni Settanta è nel gruppo di testa di Repubblica . Dal 1983 al 1986 è presidente della Federazione nazionale della stampa.

La sua vicenda dunque si intreccia di sicuro con quella delle donne italiane, alle quali ha dedicato anche tanto lavoro storico, fra cui la migliore biografia collettiva al femminile del nostro paese, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (Mondadori, 1987). Lei è parte, del resto, di un formidabile universo di donne che scrivono: colpisce oggi guardarsi indietro e ricordarsi che negli Anni Sessanta-Settanta il giornalismo italiano conta su firme come la sua, quella di Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Oriana Fallaci, Lietta Tornabuoni, tanto per citarne solo alcune.

Eppure, ripeto, iI suo merito maggiore, almeno a mio parere, non è quello di aver dato voce alle donne. Miriam, con il suo tipo di giornalismo, è stata uno degli intellettuali che hanno segnato il lungo passaggio che, nel crinale decisivo degli Anni Settanta, ha portato il Partito comunista italiano da organizzazione inquadrata in una autoritaria esperienza internazionale a forza della democrazia.

Per la Mafai il giornalismo era un’arte laica, che non guarda in faccia a nessuno, che ha il proprio centro nel culto della verità a ogni costo, anche quando la verità va contro le opinioni proprie, le banalità precostituite, l’interesse e il conservativismo del proprio gruppo e del proprio ambiente. Provate a chiamare questo ambiente Pci, e capirete quanto queste sue inclinazione e convinzione siano state profondamente rivoluzionarie.

Consiglio di rileggere oggi due suoi libri: Dimenticare Berlinguer. La sinistra italiana e la tradizione comunista (Donzelli, 1996) e Botteghe Oscure, addio. Com’eravamo comunisti (Mondadori, 1996). Vi ritroverete la Mosca della paura, le esitazioni dei leader, i giudizi sereni ma duri su un Berliguer che cambia approccio pressato dalla comprensione che il mondo gli cambia sotto i piedi rapidamente, e vi troverete un giudizio non formale sul condizionamento che rimane sulla sinistra tutta dalla scelta del «compromesso storico». Vi troverete anche un inusuale ritratto dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e tutti gli errori e i limiti di comprensione di una classe dirigente spesso da lei giudicata non adeguata, proprio in virtù del proprio passato comunista, per entrare nel nuovo mondo.

Senza di lei, i suoi articoli e i suoi libri, oggi alla sinistra e alla nostra storia mancherebbero, insomma, pagine fondamentali di «verità». Per chi è giornalista oggi, è una lezione di indipendenza in cui vale ancora la pena di credere.

La Stampa 10.04.12

"Come aiutare le imprese a fare sviluppo", di Stefano Fassina

Per capire la discussione e le scelte sul mercato del lavoro italiano va accantonato il marketing sulle condizioni delle generazioni più giovani o sull’attrazione degli investimenti esteri. Per capire, vanno considerati i problemi veri della moneta unica e la ricetta di politica economica definita a Berlino, Bruxelles e Francoforte. La sopravvivenza dell`euro è minata dagli andamenti divergenti della competitività tra le sue diverse aree economiche.

L`aumento dei debiti pubblici è conseguenza, non causa, dei problemi dell`euro. L`indicatore primario da guardare è il saldo della bilancia commerciale, non quello del bilancio pubblico. Per aggredire il «problema esistenziale» della moneta unica, la ricetta dettata a Berlino dai conservatori prevede, per ciascun Paese in deficit di bilancia commerciale, la «svalutazione interna»: contrazione della domanda, attraverso politiche di bilancio soffocanti, per ridurre l`import; riduzione del costo del lavoro, attraverso l`ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici, per aumentare l`export.

Qui sta, per l`Italia, la ragione dell`ossessione verso l`articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In Spagna, dove per i licenziamenti illegittimi vigeva già il solo compenso monetario, il governo Rajoy elimina di fatto il vincolo delle causali economiche e dimezza l`indennizzo. In Portogallo, in assenza di articolo 18 e di particolari filtri al licenziamento, si smantella direttamente il contratto collettivo nazionale di lavoro. In Irlanda e in Grecia si tagliano brutalmente le retribuzioni nominali (in Grecia, dopo l`uscita di Papandreu, si porta da 750 a meno di 600 euro mensili in salario minimo). Insomma, la linea di politica economica oggi dominante nell`area euro archivia come un accidente storico la civiltà del lavoro costruita nell`Unione europea nella seconda metà del Novecento e punta al continuo arretramento delle condizioni del lavoro per uscire dal tunnel.

La linea della «svalutazione interna» è sbagliata. Non solo perché profondamente iniqua, ma perché non funziona. In Italia e nell`area euro, nel quadro attuale di politica economica non vi può essere crescita, soltanto riduzione del danno, come ha riconosciuto Romano Prodi sul Messaggero. Dopo valanghe di editoriali sulle mitiche riforme strutturali, anche il Wall Street Journal si è convinto che siamo avvitati nella «self-defeating austerity»: recessione e aumento di debito pubblico. Qui sta, per il Pd, la ragione dell`insistenza per una soluzione equa sull`articolo 18. L`equilibrio raggiunto sui licenziamenti per motivi economici è un passo verso una strategia per lo sviluppo alternativa alla via, fallimentare, della svalutazione interna.

È la strategia dello sviluppo sostenibile impostata dai partiti progressisti europei (si vedano le posizioni dell`Alleanza dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo o il documento della Feps discusso a Parigi il 17 marzo scorso da Bersani, Gabriel e Holland). Prevede: mutualizzazione dei debiti sovrani, potenziamento del Fondo salva-Stati, investimenti finanziati da eurobond e tassa sulle transazioni finanziarie, coordinamento delle politiche retributive. Archiviato il capitolo articolo 18, il Parlamento ha altri punti decisivi da modificare. Qui, i problemi derivano da un deficit di conoscenza della realtà economica italiana: chi descrive il nostro mercato del lavoro secondo lo schema dell`apartheid, o attraverso la categoria degli iper-garantiti, non può arrivare a soluzioni efficaci.

Inoltre i problemi derivano dal paradigma giuridico seguito: è sbagliata la filosofia conservatrice secondo la quale ex facto oritur ius; ma è altrettanto sbagliata la filosofia giacobina secondo la quale ex iure oritur factum. La legge non è la riproduzione passiva della realtà, ma non può prescindere dalla realtà e dai rapporti di forza economici e sociali prevalenti. Insomma, non si può combattere la precarietà attraverso l`innalzamento del costo totale del lavoro per le imprese. Per disincentivare i contratti precari va ridotto il costo del lavoro a tempo indeterminato, come indicato nelle proposte del Pd definite all`Assemblea nazionale del maggio 2010. Confindustria, Rete Imprese Italia e le associazioni di lavoratrici e lavoratori precari hanno ragione: le soluzioni previste nel ddl lavoro per contrastare la precarietà rischiano di allargare la piaga del lavoro nero o di essere aggirate per creative vie legali.

Che fare per migliorare il testo? Eliminare la contribuzione aggiuntiva sul contratto a tempo determinato e introdurre un tetto alla quota di tali contratti sul totale dei contratti di lavoro; eliminare la trasformazione ex lege delle committenze prevalenti; fiscalizzare tre punti percentuali di aumento della contribuzione pensionistica dei lavoratori parasubordinati; fiscalizzare un punto percentuale della contribuzione pensionistica dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e concentrare su tali forme contrattuali tutte le agevolazioni per l`occupazione; includere, secondo un principio sostanzialmente assicurativo, i lavoratori e le lavoratrici parasubordinate nell`Aspi; introdurre una retribuzione o compenso orario minimo in relazione ai minimi contrattuali del settore corrispondente; prevedere il concorso della fiscalità generale al finanziamento di un fondo nazionale di solidarietà in alternativa all`indennità di mobilità; infine, per «coprire» l`insieme degli interventi, rivedere alcune agevolazioni fiscali in vigore.

Grazie all`iniziativa del governo, è maturata tra Pdl, Pd e Terzo polo sufficiente condivisione dei problemi aperti per arrivare rapidamente a soluzioni condivise e efficaci.

l’Unità 10.04.12

"Base lacerata, la Lega divora se stessa. Dalla foto di gruppo nessuno si salva", di Francesco Lo Sardo

Oggi show dell’orgoglio padano. Ma i triumviri (tra cui Maroni) già affondano. E coi veneti è gelo. Altro che serata dell’orgoglio leghista ferito, stasera, alla fiera di Bergamo – sede “calderoliana” scelta a suggello del patto di non belligeranza tra le due anatre zoppe Maroni e Calderoli – altro che green pride padano. Perché i fatti raccontano un’altra storia. «Ci hanno lasciato tutti a Kooly Noody», canta il fine bodyguard di Rosy Mauro nella hit del suo album Tra dire e tradire, il cui titolo, gira che ti rigira, condensa la metafora della Lega: che ne ha dette tante e tradite moltissime.

Quelli di Cald
Alcune pennellate sulla situazione, strappato il velo della favola sulla Lega che rinasce dalle proprie ceneri? Un nuovo tesoriere, Stefano Stefani, senatore con la terza media, già finito nell’inchiesta sul villaggio turistico leghista in Croazia ed ex membro del cda della surreale banca leghista Credieuronord. Il neo-nominato triumviro Roberto Calderoli il cui nome («Quelli di Cald come faccio, come li giustifico?») rispunta nelle intercettazioni sui movimenti di soldi di Belsito insieme ad Aldo Brancher, che a suo tempo scagionò l’amico leghista e si prese la responsabilità di una tangente dell’ex banchiere Fiorani, salvatore della Lega dal crac Credieuronord.

La vergine Maroni
Ciliegina sulla torta, ecco Bobo Maroni, l’aspirante successore di Bossi che veste i panni del salvatore della patria e “ripulitore”: «Pulizia pulizia, pulizia, mi sono francamente rotto di Cerchi magici e Culi Nudi», ha scritto su Facebook. Peccato che questo Bobo-Alice nel paese delle meraviglie sia lo stesso che è accusato da un “epurato” del Carroccio come l’ex capogruppo alla camera Cè di aver girato la testa di fronte ai sospetti sui comitati d’affari al vertice di via Bellerio («Ora vuol fare la vergine»), lo stesso che per tredici anni non ha mai sollevato il caso del sindacato-fantasma di Rosy Mauro, lo stesso che da ministro dell’interno ha negato con sdegno ogni relazione tra penetrazione della criminalità mafiosa al Nord e possibili contatti con la Lega, mentre il vertice amministrativo leghista (secondo le testimonianze acquisite dai pm già all’epoca dell’ex tesoriere Balocchi) aveva rapporti col procacciatore d’affari della ‘ndrangheta Romolo Girardelli.

Il solco veneto
Quanti leghisti veneti ci saranno stasera a Bergamo? Qualcuno noterà e peserà i numeri. I lùmbard diranno che si tratta in fondo di un’iniziativa locale. Ma tutti sanno che non è così, che tra veneti e lùmbard travolti da scandali e inchieste il solco s’allarga, tanto che c’è già chi ipotizza un segretario federale veneto, mentre si riavvicinano il sindaco di Verona Tosi e il governatore Zaia i quali, oltre ad agitare la ramazza alla Maroni, hanno anche una linea: quella dell’«opposizione più responsabile» teorizzata da Zaia. Mentre c’è chi legge nelle parole di Tosi un messaggio in codice e un avviso al triumviro Calderoli: «Come si fa a fare pulizia? Basta vedere i soldi usciti e chi li ha utilizzati: e quelli se ne vanno dal partito».

Bocconiano capogruppo
Nel silenzio assordante del presidente dei senatori leghisti Bricolo, legato a doppio filo col Cerchio magico e Rosy Mauro, si coglie che anche la sua poltrona (oltre a quella della “Nera”) trema: in pole position il maroniano Massimo Garavaglia (che dovrebbe anche rimettere le mani nel Sin.Pa) bi-laureato alla Bocconi e alla Statale di Milano. Ma la vera emergenza, ora, sono le elezioni che si avvicinano e l’aria di batosta annunciata. Perché la campagna retorica sull’orgoglio ferito del Carroccio con annesse liturgie autoconsolatorie – questo è il vero dramma nel dramma della Lega – parla soltanto ai militanti, alla base, a quelli che gridano “Padania libera”, attaccano manifesti e mangiano salamelle a Pontida: che sono, si calcola, appena l’8 per cento dell’attuale elettorato leghista. Ma il resto, il 92 per cento di chi votava Lega, abboccherà alla storiella della cricca dei malvagi scrocconi all’insaputa del santo Bossi e del puro Maroni?

da Europa Quotidiano 10.04.12