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"Il vero modello europeo", di Marina Sereni

Forse il Presidente Monti ha compiuto il suo primo vero errore. O forse ha scelto consapevolmente di fare uno “strappo”. Uno strappo non con la Cgil o con il Pd, questione pure rilevante, ma con una larga, larghissima parte del Paese. Di quel Paese che stava e sta guardando a questo Governo con speranza, sapendo di essere in una condizione difficile e di dover affrontare sacrifici anche duri. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, per quello che e’ stato possibile capire fin qui e non avendo ancora letto un testo ufficiale, contiene molte misure importanti volte a ridurre la precarietà, a dare tutele ai più giovani e ad affrontare l’emergenza dei lavoratori più anziani che oggi rischiano di essere espulsi per colpa della crisi. Con risorse ancora molto scarse e con margini di miglioramento evidenti l’impianto proposto dal Governo e discusso con le parti sociali e’ interessante e raccoglie molte delle proposte del Pd.
Ma…. c’e’ un ma, grande come un macigno. La proposta di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda i licenziamenti per ragioni economiche non e’ accettabile, ha prodotto una rottura al tavolo con sindacati e imprese, ha suscitato nel merito e nel metodo molte reazioni negative. Su ciò che il Pd può fare e farà a partire dai prossimi giorni non si può aggiungere nulla alle parole che Dario Franceschini usa nelle interviste di oggi. Noi siamo una grande forza di centrosinistra, sappiamo interpretare fino in fondo le responsabilità che ci derivano dall’essere ancorati al mondo dei lavori (dentro cui ci sono, insieme ai lavoratori dipendenti, tanti piccoli e medi imprenditori oggi alle prese con difficoltà drammatiche), faremo la nostra parte e la faremo tutti insieme. La Direzione nazionale di lunedì prossimo smentirà i profeti di sventura sulla capacita’ del Partito Democratico di affrontare questo passaggio molto complesso restando unito.
Mi interessa invece soffermarmi su un altro punto, che forse merita una riflessione e segnala una differenza vera con il pensiero del Presidente Monti. In più di un’occasione Monti ha liquidato la “concertazione” come un rito del passato, come “consociativismo” deteriore. Non sono una nostalgica delle formule del passato e so che anche nei corpi intermedi e nelle rappresentanze sociali ed economiche si annidano elementi di conservazione. Nei momenti di crisi e di incertezza dentro ognuno di noi si nasconde il “diavoletto” del conservatorismo, quel riflesso condizionato che ti spinge ad aver paura delle innovazioni. Sindacati e associazioni di impresa non sono esenti da questo rischio. Eppure non convince l’idea – o forse dovrei dire l’ideologia – di chi pensa che da questa crisi si possa uscire meglio disarticolando, oltre che il ruolo dei partiti, anche quello dei corpi intermedi, di quelle forme organizzate del sociale che sono state e a mio avviso restano una risorsa della democrazia italiana, e dello stesso modello europeo. Certo e’ tutta la società italiana, compresi i corpi intermedi, ad essere alla prova. Tutti siamo chiamati a vivere con coraggio il cambiamento e a mettere in discussione vecchie certezze. Ma non mi si dica che si produce un migliore cambiamento spezzando le reti di solidarietà, indebolendo i sindacati, l’associazionismo, il Terzo settore, le organizzazioni di categoria economiche… Forse e’ anche da questo versante che va letto il monito di Mons. Bregantini.

Per questo il nostro riferimento resta l’Europa e dentro essa il cosiddetto “modello tedesco”: proprio perché crediamo profondamente nel nesso inscindibile tra crescita e democrazia economica.

Concludo con le parole che Gian Enrico Rusconi usa al termine del suo articolo di oggi su La Stampa: “Il presidente del Consiglio guarda all’Europa – continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.

Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso – così come è scritto – ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.”

da areadem.info

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“Ma il consenso è un valore anche in Europa”, di GIAN ENRICO RUSCONI

Il governo Monti sta commettendo il suo primo serio errore? Certamente ha toccato il punto nevralgico della sua doppia natura «tecnica» e «politica», su cui si è equivocato sino ad oggi .

Dopo l’efficace colpo di mano sulle pensioni giocato tutto sul panico-spread, dopo la deludente debole azione sulle liberalizzazioni, la coppia Monti-Fornero (con il silenzio un po’ strano degli altri presunti membri «forti» del governo) ha tentato la mossa energica della riforma del mercato del lavoro, senza rendersi conto che la posta in gioco è mutata rispetto alle altre iniziative. Non perché i sindacati siano soggetti sociali privilegiati o diversi rispetto agli altri, ma perché l’oggetto della mediazione è di natura diversa. Nella nostra società il concetto stesso di lavoro ha – giustamente – acquistato un significato che va al di là dei suoi indicatori economici.

Da qui l’ambiguità dell’espressione «liberalizzazione del mercato del lavoro», così come viene disinvoltamente recitata nei talk-show. C’è chi la ripete meccanicamente, considerandola la soluzione di tutti i mali sociali, economici e fiscali del paese, confondendola di fatto volentieri con la libertà di licenziamento – come se questa fosse la chiave della crescita.

Naturalmente giura che non è vero. Ma è un fatto che da giorni il discorso gira e si incaglia sulle motivazioni e sulle tipologie del licenziamento. Chi diffida di questa impostazione del problema o comunque ne vede i gravi limiti e pericoli si espone al sospetto di essere un veterocomunista.

Nel frattempo tutta la polemica si è sedimentata attorno all’art. 18 e alla sua modifica. E’ giusto ricordare che le iniziative del governo Monti sono molto più ampie e innovative rispetto alle proposte di riforma dell’articolo incriminato. Ma se questo articolo ha acquistato di fatto – piaccia o no – un valore simbolico tanto forte, ci deve essere un motivo.
Se si cerca di andare al fondo dei termini della polemica, si ha l’impressione di trovarci talvolta di fronte ad un processo alle intenzioni. Questa non è un’osservazione banale: è messa in gioco la fiducia reciproca tra governo e parti sociali. Si tocca la sostanza del consenso democratico. E’ un fatto politico.

Siamo così al punto nevralgico di questo «strano» governo, tra competenza tecnica e legittimità politica. Mario Monti – per quanto sappiamo sino a questo momento – ha dichiarato che presenterà le sue proposte al Parlamento corredate con un verbale ufficiale in cui sono illustrati i risultati dei contatti avuti nelle settimane scorse con le parti sociali. Non è ancora chiaro invece quale procedura di approvazione sarà adottata.

E’ una singolare novità. Soprattutto perché è accompagnata da alcune forti dichiarazioni sulla «fine concertazione». Confesso che non mi è chiaro il senso di questa insistenza. Il comportamento del governo è del tutto legittimo, data la sua natura particolare, senza bisogno che ricorra ad una enfatica presa di distanza dalla concertazione come se fosse sinonimo di cattivo consociativismo o di inciucio politico-sociale.

Non insisto su questo equivoco, salvo far osservare ai tanti tedescofili improvvisati che spuntano ora nel nostro Paese (anche a proposito dell’art.18) che la concertazione è stato uno dei fondamenti del sistema tedesco che continua a vivere di una cultura e istituzionalizzazione del consenso sociale inconcepibile per la nostra cultura politica. Non si può scegliere dal «modello tedesco» quello che più fa comodo ignorando tutto il resto.

Ma torniamo nel nostro Parlamento che dovrà affrontare anch’esso la sua prima prova seria da quando ha dato il suo sostegno al governo Monti. Il presidente del Consiglio guarda all’Europa – continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.

Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso – così come è scritto – ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.

da La Stampa 23.03.12

“Il vero modello europeo”, di Marina Sereni

Forse il Presidente Monti ha compiuto il suo primo vero errore. O forse ha scelto consapevolmente di fare uno “strappo”. Uno strappo non con la Cgil o con il Pd, questione pure rilevante, ma con una larga, larghissima parte del Paese. Di quel Paese che stava e sta guardando a questo Governo con speranza, sapendo di essere in una condizione difficile e di dover affrontare sacrifici anche duri. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, per quello che e’ stato possibile capire fin qui e non avendo ancora letto un testo ufficiale, contiene molte misure importanti volte a ridurre la precarietà, a dare tutele ai più giovani e ad affrontare l’emergenza dei lavoratori più anziani che oggi rischiano di essere espulsi per colpa della crisi. Con risorse ancora molto scarse e con margini di miglioramento evidenti l’impianto proposto dal Governo e discusso con le parti sociali e’ interessante e raccoglie molte delle proposte del Pd.
Ma…. c’e’ un ma, grande come un macigno. La proposta di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda i licenziamenti per ragioni economiche non e’ accettabile, ha prodotto una rottura al tavolo con sindacati e imprese, ha suscitato nel merito e nel metodo molte reazioni negative. Su ciò che il Pd può fare e farà a partire dai prossimi giorni non si può aggiungere nulla alle parole che Dario Franceschini usa nelle interviste di oggi. Noi siamo una grande forza di centrosinistra, sappiamo interpretare fino in fondo le responsabilità che ci derivano dall’essere ancorati al mondo dei lavori (dentro cui ci sono, insieme ai lavoratori dipendenti, tanti piccoli e medi imprenditori oggi alle prese con difficoltà drammatiche), faremo la nostra parte e la faremo tutti insieme. La Direzione nazionale di lunedì prossimo smentirà i profeti di sventura sulla capacita’ del Partito Democratico di affrontare questo passaggio molto complesso restando unito.
Mi interessa invece soffermarmi su un altro punto, che forse merita una riflessione e segnala una differenza vera con il pensiero del Presidente Monti. In più di un’occasione Monti ha liquidato la “concertazione” come un rito del passato, come “consociativismo” deteriore. Non sono una nostalgica delle formule del passato e so che anche nei corpi intermedi e nelle rappresentanze sociali ed economiche si annidano elementi di conservazione. Nei momenti di crisi e di incertezza dentro ognuno di noi si nasconde il “diavoletto” del conservatorismo, quel riflesso condizionato che ti spinge ad aver paura delle innovazioni. Sindacati e associazioni di impresa non sono esenti da questo rischio. Eppure non convince l’idea – o forse dovrei dire l’ideologia – di chi pensa che da questa crisi si possa uscire meglio disarticolando, oltre che il ruolo dei partiti, anche quello dei corpi intermedi, di quelle forme organizzate del sociale che sono state e a mio avviso restano una risorsa della democrazia italiana, e dello stesso modello europeo. Certo e’ tutta la società italiana, compresi i corpi intermedi, ad essere alla prova. Tutti siamo chiamati a vivere con coraggio il cambiamento e a mettere in discussione vecchie certezze. Ma non mi si dica che si produce un migliore cambiamento spezzando le reti di solidarietà, indebolendo i sindacati, l’associazionismo, il Terzo settore, le organizzazioni di categoria economiche… Forse e’ anche da questo versante che va letto il monito di Mons. Bregantini.

Per questo il nostro riferimento resta l’Europa e dentro essa il cosiddetto “modello tedesco”: proprio perché crediamo profondamente nel nesso inscindibile tra crescita e democrazia economica.

Concludo con le parole che Gian Enrico Rusconi usa al termine del suo articolo di oggi su La Stampa: “Il presidente del Consiglio guarda all’Europa – continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.

Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso – così come è scritto – ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.”

da areadem.info

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“Ma il consenso è un valore anche in Europa”, di GIAN ENRICO RUSCONI

Il governo Monti sta commettendo il suo primo serio errore? Certamente ha toccato il punto nevralgico della sua doppia natura «tecnica» e «politica», su cui si è equivocato sino ad oggi .

Dopo l’efficace colpo di mano sulle pensioni giocato tutto sul panico-spread, dopo la deludente debole azione sulle liberalizzazioni, la coppia Monti-Fornero (con il silenzio un po’ strano degli altri presunti membri «forti» del governo) ha tentato la mossa energica della riforma del mercato del lavoro, senza rendersi conto che la posta in gioco è mutata rispetto alle altre iniziative. Non perché i sindacati siano soggetti sociali privilegiati o diversi rispetto agli altri, ma perché l’oggetto della mediazione è di natura diversa. Nella nostra società il concetto stesso di lavoro ha – giustamente – acquistato un significato che va al di là dei suoi indicatori economici.

Da qui l’ambiguità dell’espressione «liberalizzazione del mercato del lavoro», così come viene disinvoltamente recitata nei talk-show. C’è chi la ripete meccanicamente, considerandola la soluzione di tutti i mali sociali, economici e fiscali del paese, confondendola di fatto volentieri con la libertà di licenziamento – come se questa fosse la chiave della crescita.

Naturalmente giura che non è vero. Ma è un fatto che da giorni il discorso gira e si incaglia sulle motivazioni e sulle tipologie del licenziamento. Chi diffida di questa impostazione del problema o comunque ne vede i gravi limiti e pericoli si espone al sospetto di essere un veterocomunista.

Nel frattempo tutta la polemica si è sedimentata attorno all’art. 18 e alla sua modifica. E’ giusto ricordare che le iniziative del governo Monti sono molto più ampie e innovative rispetto alle proposte di riforma dell’articolo incriminato. Ma se questo articolo ha acquistato di fatto – piaccia o no – un valore simbolico tanto forte, ci deve essere un motivo.
Se si cerca di andare al fondo dei termini della polemica, si ha l’impressione di trovarci talvolta di fronte ad un processo alle intenzioni. Questa non è un’osservazione banale: è messa in gioco la fiducia reciproca tra governo e parti sociali. Si tocca la sostanza del consenso democratico. E’ un fatto politico.

Siamo così al punto nevralgico di questo «strano» governo, tra competenza tecnica e legittimità politica. Mario Monti – per quanto sappiamo sino a questo momento – ha dichiarato che presenterà le sue proposte al Parlamento corredate con un verbale ufficiale in cui sono illustrati i risultati dei contatti avuti nelle settimane scorse con le parti sociali. Non è ancora chiaro invece quale procedura di approvazione sarà adottata.

E’ una singolare novità. Soprattutto perché è accompagnata da alcune forti dichiarazioni sulla «fine concertazione». Confesso che non mi è chiaro il senso di questa insistenza. Il comportamento del governo è del tutto legittimo, data la sua natura particolare, senza bisogno che ricorra ad una enfatica presa di distanza dalla concertazione come se fosse sinonimo di cattivo consociativismo o di inciucio politico-sociale.

Non insisto su questo equivoco, salvo far osservare ai tanti tedescofili improvvisati che spuntano ora nel nostro Paese (anche a proposito dell’art.18) che la concertazione è stato uno dei fondamenti del sistema tedesco che continua a vivere di una cultura e istituzionalizzazione del consenso sociale inconcepibile per la nostra cultura politica. Non si può scegliere dal «modello tedesco» quello che più fa comodo ignorando tutto il resto.

Ma torniamo nel nostro Parlamento che dovrà affrontare anch’esso la sua prima prova seria da quando ha dato il suo sostegno al governo Monti. Il presidente del Consiglio guarda all’Europa – continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.

Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso – così come è scritto – ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.

da La Stampa 23.03.12

“Il vero modello europeo”, di Marina Sereni

Forse il Presidente Monti ha compiuto il suo primo vero errore. O forse ha scelto consapevolmente di fare uno “strappo”. Uno strappo non con la Cgil o con il Pd, questione pure rilevante, ma con una larga, larghissima parte del Paese. Di quel Paese che stava e sta guardando a questo Governo con speranza, sapendo di essere in una condizione difficile e di dover affrontare sacrifici anche duri. La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, per quello che e’ stato possibile capire fin qui e non avendo ancora letto un testo ufficiale, contiene molte misure importanti volte a ridurre la precarietà, a dare tutele ai più giovani e ad affrontare l’emergenza dei lavoratori più anziani che oggi rischiano di essere espulsi per colpa della crisi. Con risorse ancora molto scarse e con margini di miglioramento evidenti l’impianto proposto dal Governo e discusso con le parti sociali e’ interessante e raccoglie molte delle proposte del Pd.
Ma…. c’e’ un ma, grande come un macigno. La proposta di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda i licenziamenti per ragioni economiche non e’ accettabile, ha prodotto una rottura al tavolo con sindacati e imprese, ha suscitato nel merito e nel metodo molte reazioni negative. Su ciò che il Pd può fare e farà a partire dai prossimi giorni non si può aggiungere nulla alle parole che Dario Franceschini usa nelle interviste di oggi. Noi siamo una grande forza di centrosinistra, sappiamo interpretare fino in fondo le responsabilità che ci derivano dall’essere ancorati al mondo dei lavori (dentro cui ci sono, insieme ai lavoratori dipendenti, tanti piccoli e medi imprenditori oggi alle prese con difficoltà drammatiche), faremo la nostra parte e la faremo tutti insieme. La Direzione nazionale di lunedì prossimo smentirà i profeti di sventura sulla capacita’ del Partito Democratico di affrontare questo passaggio molto complesso restando unito.
Mi interessa invece soffermarmi su un altro punto, che forse merita una riflessione e segnala una differenza vera con il pensiero del Presidente Monti. In più di un’occasione Monti ha liquidato la “concertazione” come un rito del passato, come “consociativismo” deteriore. Non sono una nostalgica delle formule del passato e so che anche nei corpi intermedi e nelle rappresentanze sociali ed economiche si annidano elementi di conservazione. Nei momenti di crisi e di incertezza dentro ognuno di noi si nasconde il “diavoletto” del conservatorismo, quel riflesso condizionato che ti spinge ad aver paura delle innovazioni. Sindacati e associazioni di impresa non sono esenti da questo rischio. Eppure non convince l’idea – o forse dovrei dire l’ideologia – di chi pensa che da questa crisi si possa uscire meglio disarticolando, oltre che il ruolo dei partiti, anche quello dei corpi intermedi, di quelle forme organizzate del sociale che sono state e a mio avviso restano una risorsa della democrazia italiana, e dello stesso modello europeo. Certo e’ tutta la società italiana, compresi i corpi intermedi, ad essere alla prova. Tutti siamo chiamati a vivere con coraggio il cambiamento e a mettere in discussione vecchie certezze. Ma non mi si dica che si produce un migliore cambiamento spezzando le reti di solidarietà, indebolendo i sindacati, l’associazionismo, il Terzo settore, le organizzazioni di categoria economiche… Forse e’ anche da questo versante che va letto il monito di Mons. Bregantini.

Per questo il nostro riferimento resta l’Europa e dentro essa il cosiddetto “modello tedesco”: proprio perché crediamo profondamente nel nesso inscindibile tra crescita e democrazia economica.

Concludo con le parole che Gian Enrico Rusconi usa al termine del suo articolo di oggi su La Stampa: “Il presidente del Consiglio guarda all’Europa – continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.

Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso – così come è scritto – ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.”

da areadem.info

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“Ma il consenso è un valore anche in Europa”, di GIAN ENRICO RUSCONI

Il governo Monti sta commettendo il suo primo serio errore? Certamente ha toccato il punto nevralgico della sua doppia natura «tecnica» e «politica», su cui si è equivocato sino ad oggi .

Dopo l’efficace colpo di mano sulle pensioni giocato tutto sul panico-spread, dopo la deludente debole azione sulle liberalizzazioni, la coppia Monti-Fornero (con il silenzio un po’ strano degli altri presunti membri «forti» del governo) ha tentato la mossa energica della riforma del mercato del lavoro, senza rendersi conto che la posta in gioco è mutata rispetto alle altre iniziative. Non perché i sindacati siano soggetti sociali privilegiati o diversi rispetto agli altri, ma perché l’oggetto della mediazione è di natura diversa. Nella nostra società il concetto stesso di lavoro ha – giustamente – acquistato un significato che va al di là dei suoi indicatori economici.

Da qui l’ambiguità dell’espressione «liberalizzazione del mercato del lavoro», così come viene disinvoltamente recitata nei talk-show. C’è chi la ripete meccanicamente, considerandola la soluzione di tutti i mali sociali, economici e fiscali del paese, confondendola di fatto volentieri con la libertà di licenziamento – come se questa fosse la chiave della crescita.

Naturalmente giura che non è vero. Ma è un fatto che da giorni il discorso gira e si incaglia sulle motivazioni e sulle tipologie del licenziamento. Chi diffida di questa impostazione del problema o comunque ne vede i gravi limiti e pericoli si espone al sospetto di essere un veterocomunista.

Nel frattempo tutta la polemica si è sedimentata attorno all’art. 18 e alla sua modifica. E’ giusto ricordare che le iniziative del governo Monti sono molto più ampie e innovative rispetto alle proposte di riforma dell’articolo incriminato. Ma se questo articolo ha acquistato di fatto – piaccia o no – un valore simbolico tanto forte, ci deve essere un motivo.
Se si cerca di andare al fondo dei termini della polemica, si ha l’impressione di trovarci talvolta di fronte ad un processo alle intenzioni. Questa non è un’osservazione banale: è messa in gioco la fiducia reciproca tra governo e parti sociali. Si tocca la sostanza del consenso democratico. E’ un fatto politico.

Siamo così al punto nevralgico di questo «strano» governo, tra competenza tecnica e legittimità politica. Mario Monti – per quanto sappiamo sino a questo momento – ha dichiarato che presenterà le sue proposte al Parlamento corredate con un verbale ufficiale in cui sono illustrati i risultati dei contatti avuti nelle settimane scorse con le parti sociali. Non è ancora chiaro invece quale procedura di approvazione sarà adottata.

E’ una singolare novità. Soprattutto perché è accompagnata da alcune forti dichiarazioni sulla «fine concertazione». Confesso che non mi è chiaro il senso di questa insistenza. Il comportamento del governo è del tutto legittimo, data la sua natura particolare, senza bisogno che ricorra ad una enfatica presa di distanza dalla concertazione come se fosse sinonimo di cattivo consociativismo o di inciucio politico-sociale.

Non insisto su questo equivoco, salvo far osservare ai tanti tedescofili improvvisati che spuntano ora nel nostro Paese (anche a proposito dell’art.18) che la concertazione è stato uno dei fondamenti del sistema tedesco che continua a vivere di una cultura e istituzionalizzazione del consenso sociale inconcepibile per la nostra cultura politica. Non si può scegliere dal «modello tedesco» quello che più fa comodo ignorando tutto il resto.

Ma torniamo nel nostro Parlamento che dovrà affrontare anch’esso la sua prima prova seria da quando ha dato il suo sostegno al governo Monti. Il presidente del Consiglio guarda all’Europa – continua a ripeterlo, giustamente soddisfatto dello straordinario guadagno di immagine e di fiducia raggiunto in breve tempo dal nostro Paese. Ma qual è esattamente «l’Europa» a cui si riferisce Monti? La Banca centrale europea, alcuni membri della Commissione europea, la cancelliera Merkel, soddisfatta dei «compiti a casa» fatti sinora dagli italiani? E’ tempo che Monti argomenti meglio la dimensione europea della sua azione di governo, senza riferirsi esclusivamente agli indicatori di mercato, alle Borse o ad altri dati del cui valore relativo lui stesso è ben consapevole.

Mi auguro che Monti, consegnando al Parlamento il suo piano di riforma del lavoro, non affermi che soltanto esso – così come è scritto – ci metterebbe in sintonia con «l’Europa», con il sottinteso che la sua bocciatura ci allontanerebbe dall’Europa stessa. Non è così. Ricordo molto bene che in una dichiarazione delle prime settimane, Monti stesso ha detto che i sacrifici che gli italiani si stavano preparando a sostenere non erano un «diktat» dell’Europa (o della sua banca), ma una necessità oggettiva che rispondeva agli interessi di tutti gli italiani. E questi il loro consenso, sofferto, lo hanno dato. Oggi la problematica del mercato del lavoro è più complicata, ma il criterio dovrebbe essere lo stesso. Non si tratta di mirare ad un accordo «consociativo» che i severi «tecnici» disapprovano. Ma di ricercare una intesa ragionevole accogliendo obiezioni ragionevoli. Suppongo che anche «i tecnici» sappiano quale risorsa straordinaria e insostituibile per l’efficienza del sistema lavorativo sia il consenso sociale.

da La Stampa 23.03.12

Scuola, i prof. di “Quota 96” incontrano Bastico e Ghizzoni

Affollata assemblea, nel tardo pomeriggio di venerdì, nella sede del Pd in via Scaglia. La protesta dei docenti e del personale Ata della scuola che si vedono “beffati” nei loro diritti acquisiti dopo la riforma pensionistica è approdata nella sede del Pd: le parlamentari del Pd Mariangela Bastico e Manuela Ghizzoni hanno, infatti, incontrato una parte di coloro che, a un soffio dall’agognato traguardo perché tutti raggiungono quota 96 nel 2012, rischiano di non riuscire ad andare in pensione quest’anno.

Il tema interessa, nel modenese, un centinaio di persone: sicuramente la metà era presente all’incontro con le parlamentari modenesi del Pd che, in questi anni, più si sono occupate dei problemi della scuola, la senatrice Mariangela Bastico, ex vice-ministro all’istruzione, e la deputata Manuela Ghizzoni, attuale capogruppo Pd in Commissione istruzione della Camera. L’affollato incontro si è tenuto, nel tardo pomeriggio di venerdì 23 marzo, presso la sede del Pd in via Scaglia, a Modena. Come alcune migliaia di loro colleghi in tutta Italia, i docenti e il personale Ata stanno provando a far valere un loro diritto, assimilabile a quello dei loro colleghi del settore pubblico e privato: la riforma pensionistica targata Fornero salvaguardava “quota 96” (60 anni di età anagrafica e 36 anni di contributi effettivi, oppure 61 anni di età e 35 di contributi) ma da conseguire entro il 31 dicembre 2011. Il ragionamento del governo è stato fatto sulla base dell’anno solare, solo che nella scuola l’intera organizzazione è basata sull’anno scolastico: c’è un unico giorno utile per il personale della scuola per andare in pensione, il 1° settembre di ogni anno, indipendentemente da quando si maturano i requisiti. “Abbiamo presentato un emendamento al decreto milleproproghe per spostare al 31 agosto 2012 la data per la verifica del possesso dei requisiti, in quanto riteniamo sia una norma di giustizia, volta ad equiparare il personale della scuola agli altri lavoratori.” dichiarano Bastico e Ghizzoni. Purtroppo la battaglia parlamentare non ha avuto esito positivo e gli emendamenti non sono stati accolti. Ma la protesta dei docenti continua e sono sempre più agguerriti. Attraverso ricorsi al Tar e diffide all’Ufficio scolastico provinciale sono intenzionati a far valere i loro diritti e cercare di ottenere la possibilità di poter andare in pensione con le vecchie regole. “Intendiamo continuare il nostro impegno politico e parlamentare, sostenuto dal PD e dai gruppi parlamentari PD, perché nei prossimi disegni di legge o decreti legge che il Governo approverà e presenterà alle Camere ci sia la norma sullo spostamento al 31 agosto 2012 – dichiarano le parlamentari Pd- ad iniziare dalla riforma del mercato del lavoro o da uno specifico provvedimento sul sistema pensionistico, volto a correggerne alcune criticità’, quali quelle relative agli esodati “.
“Se l’iniziativa non sara’ del governo, ripresenteremo emendamenti in Parlamento”.

"La sfida di Monti al PD", di Alfredo Reichlin

Di fronte all’aggravarsi della crisi italiana e immersi come siamo negli sconvolgimenti dell’ordine europeo e mondiale la domanda alla quale io credo che non possiamo più sottrarci riguarda il ruolo del Pd nell’aspro travaglio di questa nostra nazione.
Ha senso continuare a pensarsi come il risultato di una malgama tra ex comunisti ed ex democristiani? A me sembra che ormai la domanda che dobbiamo porci è un’altra: siamo solo un episodio tra i tanti delle confuse e avvilenti vicende dei partiti e partitini italiani oppure siamo decisi a emergere come una funzione essenziale della necessaria ricostruzione del Paese? Noi non siamo il sindacato e io non ho nulla da aggiungere alla posizione che abbiamo preso sull’articolo 18. Penso però che la sfida politica che (non so quanto consapevolmente) il prof. Monti ha lanciato non solo alla Cgil ma al Pd, rifiutando praticamente un accordo già fatto sulla necessaria riforma del mercato del lavoro, debba essere accettata.
Perché, dopotutto, in che consiste questa sfida? Riguarda l’idea che si ha dell’Italia, di ciò che sta soffocando le sue imprese e distruggendo il suo capitale umano e sociale, e quindi di quale dovrebbe essere la risposta. Smettiamola di nasconderci dietro non so quali diktat dei banchieri tedeschi. La Germania è così forte perché la sua potenza produttiva è stata costruita su un fortissimo patto sociale. Questa è la questione che pone il Pd. È la nostra risposta alla sfida del prof. Monti. È la necessità di un nuovo patto sociale. È l’idea che solo su un po’ più di giustizia può basarsi una prospettiva di sviluppo.
Il momento è grave, bisogna misurare i toni e apprezzare anche cosa c’è di buono nelle proposte di governo. Purtroppo però gli asini non volano. Va benissimo liberalizzare i taxi e le farmacie, ma qui si tratta della desertificazione di intere regioni (il Sulcis, la Calabria), della distruzione di reti produttive che non so se rinasceranno più. Di masse popolari che per arrivare alla fine del mese comprano meno perfino gli alimenti. A chi vendono gli ipotetici investitori che la signora Fornero ha liberati dal terribile articolo 18? Agli operai che senza più remore possono essere licenziati? Il tutto in un Paese dove le statistiche (ma anche certe sorprendenti dichiarazioni dei redditi) ci dicono che lo strato superiore, il più ricco, è molto più ricco degli omologhi stranieri.
Mentre i salari e gli stipendi italiani sono tra i più bassi in Europa. E in un paese dove la spesa pubblica è in crescita continua (ben oltre il 50 per cento del Pil) mentre i servizi vengono tagliati e quindi è chiaro che essa va a ingrassare le rendite e le speculazioni. E in più il fatto che le tasse pagate in gran parte dal lavoro hanno raggiunto un record mondiale. Rispondiamo con l’articolo 18?
Torno così alla domanda iniziale: che cos’è il Partito democratico? È una delle tante avventure politiche che si fanno e si disfano oppure è quella ipotesi politica (non ne vedo altre) che può restituire alla vita democratica, sempre più svuotata, una forza?
Voti, schieramenti, candidature vengono dopo. Ben prima io mi chiedo se siamo noi lo strumento di una democrazia che voglia tornare a contare qualcosa rispetto agli immensi poteri senza volto che la sovrastano. È vero. I partiti così come sono fanno schifo, ma qualcuno mi deve spiegare che senso ha litigare tra noi sul riformismo in una situazione in cui (ripeto la battuta) i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione a farsi sbeffeggiare.
Vogliamo cominciare a dire chi sono questi famosi mercati? Leggo sul Sole 24 Ore che una società finanziaria come la Black Rock, una tra le altre, ha in gestione 3.513 miliardi di dollari. Insomma: maneggia somme una volta e mezza più grandi del Pil italiano. Ho detto tutto. Altro che articolo 18.
Quella che si apre nel Partito democratico è dunque una discussione seria, che io prenderei molto sul serio. È una grande discussione tra diverse idee di riformismo. In ciò il governo Monti ha veramente accelerato le cose. Io in questa discussione vorrei entrare con molto rispetto non solo per le mie idee ma per quello che a me sembra ormai il vecchio riformismo di ieri, (“liberal”, mercatista, di tipo americano).
Riconosco le debolezze della vecchia sinistra italiana ma sono sempre più convinto che la sfida micidiale alla democrazia moderna viene da qualcosa che è il drammatico fallimento dell’ordine economico costruito in questi anni intorno all’idea che la mondializzazione poteva essere guidata dalla trasformazione della finanza da infrastruttura dell’economia in industria del denaro fatto col denaro. Risultato: il mondo affogato nei debiti e una ricchezza fittizia al posto della produzione reale.
Ecco una delle ragioni più profonde per cui credo nella funzione storica di un partito che si dica democratico e che guardi al di là della sinistra.
In che cosa può stare la sua novità se non nel fatto che esso si organizza intorno all’idea che il nesso tra l’esigenza di un riformismo più giusto e la restaurazione di una democrazia dei partiti è diventato inscindibile? Questo è il punto politico.
La società, non solo le classi ma la società, cioè quell’insieme di bisogni, storie, religioni, culture che costituiscono il mondo vivente, ciò che sorregge tutte le cose perché consente all’uomo di pensare il futuro, è minacciata se si riduce a società di mercato. Se qualcuno pensa di governarla «come chiedono i mercati», se cioè l’economia di carta continua a mangiarsi l’economia reale, questo qualcuno si sbaglia. È la società moderna, è il suo bisogno di non ridursi agli interessi e alle logiche di poteri senza volto e senza nome che ci fa riscoprire l’importanza e la funzione degli organismi intermedi, quelli che organizzano la democrazia dal basso. Sta qui la funzione (oggi perduta) dei partiti come strumenti attraverso i quali anche le classi subalterne, i poveracci, possono pesare e decidere anche al livello del potere statale ed esprimersi attraverso i loro rappresentanti in un Parlamento democratico.
Questo è il pluralismo, cari amici super esperti di marchingegni elettorali. E questo è il riformismo. Detto nel modo più semplice: è far contare non sempre e non solo le solite élite (gli «ottimati») ma qualche volta anche il «primo popolo», come lo chiama De Rita, «quello che sfanga la vita nel lavoro quotidiano».
Sappiamo benissimo che il sentiero è molto stretto e che, purtroppo, per l’Italia che lavora, che pensa e che produce il peggio deve ancora arrivare: ancora tasse, chiusure, licenziamenti, banche che non prestano denaro, costo della vita, disoccupazione. Bisogna assolutamente far ripartire lo sviluppo,non nascondendoci però che la condizione è risanare.
Monti ha avuto questo grande merito: ci ha aiutati a non finire come la Grecia. Noi non lo dimentichiamo e faremo di tutto per evitare il caos di una crisi di governo. Ma anche l’unità del Pd è per l’Italia un “bene comune”. La nostra funzione è rispondere alla sfida delle cose non solo con dei no, ma tenendo alto il vessillo della giustizia e di un nuovo patto tra gli italiani.

L’Unità 24.03.12

“La sfida di Monti al PD”, di Alfredo Reichlin

Di fronte all’aggravarsi della crisi italiana e immersi come siamo negli sconvolgimenti dell’ordine europeo e mondiale la domanda alla quale io credo che non possiamo più sottrarci riguarda il ruolo del Pd nell’aspro travaglio di questa nostra nazione.
Ha senso continuare a pensarsi come il risultato di una malgama tra ex comunisti ed ex democristiani? A me sembra che ormai la domanda che dobbiamo porci è un’altra: siamo solo un episodio tra i tanti delle confuse e avvilenti vicende dei partiti e partitini italiani oppure siamo decisi a emergere come una funzione essenziale della necessaria ricostruzione del Paese? Noi non siamo il sindacato e io non ho nulla da aggiungere alla posizione che abbiamo preso sull’articolo 18. Penso però che la sfida politica che (non so quanto consapevolmente) il prof. Monti ha lanciato non solo alla Cgil ma al Pd, rifiutando praticamente un accordo già fatto sulla necessaria riforma del mercato del lavoro, debba essere accettata.
Perché, dopotutto, in che consiste questa sfida? Riguarda l’idea che si ha dell’Italia, di ciò che sta soffocando le sue imprese e distruggendo il suo capitale umano e sociale, e quindi di quale dovrebbe essere la risposta. Smettiamola di nasconderci dietro non so quali diktat dei banchieri tedeschi. La Germania è così forte perché la sua potenza produttiva è stata costruita su un fortissimo patto sociale. Questa è la questione che pone il Pd. È la nostra risposta alla sfida del prof. Monti. È la necessità di un nuovo patto sociale. È l’idea che solo su un po’ più di giustizia può basarsi una prospettiva di sviluppo.
Il momento è grave, bisogna misurare i toni e apprezzare anche cosa c’è di buono nelle proposte di governo. Purtroppo però gli asini non volano. Va benissimo liberalizzare i taxi e le farmacie, ma qui si tratta della desertificazione di intere regioni (il Sulcis, la Calabria), della distruzione di reti produttive che non so se rinasceranno più. Di masse popolari che per arrivare alla fine del mese comprano meno perfino gli alimenti. A chi vendono gli ipotetici investitori che la signora Fornero ha liberati dal terribile articolo 18? Agli operai che senza più remore possono essere licenziati? Il tutto in un Paese dove le statistiche (ma anche certe sorprendenti dichiarazioni dei redditi) ci dicono che lo strato superiore, il più ricco, è molto più ricco degli omologhi stranieri.
Mentre i salari e gli stipendi italiani sono tra i più bassi in Europa. E in un paese dove la spesa pubblica è in crescita continua (ben oltre il 50 per cento del Pil) mentre i servizi vengono tagliati e quindi è chiaro che essa va a ingrassare le rendite e le speculazioni. E in più il fatto che le tasse pagate in gran parte dal lavoro hanno raggiunto un record mondiale. Rispondiamo con l’articolo 18?
Torno così alla domanda iniziale: che cos’è il Partito democratico? È una delle tante avventure politiche che si fanno e si disfano oppure è quella ipotesi politica (non ne vedo altre) che può restituire alla vita democratica, sempre più svuotata, una forza?
Voti, schieramenti, candidature vengono dopo. Ben prima io mi chiedo se siamo noi lo strumento di una democrazia che voglia tornare a contare qualcosa rispetto agli immensi poteri senza volto che la sovrastano. È vero. I partiti così come sono fanno schifo, ma qualcuno mi deve spiegare che senso ha litigare tra noi sul riformismo in una situazione in cui (ripeto la battuta) i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione a farsi sbeffeggiare.
Vogliamo cominciare a dire chi sono questi famosi mercati? Leggo sul Sole 24 Ore che una società finanziaria come la Black Rock, una tra le altre, ha in gestione 3.513 miliardi di dollari. Insomma: maneggia somme una volta e mezza più grandi del Pil italiano. Ho detto tutto. Altro che articolo 18.
Quella che si apre nel Partito democratico è dunque una discussione seria, che io prenderei molto sul serio. È una grande discussione tra diverse idee di riformismo. In ciò il governo Monti ha veramente accelerato le cose. Io in questa discussione vorrei entrare con molto rispetto non solo per le mie idee ma per quello che a me sembra ormai il vecchio riformismo di ieri, (“liberal”, mercatista, di tipo americano).
Riconosco le debolezze della vecchia sinistra italiana ma sono sempre più convinto che la sfida micidiale alla democrazia moderna viene da qualcosa che è il drammatico fallimento dell’ordine economico costruito in questi anni intorno all’idea che la mondializzazione poteva essere guidata dalla trasformazione della finanza da infrastruttura dell’economia in industria del denaro fatto col denaro. Risultato: il mondo affogato nei debiti e una ricchezza fittizia al posto della produzione reale.
Ecco una delle ragioni più profonde per cui credo nella funzione storica di un partito che si dica democratico e che guardi al di là della sinistra.
In che cosa può stare la sua novità se non nel fatto che esso si organizza intorno all’idea che il nesso tra l’esigenza di un riformismo più giusto e la restaurazione di una democrazia dei partiti è diventato inscindibile? Questo è il punto politico.
La società, non solo le classi ma la società, cioè quell’insieme di bisogni, storie, religioni, culture che costituiscono il mondo vivente, ciò che sorregge tutte le cose perché consente all’uomo di pensare il futuro, è minacciata se si riduce a società di mercato. Se qualcuno pensa di governarla «come chiedono i mercati», se cioè l’economia di carta continua a mangiarsi l’economia reale, questo qualcuno si sbaglia. È la società moderna, è il suo bisogno di non ridursi agli interessi e alle logiche di poteri senza volto e senza nome che ci fa riscoprire l’importanza e la funzione degli organismi intermedi, quelli che organizzano la democrazia dal basso. Sta qui la funzione (oggi perduta) dei partiti come strumenti attraverso i quali anche le classi subalterne, i poveracci, possono pesare e decidere anche al livello del potere statale ed esprimersi attraverso i loro rappresentanti in un Parlamento democratico.
Questo è il pluralismo, cari amici super esperti di marchingegni elettorali. E questo è il riformismo. Detto nel modo più semplice: è far contare non sempre e non solo le solite élite (gli «ottimati») ma qualche volta anche il «primo popolo», come lo chiama De Rita, «quello che sfanga la vita nel lavoro quotidiano».
Sappiamo benissimo che il sentiero è molto stretto e che, purtroppo, per l’Italia che lavora, che pensa e che produce il peggio deve ancora arrivare: ancora tasse, chiusure, licenziamenti, banche che non prestano denaro, costo della vita, disoccupazione. Bisogna assolutamente far ripartire lo sviluppo,non nascondendoci però che la condizione è risanare.
Monti ha avuto questo grande merito: ci ha aiutati a non finire come la Grecia. Noi non lo dimentichiamo e faremo di tutto per evitare il caos di una crisi di governo. Ma anche l’unità del Pd è per l’Italia un “bene comune”. La nostra funzione è rispondere alla sfida delle cose non solo con dei no, ma tenendo alto il vessillo della giustizia e di un nuovo patto tra gli italiani.

L’Unità 24.03.12

“La sfida di Monti al PD”, di Alfredo Reichlin

Di fronte all’aggravarsi della crisi italiana e immersi come siamo negli sconvolgimenti dell’ordine europeo e mondiale la domanda alla quale io credo che non possiamo più sottrarci riguarda il ruolo del Pd nell’aspro travaglio di questa nostra nazione.
Ha senso continuare a pensarsi come il risultato di una malgama tra ex comunisti ed ex democristiani? A me sembra che ormai la domanda che dobbiamo porci è un’altra: siamo solo un episodio tra i tanti delle confuse e avvilenti vicende dei partiti e partitini italiani oppure siamo decisi a emergere come una funzione essenziale della necessaria ricostruzione del Paese? Noi non siamo il sindacato e io non ho nulla da aggiungere alla posizione che abbiamo preso sull’articolo 18. Penso però che la sfida politica che (non so quanto consapevolmente) il prof. Monti ha lanciato non solo alla Cgil ma al Pd, rifiutando praticamente un accordo già fatto sulla necessaria riforma del mercato del lavoro, debba essere accettata.
Perché, dopotutto, in che consiste questa sfida? Riguarda l’idea che si ha dell’Italia, di ciò che sta soffocando le sue imprese e distruggendo il suo capitale umano e sociale, e quindi di quale dovrebbe essere la risposta. Smettiamola di nasconderci dietro non so quali diktat dei banchieri tedeschi. La Germania è così forte perché la sua potenza produttiva è stata costruita su un fortissimo patto sociale. Questa è la questione che pone il Pd. È la nostra risposta alla sfida del prof. Monti. È la necessità di un nuovo patto sociale. È l’idea che solo su un po’ più di giustizia può basarsi una prospettiva di sviluppo.
Il momento è grave, bisogna misurare i toni e apprezzare anche cosa c’è di buono nelle proposte di governo. Purtroppo però gli asini non volano. Va benissimo liberalizzare i taxi e le farmacie, ma qui si tratta della desertificazione di intere regioni (il Sulcis, la Calabria), della distruzione di reti produttive che non so se rinasceranno più. Di masse popolari che per arrivare alla fine del mese comprano meno perfino gli alimenti. A chi vendono gli ipotetici investitori che la signora Fornero ha liberati dal terribile articolo 18? Agli operai che senza più remore possono essere licenziati? Il tutto in un Paese dove le statistiche (ma anche certe sorprendenti dichiarazioni dei redditi) ci dicono che lo strato superiore, il più ricco, è molto più ricco degli omologhi stranieri.
Mentre i salari e gli stipendi italiani sono tra i più bassi in Europa. E in un paese dove la spesa pubblica è in crescita continua (ben oltre il 50 per cento del Pil) mentre i servizi vengono tagliati e quindi è chiaro che essa va a ingrassare le rendite e le speculazioni. E in più il fatto che le tasse pagate in gran parte dal lavoro hanno raggiunto un record mondiale. Rispondiamo con l’articolo 18?
Torno così alla domanda iniziale: che cos’è il Partito democratico? È una delle tante avventure politiche che si fanno e si disfano oppure è quella ipotesi politica (non ne vedo altre) che può restituire alla vita democratica, sempre più svuotata, una forza?
Voti, schieramenti, candidature vengono dopo. Ben prima io mi chiedo se siamo noi lo strumento di una democrazia che voglia tornare a contare qualcosa rispetto agli immensi poteri senza volto che la sovrastano. È vero. I partiti così come sono fanno schifo, ma qualcuno mi deve spiegare che senso ha litigare tra noi sul riformismo in una situazione in cui (ripeto la battuta) i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione a farsi sbeffeggiare.
Vogliamo cominciare a dire chi sono questi famosi mercati? Leggo sul Sole 24 Ore che una società finanziaria come la Black Rock, una tra le altre, ha in gestione 3.513 miliardi di dollari. Insomma: maneggia somme una volta e mezza più grandi del Pil italiano. Ho detto tutto. Altro che articolo 18.
Quella che si apre nel Partito democratico è dunque una discussione seria, che io prenderei molto sul serio. È una grande discussione tra diverse idee di riformismo. In ciò il governo Monti ha veramente accelerato le cose. Io in questa discussione vorrei entrare con molto rispetto non solo per le mie idee ma per quello che a me sembra ormai il vecchio riformismo di ieri, (“liberal”, mercatista, di tipo americano).
Riconosco le debolezze della vecchia sinistra italiana ma sono sempre più convinto che la sfida micidiale alla democrazia moderna viene da qualcosa che è il drammatico fallimento dell’ordine economico costruito in questi anni intorno all’idea che la mondializzazione poteva essere guidata dalla trasformazione della finanza da infrastruttura dell’economia in industria del denaro fatto col denaro. Risultato: il mondo affogato nei debiti e una ricchezza fittizia al posto della produzione reale.
Ecco una delle ragioni più profonde per cui credo nella funzione storica di un partito che si dica democratico e che guardi al di là della sinistra.
In che cosa può stare la sua novità se non nel fatto che esso si organizza intorno all’idea che il nesso tra l’esigenza di un riformismo più giusto e la restaurazione di una democrazia dei partiti è diventato inscindibile? Questo è il punto politico.
La società, non solo le classi ma la società, cioè quell’insieme di bisogni, storie, religioni, culture che costituiscono il mondo vivente, ciò che sorregge tutte le cose perché consente all’uomo di pensare il futuro, è minacciata se si riduce a società di mercato. Se qualcuno pensa di governarla «come chiedono i mercati», se cioè l’economia di carta continua a mangiarsi l’economia reale, questo qualcuno si sbaglia. È la società moderna, è il suo bisogno di non ridursi agli interessi e alle logiche di poteri senza volto e senza nome che ci fa riscoprire l’importanza e la funzione degli organismi intermedi, quelli che organizzano la democrazia dal basso. Sta qui la funzione (oggi perduta) dei partiti come strumenti attraverso i quali anche le classi subalterne, i poveracci, possono pesare e decidere anche al livello del potere statale ed esprimersi attraverso i loro rappresentanti in un Parlamento democratico.
Questo è il pluralismo, cari amici super esperti di marchingegni elettorali. E questo è il riformismo. Detto nel modo più semplice: è far contare non sempre e non solo le solite élite (gli «ottimati») ma qualche volta anche il «primo popolo», come lo chiama De Rita, «quello che sfanga la vita nel lavoro quotidiano».
Sappiamo benissimo che il sentiero è molto stretto e che, purtroppo, per l’Italia che lavora, che pensa e che produce il peggio deve ancora arrivare: ancora tasse, chiusure, licenziamenti, banche che non prestano denaro, costo della vita, disoccupazione. Bisogna assolutamente far ripartire lo sviluppo,non nascondendoci però che la condizione è risanare.
Monti ha avuto questo grande merito: ci ha aiutati a non finire come la Grecia. Noi non lo dimentichiamo e faremo di tutto per evitare il caos di una crisi di governo. Ma anche l’unità del Pd è per l’Italia un “bene comune”. La nostra funzione è rispondere alla sfida delle cose non solo con dei no, ma tenendo alto il vessillo della giustizia e di un nuovo patto tra gli italiani.

L’Unità 24.03.12