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“Nuovo Governo delle Istituzioni scolastiche ma l’Autonomia è ancora debole”, di Gian Carlo Sacchi

L’autonomia scolastica è l’orizzonte in cui si colloca il governo del sistema scolastico italiano, dopo i decreti delegati del 1974 che istituivano la “partecipazione” della comunità alla vita della scuola e tanti anni di sperimentazione che cercavano di collegare la funzione formativa della stessa con lo sviluppo del territorio.

Questa nuova prospettiva è contenuta nella riforma degli enti locali del 1990 (L. 142), della Pubblica Amministrazione del 1997 (L. 59), che ha iniziato una azione di decentramento delle competenze statali verso gli enti locali (D.Leg.vo 112/1998) e ha dato il via alla costruzione dell’impalcatura della scuola autonoma (DPR 275/1999), con il conferimento della personalità giuridica alle scuole nell’ambito di un’azione di programmazione territoriale (DPR 233/1998).

Questo impianto, anche se ancora lontano dall’essere compiutamente realizzato ha già subito cambiamenti (L. 111/2011), ma comunque non ha perso valore in quanto sancito dalla modifica del titolo quinto della Costituzione (anch’esso però non ancora applicato) (L.C. n. 3/2001) ed è in qualche modo confermato dalla normativa sul così detto federalismo fiscale (L. 42/2009 e D.Leg.vo 68/2011) nonché dai recenti provvedimenti sulla semplificazione (DL 5/2012).

La legislazione richiamata sta cercando, pur non senza contraddizioni, di ricostruire un governo del sistema educativo – scolastico – formativo ai diversi livelli di organizzazione territoriale, che riparta dal basso e cioè dal riconoscimento, secondo quanto indicato dalla predetta norma costituzionale, degli organi della Repubblica tra i quali è “fatta salva” l’autonomia delle istituzioni scolastiche (art. 117 della Costituzione).

L’autonomia dunque non è concessa, in una prospettiva meramente decentralistica dell’ordinamento statale, ma è riconosciuta, e quindi ha bisogno oltre che di avere spazio di darsi una configurazione istituzionale: autonomia statutaria. La situazione ricalca molto, dicono gli studiosi, quella universitaria, entrambe infatti sono state identificate dalla predetta legge 59 come autonomie funzionali. Per l’università però tale impostazione era già praticata ed è stata riconfermata, mentre per la scuola il centralismo statale ha di fatto sempre impedito di arrivare a soluzioni veramente autonomiste, sia che si tratti di passaggi di competenze agli enti locali/autonomie scolastiche, sia che si voglia valorizzare il “sistema formativo” come una componente veramente autonoma nell’esercizio della funzione culturale ed educativa pur all’interno di un “sistema nazionale dell’istruzione”, anch’esso ridefinito dalla L. 62/2000.

E’ quest’ultimo approccio infatti quello assunto dalla predetta riforma costituzionale, ma, come si è detto, molto resta ancora da fare.

Proprio per rinforzare tale impostazione si deve pensare ad una revisione della governance interna agli istituti, ferma ai decreti del 1974; con la proposta di legge licenziata alla VII Commissione della Camera si cerca dunque di rivedere organi, processi e strumenti nella più recente visione della piena realizzazione di un’autonomia scolastica come parte del sistema nazionale dell’istruzione, ma anche parte inscindibile della comunità locale.

Nell’ambito del “sistema delle autonomie” deve esistere dunque un’autonomia statuaria che dia valore alla personalità giuridica e porti le scuole autonome allo stesso livello di altri enti territoriali. Sono gli statuti delle scuole infatti che devono saper interpretare le “norme generali dell’istruzione” e tradurle in offerta formativa, nell’ambito dei “livelli essenziali delle prestazioni”e per la crescita dei singoli sul piano umano, culturale e professionale, come potrà essere indicato dagli standard nazionali e locali perché sia riconosciuto il diritto alla formazione a tutti i cittadini italiani.

In tale contesto, famiglie, studenti, comunità locali, docenti dovranno potersi muovere autonomamente per garantire un’offerta sempre più qualificata in un’ottica generale ma che sia aderente alla realtà in cui la scuola opera, per poter incontrare i problemi e le aspettative che tale realtà esprime e nello stesso tempo contribuire a “collocare nel mondo”.

Le scuole autonome sono il punto di riferimento e la loro consistenza deve essere oggetto di un’attenta azione di programmazione territoriale e gestione della spesa secondo un’azione multilivello, come indicato dai predetti provvedimenti sul federalismo fiscale. Reti e consorzi sono strumenti per potenziare l’autonomia e ottimizzare l’uso delle risorse, in vista del raggiungimento di migliori e più qualificati obiettivi.

Gli organi di governo prevedono la distinzione delle funzioni di indirizzo, di quelle professionali in senso stretto e di gestione, pur in una visione e pratica di integrazione tra di loro.

Il dirigente scolastico è il rappresentante legale dell’istituzione, presiede i momenti strategici per l’impostazione della programmazione e risponde dei risultati; i docenti, sul piano individuale e collegiale, hanno “libertà di insegnamento” ma sono responsabili della progettazione e conduzione dell’impianto didattico, nonché della valutazione degli alunni; la comunità locale è corresponsabile, sul piano dei bisogni formativi e delle risorse, e interviene, anche attraverso la compartecipazione alle entrate fiscali, per quanto riguarda il sostegno all’intero sistema: essa deve poter partecipare tenendo presente l’integrazione tra i servizi educativi del territorio.

La presidenza del Consiglio dell’Istituzione Scolastica viene mantenuta ad un membro eletto dalle famiglie, che con il dirigente scolastico ed altre componenti saranno coinvolte nelle modalità di rappresentanza della stessa, sia per intraprendere intese e azioni locali, sia nei processi elettivi di livello regionale e nazionale.

La scuola veramente autonoma non potrà sottrarsi a processi valutativi per corrispondere agli standard indicati a livello di sistema, ma anche come capacità di autoanalisi delle proprie attività, di confronto dei risultati e con le aspettative e su come riesce ad promuovere il successo formativo, anche attraverso una autonomo nucleo di valutazione.

L’autonomia è prima di tutto un processo culturale che oltre a rendere più efficiente il servizio deve migliorare costantemente la consapevolezza di assicurare su tutto il territorio nazionale un sistema di qualità nel quale viene tutelata la libertà di insegnamento. Il tutto verrà demandato ad un “Consiglio delle Autonomie Scolastiche”.

Sono sempre le medesime autonomie scolastiche il riferimento per le politiche regionali e degli enti locali, i quali devono valorizzare le associazioni tra le scuole che vogliono accrescere l’efficacia della loro presenza e della loro azione insieme ad altri enti e soggetti locali.

Un risultato importante, raggiunto a livello parlamentare, come non si vedeva da tempo: il potere legislativo che finalmente si riappropria del suo ruolo ed i problemi della scuola non vengono relegati alla sola gestione burocratica. Sarà la nuova tregua politica ? Fatto sta che questo provvedimento, bipartisan, è di buon auspicio, sia per il modo, anche se affrettato, sia per il luogo, che allontana dagli interessi che cercano di prevalere in altri palazzi del governo.

Attraverso questi strumenti l’autonomia cerca di prendere il largo, ma la nave è ancora fragile e rischia di incappare nei pericoli tesi da vecchi e nuovi centralismi; soprattutto è la cultura dell’autonomia ed i protagonisti di questa esperienza che devono portare la scuola all’interno di processi sociali significativi per lo sviluppo del territorio ai diversi livelli, in modo da valorizzare questa funzione non solo secondo la logica della gerarchia delle fonti del diritto, ma della qualità della crescita delle persone, dell’economia, della società.

E qui c’è un problema di cornice istituzionale: senza l’applicazione del Titolo Quinto della Costituzione le pedine non vanno a posto ed alcuni passaggi di questa legge sono scivolosi. Ciò che si mette come norma transitoria, riferita al potere degli Uffici Regionali dell’Amministrazione Scolastica nel controllo degli statuti e del (mal)funzionamento degli organi, rischia di rimanere in eterno se le competenze non vengono definitivamente decentrate agli enti territoriali ed alle scuole stesse. Il riferimento alle norme di contabilità dello stato per la redazione del “programma annuale” diventerà un macigno sulla strada della gestione delle risorse, soprattutto se lo Stato continuerà ad essere pressoché l’unico finanziatore. Abbiamo già avuto esperienza di come un decreto di contabilità (1975) di fatto abbia bloccato la nascente autonomia dei decreti delegati (1974). Più o meno le cose stanno ancora così nonostante l’ammodernamento della redazione del bilancio. Altro che scuole/fondazioni, di cui peraltro si è persa traccia! Anche quando si parla di “regolamento” relativo alle reti ed ai consorzi occorre vigilare, per vedere se sono regole che favoriscono o inibiscono.

Rispetto alle risorse finanziarie si capisce che siano erogate in gran parte dallo Stato ed altri (Fondazioni, privati, e quindi anche le famiglie) possono intervenire in senso integrativo, ma la novità insita nel federalismo fiscale è proprio la modalità con la quale vengono prelevate, non più soltanto a livello di trasferimenti (es: fondo di istituto), ma di compartecipazione ai tributi locali/regionali. Quindi occorre presidiare ora l’altro settore, quello delle norme sulle autonomie locali, in discussione al Senato. E’ per questo che se da un lato occorre che i servizi educativi – scolastici e formativi rientrino (come sono rientrati) tra le “funzioni fondamentali” degli Enti Locali e quindi ciò richiede una efficace azione di questi ultimi sul piano delle programmazione della organizzazione Es.: unioni di comuni/istituti comprensivi), dall’altro diventerà progressivamente inutile uno stringente riferimento alla contabilità statale, quando magari proprio lo Stato si potrebbe limitare alla retribuzione (con partita di spesa in conto tesoro) del personale. Da notare che l’autonomia finanziaria era già contenuta nell’art. 21 della legge 59/1997.

Compito vero dello Stato fin qui disatteso sono le “norme generali sull’istruzione” e i predetti livelli essenziali delle prestazioni: ma su questo non accade nulla, nemmeno nei più recenti provvedimenti del nuovo Governo. Ed allora forse tocca ancora al Parlamento!?

Anche le disposizioni di questa legge costituiscono norme generali sull’istruzione, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera n), della Costituzione ed in quello spirito sono dunque finalizzate alla piena attuazione dell’autonomia scolastica, come indicata dalla già citata legge n.59 del 15 marzo1997, art. 21 e dal DPR n. 275 del 8 marzo 1999.

La nuova governance degli istituti scolastici fa leva sulla capacità delle scuole stesse di concorrere alla definizione e alla realizzazione degli obiettivi educativi e formativi, che trovano poi compiuta espressione nel piano dell’offerta formativa, fondato su uno stretto rapporto con la domanda sociale, senza perdere di vista l’efficacia (valutazione) della sua appunto funzione universalistica di crescita personale e culturale. Dovranno quindi essere valorizzati la funzione educativa dei docenti, il diritto all’apprendimento e alla partecipazione degli alunni alla vita della scuola, le scelte dei genitori, il patto educativo tra famiglie e docenti e tra istituzione scolastica e territorio.

Con questa legge lo Stato non deve cercare le modalità per condizionare l’autonomia, è già stato così per più di vent’anni con la sperimentazione, in barba a quanto previsto dall’art. 3 del DPR 419/1974 e dall’art. 11 DPR 275/1999, ma fare la sua parte secondo quanto la costituzione gli affida. E’ ovvio che senza cornice si rischia lo sbandamento, ma con la gestione centralistica siamo già nella paralisi.

Il problema dunque non sta nel prevedere nuove reti di scuole per la gestione degli organici, ma in organici anch’essi funzionali alla popolazione scolastica ed all’offerta formativa dati alle autonomie scolastiche, che per effetto delle varie soluzioni territoriali (istituti comprensivi, ISII, ecc.) sono già reti e possono per effetto di quanto già previsto dall’art. 7 del citato decreto 275 scambiarsi il personale e costituire anche laboratori per la documentazione, la ricerca, l’innovazione. Le reti devono infatti essere convenienti e non obbligatorie e andranno valorizzate associazioni di scuole autonome che si costituiscono per esercitare un migliore coordinamento delle azioni delle stesse ed aumentare l’efficacia dei rapporti con altri enti e realtà territoriali.

Domanda e offerta, qualità e partecipazione sono ingredienti che lo Statuto deve saper far reagire per la costruzione della comunità scolastica pienamente inserita in quella territoriale, garantendo per studenti e famiglie l’esercizio dei diritti di riunione e di associazione. In quest’ottica si inserisce la necessità di rendere più flessibili curricoli, tempi, gruppi e organizzazione della didattica e quindi di un’adeguata politica del personale.

Sul piano della valutazione resta in piedi il comitato di valutazione del servizio degli insegnanti di cui al DPR 416/1974, in attesa che venga affrontato il tema specifico anche in vista delle ipotizzate diversificazioni di carriera, e viene introdotto, come si è detto, il nucleo di autovalutazione del funzionamento dell’istituto. Esso coinvolge gli operatori scolastici, gli studenti, le famiglie e predispone un rapporto annuale di autovalutazione, anche sulla base dei criteri, degli indicatori nazionali e degli altri strumenti di rilevazione forniti dall’INVALSI. Tale Rapporto è assunto come parametro di riferimento per l’elaborazione del piano dell’offerta formativa e del programma annuale delle attività, nonché della valutazione esterna della scuola realizzata secondo le modalità che saranno previste dallo sviluppo del sistema nazionale di valutazione. La scuola può decidere di rendere pubblico il rapporto, ma in ogni caso deve organizzare annualmente una “conferenza di rendicontazione”.

La “rappresentanza istituzionale delle scuole autonome” viene costituita a livello locale, regionale e nazionale. Quest’ultima con un decreto del ministro si istituisce il predetto Consiglio delle Autonomie Scolastiche, composto da rappresentanti eletti rispettivamente dai dirigenti, dai docenti e dai presidenti dei consigli delle istituzioni scolastiche autonome. E’ presieduto dal Ministro o da un suo delegato e vede la partecipazione anche di rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, delle Associazioni delle Province e dei Comuni e del Presidente dell’INVALSI. E’ un organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, Enti Locali ed Autonomie Scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione. E’ altresì organo di tutela della libertà di insegnamento, della qualità della scuola italiana e di garanzia della piena attuazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. In questa funzione esprime l’autonomia dell’intero sistema formativo a tutti i suoi livelli.

A livello regionale saranno le rispettive leggi, in attuazione degli art 117, 118 e 119 della Costituzione a prevedere strumenti e modalità di relazione con le autonomie scolastiche e per la loro rappresentanza in quanto considerate soggetti imprescindibili nell’organizzazione e nella gestione dell’offerta formativa regionale, in integrazione con i servizi educativi per l’infanzia, la formazione professionale e permanente, in costante confronto con le politiche scolastiche nazionali e prevedendo ogni possibile collegamento con gli altri sistemi scolastici regionali. Le Regioni istituiscono la “conferenza regionale del sistema educativo, scolastico e formativo. Essa svolge attività consultiva e di supporto nelle materie di competenza delle regioni stesse, e su richiesta di queste, esprimendo pareri sui disegni di legge attinenti il sistema regionale. Le Regioni istituiscono altresì Conferenze di ambito territoriale che sono il luogo del coordinamento tra le istituzioni scolastiche, gli Enti locali, i rappresentanti del mondo della cultura, del lavoro e dell’impresa di un determinato territorio. Alle Conferenze partecipano i Comuni, singoli o associati, l’amministrazione scolastica regionale, le Università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà professionali, culturali e dell’impresa. Esprimono pareri sui piani di organizzazione della rete scolastica, proposte sulla programmazione dell’offerta formativa, sugli accordi a livello territoriale, sulle reti di scuole e sui consorzi, sulla continuità tra i vari cicli dell’istruzione, sull’integrazione degli alunni diversamente abili, sull’adempimento dell’obbligo di istruzione e formazione.

Come si può vedere in conclusione tanti sono i provvedimenti che debbono essere composti e questo è una parte importante, affinché si possa davvero arrivare a costruire un sistema nazionale a partire dai territori e quindi dalle scuole autonome, assicurando risorse umane e finanziarie nell’ottica del multilivello, in modo che la formazione sia un’occasione di crescita di tutta la comunità nazionale, ma prima di tutto territoriale.

Il riconoscimento dell’autonomia vuol dire innanzitutto che le scuole devono saper svolgere il loro ruolo, ma non lo imparano in un corso di aggiornamento organizzato dall’amministrazione scolastica, bensì in un costante rapporto con la realtà locale/nazionale, alle quali devono corrispondere in termini di ricerca e innovazione. Lo Stato deve fare altro, la cornice e il controllo; alle Regioni la programmazione, senza lasciarsi tentare dal riformare nuovi ministeri.

Il circuito si può veramente chiudere. C’è ormai tutto quel che serve, ora largo alla volontà politica: lo potrebbe fare un governo tecnico anche con costi molto limitati. Ma non vi è nulla di questo nei documenti programmatici: forse possiamo chiederci il perché e darci anche qualche risposta circa un’idea immortale di centralismo: le leggi vi son ma chi pon mano ad esse?

Lavorare sulla governance senza autonomia vera è ammassare anche questo provvedimento nel magazzino già affollato degli attrezzi legislativi.

da http://www.edscuola.eu

Pensioni, Pd: Grave che Governo non riconosca specificità personale scuola. Ghizzoni: Martone inaccettabile, tradisce impegno preso in parlamento

La risposta di Martone alla nostra interrogazione sulle pensioni per il personale scolastico ci lascia profondamente insoddisfatti. Dalle parole del viceministro traspare in tutta evidenza che non vi sarà alcuna speranza per il personale della scuola che avrebbe maturato i requisiti previsti dalle cosiddette quote nel corso dell’anno scolastico 2012 e per il quale, pertanto, la pensione resta un traguardo negato.
Martone, in continuità con quanto già affermato da Fornero il 7 marzo scorso, non riconosce la specificità del comparto scuola in ambito pensionistico , nonostante l’esistenza di un solo giorno di uscita dalla scuola: la continuità didattica da sempre vincola un docente a concludere l’anno scolastico indipendentemente dal giorno in cui ha maturato i requisiti per la pensione. Ed è per questo che la legislazione previdenziale emanata negli ultimi 15 anni (1997, 2007, 2010) ha sempre previsto norme ad hoc per la scuola.
Inoltre, la risposta del viceministro è insoddisfacente poiché smentisce un dovere formalmente assunto dal Governo con l’accoglimento di un ordine del giorno presentato dal Partito Democratico: un cambio di atteggiamento discutibile sotto il profilo politico. E che certamente non farà cambiare la nostra ferma convinzione di andare avanti con l’iniziativa legislativa, tesa a far slittare al 31 agosto il termine per la maturazione dei requisiti per i lpensionamento con la normativa previgente alla riforma Fornero.
Martone, infine, ha richiamato il principio dell’equità intergenerazionale come ispiratore della riforma pensionistica: purtroppo è un principio che cade nel vuoto per il comparto scuola, poiché già ora le rilevazioni internazionali ci informano che il nostro corpo insegnanti è il più anziano d’Europa e la nuova normativa previdenziale determinerà la permanenza in servizio di docenti ultrasessantenni e impedirà l’ingresso nella scuola a nuove generazioni di insegnanti”.

Così la capogruppo democratica nella commissione Cultura della Camera Manuela Ghizzoni.”

"La legge 953 sulla scuola è una buona legge", di Francesca Puglisi

Ieri su questo giornale Giulia Rodano (IdV) invitava a portare in aula la discussione della legge Aprea. Cominciamo col dire che la “legge Aprea” non esiste più. C’è invece oggi, in via di approvazione, la legge 953 sull’autogoverno delle scuole. Una legge che prima di essere criticata avrebbe bisogno di essere letta, senza sollevare allarmismi che forse preparano la campagna elettorale di maggio, ma danneggiano la scuola, perché se gridiamo in continuazione “al lupo al lupo”, e il lupo non c’è, si finisce poi per essere poco credibili. La legge 953 èuna buona legge. I mattoni delle sue fondamenta sono targati Pd e l’aver portato sulle nostre posizioni la maggioranza della commissione Cultura e Istruzione dellaCamera, è un risultato di cui va dato merito al nostro gruppo parlamentare. In questi anni abbiamo svolto un lavoro
di capillare e costante confronto con il mondo della scuola in decine di momenti di discussione aperta. Ci siamo confrontati nella massima trasparenza chiarendo la nostra indisponibilità
a trasformare le scuole in fondazioni, ad assumere gli insegnanti attraverso la “chiamata diretta”, a far entrare logiche di mercato nel sistema dell’istruzione, a lasciare tutto il potere gestionale ai dirigenti scolastici.
Questa legge non si occupa del reclutamento dei docenti,ma del governo delle istituzioni scolastiche. Il Pd ha il merito di aver eliminato tutti gli ardori “privatizzanti” del centrodestra, aprendo la strada a un’autonomia scolastica i cui protagonisti sono
gli insegnanti, innanzi tutto, attraverso una forte valorizzazione del collegio docenti che è l’unico a occuparsi, in piena libertà, dell’offerta formativa e della piena partecipazione degli studenti e dei genitori. Chi vive nelle scuole sa benissimo che non ha alcun senso, né gestionale né didattico, pensare alle scuole come invalicabili fortezze chiuse al mondo. La scuola è aperta al mondo. Esattamente l’opposto dello svendere le scuole al “mercato”, perché significa che ogni scuola o rete di scuole, si confronta, dialoga e fa progetti con le istituzioni pubbliche e con i soggetti protagonisti della vita culturale e sociale del proprio territorio, diventandone protagonista. Per questo il nuovo testo di legge promuove un rilancio della partecipazione a tutti i livelli, disegnando un modello di governo e dialogo tra autonomie locali e scolastiche, anche per evitare d’ora in poi alle scuole di dover “subire” il dimensionamento e di partecipare davvero alle scelte.
Autonomia e responsabilità: questi sono i due cardini della legge 953, per garantire alla scuola italiana quella centralità che la Costituzione le assegna e quella considerazione di “bene comune” che merita. Per questo, con il nucleo di autovalutazione e la rendicontazione pubblica annuale, pone premesse importanti per la diffusione di una corretta cultura della valutazione nel Paese. Sono d’accordo con la responsabile cultura dell’IdV: la proposta di legge sull’autogoverno e la rappresentanza delle scuole autonome è questione di «speciale rilevanza generale » che meriterebbe per la sua approvazione la discussione in Aula. Ma essendo noto che, nonostante il cambio di governo, i numeri in Parlamento non sono diversi da quelli usciti dalle urne, forse val la pena non mettere a repentaglio i risultati raggiunti in commissione. Forse è meglio non rischiare che l’aula faccia rientrare dalla finestra ciò che il Pd ha faticosamente fatto uscire dalla porta. Forse conviene migliorare il testo licenziato nei successivi passaggi al Senato, continuando a consultare associazioni e sindacati per raccogliere le proposte, come noi abbiamo sempre fatto.

L’Unità 27.03.12

“La legge 953 sulla scuola è una buona legge”, di Francesca Puglisi

Ieri su questo giornale Giulia Rodano (IdV) invitava a portare in aula la discussione della legge Aprea. Cominciamo col dire che la “legge Aprea” non esiste più. C’è invece oggi, in via di approvazione, la legge 953 sull’autogoverno delle scuole. Una legge che prima di essere criticata avrebbe bisogno di essere letta, senza sollevare allarmismi che forse preparano la campagna elettorale di maggio, ma danneggiano la scuola, perché se gridiamo in continuazione “al lupo al lupo”, e il lupo non c’è, si finisce poi per essere poco credibili. La legge 953 èuna buona legge. I mattoni delle sue fondamenta sono targati Pd e l’aver portato sulle nostre posizioni la maggioranza della commissione Cultura e Istruzione dellaCamera, è un risultato di cui va dato merito al nostro gruppo parlamentare. In questi anni abbiamo svolto un lavoro
di capillare e costante confronto con il mondo della scuola in decine di momenti di discussione aperta. Ci siamo confrontati nella massima trasparenza chiarendo la nostra indisponibilità
a trasformare le scuole in fondazioni, ad assumere gli insegnanti attraverso la “chiamata diretta”, a far entrare logiche di mercato nel sistema dell’istruzione, a lasciare tutto il potere gestionale ai dirigenti scolastici.
Questa legge non si occupa del reclutamento dei docenti,ma del governo delle istituzioni scolastiche. Il Pd ha il merito di aver eliminato tutti gli ardori “privatizzanti” del centrodestra, aprendo la strada a un’autonomia scolastica i cui protagonisti sono
gli insegnanti, innanzi tutto, attraverso una forte valorizzazione del collegio docenti che è l’unico a occuparsi, in piena libertà, dell’offerta formativa e della piena partecipazione degli studenti e dei genitori. Chi vive nelle scuole sa benissimo che non ha alcun senso, né gestionale né didattico, pensare alle scuole come invalicabili fortezze chiuse al mondo. La scuola è aperta al mondo. Esattamente l’opposto dello svendere le scuole al “mercato”, perché significa che ogni scuola o rete di scuole, si confronta, dialoga e fa progetti con le istituzioni pubbliche e con i soggetti protagonisti della vita culturale e sociale del proprio territorio, diventandone protagonista. Per questo il nuovo testo di legge promuove un rilancio della partecipazione a tutti i livelli, disegnando un modello di governo e dialogo tra autonomie locali e scolastiche, anche per evitare d’ora in poi alle scuole di dover “subire” il dimensionamento e di partecipare davvero alle scelte.
Autonomia e responsabilità: questi sono i due cardini della legge 953, per garantire alla scuola italiana quella centralità che la Costituzione le assegna e quella considerazione di “bene comune” che merita. Per questo, con il nucleo di autovalutazione e la rendicontazione pubblica annuale, pone premesse importanti per la diffusione di una corretta cultura della valutazione nel Paese. Sono d’accordo con la responsabile cultura dell’IdV: la proposta di legge sull’autogoverno e la rappresentanza delle scuole autonome è questione di «speciale rilevanza generale » che meriterebbe per la sua approvazione la discussione in Aula. Ma essendo noto che, nonostante il cambio di governo, i numeri in Parlamento non sono diversi da quelli usciti dalle urne, forse val la pena non mettere a repentaglio i risultati raggiunti in commissione. Forse è meglio non rischiare che l’aula faccia rientrare dalla finestra ciò che il Pd ha faticosamente fatto uscire dalla porta. Forse conviene migliorare il testo licenziato nei successivi passaggi al Senato, continuando a consultare associazioni e sindacati per raccogliere le proposte, come noi abbiamo sempre fatto.

L’Unità 27.03.12

“La legge 953 sulla scuola è una buona legge”, di Francesca Puglisi

Ieri su questo giornale Giulia Rodano (IdV) invitava a portare in aula la discussione della legge Aprea. Cominciamo col dire che la “legge Aprea” non esiste più. C’è invece oggi, in via di approvazione, la legge 953 sull’autogoverno delle scuole. Una legge che prima di essere criticata avrebbe bisogno di essere letta, senza sollevare allarmismi che forse preparano la campagna elettorale di maggio, ma danneggiano la scuola, perché se gridiamo in continuazione “al lupo al lupo”, e il lupo non c’è, si finisce poi per essere poco credibili. La legge 953 èuna buona legge. I mattoni delle sue fondamenta sono targati Pd e l’aver portato sulle nostre posizioni la maggioranza della commissione Cultura e Istruzione dellaCamera, è un risultato di cui va dato merito al nostro gruppo parlamentare. In questi anni abbiamo svolto un lavoro
di capillare e costante confronto con il mondo della scuola in decine di momenti di discussione aperta. Ci siamo confrontati nella massima trasparenza chiarendo la nostra indisponibilità
a trasformare le scuole in fondazioni, ad assumere gli insegnanti attraverso la “chiamata diretta”, a far entrare logiche di mercato nel sistema dell’istruzione, a lasciare tutto il potere gestionale ai dirigenti scolastici.
Questa legge non si occupa del reclutamento dei docenti,ma del governo delle istituzioni scolastiche. Il Pd ha il merito di aver eliminato tutti gli ardori “privatizzanti” del centrodestra, aprendo la strada a un’autonomia scolastica i cui protagonisti sono
gli insegnanti, innanzi tutto, attraverso una forte valorizzazione del collegio docenti che è l’unico a occuparsi, in piena libertà, dell’offerta formativa e della piena partecipazione degli studenti e dei genitori. Chi vive nelle scuole sa benissimo che non ha alcun senso, né gestionale né didattico, pensare alle scuole come invalicabili fortezze chiuse al mondo. La scuola è aperta al mondo. Esattamente l’opposto dello svendere le scuole al “mercato”, perché significa che ogni scuola o rete di scuole, si confronta, dialoga e fa progetti con le istituzioni pubbliche e con i soggetti protagonisti della vita culturale e sociale del proprio territorio, diventandone protagonista. Per questo il nuovo testo di legge promuove un rilancio della partecipazione a tutti i livelli, disegnando un modello di governo e dialogo tra autonomie locali e scolastiche, anche per evitare d’ora in poi alle scuole di dover “subire” il dimensionamento e di partecipare davvero alle scelte.
Autonomia e responsabilità: questi sono i due cardini della legge 953, per garantire alla scuola italiana quella centralità che la Costituzione le assegna e quella considerazione di “bene comune” che merita. Per questo, con il nucleo di autovalutazione e la rendicontazione pubblica annuale, pone premesse importanti per la diffusione di una corretta cultura della valutazione nel Paese. Sono d’accordo con la responsabile cultura dell’IdV: la proposta di legge sull’autogoverno e la rappresentanza delle scuole autonome è questione di «speciale rilevanza generale » che meriterebbe per la sua approvazione la discussione in Aula. Ma essendo noto che, nonostante il cambio di governo, i numeri in Parlamento non sono diversi da quelli usciti dalle urne, forse val la pena non mettere a repentaglio i risultati raggiunti in commissione. Forse è meglio non rischiare che l’aula faccia rientrare dalla finestra ciò che il Pd ha faticosamente fatto uscire dalla porta. Forse conviene migliorare il testo licenziato nei successivi passaggi al Senato, continuando a consultare associazioni e sindacati per raccogliere le proposte, come noi abbiamo sempre fatto.

L’Unità 27.03.12

"Aria di golpe contro il quid di Berlusconi", di Francesco Lo Sardo

Fare fuori ora il cavaliere e Monti: giochi sull’articolo 18 per mantenere Pdl e poltrone. Il notabilato del Pdl è isterico: per l’horror vacui sul proprio futuro appeso alla scadenza delle amministrative, da cui teme che Berlusconi possa prendere l’abbrivio per liquidare la baracca. Il Cavaliere tace, o rassicura senza troppa convinzione, alimentando così il terrore nel partito. Alfano sta in mezzo, stritolato da questi e da quello. Questa, in sintesi, la fotografia della destra oggi. Fatti loro? No, fatti di Monti. Perché le violente tensioni che scuotono il Pdl stanno cominciando a scaricarsi, pericolosamente, sull’esecutivo tecnico.
É di ieri la voce trapelata da palazzo Grazioli che Berlusconi si sia raccomandato così ad Alfano, nel fine settimana: «Facciamo attenzione a non tirare troppo la corda sull’articolo 18…». Già, perché le sortite dei falchi del Pdl (in testa la componente ex An) sulla riforma del mercato del lavoro senza modifiche all’articolo 18, dagli strilli sul decreto-legge alle intimazioni ad Alfano – che non l’ha ottenuto – a convocare i vertici del partito per una resa dei conti dicono dell’intenzione di cercare l’incidente per rovesciare Monti: cercando una saldatura tra le opposte insofferenze che serpeggiano a sinistra e a destra nei confronti il tecnogoverno.
La manovra fallirà, i pompieri sono subito entrati in azione. Ma all’interno del Pdl la tensione è cresciuta ben oltre il livello di guardia e gli incidenti sono destinati a moltiplicarsi. Dietro le quinte del partito di Berlusconi, sotto il governo Monti, è in atto un terremoto. La battuta di Berlusconi sul quid che mancherebbe ad Alfano, presa a ridere fuori dalle mura del Pdl, ha avuto all’interno del rissoso condominio di ex An e ex forzisti l’impatto di uno tsunami.
Anche i sassi hanno ormai capito che Berlusconi (vero ispiratore delle varie liste locali da Forza Lecco, Forza Verona, Forza Monza…) intende liquidare il Pdl che sta assumendo la forma a lui più invisa: riti, quote, guai delle tessere finte, liti tra cacicchi. Berlusconi non ha ancora deciso quando pronunciarne la sentenza di morte: intanto però ha ripreso i rapporti con Fini e Casini, in vista del 2013, prima attraverso Pisanu e poi direttamente. Senza troppa pubblicità, tiene strettissimi contatti con Monti e, in compagnia di Gianni Letta, sale ogni tanto al Colle da Napolitano. Conferme che Berlusconi vuol restare l’azionista principale del governo e ristrutturarsi per meglio pesare negli assetti futuri e essere tra i king maker nella partita per il Quirinale: il Pdl, questo Pdl, gli è d’impiccio e d’impaccio. Non riunisce l’ufficio di presidenza dal 6 dicembre, infischiandosene delle richieste di La Russa: vuol tenersi le mani più libere che mai, da allora ha invitato solo una volta capigruppo, coordinatori e Alfano a pranzo. Quelli del Pdl, che conoscono bene Berlusconi, avvertono il pericolo per poltrone e rendite di posizione.
Sanno che per sopravvivere politicamente dovranno a tutti costi sbarrargli la strada. Perciò il putsch strisciante dei colonnelli, giocando in parte di sponda con un Alfano complice che s’arrampica sugli specchi per tenere insieme capra e cavoli, imprigionato nelle ragnatele correntizie e d’apparato, è già scattato: obiettivo, tenere in piedi la baracca partito e spartirsi le quote. Con gli ex An che nei provinciali sarebbero “risaliti” al 70/30 dei tempi di Fini.
Se la situazione politica precipitasse anzitempo, o comunque se si andasse al voto con un Pdl così, uguale a se stesso, senza alleati, condannato a perdere, per loro sarebbe una fortuna: un Berlusconi nell’ombra per cinque anni alle elezioni successive avrebbe 81 anni. E nessuna influenza sul partito.

da Europa Quotidiano 27.03.12

“Aria di golpe contro il quid di Berlusconi”, di Francesco Lo Sardo

Fare fuori ora il cavaliere e Monti: giochi sull’articolo 18 per mantenere Pdl e poltrone. Il notabilato del Pdl è isterico: per l’horror vacui sul proprio futuro appeso alla scadenza delle amministrative, da cui teme che Berlusconi possa prendere l’abbrivio per liquidare la baracca. Il Cavaliere tace, o rassicura senza troppa convinzione, alimentando così il terrore nel partito. Alfano sta in mezzo, stritolato da questi e da quello. Questa, in sintesi, la fotografia della destra oggi. Fatti loro? No, fatti di Monti. Perché le violente tensioni che scuotono il Pdl stanno cominciando a scaricarsi, pericolosamente, sull’esecutivo tecnico.
É di ieri la voce trapelata da palazzo Grazioli che Berlusconi si sia raccomandato così ad Alfano, nel fine settimana: «Facciamo attenzione a non tirare troppo la corda sull’articolo 18…». Già, perché le sortite dei falchi del Pdl (in testa la componente ex An) sulla riforma del mercato del lavoro senza modifiche all’articolo 18, dagli strilli sul decreto-legge alle intimazioni ad Alfano – che non l’ha ottenuto – a convocare i vertici del partito per una resa dei conti dicono dell’intenzione di cercare l’incidente per rovesciare Monti: cercando una saldatura tra le opposte insofferenze che serpeggiano a sinistra e a destra nei confronti il tecnogoverno.
La manovra fallirà, i pompieri sono subito entrati in azione. Ma all’interno del Pdl la tensione è cresciuta ben oltre il livello di guardia e gli incidenti sono destinati a moltiplicarsi. Dietro le quinte del partito di Berlusconi, sotto il governo Monti, è in atto un terremoto. La battuta di Berlusconi sul quid che mancherebbe ad Alfano, presa a ridere fuori dalle mura del Pdl, ha avuto all’interno del rissoso condominio di ex An e ex forzisti l’impatto di uno tsunami.
Anche i sassi hanno ormai capito che Berlusconi (vero ispiratore delle varie liste locali da Forza Lecco, Forza Verona, Forza Monza…) intende liquidare il Pdl che sta assumendo la forma a lui più invisa: riti, quote, guai delle tessere finte, liti tra cacicchi. Berlusconi non ha ancora deciso quando pronunciarne la sentenza di morte: intanto però ha ripreso i rapporti con Fini e Casini, in vista del 2013, prima attraverso Pisanu e poi direttamente. Senza troppa pubblicità, tiene strettissimi contatti con Monti e, in compagnia di Gianni Letta, sale ogni tanto al Colle da Napolitano. Conferme che Berlusconi vuol restare l’azionista principale del governo e ristrutturarsi per meglio pesare negli assetti futuri e essere tra i king maker nella partita per il Quirinale: il Pdl, questo Pdl, gli è d’impiccio e d’impaccio. Non riunisce l’ufficio di presidenza dal 6 dicembre, infischiandosene delle richieste di La Russa: vuol tenersi le mani più libere che mai, da allora ha invitato solo una volta capigruppo, coordinatori e Alfano a pranzo. Quelli del Pdl, che conoscono bene Berlusconi, avvertono il pericolo per poltrone e rendite di posizione.
Sanno che per sopravvivere politicamente dovranno a tutti costi sbarrargli la strada. Perciò il putsch strisciante dei colonnelli, giocando in parte di sponda con un Alfano complice che s’arrampica sugli specchi per tenere insieme capra e cavoli, imprigionato nelle ragnatele correntizie e d’apparato, è già scattato: obiettivo, tenere in piedi la baracca partito e spartirsi le quote. Con gli ex An che nei provinciali sarebbero “risaliti” al 70/30 dei tempi di Fini.
Se la situazione politica precipitasse anzitempo, o comunque se si andasse al voto con un Pdl così, uguale a se stesso, senza alleati, condannato a perdere, per loro sarebbe una fortuna: un Berlusconi nell’ombra per cinque anni alle elezioni successive avrebbe 81 anni. E nessuna influenza sul partito.

da Europa Quotidiano 27.03.12