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“Lotta all’evasione e drammi umani”, Attilio Befera*

Caro Direttore, l’ultima cosa che avrei desiderato in questi giorni sarebbe stata quella di commentare la notizia dell’artigiano che si è dato fuoco a Bologna di fronte a un ufficio dell’Agenzia delle entrate. La ragione per cui avrei volentieri evitato qualsiasi commento mi pare evidente. Di fronte a una notizia così terribile, credo che l’unica reazione umanamente sensata sia, almeno nell’immediato, solo provare dolore e pena profonde, immaginando quale possa essere stato il peso schiacciante delle sofferenze che hanno indotto questa persona a spezzare la sua vita e a segnare per sempre quella delle persone a lui più care.

Naturalmente, so che queste parole potranno sembrare a taluni (non pochi, temo) alquanto curiose, se non addirittura ipocrite. Nell’articolo apparso sulla Stampa viene tirata in ballo, come spesso capita, Equitalia, che però nella particolare vicenda non aveva avviato alcuna azione di recupero coattivo. Si è trattato nel caso specifico di accertamenti effettuati dall’Agenzia delle entrate per violazioni di una certa rilevanza, anche penale, di norme tributarie. Questi accertamenti sono stati giudicati corretti dalla Commissione tributaria, ma nulla era stato ancora riscosso.

Partendo comunque dalla vicenda dello sfortunato artigiano di Bologna, l’articolo vira subito sul problema più generale dei rapporti tra piccoli imprenditori ed Equitalia, e non so quindi quale spazio autentico di sentimenti posso aspettarmi venga concesso a chi, come me, ha avuto l’incarico di presiedere un’istituzione Equitalia, appunto – dipinta da certa pubblicistica come un’organizzazione di vampiri, la cui missione sarebbe quella di vessare i cittadini, alle prese con una crisi economica senza precedenti. Dovendo tuttavia fare un lavoro spiacevole, non posso che avere rispetto per qualunque mestiere, e il mestiere di chi scrive in un giornale non è solo quello di dare le notizie, ma anche di commentarle come meglio crede. E questo mi obbliga, di rimando, a qualche considerazione.

In estrema sintesi, Michele Brambilla osserva, da un lato, che non bisogna arretrare neppure di un millimetro nella lotta all’evasione fiscale, ma che bisogna, dall’altro, evitare che essa si trasformi in una caccia alle streghe. Messa così la questione, chi potrebbe mai dissentire? Ma poiché non era sicuramente nelle intenzioni dell’estensore dell’articolo cavarsela con soluzioni apparenti o facili declamazioni retoriche, sono indotto a scendere nel concreto, e a formulare, dal mio punto di vista, il problema cruciale nel modo più esplicito possibile, evitando scappatoie e infingimenti, tanto più inaccettabili di fronte a vicende come quella di cui stiamo parlando. Il problema è alla fine questo: «Cosa dovrebbe o potrebbe fare l’Agenzia delle entrate per evitare che simili tragedie si ripetano?». Poiché l’esistenza di ognuno di noi è alla fine insondabile, e nessuno è in grado di prevedere a quale esito possa portarci una sequenza di sventure, l’unica risposta idonea a scongiurare evenienze del genere potrebbe riassumersi nella seguente massima: «Astieniti dal fare il tuo dovere, perché non puoi mai sapere quale dramma umano potrebbe scaturirne, tanto più che un errore è sempre possibile, per quanto si faccia per evitarlo».

E’ questo che si vuole? O si vuole che il legislatore attribuisca all’Agenzia delle entrate il diritto di arrogarsi la decisione di stabilire, caso per caso, quale sia – nell’avanzare una determinata pretesa – la sofferenza «giusta» che si può tranquillamente infliggere, costi quel che costi, o la «sofferenza ingiusta» che non va invece inflitta, derogando così, con assoluta discrezionalità, alle norme generali della legge?

A questo punto, se al personaledi Equitalia viene attribuita la patente di «vampiri», a quello dell’Agenzia delle entrate verrebbe attribuita quella di «giustizieri», con buona pace della distinzione fra «giustizia» e «giustizialismo» su cui Brambilla opportunamentepone l’accento.

Se la prima nomea mi indigna (ma con il tempo ci si rassegna quasi a tutto), la seconda sgomenterebbe credo chiunque. Per fortuna, nessuno si sogna una soluzione del genere. Per il resto, l’articolo della Stampa, traendo sempre spunto dall’episodio di Bologna, formula rilievi su punti non secondari del sistema fiscale italiano, e anzi dell’intero ordinamento, compreso quello della giustizia civile, valutandone a grandi linee l’impatto sulla piccola e media impresa, anche in termini di equità complessiva. È una tematica prettamente politica sulla quale non è mio compito pronunciarmi, e tanto meno avrei l’animo di farlo in un momento del genere. L’unica cosa che mi sento adesso di dire è questa: il Paese per il quale lavoriamo non è un’entità astratta e impersonale. E’ una moltitudine di persone in carne ed ossa, la cui vita e quella delle loro famiglie dipendono anche dai beni e dai servizi pubblici finanziati con le imposte. E per quanto possa suonare incredibile, fra queste persone c’è anche, con la sua famiglia, il nostro concittadino di Bologna, che mi auguro di cuore sopravviva alle sue commoventi parole di addio.

* direttore generale dell’Agenzia delle Entrate

La Stampa 30.03.12