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“Le buone scuole vanno in cattedra”, di Maria Novella De Luca

Dalle elementari alle medie, l´istruzione pubblica prova a reinventarsi. Con progetti che puntano sull´innovazione. È la creatività al servizio dello studio. Il movimento è sotterraneo, carsico, indipendente, refrattario alla burocrazia e spesso anche alle luci troppo forti. È fatto di professori, maestri, ragazzi, presidi, genitori. Batte nel cuore profondo della scuola, quella che resiste, quella che prova a ritrovarsi, come se arrivati all´anno zero (zero fondi, zero prospettive, zero motivazione), da una rete diffusa di realtà piccole e grandi, primarie, secondarie, licei, istituti tecnici, stesse emergendo una reazione dinamica, vitale, magari imperfetta ma autentica. Scuola-villaggio, scuola-agorà, scuola-comunità, 2.0, senza zaino, web-school, “book in progress”: bisogna andare dalla Puglia alla Toscana, dalla Lombardia al Lazio, spesso in provincia, tra paesi e borghi che si consorziano in comunità di saperi, per capire e scoprire germogli e fermenti del nuovo.
Come in questo Liceo Scientifico Tecnologico alla periferia Brindisi, brutta edilizia in una regione al terzo posto in Italia per dispersione scolastica, 23,4% i giovani che ogni anno disertano gli studi, un tasso di abbandoni altissimo in un´area flagellata dalla crisi, e dove il Petrolchimico fino a pochi anni fa dava lavoro a 12mila famiglie oggi invece ridotte a 700. Eppure qui, all´Itis “Ettore Majorana” è nato tre anni fa il progetto “Book in progress” una scommessa vinta ed esportata in tutto il Paese e già adottata in 70 scuole. Perché c´è chi si autoproduce i libri di testo (book in progress) e chi rivoluziona la didattica dei bambini, ritrovando Maria Montessori e magari Rudolf Steiner. Chi punta sulla tecnologia, chi sullo studio senza libri, chi si propone come diga al disagio delle famiglie, chi alfabetizza, insieme agli studenti, anche i loro genitori. Ci sono scuole che offrono ai prof dei coach che li ri-motivano al piacere dell´insegnare, e docenti che, gratuitamente, si mettono a scrivere libri di testo.
«Parliamo mentre stampo un libro», chiede il preside del Liceo Scientifico Tecnologico Ettore Majorana, Salvatore Giuliano, 45 anni, da tre alla guida di questo istituto che oggi fa parte della rete delle 15 scuole italiane certificate 2.0, ossia con alta dotazione tecnologica. Risultati ai test Invalsi di 10 punti superiori alla media, e una visita del ministro dell´Istruzione Profumo nel dicembre del 2011. «Ricordo che era il 2007, eravamo alle prese con la scelta dei libri di testo, ogni anno più cari e spesso fatti male, poco comprensibili… L´idea fu immediata, semplice: perché non proviamo a scrivere e stampare da soli i nostri manuali, con la competenza di tanti anni di insegnamento, in modo da far risparmiare drasticamente le famiglie e aiutare i ragazzi?». Il progetto passa, i libri vengono elaborati dai docenti, stampati e venduti a pochi euro, il semplice recupero delle spese di tipografia. Genitori entusiasti, ragazzi anche. Ma a quel punto il (vulcanico) preside Salvatore Giuliano rilancia: «Ho convocato le famiglie, e ho chiesto loro di comprare un Pc ai propri figli con i soldi risparmiati dai libri di testo… Del resto per i manuali avevano speso soltanto 35 euro contro i 350 che ci vogliono di solito all´inizio di un ciclo secondario. L´adesione è stata totale, ed è iniziata la rivoluzione tecnologica della scuola».
Dal risparmio all´investimento, economia di base. Arrivano le Lim, le lavagne interattive, si crea la rete, si possono seguire da casa le lezioni, le aule diventano connesse tra di loro, lo spazio da fisico si trasforma in virtuale. Il progetto “Book in progress” valica i confini del Majorana e comincia ad interessare sempre più scuole, che via via adottano il sistema. «È tutto lavoro gratuito. Scrivere, stampare, impaginare, spesso di domenica, d´estate, ad agosto – raccontano Maria Rosaria Serio e Gioacchino Margarito, docenti di Chimica – ma mettere a disposizione degli studenti il proprio sapere affinato in tanti anni, invece di far comprare loro un qualunque libro di testo, magari approssimativo e superficiale, è davvero una bella soddisfazione. È stato come ritrovare passione nel lavoro».
E se “Book in progress” sta diventando una realtà così capillare che costringerà gli editori di libri scolastici a rivedere, probabilmente, prezzi e qualità dei testi, è risalendo verso il Lazio e la Toscana che si incontra l´esperienza di “Senza zaino”, definizione riduttiva per una nuova didattica che sta cambiando il volto della scuola primaria, già sperimentata dal 2002 in 35 realtà. Perché al di là delle classifiche, che vedono Biella al top delle scuole migliori d´Italia (all´avanguardia per alcuni istituti tecnici specializzati nel tessile, ponte verso le aziende), e il Sud (Reggio Calabria) agli ultimi posti, innovazioni e cambiamento si trovano a macchia di leopardo, nascosti magari in territori meno noti, più depressi, in affanno.
Da tre anni all´istituto comprensivo “eSpazia”, a Monterotondo, venticinque chilometri da Roma, paese meta di migrazioni della middle class dalla Capitale ma anche di molta immigrazione, si sperimenta una didattica particolare basata sul concetto di comunità. Un polo d´istruzione dove le parole d´ordine sono accoglienza e integrazione, i percorsi sono differenziati per ogni allievo e le lezioni frontali, cioè una per tutti, un ricordo del passato. E i prof sembrano entusiasti del loro lavoro. «Le nostre classi vanno dalle sezioni Primavera alla terza media, dai 2 ai 14 anni, con una idea di approccio globale all´insegnamento, e di cooperative learning, chi è più veloce aiuta gli altri, pur nel rispetto e nell´incentivo delle eccellenze», spiega Caterina Manco, dirigente scolastica dell´”eSpazia” dal 1993, anima e motore di questa scuola dove sempre più docenti chiedono di poter lavorare.
L´architettura dei corridoi è scarna ma ingentilita da disegni e murales, l´odore della mensa è buono, e basta entrare nelle classi che adottano il metodo “Senza zaino” per trovarsi in aule luminose, senza cattedre, ricche di materiali di ogni tipo, perché nulla si porta a casa ma tutto resta a scuola, in comune. C´è l´angolo dell´agorà (di discussione), l´angolo dell´autocorrezione dei compiti… E poi laboratori, classi aperte, lezioni “lunghe” per i ragazzi delle medie, 90 minuti invece dei soliti 60 per non frammentare il tempo dell´apprendimento, che però avviene in modo creativo, attraverso, anche, teatro, fotografia, grafica, musica, e naturalmente classi 2.0, classi Mac. «Per arrivare al contenuto ogni ragazzo sceglie il medium cioè lo strumento che preferisce, ma attraverso questa flessibilità impara ad imparare».
Ma la caratteristica di questo istituto comprensivo, in prima linea nell´accoglienza agli immigrati, ai bambini e ragazzi con handicap, nel riconoscimento dei disturbi dell´apprendimento, è il “tutoraggio” dei professori. Aggiunge con orgoglio Caterina Manco: «Chi arriva in questa scuola viene preso in carico da docenti già esperti nel metodo, e seguito giorno dopo giorno. Questo si traduce spesso in una sorta di ri-motivazione verso l´insegnamento, anche se qui si fanno più ore, viene richiesto più impegno, si passano a scuola intere giornate. E infatti c´è chi dopo qualche settimana chiede il trasferimento, e chi invece fa di tutto per lavorare con noi».
Ricorda Marco Barozzi, educatore e fotografo: «Appena arrivato qui mi hanno chiesto di occuparmi di tre ragazzi difficili, anzi difficilissimi… Del mio laboratorio di fotografia non gli importava davvero nulla, erano arrabbiati con il mondo e con la vita, violenti, ma attraverso quel laboratorio si è creato un contatto, una confidenza, che a poco a poco ha vinto le loro diffidenze e sgretolato quel muro. Oggi siamo amici e loro sono ragazzi sereni».

La Repubblica 30.03.12

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Si diffonde nelle primarie il metodo rivoluzionario del pedagogista Marco Orsi. “Senza banchi e senza zaino così imparare diventa un gioco”

In Italia ci sono circa seimila bambini che ogni giorno, per loro fortuna, vanno a scuola senza zaino. Senza macigni sulla schiena, senza pesi che li fanno camminare più curvi, più lenti, e magari spengono anche un po´ la voglia di fare e di imparare. Già, perché penne, libri, matite, colori, pennelli, quaderni, compassi, ma anche legno, creta, carta, ferro, giochi, numeri, parole, i bambini li trovano a scuola, o magari li costruiscono, in un´aula già dotata di tutto e dove ognuno è responsabile di sé. È così, con una rappresentazione semplice che Marco Orsi, pedagogista, ex maestro elementare, oggi dirigente scolastico a Lucca, descrive il progetto “Senza zaino”, una didattica sperimentata dal 2002 in una rete di scuole primarie toscane, ma che adesso si sta diffondendo in tutta Italia.
Marco Orsi, come nasce questo progetto? E cosa vuol dire la metafora “Senza zaino”?
«Non è una metafora perché davvero i nostri bambini arrivano a scuola con una cartellina leggera leggera. E abbiamo deciso di definire la nostra didattica citando un oggetto di uso comune, ma strettamente connesso alla vita scolastica dei bambini, proprio per poter riparte dai concetti basilari della scuola».
Quali ad esempio?
«L´aula, la cattedra, la disposizione dei banchi. Siamo partiti dalla constatazione che l´insegnamento dall´alto verso il basso, cioè il maestro in cattedra e i bimbi fermi nei banchi, il maestro che corregge e gli alunni che eseguono, una modalità passiva e identica a se stessa da oltre un secolo, non solo non è più attuale, ma è davvero inefficace con i bambini di oggi».
Su quali basi pedagogiche?
«Prima di tutto dalla riscoperta del pensiero di Maria Montessori, ancora così poco attuato in Italia. La spinta verso l´autonomia del bambino, che si autocorregge i compiti, che impara non soltanto attraverso l´astrazione dei concetti, ma toccando materialmente strumenti matematici, inventando oggetti, manipolando legno, creta, stoffa. E poi le intuizioni di Howard Gardner, alcuni concetti del metodo steineriano, l´arte, la musica. Il senso è quello di scoprire il mondo attraverso sia la mente che il corpo. E per questo non si può stare fermi nei banchi».
E allora come si studia, come si impara?
«Nel metodo “Senza zaino” noi diamo grande importanza all´architettura dell´aula. Lo spazio è diviso in aree di lavoro, dove i bambini si auto-organizzano, studiando spesso materie diverse da tavolo e tavolo. Quando finiscono si spostano nell´angolo della correzione, dove, da soli, controllano il proprio compito. La classe è dotata di schedari, libri, classificatori, cerchiamo ad esempio per i bambini delle prime classi penne con impugnature particolari, che facilitino l´approccio alla scrittura…».
Questo permette di alzarsi, di muoversi. E l´insegnante?
«Raramente fa delle lezioni collettive, di solito segue i bambini gruppo per gruppo. Questo permette una didattica non standardizzata che non lascia indietro nessuno».
Ma i programmi sono quelli ministeriali?
«Sì certo, ciò che cambia è l´approccio. Noi lo chiamiamo “Metodo del Curriculo Globale”. Che si fonda su tre valori e sei pilastri. I tre valori sono: comunità, responsabilità, ospitalità. La comunità è quella dei professori. La responsabilità è quella dei bambini che vengono coinvolti, imparano ad autovalutarsi, a lavorare in autonomia».
E l´ospitalità?
«Sono le aule pensate come luoghi belli e accoglienti da un team di architetti e insegnanti. Hanno il laboratorio delle parole e quello dei numeri, le lavagne interattive, l´angolo del computer e quello dell´arte, ma anche lo spazio dell´agorà, dove i bambini possono parlare, discutere, rilassarsi».
E loro, i bambini, che pensano?
«Sono entusiasti. Non fanno assenze. E raggiungono ottimi livelli di preparazione».

La Repubblica 30.03.12

"Lotta all'evasione e drammi umani", Attilio Befera*

Caro Direttore, l’ultima cosa che avrei desiderato in questi giorni sarebbe stata quella di commentare la notizia dell’artigiano che si è dato fuoco a Bologna di fronte a un ufficio dell’Agenzia delle entrate. La ragione per cui avrei volentieri evitato qualsiasi commento mi pare evidente. Di fronte a una notizia così terribile, credo che l’unica reazione umanamente sensata sia, almeno nell’immediato, solo provare dolore e pena profonde, immaginando quale possa essere stato il peso schiacciante delle sofferenze che hanno indotto questa persona a spezzare la sua vita e a segnare per sempre quella delle persone a lui più care.

Naturalmente, so che queste parole potranno sembrare a taluni (non pochi, temo) alquanto curiose, se non addirittura ipocrite. Nell’articolo apparso sulla Stampa viene tirata in ballo, come spesso capita, Equitalia, che però nella particolare vicenda non aveva avviato alcuna azione di recupero coattivo. Si è trattato nel caso specifico di accertamenti effettuati dall’Agenzia delle entrate per violazioni di una certa rilevanza, anche penale, di norme tributarie. Questi accertamenti sono stati giudicati corretti dalla Commissione tributaria, ma nulla era stato ancora riscosso.

Partendo comunque dalla vicenda dello sfortunato artigiano di Bologna, l’articolo vira subito sul problema più generale dei rapporti tra piccoli imprenditori ed Equitalia, e non so quindi quale spazio autentico di sentimenti posso aspettarmi venga concesso a chi, come me, ha avuto l’incarico di presiedere un’istituzione Equitalia, appunto – dipinta da certa pubblicistica come un’organizzazione di vampiri, la cui missione sarebbe quella di vessare i cittadini, alle prese con una crisi economica senza precedenti. Dovendo tuttavia fare un lavoro spiacevole, non posso che avere rispetto per qualunque mestiere, e il mestiere di chi scrive in un giornale non è solo quello di dare le notizie, ma anche di commentarle come meglio crede. E questo mi obbliga, di rimando, a qualche considerazione.

In estrema sintesi, Michele Brambilla osserva, da un lato, che non bisogna arretrare neppure di un millimetro nella lotta all’evasione fiscale, ma che bisogna, dall’altro, evitare che essa si trasformi in una caccia alle streghe. Messa così la questione, chi potrebbe mai dissentire? Ma poiché non era sicuramente nelle intenzioni dell’estensore dell’articolo cavarsela con soluzioni apparenti o facili declamazioni retoriche, sono indotto a scendere nel concreto, e a formulare, dal mio punto di vista, il problema cruciale nel modo più esplicito possibile, evitando scappatoie e infingimenti, tanto più inaccettabili di fronte a vicende come quella di cui stiamo parlando. Il problema è alla fine questo: «Cosa dovrebbe o potrebbe fare l’Agenzia delle entrate per evitare che simili tragedie si ripetano?». Poiché l’esistenza di ognuno di noi è alla fine insondabile, e nessuno è in grado di prevedere a quale esito possa portarci una sequenza di sventure, l’unica risposta idonea a scongiurare evenienze del genere potrebbe riassumersi nella seguente massima: «Astieniti dal fare il tuo dovere, perché non puoi mai sapere quale dramma umano potrebbe scaturirne, tanto più che un errore è sempre possibile, per quanto si faccia per evitarlo».

E’ questo che si vuole? O si vuole che il legislatore attribuisca all’Agenzia delle entrate il diritto di arrogarsi la decisione di stabilire, caso per caso, quale sia – nell’avanzare una determinata pretesa – la sofferenza «giusta» che si può tranquillamente infliggere, costi quel che costi, o la «sofferenza ingiusta» che non va invece inflitta, derogando così, con assoluta discrezionalità, alle norme generali della legge?

A questo punto, se al personaledi Equitalia viene attribuita la patente di «vampiri», a quello dell’Agenzia delle entrate verrebbe attribuita quella di «giustizieri», con buona pace della distinzione fra «giustizia» e «giustizialismo» su cui Brambilla opportunamentepone l’accento.

Se la prima nomea mi indigna (ma con il tempo ci si rassegna quasi a tutto), la seconda sgomenterebbe credo chiunque. Per fortuna, nessuno si sogna una soluzione del genere. Per il resto, l’articolo della Stampa, traendo sempre spunto dall’episodio di Bologna, formula rilievi su punti non secondari del sistema fiscale italiano, e anzi dell’intero ordinamento, compreso quello della giustizia civile, valutandone a grandi linee l’impatto sulla piccola e media impresa, anche in termini di equità complessiva. È una tematica prettamente politica sulla quale non è mio compito pronunciarmi, e tanto meno avrei l’animo di farlo in un momento del genere. L’unica cosa che mi sento adesso di dire è questa: il Paese per il quale lavoriamo non è un’entità astratta e impersonale. E’ una moltitudine di persone in carne ed ossa, la cui vita e quella delle loro famiglie dipendono anche dai beni e dai servizi pubblici finanziati con le imposte. E per quanto possa suonare incredibile, fra queste persone c’è anche, con la sua famiglia, il nostro concittadino di Bologna, che mi auguro di cuore sopravviva alle sue commoventi parole di addio.

* direttore generale dell’Agenzia delle Entrate

La Stampa 30.03.12

“Lotta all’evasione e drammi umani”, Attilio Befera*

Caro Direttore, l’ultima cosa che avrei desiderato in questi giorni sarebbe stata quella di commentare la notizia dell’artigiano che si è dato fuoco a Bologna di fronte a un ufficio dell’Agenzia delle entrate. La ragione per cui avrei volentieri evitato qualsiasi commento mi pare evidente. Di fronte a una notizia così terribile, credo che l’unica reazione umanamente sensata sia, almeno nell’immediato, solo provare dolore e pena profonde, immaginando quale possa essere stato il peso schiacciante delle sofferenze che hanno indotto questa persona a spezzare la sua vita e a segnare per sempre quella delle persone a lui più care.

Naturalmente, so che queste parole potranno sembrare a taluni (non pochi, temo) alquanto curiose, se non addirittura ipocrite. Nell’articolo apparso sulla Stampa viene tirata in ballo, come spesso capita, Equitalia, che però nella particolare vicenda non aveva avviato alcuna azione di recupero coattivo. Si è trattato nel caso specifico di accertamenti effettuati dall’Agenzia delle entrate per violazioni di una certa rilevanza, anche penale, di norme tributarie. Questi accertamenti sono stati giudicati corretti dalla Commissione tributaria, ma nulla era stato ancora riscosso.

Partendo comunque dalla vicenda dello sfortunato artigiano di Bologna, l’articolo vira subito sul problema più generale dei rapporti tra piccoli imprenditori ed Equitalia, e non so quindi quale spazio autentico di sentimenti posso aspettarmi venga concesso a chi, come me, ha avuto l’incarico di presiedere un’istituzione Equitalia, appunto – dipinta da certa pubblicistica come un’organizzazione di vampiri, la cui missione sarebbe quella di vessare i cittadini, alle prese con una crisi economica senza precedenti. Dovendo tuttavia fare un lavoro spiacevole, non posso che avere rispetto per qualunque mestiere, e il mestiere di chi scrive in un giornale non è solo quello di dare le notizie, ma anche di commentarle come meglio crede. E questo mi obbliga, di rimando, a qualche considerazione.

In estrema sintesi, Michele Brambilla osserva, da un lato, che non bisogna arretrare neppure di un millimetro nella lotta all’evasione fiscale, ma che bisogna, dall’altro, evitare che essa si trasformi in una caccia alle streghe. Messa così la questione, chi potrebbe mai dissentire? Ma poiché non era sicuramente nelle intenzioni dell’estensore dell’articolo cavarsela con soluzioni apparenti o facili declamazioni retoriche, sono indotto a scendere nel concreto, e a formulare, dal mio punto di vista, il problema cruciale nel modo più esplicito possibile, evitando scappatoie e infingimenti, tanto più inaccettabili di fronte a vicende come quella di cui stiamo parlando. Il problema è alla fine questo: «Cosa dovrebbe o potrebbe fare l’Agenzia delle entrate per evitare che simili tragedie si ripetano?». Poiché l’esistenza di ognuno di noi è alla fine insondabile, e nessuno è in grado di prevedere a quale esito possa portarci una sequenza di sventure, l’unica risposta idonea a scongiurare evenienze del genere potrebbe riassumersi nella seguente massima: «Astieniti dal fare il tuo dovere, perché non puoi mai sapere quale dramma umano potrebbe scaturirne, tanto più che un errore è sempre possibile, per quanto si faccia per evitarlo».

E’ questo che si vuole? O si vuole che il legislatore attribuisca all’Agenzia delle entrate il diritto di arrogarsi la decisione di stabilire, caso per caso, quale sia – nell’avanzare una determinata pretesa – la sofferenza «giusta» che si può tranquillamente infliggere, costi quel che costi, o la «sofferenza ingiusta» che non va invece inflitta, derogando così, con assoluta discrezionalità, alle norme generali della legge?

A questo punto, se al personaledi Equitalia viene attribuita la patente di «vampiri», a quello dell’Agenzia delle entrate verrebbe attribuita quella di «giustizieri», con buona pace della distinzione fra «giustizia» e «giustizialismo» su cui Brambilla opportunamentepone l’accento.

Se la prima nomea mi indigna (ma con il tempo ci si rassegna quasi a tutto), la seconda sgomenterebbe credo chiunque. Per fortuna, nessuno si sogna una soluzione del genere. Per il resto, l’articolo della Stampa, traendo sempre spunto dall’episodio di Bologna, formula rilievi su punti non secondari del sistema fiscale italiano, e anzi dell’intero ordinamento, compreso quello della giustizia civile, valutandone a grandi linee l’impatto sulla piccola e media impresa, anche in termini di equità complessiva. È una tematica prettamente politica sulla quale non è mio compito pronunciarmi, e tanto meno avrei l’animo di farlo in un momento del genere. L’unica cosa che mi sento adesso di dire è questa: il Paese per il quale lavoriamo non è un’entità astratta e impersonale. E’ una moltitudine di persone in carne ed ossa, la cui vita e quella delle loro famiglie dipendono anche dai beni e dai servizi pubblici finanziati con le imposte. E per quanto possa suonare incredibile, fra queste persone c’è anche, con la sua famiglia, il nostro concittadino di Bologna, che mi auguro di cuore sopravviva alle sue commoventi parole di addio.

* direttore generale dell’Agenzia delle Entrate

La Stampa 30.03.12

“Lotta all’evasione e drammi umani”, Attilio Befera*

Caro Direttore, l’ultima cosa che avrei desiderato in questi giorni sarebbe stata quella di commentare la notizia dell’artigiano che si è dato fuoco a Bologna di fronte a un ufficio dell’Agenzia delle entrate. La ragione per cui avrei volentieri evitato qualsiasi commento mi pare evidente. Di fronte a una notizia così terribile, credo che l’unica reazione umanamente sensata sia, almeno nell’immediato, solo provare dolore e pena profonde, immaginando quale possa essere stato il peso schiacciante delle sofferenze che hanno indotto questa persona a spezzare la sua vita e a segnare per sempre quella delle persone a lui più care.

Naturalmente, so che queste parole potranno sembrare a taluni (non pochi, temo) alquanto curiose, se non addirittura ipocrite. Nell’articolo apparso sulla Stampa viene tirata in ballo, come spesso capita, Equitalia, che però nella particolare vicenda non aveva avviato alcuna azione di recupero coattivo. Si è trattato nel caso specifico di accertamenti effettuati dall’Agenzia delle entrate per violazioni di una certa rilevanza, anche penale, di norme tributarie. Questi accertamenti sono stati giudicati corretti dalla Commissione tributaria, ma nulla era stato ancora riscosso.

Partendo comunque dalla vicenda dello sfortunato artigiano di Bologna, l’articolo vira subito sul problema più generale dei rapporti tra piccoli imprenditori ed Equitalia, e non so quindi quale spazio autentico di sentimenti posso aspettarmi venga concesso a chi, come me, ha avuto l’incarico di presiedere un’istituzione Equitalia, appunto – dipinta da certa pubblicistica come un’organizzazione di vampiri, la cui missione sarebbe quella di vessare i cittadini, alle prese con una crisi economica senza precedenti. Dovendo tuttavia fare un lavoro spiacevole, non posso che avere rispetto per qualunque mestiere, e il mestiere di chi scrive in un giornale non è solo quello di dare le notizie, ma anche di commentarle come meglio crede. E questo mi obbliga, di rimando, a qualche considerazione.

In estrema sintesi, Michele Brambilla osserva, da un lato, che non bisogna arretrare neppure di un millimetro nella lotta all’evasione fiscale, ma che bisogna, dall’altro, evitare che essa si trasformi in una caccia alle streghe. Messa così la questione, chi potrebbe mai dissentire? Ma poiché non era sicuramente nelle intenzioni dell’estensore dell’articolo cavarsela con soluzioni apparenti o facili declamazioni retoriche, sono indotto a scendere nel concreto, e a formulare, dal mio punto di vista, il problema cruciale nel modo più esplicito possibile, evitando scappatoie e infingimenti, tanto più inaccettabili di fronte a vicende come quella di cui stiamo parlando. Il problema è alla fine questo: «Cosa dovrebbe o potrebbe fare l’Agenzia delle entrate per evitare che simili tragedie si ripetano?». Poiché l’esistenza di ognuno di noi è alla fine insondabile, e nessuno è in grado di prevedere a quale esito possa portarci una sequenza di sventure, l’unica risposta idonea a scongiurare evenienze del genere potrebbe riassumersi nella seguente massima: «Astieniti dal fare il tuo dovere, perché non puoi mai sapere quale dramma umano potrebbe scaturirne, tanto più che un errore è sempre possibile, per quanto si faccia per evitarlo».

E’ questo che si vuole? O si vuole che il legislatore attribuisca all’Agenzia delle entrate il diritto di arrogarsi la decisione di stabilire, caso per caso, quale sia – nell’avanzare una determinata pretesa – la sofferenza «giusta» che si può tranquillamente infliggere, costi quel che costi, o la «sofferenza ingiusta» che non va invece inflitta, derogando così, con assoluta discrezionalità, alle norme generali della legge?

A questo punto, se al personaledi Equitalia viene attribuita la patente di «vampiri», a quello dell’Agenzia delle entrate verrebbe attribuita quella di «giustizieri», con buona pace della distinzione fra «giustizia» e «giustizialismo» su cui Brambilla opportunamentepone l’accento.

Se la prima nomea mi indigna (ma con il tempo ci si rassegna quasi a tutto), la seconda sgomenterebbe credo chiunque. Per fortuna, nessuno si sogna una soluzione del genere. Per il resto, l’articolo della Stampa, traendo sempre spunto dall’episodio di Bologna, formula rilievi su punti non secondari del sistema fiscale italiano, e anzi dell’intero ordinamento, compreso quello della giustizia civile, valutandone a grandi linee l’impatto sulla piccola e media impresa, anche in termini di equità complessiva. È una tematica prettamente politica sulla quale non è mio compito pronunciarmi, e tanto meno avrei l’animo di farlo in un momento del genere. L’unica cosa che mi sento adesso di dire è questa: il Paese per il quale lavoriamo non è un’entità astratta e impersonale. E’ una moltitudine di persone in carne ed ossa, la cui vita e quella delle loro famiglie dipendono anche dai beni e dai servizi pubblici finanziati con le imposte. E per quanto possa suonare incredibile, fra queste persone c’è anche, con la sua famiglia, il nostro concittadino di Bologna, che mi auguro di cuore sopravviva alle sue commoventi parole di addio.

* direttore generale dell’Agenzia delle Entrate

La Stampa 30.03.12