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"La nuova indennità di disoccupazione anche per gli esodati", di Enrico Marro

Se non sarà possibile mandare tutti gli «esodati» in pensione con le vecchie regole, si interverrà con un sostegno al reddito, che potrebbe essere l’Aspi, la nuova indennità di disoccupazione contenuta nella riforma del mercato del lavoro che da domani comincia l’iter parlamentare.
Una settimana fa il governo ha promesso che entro sette giorni avrebbe fatto luce su quanti sono gli «esodati», cioè quei lavoratori che a causa di crisi aziendali e dimissioni incentivate rischiano di restare senza stipendio e senza pensione dopo il brusco aumento dei requisiti pensionistici dovuto alla riforma Fornero. Domani dovrebbe essere il giorno della verità. È infatti prevista una riunione al ministero dell’Economia tra i tecnici della Ragioneria generale dello Stato, del ministero del Lavoro e dell’Inps. La sensazione è che il governo voglia meglio circoscrivere la platea rispetto ai 350 mila esodati di cui si è parlato ufficiosamente finora e soprattutto individuare le diverse tipologie, che verranno trattate con strumenti differenti. C’è chi potrà andare con le vecchie regole previdenziali e chi appunto dovrà accontentarsi di un sussidio in attesa di raggiungere i nuovi requisiti di età e contributi stabiliti dalla riforma.
Il governo, prima col decreto salva-Italia e poi con il decreto milleproroghe, ha previsto una serie di casi per salvare gli esodati, concedendo loro di andare in pensione con le vecchie regole. Ciò è possibile, per esempio, ai lavoratori collocati in mobilità sulla base di accordi sindacali stipulati prima del 4 dicembre 2011 e che maturino i requisiti di pensionamento entro il periodo stesso della mobilità; ai lavoratori a carico dei fondi di solidarietà di settore, come i bancari; ai lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 31 ottobre scorso; a coloro che in seguito a dimissioni volontarie hanno lasciato il lavoro entro il 31 dicembre 2011 e matureranno il primo assegno di pensione entro il dicembre 2013.
Secondo i calcoli che furono fatti al momento della riforma, a dicembre, i lavoratori da salvaguardare sarebbero stati 65 mila. E su questa platea furono stanziate le risorse per coprire l’erogazione delle pensioni secondo le vecchie regole. Si tratta di oltre 5 miliardi in 7 anni, dal 2013 al 2019. Ma è bastata qualche settimana per rendersi conto che in realtà gli interessati sarebbero stati molti di più. Solo considerando i lavoratori in mobilità e mobilità lunga secondo gli accordi chiusi entro il 4 dicembre e quelli a carico dei fondi di solidarietà di settore, il numero dei 65 mila è già esaurito. Sono quindi cominciate a circolare le stime più diverse: da 100 mila a più di 350 mila. Al ministero del Lavoro sostengono che la cifra di 350 mila è esagerata. È probabile che la possibilità di andare in pensione con le vecchie regole rimarrà ristretta ai lavoratori che rientrino negli accordi sindacali mentre per gli altri si provvederà con un sostegno al reddito per gli anni che altrimenti resterebbero scoperti. In questo senso, tra le ipotesi che circolano, c’è anche quella di utilizzare l’Aspi, la nuova indennità di disoccupazione che dura fino a 18 mesi, con un tetto di 1.119 euro al mese. I sindacati, che venerdì svolgeranno una manifestazione nazionale a Roma, chiedono una soluzione che non lasci nessuno senza stipendio e senza pensione.

Il Corriere della Sera 10.04.12

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Esodati: i sindacati incalzano Monti «Trovi le risorse»

Un esercito in attesa di giustizia. È quello composto dai cosiddetti “esodati”, vale a dire da quelle persone che avevano accettato accordi collettivi o personali di mobilità con le proprie aziende per andare in pensione e che oggi, dopo la riforma targata Monti-Fornero, la pensione rischiano di non raggiungerla mai. L’iniquità è talmente evidente da ricompattare i sindacati che messi da parte distinguo e sfumature venerdì saranno tutti in piazza per chiedere al governo di correggere il tiro. Il problema è a monte, vale a dire nel non aver considerato che la platea di quelli che rischiavano di rimanere nel limbo avrebbe superato le 400mila unità. Adesso il governo – che sta facendo i conti – scopre che l’esercito in attesa di congedo è troppo costoso da mandare a casa. Lo ha chiarito nei giorni scorsi Elsa Fornero, spiegando senza troppi giri di parole che se «il numero di chi rimane fuori è troppo alto, il governo non potrà ovviamente dare risposte a tutti, visto anche che ci sono situazioni molto diverse le une dalle altre». Ieri il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, ha ripetuto ancora come sia «fondamentale e urgente, da parte del governo Monti, risolvere il problema degli “esodati” e trovare le risorse necessarie. Si tratta prima di tutto di una questione di giustizia sociale. Chiunque ha deciso un esodo incentivato nell’ambito dell’ azienda o in un ambito normativo di leggi in vigore, ha il diritto di vedersi risolti i problemi. La Cisl sarà in piazza contro una riforma pesante e disordinata perché decisa senza alcun confronto con le parti sociali».
PIAZZA La manifestazione è unitaria, ed era da un po’ che non se ne vedevano. I leader di Cigl, Cisl, Uil, e Ugl, saranno fianco a fianco nel corteo che partirà da piazza Esedra e parleranno dal palco in piazza Santissimi Apostoli, per chiedere soluzioni al governo di fronte al dramma di chi rischia di rimanere in mezzo ad una strada. Vera Lamonica, della segreteria confederale Cgil ha ricordato come i sindacati con quel corteo porranno al governo non solo la questione di chi si ritrova senza lavoro né pensione, ma anche le altre distorsioni di una riforma (l’ennesima) che produce effetti tragici su molte persone inmobilità, su chi è licenziato e chi ha ammortizzatori. E anche su chi si ritrova a fare i conti con la ricongiunzione costosissima dei periodi contributivi. «Quello degli “esodati”» ha continuato la Lamonica «è uno dei grossi buchi lasciati dalla riforma delle pensioni. Il governo non ha fatto i calcoli, prevedendo una deroga nella manovra economica per circa 65mila persone. I coinvolti sono molti di più, oltre 400mila. E non si può affrontare la questione come fosse una lotteria di Stato, con quelli fortunati che trovano la pensione e gli altri, meno fortunati, che vengono abbandonati al loro destino». Si muove anche la politica. Al Pd che da mesi denuncia la questione, si unisce l’Idv con Maurizio Zipponi, ex Fiom, oggi responsabile Welfare per l’Italia dei Valori. Zipponi ieri ha spiegato il punto di vista del suo partito, definendo «bugiardo il presidente del consiglio Mario Monti, che va in giro per ilmondoad esaltare la riforma delle pensioni, utilizzate come un bancomat, nonostante il sistema fosse in equilibrio fino al 2050, per produrre un unico risultato: il dramma sociale degli “esodati”. Senza contare che nei prossimi tre anni verranno persi 800mila posti di lavoro per i giovani.

L’Unità 10.04.12

"Partite Iva e contratti a termine: i cambiamenti sono possibili", di Bianca Di Giovanni

«L’impianto deve restare immutato, ma siamo aperti a nuove idee che vengano dal Parlamento». Così il sottosegretario alla presidenza del consiglio Antonio Catricalà annuncia l’apertura del governo sulla riforma del lavoro, che oggi sbarca in Senato. Alle 19 la commissione Lavoro di PalazzoMadamastilerà il calendario dell’esame, che potrebbe chiudersi in commissione entro in due settimane. Insomma, il varo a giugno non è impossibile. Salvo intoppi, naturalmente.
POSIZIONI DISTANTI
A leggere le cronache, le posizioni appaiono molto dure, soprattutto sul fronte dei datori di lavoro. Confindustria e le altre associazioni datoriali (Abi, Ania, Rete imprese Italia e l’associazione delle cooperative) terranno un vertice domani per mettere a punto una strategia durante l’esame del testo. Insomma, sembra proprio che si voglia dare battaglia. Dal canto suo il premier è tornato a difendere il testo anche durante la sua visita a Gerusalemme. «Con la riforma attuata dal nostro governo il mercato del lavoro sarà più flessibile a favore delle imprese e meno dualistico , ha detto Mario Monti nel giorno di Pasqua. E ieri dall’Egitto ha aggiunto: sulla riforma «nessuna incertezza».
Eppure nelle stanze del Palazzo le distanze non sembrano affatto incolmabili. Anzi, molto si sta già muovendo. Tanto che lo stesso Catricalà riconosce che con il Parlamento «abbiamo fatto finora un ottimo lavoro». Come dire: proprio lì si potranno trovare nuove mediazioni. Nei partiti che appoggiano il governo si registrano aperture sulla flessibilità in entrata, quella che interessa le imprese. La durezza di Confindustria appare inspiegabile sia al governo (e Mario Monti lo ha detto chiaro e tondo, con quel «un testo così ve lo sognavate), sia tra i parlamentari. Alcune
ipotesi di cambiamento sono quella di escludere dal computo dei 36 mesi (la soglia massima concessa per i contratti a termine) i periodi di lavoro in somministrazione, cioè interinale. In questo caso, infatti, entra in gioco un’agenzia: il caso è del tutto diverso da quello di un semplice contratto a termine, e sommare i
due periodi diventerebbe più complesso. Un altro riflettore è acceso sull’apprendistato, altro tema su cui le imprese (soprattutto le piccole e medie) insistono molto. Obbligare ad assumere gli apprendisti potrebbe scoraggiare molte aziende
dall’aprire le loro porte. Su questo punto il Pdl è orientato a tornare al disegno di legge Sacconi della primavera scorsa, che era più concentrato sulle attività formative. Infine, la questione partite Iva. Il testo concede un anno di tempo alle imprese per adeguarsi alla normativa, che equipara le partite Iva a un dipendente nel caso in cui si ricavi il 75% del reddito daunostesso committente. Si starebbe pensando a escludere da questa fattispecie alcuni casi particolari, che svolgono attività molto specialistiche del tutto estranee all’attività dell’azienda. La stessa Confindustria ha parlato del caso dei consulenti informatici. La fase parlamentare inizierà con le audizioni: sarà quella l’occasione per esternare le perplessità e chiarire le modifiche da chiedere. Marcegaglia continua a premere per interventi radicali: ma la sua associazione si prepara al cambio di timoniere. Non è detto che dopo la formazione della squadra di Giorgio Squinzi (il 19 aprile) la posizione resti la stessa di oggi. In ogni caso la partita non sarà affatto facile, visto che alcuni nodi sono ancora molto stretti. Per il Pdresta molto importante tutto il capitolo ammortizzatori. «Bisogna renderli davvero universali – spiega Cesare Damiano – Se Monti afferma che la priorità del governo sono i giovani, allora abbiamo lo stesso obbiettivo. Le tutele previste per il lavoro flessibile sono ancora insufficienti e sproporzionate rispetto alla richiesta di aumentare i contributi previdenziali fino al 33% anche per questi
lavoratori che sono per lo più giovani. Ci aspettiamo soluzioni rapide per i tirocini e per gli stages, per i quali va previsto un rimborso mensile fin dall’inizio dell’attività, per porre fine all’anomalia delle prestazioni di lavoro gratuite a carico delle giovani generazioni».

L’Unità 10.04.12

"Rosi, è ora di lasciare Roma ladrona", di Michele Brambilla

Anche se la stragrande maggioranza degli italiani non lo immagina neppure, Rosi Mauro è la quarta carica dello Stato. In caso di impedimento di Napolitano, l’Italia sarebbe rappresentata dal presidente del Senato, Schifani; in caso di impedimento anche di Schifani, toccherebbe al presidente della Camera, Fini; ma se a quest’ultimo venisse il colpo della strega, la Patria avrebbe la forma e la figura della signora Rosa Angela Mauro detta Rosi.

Alla quale ci sentiamo di rivolgere un cortese ma fermo invito: si dimetta. Lasci quella carica: fosse di partito, non ci permetteremmo. Ma è la vicepresidenza del Senato della Repubblica: rappresenta tutti noi e anche qualche nostro illustre antenato.

Lei obietterà di non essere indagata. Ma non tutto si misura con il codice penale. Ci sono comportamenti sconvenienti che non sono reati, ma restano sconvenienti. Gentile signora: l’hanno capito anche due persone cui lei dovrebbe voler bene, Umberto Bossi e suo figlio Renzo. Anche loro non sono indagati. Ma quel che è già emerso dall’inchiesta sul conto di entrambi è bastato a indignare non dico i nemici della Lega, ma i suoi elettori e militanti, che si sentono traditi e chiedono pulizia. Per questo Bossi senior e Bossi junior se ne sono andati. Il primo dalla guida del partito che ha creato dal nulla; il secondo dalla carica di consigliere regionale, che era il suo non disprezzabile posto fisso in tempo di crisi.

Lei in questi giorni ha detto che a dimettersi non ci pensa neppure. Strano, questo attaccamento a Roma ladrona e alle istituzioni di un Paese che nelle previsioni del tempo del giornale del suo partito, «La Padania», figura all’estero. Perfino Calderoli le ha chiesto di lasciare: Calderoli, quello che era con lei sul palco di Venezia a insultare i giornalisti che avevano osato scrivere di divisioni all’interno della Lega. «I giornalisti scrivono un sacco di c…te», urlò lei, signora, che era già vicepresidente del Senato. Oggi si vede che forse c…te lo erano per difetto, nel senso che neppure noi pennivendoli potevamo immaginare un partito così tanto diviso: con segretarie di fiducia che scaricano il capo e bodyguard che filmano il Trota mentre intasca i soldi della cassa comune.

Ieri Umberto Bossi, quando balbettava qualche mezza frase sulle dimissioni di Renzo, non sembrava neanche un leader politico in difficoltà ma solo un vecchio padre sofferente. Suscitava compassione, così come in un certo senso la suscita anche suo figlio, destinato ora a pagare, con un marchio a vita, un prezzo superiore alle sue effettive responsabilità. La loro è una fine ingloriosa: ma le dimissioni di entrambi bastano a fermare Maramaldo. Le sue, signora, sarebbero semplicemente un atto dovuto.

La Stampa 10.04.12

"La Repubblica provvisoria", di Ilvo Diamanti

È finita un´epoca. Ripeterlo, come un mantra, serve a evitare di appiattirsi sulla cronaca (giudiziaria o di colore). Che ogni giorno riserva novità. Ieri le dimissioni del figlio del Capo – Renzo Bossi – dal Consiglio regionale della Lombardia. Oggi chissà. Ma gli scandali che hanno travolto il milieu familiare – forse meglio: familista – di Bossi, insieme alla leadership della Lega (in parte coincidenti), rammentano quanto già si conosceva. Che la Lega è divenuta, da tempo, un partito come gli altri. Per alcuni versi: più esposto degli altri alle logiche di sotto-governo. Perché ha occupato una catena infinita di posti di potere, centrale e locale, in tempi molto rapidi. E la sua classe politica è stata reclutata in base a criteri di fedeltà ai leader, non di coerenza con la “missione” del partito. Tanto meno di qualità. Tuttavia la Lega non è – o almeno: non era – un partito come gli altri. È il soggetto politico che ha rovesciato la “Questione nazionale”, storicamente identificata con il Mezzogiorno – l´area dello “sviluppo dipendente”. Ha, invece, interpretato la cosiddetta “Questione Settentrionale”. Espressa dalle province pedemontane del Lombardo-Veneto. Protagoniste, dopo gli anni Settanta, della crescita impetuosa della piccola e media impresa. La Lega ne è divenuta portabandiera. Ha interpretato la domanda di rappresentanza dei lavoratori autonomi e dipendenti che popolano questo territorio di piccole città e di piccole aziende. La Pedemontania.
La crisi della Lega è avvenuta all´indomani delle dimissioni del Cavaliere. Non a caso. Perché Berlusconi ha rappresentato l´altra faccia della “Questione Settentrionale”. Milano e il capitalismo dei “beni immateriali” (per citare Arnaldo Bagnasco): media, comunicazione, assicurazioni, finanza, servizi. Naturalmente complementare alla politica, per ragioni di “mercato”, spazi, concessioni. Due Nord alternativi al capitalismo metropolitano della grande produzione di massa. Alla Fiat, insediata a Torino e alleata con Roma. Milano e la Pedemontania erano destinati a incontrarsi. A stabilire un rapporto di reciproco interesse, per quanto concorrenziale. Com´è avvenuto. Dal 1994 fino a ieri. Con alterne vicende. La vittoria e l´esperienza di governo, insieme, nel 1994 e, dopo pochi mesi, la rottura. Berlusconi all´opposizione e la Lega verso la secessione. In caduta: dal 10% nel 1996 a poco più del 4% nel 1999. Destinati, dunque, a tornare insieme. Per vincere, nel 2001, e governare per 10 anni, quasi ininterrotti. Insieme. Berlusconi e Bossi, l´Imprenditore e il Territorio. Milano e la Pedemontania: a Roma. Per cambiare l´Italia. Per riformarla a misura del loro popolo, dei loro elettori. Che chiedevano – e chiedono – di essere “liberati”: dalle tasse, dalla burocrazia, dal peso del pubblico, dai privilegi della classe politica – “romana” e “meridionale”. Dal centralismo. Nulla di tutto ciò si è avverato. La pressione fiscale è cresciuta. Il federalismo: approvato a parole. Mai tradotto in regole e strutture amministrative efficienti. I privilegi politici: mantenuti e moltiplicati. Insieme alla corruzione. Infine, la crisi globale – a lungo negata dal governo del Nord – ha colpito pesantemente l´Italia. Ma anche il Nord. Il piccolo Nord, il Nord dei piccoli: punteggiato dai suicidi di artigiani che non ce la fanno. Il Nord di Berlusconi, dei media e dei servizi: alla ricerca crescente di protezione politica. (Il leader: impegnato a proteggere se stesso e le proprie imprese.) Così la Lega, da Sindacato del Nord, si è trasformata in un partito come gli altri. Centralizzato e personalizzato. Senza più guida e senza controlli, dopo la malattia del Capo. In balia di colonnelli, caporali e parenti. Mentre il Pdl, ultima versione del partito personale di Berlusconi, si è meridionalizzato. Il declino del Capo l´ha lasciato senza identità e senza missione.
Così è s-finita l´avventura dei partiti del Nord alla conquista di Roma. Anche se la decomposizione della leadership leghista non significa, necessariamente, scomparsa della base elettorale. Fino a ieri era stimata intorno al 10%. E il suo elettorato più stabile e fedele, circa il 4%, dagli anni Novanta ad oggi appare insensibile a ogni rovescio. Né, d´altronde, le dimissioni di Berlusconi significano la scomparsa del suo elettorato. Quel 25% di elettori che l´hanno votato per oltre 15 anni dove e a chi si rivolgerà?
Il Centrosinistra, che pure ha governato per circa 7 anni, appare, da sempre, attraversato da profonde divisioni interne. In grado di competere, nel Nord, alle elezioni amministrative. Molto meno alle elezioni politiche. Tuttavia, la rappresentanza dei partiti del Nord oggi si presenta molto indebolita.
Così si chiude l´epoca del Grande Imprenditore e del Piccolo Nord. Senza riforme memorabili. Quelle promesse di vent´anni fa ce le siamo dimenticate. Questo “Paese eternamente provvisorio” (per citare Berselli) oggi è provvisoriamente affidato a un Grande Tecnico. Nominato dai partiti (maggiori) per garantire i mercati internazionali e l´opinione pubblica nazionale. Contro se stessi. Cioè: contro la minaccia dei partiti.
Tuttavia, è impossibile immaginare un futuro per questo Paese, senza riforme profonde. In grado non solo di controllare i “costi” della politica. Ma di ridisegnare lo Stato e le istituzioni. E di ricostruire la Politica e i Partiti. Perché senza Politica e senza Partiti non è possibile riformare lo Stato e le Istituzioni. Inutile illudersi che Monti e i suoi Tecnici (perlopiù del Nord) ce la possano fare, da soli. Basti pensare alle difficoltà incontrate nel modificare l´articolo 18. Figurarsi cosa avverrebbe se si affrontasse una revisione costituzionale sostanziale. Non è un caso che Monti continui a citare i sondaggi – per legittimarsi. Come un Berlusconi qualsiasi. Ma la democrazia rappresentativa non può fondarsi sul verdetto dei sondaggi. Sostituendo il corpo elettorale con un campione di persone intervistate dagli istituti demoscopici.
Così, la fine dell´epoca di Berlusconi e di Bossi non risolve i problemi di questa “Repubblica provvisoria”. Li lascia sospesi. La “questione settentrionale”: senza rappresentanza. E, prima ancora, la “questione nazionale”. In attesa di riforme che il governo del Nord non è riuscito a fare. E che il governo dei Tecnici non è in grado di realizzare. Questo Parlamento non glielo permetterebbe. Appartiene al passato. Bisogna, per questo, attendere nuove elezioni. Un nuovo Parlamento. E, a mio avviso, una nuova “Assemblea costituente”.

La Repubblica 10.04.12

"Miriam Mafai, una vita in trincea tra giornalismo e battaglie civili", di Eugenio Scalfari

Se n´è andata una ragazza. Una vecchia e grande ragazza che ha combattuto battaglie civili per tutta la vita, volontaria, militante, giornalista e soprattutto persona. Con allegria. L´allegria di chi sa di compiere un dovere e di esprimere in quel modo il suo amore verso gli altri. Senza dimenticare l´amore verso se stessa che si chiama dignità.Insieme a tanti altri sentimenti intensamente vissuti, Miriam Mafai aveva nel sangue anche la capacità e la voglia di comunicare; il giornalismo per lei fu dunque una passione e una vocazione prima ancora che una professione. Una passione che favorì l´incontro tra la sua militanza di parte e lo sforzo di capire le ragioni degli altri che è la pre-condizione per il dialogo senza pregiudizi e quindi la possibile sintesi che assicura la convivenza sociale al tempo stesso dialettica e dinamica.
La conobbi nell´ottobre del 1975. Ero nel mio ufficio all´Espresso in via Po 12 a Roma, quando il telefono squillò e una voce femminile mi chiese: «Lei è Scalfari? Sono Miriam Mafai. Vorrei vederla, è possibile?». Non c´era nessun imbarazzo, nessuna esitazione in quella voce, ma sicurezza e simpatia. Ci incontrammo il giorno dopo. Mentre ci salutavamo la guardai con curiosità per cogliere qualche eventuale somiglianza con suo padre e sua madre, due grandi artisti nella storia della pittura moderna. Aveva qualche cosa dell´uno e dell´altra ma soprattutto quel volto di allegria, simpatia e intelligenza che ha conservato per tutta la vita, ancora fino a poche settimane fa quando già il male aveva scavato dentro di lei il solco dal quale alla fine la vita è volata via.
Ci siamo subito dati del tu. Mi disse: «”Del giornale che vuoi fare so già qual è il tuo progetto, il resto lo conoscerò mentre lavoreremo”. “Ti dovrai dimettere da Paese Sera, ti dispiace?” rispose: “L´ho già fatto ieri” “prima che ci parlassimo” “non avevo dubbi”».
Lei era fatta così, era una donna decisa, emancipata ma legatissima alla famiglia e al suo compagno che chiamava Nullo col suo nome di battaglia dell´epoca della Resistenza. Era Giancarlo Pajetta. Quando lui morì, per la prima volta vidi un velo di tristezza sul suo viso. «Se n´è andata metà della mia vita» mi disse. Ma l´altra metà era così ricca di intelligenza e di motivazione da compensarla di quella perdita e di quel ricordo che ha portato nel cuore per tutto il resto della sua vita.
Per Repubblica è stata una presenza costante di primissima fila. Se ne va nello stesso arco di pochi mesi in cui l´hanno preceduta D´Avanzo, Tutino e Bocca.
In ricordo la sua intelligenza e la sua allegria.

La Repubblica 10.04.12

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“Le tensioni ideali di un´amica schietta”, di GIORGIO NAPOLITANO

Partecipo con profonda commozione al dolore dei figli, della sorella Simona e di tutti i famigliari, e al cordoglio del mondo giornalistico e politico per la morte di Miriam Mafai. Con lei scompare una delle più forti personalità femminili italiane degli scorsi decenni: erede di un´alta tradizione intellettuale e artistica famigliare, si era impegnata giovanissima nella Resistenza romana, affermandosi presto come giornalista di grande talento e combattività, e quindi come significativa scrittrice in stretto legame con il movimento per l´emancipazione delle donne e con l´attività politica della sinistra.
Lo spirito critico con cui aveva ripercorso le sue scelte ideali era parte di un temperamento morale alieno da convenzionalismi e faziosità. Nel ricordare la schietta amicizia che ci ha così a lungo legati, mi resta vivissima l´immagine della sua umanità appassionata, affettuosa ed aperta.

La Repubblica 10.04.12

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“Mestiere e passione Miriam era fatta col fil di ferro”, di Ezio Mauro

Sognava, interpretava una sinistra in grado di parlare all´intero Paese e infine di comprenderlo tutto. Miriam era fatta col fil di ferro. Come una parte importante della sua generazione, come “Nullo”, il suo compagno Pajetta, come quelli che davvero ne hanno viste tante, e raccontandole hanno imparato a capire tutto, traendone persino una lezione.
Fil di ferro e una grazia tutta sua, particolare. Una sorta di nobiltà dell´esperienza, dove si uniscono le tracce dell´impegno politico e i segni forti della passione giornalistica, del “mestiere” che aveva portato Miriam per anni in giro per l´Italia e per il mondo, cercando sempre di capire.
In questo, le pinze del giornalismo e della politica per lei lavoravano nello stesso modo. L´importante ogni volta era comprendere, lasciarsi sorprendere e stupire dalla forza della realtà, riuscire a penetrare le vicende della grande cronaca senza pregiudizi, senza interpretazioni preconcette.
Anche nella discussione era così. Abituata al rituale delle grandi assemblee, al giro retorico della sinistra, Miriam sapeva ascoltare, era capace di accompagnare l´argomentare del suo interlocutore, poi senza parere spostava la traiettoria del ragionamento verso un punto d´approdo diverso, sorridendo, senza polemizzare.
Sognava – interpretava – una sinistra riformista, capace di risolvere definitivamente i nodi della sua storia, forte della responsabilità di governare, in grado di parlare all´intero Paese e soprattutto di comprenderlo tutto, a partire dalla sua identità finalmente risolta e chiara, non camuffandola.
Era una tensione ideale, di vita, e anche una ricerca intellettuale, sottotraccia sempre nel suo giornalismo, mai cinico, mai disincantato e tuttavia mai ideologico. Non sopportava più quella cappa, cercava e offriva vie d´uscita, libere e autonome.
Dopo tanti anni, univa tutto questo con un sentimento profondo del giornale, una saggezza a disposizione di tutti, una cura costante per Repubblica. Ne parlavamo al mattino, quando bussava alla porta prima della riunione di redazione, e raccontava un film che aveva appena visto, un libro, un´assemblea di donne. Alzava l´indice quando si appassionava di più, come a richiamare l´attenzione, a sottolineare l´importanza della cosa. Fino all´ultima telefonata, pochi giorni fa, con la stanchezza definitiva nella voce: ricordati, sei fatta col fil di ferro. «Lo so, conto di farcela anche questa volta». Oggi ci manca la sua forza serena, il suo giornalismo pulito, forse più di ogni cosa l´intelligenza del suo sorriso.

La Repubblica 10.04.12

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“Dalla politica al giornalismo La vita ad occhi aperti della ragazza rossa”, di Nello Ajello

È morta ieri nella sua casa di Roma Miriam Mafai, giornalista e scrittrice. Aveva 86 anni. Chi ne abbia seguito nel tempo gli scritti sull´attualità politica, e in particolare abbia scorso giorno per giorno i suoi interventi sulla Repubblica potrà cogliere nell´evento un senso particolare: quasi suggerisca, a suo modo, un mutamento d´epoca. A Miriam in verità, come a pochi altri nostri colleghi, la qualifica di giornalista andava stretta: la sua testimonianza poteva assumere i toni più alti e coinvolgenti. Se ne erano accorti i moderatori dei talk-show televisivi, che da tempo la convocavano sapendola capace di cavare dai fatti una sostanza inedita. La sua lunga anagrafe aveva saputo evolversi in un´esperienza non convenzionale. I suoi sorrisi privi di sarcasmo riuscivano talvolta a liberare la cronaca dalle sue ombre.
Senza mai atteggiarsi a personaggio, la giornalista nostra amica ha saputo raccontarsi con generosità, mescolando vita e lavoro, imparando a far sfociare, dall´interno di entrambi, entusiasmi, sussulti, angosce e letizie sornione. «Ho visto i massacri di Sabra e Chatila», ha raccontato nel volume La mia professione curato per Laterza, nel 1986, da Corrado Stajano. «Ho visto la strage di via Fani e quella della stazione di Bologna, il cadavere di Moro e quello di Sindona». Ancora poche settimane fa, «in limine mortis», Miriam restava convinta, parlandone con qualche amico, che «il mestiere vero s´impara in cronaca»: a partire dalla «buona cronaca nera», di cui vigeva il culto in una delle testate per lei più formative, il paracomunista Paese Sera.
Nel saggio, appena citato, sul proprio lavoro si seguono d´altronde, molto da vicino le avventure e i traumi del cronista (della cronista, nel caso, ma non era nel suo stile fare distinzioni). Lui – lei – mandato in casa della «mondana assassinata», doveva «mettere il piede in mezzo alla porta» per infilarsi nella scena, e sfiorava la felicità se s´impadroniva della foto d´una vittima. Per modestia, Miriam aggiunge che una simile vetta del mestiere era di rado riuscita a varcarla. «L´unico mio scoop fu quello di scoprire l´esistenza della moglie divorziata d´un politico che dirigeva la campagna contro il divorzio. Andai a casa sua e la intervistai. Ma non mi diede la fotografia del matrimonio».
Furono difficili gli esordi del segugio di cronaca chiamato Miriam. Figlia di due artisti di larga fama, Mario Mafai ed Antonietta Raphaël, ebrea per metà (sua madre, lituana, era figlia del rabbino di Kaunas), lei prende parte alla Resistenza: nemmeno ventenne, è staffetta partigiana nella capitale occupata. Comincia poi come funzionario del Pci in un Abruzzo ancora semidistrutto dalla guerra. È giovane, sposata da poco. Essendo a sua volta suo marito un funzionario del Pci addetto al lavoro internazionale, lo segue a Parigi nel 1957, con due bambini, Sara e Luciano, che intanto le sono nati. Maria Antonietta Macciocchi, conosciuta durante la Resistenza, la fa diventare corrispondente di Vie Nuove con un modico compenso «a borderò». Primo servizio: un resoconto della visita d´Elisabetta d´Inghilterra all´Eliseo. Articolo che a Macciocchi non piace: poche notizie. Ma rientra in quello stesso arco di tempo uno dei pochi lavori che Mafai non disdegni di rievocare quasi come uno scoop. Appena incrociato a un congresso del Psi un giovanotto che la colpisce per la sua disinvolta destrezza, scrive: «I dirigenti socialisti di domani saranno come questo giovane». Una profetessa? È arduo lesinarle la qualifica, poiché quello spigliato congressista si chiama Bettino Craxi.
Nel ´58 Miriam è nella redazione romana dell´Unità. Lo stipendio è magro, la qualifica: impiegata. Nel ´61, è redattrice parlamentare. La vediamo in una di quelle scene che lei sapeva descrivere con ilare compunzione: «Ho un vestito grigio, un filo di perle al collo, un sorriso un po´ idiota sulle labbra e – orrore – i guanti». È in una sala del Quirinale. Le consegnano il premio Saint-Vincent per un servizio sul funzionamento – o le disfunzioni – della Camera dei deputati.
E poi? Appartiene a una fase più recente il suo lavoro a Repubblica, svolto fin dai “numeri zero” del 1975-´76. Ed eccomi a cercare nella memoria i momenti in cui Miriam mi è parsa, scrivendo articoli o libri, al suo meglio. Ecco un servizio in cui ritrae il Natale del 1953 in casa sua, a Roma, lo si rilegge con il piacere che procura l´arguzia quando lotta con l´emozione. Gli ospiti di quella notte, ricordati nel pezzo, sono tali e tanti che sua figlia (ricorderà l´autrice) le domanda: «È possibile, mamma, che non ci fosse neppure uno qualsiasi, in quella cena? Solo celebrità?».
Quando accennava ai suoi figli, appunto, Miriam – giornalista politica, e di politica ammalata, compagna di vita per trent´anni di Giancarlo Pajetta, dal 1962 fino alla morte di lui, nel 1990 – inclinava a un tenero “mea culpa”. «Sono stata una madre frettolosa, assente, nervosa», si legge in un volume a più mani al quale collaborò nel 2002, Il silenzio dei comunisti. A un altro tipo di figli, quelli veri o metaforici dei dirigenti del Pci, la scrittrice aveva già riservato sei anni prima una descrizione nel suo libro Botteghe Oscure addio!.
Sono i primi mesi del ´68. C´è, nella sede del Pci, un´affollata riunione di studenti. Il responsabile del settore scuola, Alessandro Natta, ha appena terminata la sua relazione e dal palco della presidenza qualcuno dichiara: «La riunione è conclusa». «Un momento», esclama uno dei giovani. «Ciò che ha detto il compagno Natta non mi convince affatto». Si tratta, per chi ha pratica di quei rituali, di una prima volta. Quel sessantottino, cronista di se stesso e della propria generazione, ha messo davvero il piede nella porta. Lo mostra l´istantanea scattata da Miriam. «Dopo di allora non ci sono stati più doveri o impegni particolari per i figli del Pci».
Il giornalismo di Mafai, il suo “metodo”, si prolunga insomma nei libri a sua firma. È la loro risorsa. Di un realismo ripulito da ogni lusinga letteraria trabocca Pane nero, dedicato alla dura vita delle donne abruzzesi durante la guerra. Se mi accade di pensare a Pietro Secchia – eroe politico un po´ ribaldo, un po´ penoso – lo rivedo come lei lo presentò nell´Uomo che sognava la lotta armata (1984): «Di media statura, una folta capigliatura nera, gli occhi allucinati dietro gli occhiali». Mi capita di leggere spesso qualche capitolo del Lungo freddo, la biografia dedicata da Miriam nel 1997 a Bruno Pontecorvo, e scritta con una partecipazione così naturale da non sfociare mai nel pathos, tingendosi piuttosto di “giallo”.
Se prendo in mano Dimenticare Berlinguer (1992) mi soffermo sull´immagine di quel personaggio fissata in una foto d´epoca. Così l´autrice la ridipinge, quella foto: «Chiuso in una giacca a vento bianca, al timone di una barca a vela, il viso appena sollevato contro il vento che gli scompiglia i capelli. Un uomo sollevato da ogni preoccupazione, forse perfino felice».
Sul presente e il futuro della sua professione non sempre Miriam si mostrava fiduciosa. A tratti, l´indipendenza dei giornali le appariva una chimera. La si sentiva esclamare: «Importante è vivere ad occhi aperti». Meno male che i suoi lo sono sempre stati.

La Repubblica 10.04.12

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“Quelle sue battaglie femministe che hanno fatto la nostra storia”, di Concita De Gregorio

Dalle lotte civili all´emancipazione, è sempre stata un modello per le nuove generazioni. Curiosa di tutto, ha saputo raccontare un´epoca senza nostalgia ma cercando di far capire il valore delle conquiste. Le mani nodose sempre a disegnare nell´aria, i capelli corti e i maglioni larghi e morbidi. Diceva spesso: “Alle compagne si dava la parola ma poi nessuno le ascoltava”. «Per anni ci siamo trovati a combattere le stesse battaglie e a soffrire per le stesse idee in due partiti diversi». Ricorda Giuliano Amato che «Miriam era sempre inquieta, sempre alla ricerca di risposte non prefabbricate, profondamente convinta della non predeterminazione della storia, una autentica riformista». Per la mostra dedicata alle donne nell´ambito delle celebrazioni del 150°, «chiedemmo a lei di selezionare le protagoniste del periodo. Lo fece nel migliore dei modi, mettendo l´una accanto all´altra Anna Kulisciov e Francesca Cabrini. Anche per questo la rimpiango».
E voi ragazze che ne dite?, chiedeva anche da ultimo Miriam. Noi ragazze abbiamo quarant´anni, ridevamo. «Se è per questo qualcuna anche cinquanta», rispondeva lei. «Comunque, insomma, voi ragazze che ne dite?».Dell´ultimo film della brava libanese, del primo romanzo della giovane Paola Soriga che le era piaciuto tanto, ma tanto. Del linguaggio di Elsa Fornero e delle sue proposte, di cos´è più la classe operaia, della politica che non ne vuole sentir parlare più nessuno, della corruzione dei tesorieri, dei bambini che nascono sempre di meno e quando nascono sono figli di stranieri ma se sono nati qui saranno ben italiani, no?, voi ragazze che ne dite?, e di questa riforma di legge elettorale che mi sembra un po´ farlocca e di questo libro di testo per le medie e della prostituzione intellettuale dei giornalisti pagati con ingaggi da sicari, quelli che poi se ne vanno con liquidazioni miliardarie, non è forse peggio quella della prostituzione dei corpi? Almeno uguale, diciamo, voi ragazze che ne dite? La facciamo una campagna di verità per raccontare la prostituzione cosa sia davvero? Che tempo difficile vi è toccato povere ragazze, che tempo strano. Chi l´avrebbe detto che noi vecchie avremmo visto la macchina correre a motori indietro. Pensavamo di aver fatto il grosso del lavoro, tutta quanta la fatica e invece no, ecco: ecco che ce n´è d´avanzo anche per voi.
Per noi ragazze Miriam, che ogni volta starla a sentire era una festa, incarnava la storia che ci ha portate fin qui. Fisicamente, proprio. Le mani nodose sempre a disegnare nell´aria, i capelli corti e i maglioni larghi, morbidi, maglioni di qualcun altro. Gli occhi grandi dietro gli occhiali, quel modo così marcato di dire le “t” e le “d”, quel modo di fare sì con la testa quando stavi dicendo qualcosa che pareva convincerla e poi il sorriso con cui all´improvviso, sempre facendo sì ma più lentamente, diceva “però devi pensare anche che”, e smetteva di annuire, e in quattro parole ribaltava il tavolo con le carte sopra, il ragionamento, la conclusione, la premessa. Quel modo di dissentire annuendo e di annuire nel dissenso, di fare molto dando l´impressione di non far nulla, di fare piano. «Quando ero adolescente», cominciavano spesso così le sue frasi e non finivano mai come ti saresti aspettata. Quando ero ragazza le donne non potevano fare il medico né il magistrato, non potevano fare il segretario comunale e non penso che alle donne gliene importasse un granché di fare il segretario comunale ma insomma, non potevano insegnare filosofia, ci pensate, e ora il problema è che non la vogliono studiare la filosofia. Sono tanto migliorati i tempi per le donne, diceva, e poi tanto peggiorati. Perché certo se vuoi fare la velina o la escort sei naturalmente libera di farlo ma ritengo che sono state le donne che hanno fatto scelte diverse da quelle, nel passato, a dare a tutte tante possibilità. E credo che il tema oggi sia tornare a fare un buon uso di queste possibilità: offrire alternative. Così, diceva e dicendolo le si leggevano negli occhi i nomi delle donne a cui pensava, delle strade camminate insieme a loro, dei cartelli tenuti alti alle manifestazioni, degli scioperi fuori dalle fabbriche, i picchetti, il femminismo, la maternità, i nipoti, le bisnipoti. Le sembrava di essere stata una madre frettolosa. «Il giorno più bello della mia esistenza è stato quando sono nate le mie pronipoti, due gemelle». Due nuove donne minuscole per un tempo ancora da venire.
Teneva a portata di mano, a casa, i libri sulla storia del Pci e Irène Némirovsky, negli scaffali qualche numero dei giornali in cui aveva lavorato – Vie Nuove, l´Unità, Noi donne, Paese Sera – prima di arrivare a Repubblica dove è rimasta fino alla fine. Alla fine degli anni Ottanta la ricordo presente, ogni mattina, alla riunione di redazione. Interveniva su tutto, aveva sempre uno sguardo solo suo sulle cose, come se le vedesse tutte da un altro punto di vista: da molto vicino, da molto lontano, di lato. Noi giovani la ascoltavamo come un oracolo, naturalmente, ma lei era bravissima a domandare, finiva sempre per ascoltare noi. Ricordo la prima volta nell´ascensore piccolo, quello da due persone: sei fortunata seguire la politica, mi disse, ci vogliono donne a raccontare la politica, a mostrarla per quello che è. Avrebbe voluto fare la storica, è stata una delle più grandi giornaliste del secolo. Diceva, ed aveva ragione, che per imparare a raccontare la realtà bisogna fare esperienza sulla cronaca, in specie sulla cronaca nera. Era stata la lezione di Paese Sera. Poi diceva che bisognerebbe sospendere il giudizio fino a che non si sia sicuri di aver capito, cosa che può succedere molto tardi. Gliel´ho sentito ripetere l´ultima volta, proprio con queste parole, nei giorni di Eluana Englaro. Aveva conservato, onnivora, un orecchio speciale per tutto quel che riguarda le donne, cioè per tutto. Quando uscì Pane nero dette a tutte noi una lezione di sobrietà, di rispetto, di passione: raccontava quegli anni senza nostalgia né retorica, stava in questo tempo e ne conosceva le radici. In Parlamento stava fiera e completamente immune dalla tentazione del male minore. Come Irene Brin: «vorrei arrivare a destinazione povera e senza compromessi». Senza denaro e senza macchia, percorso netto. Come Camilla Cederna era folgorante nella battuta, caustica col potere, ma più e prima di tutte le altre ironica e leggera, anche, sebbene nel solco della tradizione politica più severa e per le donne più dura che ci sia, quella del Pci: «alle compagne si dava la parola ma poi non si ascoltava», rideva. Lei si era fatta ascoltare, lo aveva fatto abbassando la voce anziché alzarla. Sobria, bella, indulgente e intransigente, generosa con le donne più giovani come così di rado accade, disponibile a condividere il pensiero e la scrittura, mai certa di aver detto la parola definitiva, pronta ad ascoltare quello di nuovo che c´è con curiosità intatta e senza la presunzione di chi c´era prima, è arrivato prima, l´ha detto prima, ha faticato di più. Piena di dubbi, maestra nell´articolarli. Nemica dell´ipocrisia, pronta a divertirsi sempre. Seduta su quella poltrona, la storia e i quadri dei suoi genitori, dei suoi amici alle spalle, Miriam era lì a dirci con la sua sola presenza il punto esatto da dove partire. Speriamo di riuscire un giorno a consegnare alle sue magnifiche pronipoti gemelle un paese almeno uguale a quello che lei ha lasciato a noi. Senza smettere un giorno di marciare, ricordando il suono del suo passo. Forza ragazze, è suonata la sirena. Cambia il turno, al lavoro.

La Repubblica 10.04.12

"Chiamata diretta,”scuola bosina” e trote", di Mila Spicola

La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. Da un lato il milione di euro letteralmente rubato dal finanziamento pubblico (cioè soldi anche miei, che sono di Palermo e non mi do pace) alla Lega per sovvenzionare la “scuola bosina” della signora Manuela Bossi, giusto per dar conto a quel “senza oneri per lo Stato”, che dovrebbe riguardare, come da mandato costituzionale, le scuole private.
Dall’altra la chiamata diretta dei docenti nelle scuole da parte dei presidi, testè approvata dal governatore Formigoni, anch’egli lombardo, anche qua, giusto per dar conto a un altro mandato “libero ne è l’insegnamento”.
Siccome siamo durante le vacanze un po’ di ripasso di Costituzione non fa mai male, a proposito di compiti a casa, per inciso secondo me indispensabili per digerire, metabolizzare e mandare in circolo, nel sangue, con le piastrine, un po’ di conoscenza in più. I fatti di cui sopra ce ne confermano la necessità.

Il signor Qualunque, da chiacchierone qual è, mi obietta: “Meglio! se un preside può scegliersi da solo i docenti sceglierà i migliori e la scuola finalmente funzionerà!”. Poi magari glielo spieghiamo che “il funzionamento” di una scuola dipende in buona percentuale anche dalle capacità del preside. Ci aguriamo che sia bravo, ma quando non lo è (e accade molto più spesso di quanto si pensi), immaginatevi come arranca la navicella in tempesta di una scuola. Se poi il preside in questione ha via libera nello scegliersi i docenti è la fine. Mia nonna diceva: sulle cose importanti è meglio decidere in tanti.

Si sfrega le mani Riccardino Bossi, poco male per gli incidenti di percorso di cui è stato vittima sfortunata, parrebbe che dal prossimo anno mammà sua lo nominerà docente di “italiano quello vero con declinazione lombarda” nel liceo classico padano della suddetta scuola bosina. Del resto: libera è la scuola e libero ne è l’insegnamento. In casa nostra noi facciamo quello che ci pare e siamo liberi. Loro. Coi soldi nostri. Del resto, però, a pensarci bene, nelle scuole private il preside se lo sceglie già il docente che gli piace..e dunque..con la nuova legge…quasi quasi..siccome il signor camicia hawaiana è molto intimo di papà, magari Riccardino potrebbe arrivare dritto dritto senza passar né da concorso né da abilitazione a insegnare Storia e Geografia al Beccaria. E mò chi era sto Beccaria?

Spera che tale meraviglia di provvedimento si estenda anche al sud il signor X, preside di un istituto pluriprofessionale sito in una zona non meglio identificata tra la Campania, la Sicilia e la Calabria. Ha da piazzare una serie di rampolli di varie generazioni e di provenienza “familiare”, di tipo politico, o di tipo “antropologicosociale” , diciamo così, ma sempre di appartenenze si tratta. In fondo il lavoro al sud va promosso. COme al centro e al nord. E la scuola si sa, è un “grande ammortizzatore sociale”. Al sud potrebbe capitarci come prof di educazione civica uno che di cognome fa Contorno e al nord uno a scelta tra Bossi, Minetti o la cugina della Brambilla. Attenzione: fosse per giusta causa nessuno ci metterebbe il becco. Nulla osterebbe al preside di scegliersi il novello Quasimodo come docente.

Il dubbio ahimè è d’obbligo. Perchè è proprio il valore discrezionale del metodo a presentare le falle maggiori.

C’è chi denuncia (gli insegnanti, sempre loro, sempre a star lì a lamentarsi) come « questa sperimentazione limiterà fortemente la costituzionale libertà d’insegnamento dei docenti asservendoli ai desiderata dei dirigenti scolastici dei singoli istituti ». Ma va?

C’è chi invece la loda (l’associazione dei genitori delle scuole cattoliche. Essì, esiste anche questa) « Il reclutamento diretto degli insegnanti è un segnale di vero cambiamento per il sistema scolastico ». Punto interrogativo. Enorme.

Che il cambiamento ci sia è indubbio, che sia vero cambiamento anche. Ma se dovete farci dire se siamo d’accordo: no, non siamo d’accordo. Anzi per nulla. Ma proprio per niente. E vogliamo ripeterlo e scriverlo per un migliaio di righe. No, no no. Signor Qualunque: no.

Secondo me i compiti sono necessari. E mò che c’entra? Non tantissimi da vanificarli, ma il giusto. Il fondamento della vita e del paese va studiato, ripassato e ripetuto, per tutta la vita e non solo in “età scolare”, non solo in quelle sparute ore in classe che la Gelmini ci ha concesso. Life long learning si chiama. E mi sa che la Costituzione una ripassatina approfondita la necessita. Eccome. Capito signora Manuela Bossi, signor Formigoni, signora Aprea, cari Riccardino e Renzo? Noi non vogliam “lamentarci per non cambiar mai nulla”. Vogliamo solo riportare le cose nelle caselline esatte.

E cioè: se si ruba si è ladri . Su questo non ci piove, giusto? E si deve essere puniti non omaggiati giusto? Un milione di euro rubati a noi e dati alla scuola privata della signora Manuela Bossi è una vergogna inammissibile. Sarebbe difficilmente digeribile persino se non fossero stati rubati ma concessi a norma di legge. Comprarsi poi, sempre con soldi pubblici, una laurea in Svizzera e sedere da vicepresidente nel Senato di questa Repubblica è poi vergogna che non possiamo mandar giù.

Secondo: la legge si osserva . Siamo d’accordo tutti? Se non lo siamo tutti (come parrebbe dimostrare la storia italiana degli ultimi anni) compiti a casa e ripasso. La Costituzione va osservata ancor di più. Se non ci piace o non ci convince in alcune parti , prima la si cambia e col parere di tutti e poi eventualmente si agisce in modo diverso. Si chiama democrazia costituzionale la nostra. Posto che quell’articolo è così perfetto da essere avanti coi tempi persino oggi.

E dunque il provvedimento di cui sopra: la chiamata diretta dei docenti non se po’ fa perché va contro l’art.33 della Costituzione Italiana .

Oltre che andar contro il buon senso, la logica ed altre tante belle cose. La scusa “così scegliamo i migliori” non regge, perché equivale ed apre la via anche al “ci scegliamo i peggiori”, che in Italia andrebbe per la maggiore, visto che da anni vanno di moda i peggiori e non i migliori, apre la via al “ci scegliamo chi dico io”, al “hai i capelli con le meches e dunque non puoi entrare in classe”, al “hai un accento calabrese e dunque non ti prendo”, al “tu ne sai più di me e potresti contraddirmi” etc..etc..etc..chi più ne ha più ne metta, l’idiozia di certe menti abbiamo capito può non avere limiti.

La cosa più urgente da cambiare, e in questo si deve cambiare quanto prima, è la percezione dei valori di “onestà”,e di “rettitudine” e di “rispetto delle leggi e delle istituzioni” in coloro che acquistano una qualunque carica governativa in Italia, dal consigliere di circoscrizione al presidente del consiglio.

Anche se poi ci chiediamo sempre e rimaniamo esterefatti: ma come hanno fatto a votare uno come a Renzo Bossi? E persino Umberto. Uno che è capace di stracciare bandiere, di alzare diti medi, di mandare a quel paese ogni istituzione italiana e straniera figurarsi se non è capace di far altro. Cioè rubare e negare l’evidenza. Non la sopportiamo più questa beffa infamante. Sono dei precedenti che non possono tollerarsi, specie quando a chiunque sono richiesti dei sacrifici che non possono più sopportare, dal freddo a scuola alle pensioni tagliate ai giovani devastati dal non lavoro.
Il guaio è che un intero pezzo di paese lo ha osannato per anni e ancora lo osanna.

Compiti a casa. Decisamente. Perchè a a molti di noi ribolle il sangue se anche uno dei nostri figli gli viene in testa di seguirne le orme.

da unita.it

"Polemica per il concorso a preside all'orale solo un candidato su 13", di Salvo Intravaia

Della selezione per 2.386 nuovi dirigenti scolastici si era già parlato per gli errori e le presunte irregolarità della prima prova. In Friuli-Venezia Giulia e Molise i concorrenti rimasti sono meno dei posti disponibili. Commissioni troppo severe o docenti impreparati? Stangata sul concorso a preside: approda alla prova orale un solo candidato su tredici. Ed è polemica. Gli Uffici scolastici regionali hanno cominciato a pubblicare gli elenchi degli ammessi all’ultima prova del concorso, bandito nel 2011, che dovrebbe laureare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Dai risultati delle prime sette regioni in cui le commissioni hanno completato la correzione degli elaborati scritti emerge una situazione piuttosto anomala: meno di un decimo degli aspiranti presidi riuscirà ad affrontare il colloquio e, addirittura, in due regioni il numero degli ammessi agli orali è inferiore ai posti messi a concorso. Commissioni severe o docenti impreparati?

Nelle sette regioni in questione – Friuli-Venezia Giulia, Molise, Umbria, Marche, Calabria, Piemonte e Basilicata – sono rimasti in lizza 639 prof per 472 posti. Ma erano partiti quasi in 6.000. In totale, il bando prevede 2.386 nuove poltrone di preside. Lo scorso mese di ottobre, per affrontare il quizzone composto da 100 domande a risposta multipla si presentarono in 33.548. Per superare la prova occorreva rispondere correttamente almeno a 80 quesiti e riuscirono nell’impresa in 9.000: una selezione che sembrò eccessiva. Le due prove scritte si svolsero il 14 e il 15 dicembre scorsi. E in questi giorni le commissioni sono alle prese con la correzione degli elaborati.

In Friuli-Venezia Giulia e in Molise, le prime due regioni a pubblicare la lista degli ammessi agli orali, addirittura, sono rimasti meno concorrenti dei posti disponibili. Nel primp caso, per 46 posti restano appena 38 candidati. Stesso discorso in Molise: per 16 posti sono rimasti in 11. Nelle Marche la situazione degli ammessi agli orali è abbastanza tranquilla: 59 candidati si contenderanno 53 poltrone. Mentre in Umbria (51 professori per 35 posti), Basilicata (42 poltrone per 63 aspiranti), Calabria (108 posti per 193 reduci) e Piemonte (224 concorrenti per 172 posti) occorrerà lottare un po’ di più per acciuffare un posto utile, ma essere arrivati agli orali è già un successo.

Per il caso-Friuli, il senatore leghista Mario Pittoni – temendo che i posti liberi possano essere occupati da presidi meridionali – ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro, Francesco Profumo, chiedendo “quali iniziative intenda assumere per verificare e rassicurare sulla circostanza che lo svolgimento dell’attività della commissione sia stato conforme ai principi di efficacia, trasparenza ed efficienza, nel pieno rispetto delle normative vigenti”. Secondo Pittoni, infatti, “la commissione regionale del Friuli-Venezia Giulia non risulta abbia provveduto ad esplicitare, come nei termini di legge, sul sito dell’Usr i criteri di valutazione delle prove scritte (e) il calendario della correzione delle stesse”.

Il concorso è approdato alle cronache 1 per una fuga di notizie via web sulla batteria di 5.000 quiz, pubblicati dal ministero lo scorso primo settembre, dai quali sono stati successivamente sorteggiati i 100 della prova selettiva. E per la quantità “industriale” di quiz errati, mal formulati o dubbi: quasi mille su 5.000. Errori che, secondo alcuni sindacati, sarebbero comparsi anche tra le 100 domande della prova di selezione e che hanno determinato almeno 2.000 ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, che chiedono ai giudici di annullare l’intera selezione o di essere ammessi “con riserva” all’orale.

da repubblica.it