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Fosse Ardeatine, 68 anni dopo Napolitano: “Onore ai caduti non finirà”

La cerimonia in ricordo dell’eccidio nazista in cui morirono 335 vittime tra civili e militari. La denuncia dell’Anfim: “Senza soldi, chiuderemo”. L’appello raccolto dal capo dello Stato. Mille studenti romani, provenienti da 30 istituti superiori e 16 scuole medie della Capitale, hanno partecipato questa mattina alla cerimonia in ricordo dell’eccidio alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, del presidente della Camera, Gianfranco Fini, del vicepresidente del Senato, Emma Bonino, del ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, della governatrice del Lazio, Renata Polverini, del presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, e del sindaco Gianni Alemanno.

Uno dopo l’altro sono stati letti i nomi delle 335 vittime della strage, poi le autorità hanno visitato le Fosse deponendo corone di fiori. A prendere la parola per prima, Rosina Stame, presidente dell’Anfim (Associazione nazionale familiari dei martiri caduti per la libertà della patria) che ha ricordato che “a causa dei tagli abbiamo dovuto licenziare i nostri due unici dipendenti e probabilmente saremo costretti a chiudere i nostri uffici, ma non chiuderemo i nostri cuori”. A risponderle il capo dello Stato Giorgio Napolitano: “Quello che si è fatto per onorare la memoria dei caduti non è finito e non finirà. Il 23 marzo dell’anno prossimo ci ritroveremo nuovamente qui con lo stesso animo”. Un appello raccolto anche dal primo cittadino Gianni Alemanno: “L’anno scorso siamo intervenuti con 30mila euro proprio per compensare i tagli del governo. Continueremo a sostenere questa operazione perché non possiamo permettere che l’Anfim chiuda.
Ci auguriamo che il governo risponda all’appello del presidente Napolitano e garantiamo che Roma Capitale sarà accanto a questa associazione perché la memoria non si può perdere”.

L’omaggio alle vittime della strage

Era il 24 marzo del 1944 quando le truppe di occupazione naziste massacrarono civili e militari come atto di rappresaglia per l’attacco partigiano ai tedeschi avvenuto il giorno prima in via Rasella. “Una ferita per la storia di Roma, il simbolo della violenza deliberata dell’uomo sull’uomo che va ricordata anche per trasformare gli studenti e i ragazzi in testimoni di speranza” secondo l’assessore capitolino alla Famiglia e alla Scuola Gianluigi De Palo. “Un gesto di assoluta follia umana più che di guerra” ha commentato Renata Polverini, convinta che “ci dobbiamo ritrovare qui ogni anno per segnare la nostra storia e perché queste cose non accadano più”. Riguardo ai tagli del governo ha spiegato: ”Ormai rispetto alle tre manovre del precedente governo e dell’ultima di quello attuale, soprattutto sugli enti locali, ci sono stati tagli talmente importanti che su ogni questione che trattiamo quotidianamente, questo elemento torna fuori. Ci auguriamo che il governo passi ad una fase successiva, a quella dello sviluppo, perché solo così potremo interrompere questo dibattito”.

da www.repubblica.it

Fosse Ardeatine, 68 anni dopo Napolitano: “Onore ai caduti non finirà”

La cerimonia in ricordo dell’eccidio nazista in cui morirono 335 vittime tra civili e militari. La denuncia dell’Anfim: “Senza soldi, chiuderemo”. L’appello raccolto dal capo dello Stato. Mille studenti romani, provenienti da 30 istituti superiori e 16 scuole medie della Capitale, hanno partecipato questa mattina alla cerimonia in ricordo dell’eccidio alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, del presidente della Camera, Gianfranco Fini, del vicepresidente del Senato, Emma Bonino, del ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, della governatrice del Lazio, Renata Polverini, del presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, e del sindaco Gianni Alemanno.

Uno dopo l’altro sono stati letti i nomi delle 335 vittime della strage, poi le autorità hanno visitato le Fosse deponendo corone di fiori. A prendere la parola per prima, Rosina Stame, presidente dell’Anfim (Associazione nazionale familiari dei martiri caduti per la libertà della patria) che ha ricordato che “a causa dei tagli abbiamo dovuto licenziare i nostri due unici dipendenti e probabilmente saremo costretti a chiudere i nostri uffici, ma non chiuderemo i nostri cuori”. A risponderle il capo dello Stato Giorgio Napolitano: “Quello che si è fatto per onorare la memoria dei caduti non è finito e non finirà. Il 23 marzo dell’anno prossimo ci ritroveremo nuovamente qui con lo stesso animo”. Un appello raccolto anche dal primo cittadino Gianni Alemanno: “L’anno scorso siamo intervenuti con 30mila euro proprio per compensare i tagli del governo. Continueremo a sostenere questa operazione perché non possiamo permettere che l’Anfim chiuda.
Ci auguriamo che il governo risponda all’appello del presidente Napolitano e garantiamo che Roma Capitale sarà accanto a questa associazione perché la memoria non si può perdere”.

L’omaggio alle vittime della strage

Era il 24 marzo del 1944 quando le truppe di occupazione naziste massacrarono civili e militari come atto di rappresaglia per l’attacco partigiano ai tedeschi avvenuto il giorno prima in via Rasella. “Una ferita per la storia di Roma, il simbolo della violenza deliberata dell’uomo sull’uomo che va ricordata anche per trasformare gli studenti e i ragazzi in testimoni di speranza” secondo l’assessore capitolino alla Famiglia e alla Scuola Gianluigi De Palo. “Un gesto di assoluta follia umana più che di guerra” ha commentato Renata Polverini, convinta che “ci dobbiamo ritrovare qui ogni anno per segnare la nostra storia e perché queste cose non accadano più”. Riguardo ai tagli del governo ha spiegato: ”Ormai rispetto alle tre manovre del precedente governo e dell’ultima di quello attuale, soprattutto sugli enti locali, ci sono stati tagli talmente importanti che su ogni questione che trattiamo quotidianamente, questo elemento torna fuori. Ci auguriamo che il governo passi ad una fase successiva, a quella dello sviluppo, perché solo così potremo interrompere questo dibattito”.

da www.repubblica.it

Il PD contro il diktat. Bersani: cambieremo la norma sull'art.18", di Maria Zegarelli

Ha passato la giornata al telefono, ha sentito il presidente della Repubblica, il premier Mario Monti, Pierferdinando Casini e le parti sociali. «Nella riforma ci sono alcune cose buone ma sull’articolo 18 non ci siamo, bisogna intervenire per modificarlo, puntando al modello tedesco». E cioè affidando a un giudice, o a una figura terza, l’ultima parola anche sui licenziamenti per motivi economici. È questo che il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, ha ripetuto ai suoi interlocutori mentre era in viaggio verso la Liguria. E se non sarà il governo a cambiare la formulazione del nuovo articolo 18, «allora lo farà il Parlamento », dove non sarà possibile «non tenere conto del grande schieramento di forze che si sta creando attorno alla richiesta di un cambiamento». E questo è il primo risultato che incassa il Pd: veder riaperta una partita che in molti – anche al suo interno – avevano dato per persa. Il primo effetto interno è quello di uscire dal dibattito-tormentone sul rischio implosione del Pd (sempre dietro l’angolo) mentre Bersani, accusato da alcuni di essere rimasto schiacciato sulle posizioni della Cgil, trova la sponda più forte – e forse inaspettata – proprio nella Cei. Con il passare delle ore, infatti, il Pd e la Cgil si sono ritrovati in nutrita compagnia. «Provo dispiacere nel vedere la Cgil lasciata fuori da questa riforma», dice monsignor Bregantini, presidente della Commissione Lavoro della Conferenza Episcopale. Anche il segretario Cisl, Raffaele Bonanni, prende le distanze dalla proposta di Palazzo Chigi, mentre si mobilitano le Acli, la rete e, come ha dimostrato il sondaggio di RenatoMannheimerl’altra sera a Porta a Porta, l’opinione pubblica – sia di destra sia di sinistra – boccia la ricetta Monti-Fornero.
IL PRESSING Il pressing è talmente forte che il premier, dopo l’incontro al Quirinale, è costretto a tornare sui suoi passi su quella chiusura che sembrava definitiva proprio sulla parte più delicata della riforma. «È stata anche la nostra posizione unitaria ad aver determinato questo cambio di prospettiva», dicono al Nazareno. «Certo si delineano soluzioni che in gran parte sono buone ma restano dei punti problematici che riguardano alcuni fondamentali del diritto e credo che il Parlamento abbia la possibilità di apportare miglioramenti e correzioni», commenta con cautela da Lerici Bersani. Credo che anche le altre forze politiche possano percepire il turbamento che c’è nell’opinione pubblica. Non possiamo ridurre tutto o quasi tutto il meccanismo dei licenziamenti al meccanismo di indennizzo ». In serata Walter Veltroni dal Tg3 ribadisce: «Monti non può dirci “prendere o lasciare”. Non può dirlo né al Pd né al Parlamento». Aggiunge poi un apprezzamento per il segnale di ascolto: «Il presidente Monti ha dato un primo segno di attenzione nei confronti di quello che si sta muovendo nel Paese e credo che il governo vorrà ascoltare la voce di una forza determinante per questa maggioranza come il Pd». Un partito che, assicura l’ex segretario, non rischia divorzi perché «nel Pd non c’è mai stato un voto diverso anche se al suo interno ci sono culture diverse. Il partito deve ora spingere per una correzione all’insegna dell’equità e della riforma sul mercato del lavoro ricordandosi come stavamo qualche mese fa, quando il Paese era sull’orlo del tracollo e sapendo che questo momento dovrà essere seguito da una stagione riformista. E il Pd è la forza decisiva senza la quale non c’è sfida riformista». È evidente che la partita che si giocherà in Parlamento non sarà facile e il risultato non è scontato,machi puntava sull’articolo 18 «per far saltare il Pd resterà a bocca asciutta, non c’è mai stato questo pericolo», assicura Beppe Fioroni, che la riforma l’avrebbe votata comunque. Dunque le «due anime» del partito, i montiani senza se e senza ma e l’ala più critica dall’altra, lunedì durante la direzione dovranno trovare la quadra: un punto di sintesi da tradurre negli emendamenti «che dovranno essere condivisi». «Occorre lavorare per trovare compromessi sull’articolo 18 in Aula – dichiara il vicesegretario Enrico Letta – superare lo stallo con il sindacato e preservare l’unità del partito». Perché, aggiunge, «se collassa ilPd collassa anche il governo Monti». E quello che il segretario non aveva detto mercoledì lo dice giovedì, cioè ieri: «Penso che non sia il caso di staccare la spina al governo, ci sono cose positive, serie, da non buttare via nella riforma ». Lo dice in risposta a Nichi Vendola che lo aveva invitato a non dare più la fiducia a Monti, avvertendo che sull’articolo 18 si giocano le alleanze future. A Vendola, certo, ma ancheun segnale a Palazzo Chigi. ❖

L’Unià 23.03.12

******

“Il modello arbitrario”, di Luigi Mariucci

Fa una certa impressione leggere questa formulazione al comma 9 del nuovo art.18 nella versione che ho potuto consultare: «Nell’ipotesi in cui annulla il licenziamento perché accerta l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria ». Il giustificato motivo oggettivo è definito dalla legge 604 del 1966 e consiste in «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Si noti che la legge tedesca è più stringente e parla di «urgente necessità aziendale». La versione italiana è più lasca, tant’è che a suo tempo nelle ragioni oggettive fu incluso anche il caso della «eccessiva morbilità del lavoratore», cioè dell’eccessivo ricorso ad assenze per malattia, anche regolarmente giustificate. In ogni caso il nuovo art.18 prevederebbe che il giudice possa ordinare solo l’indennizzo quando il giustificato motivo è appunto «inesistente». Questo significa che, anche se fosse acclarato che il motivo economico non esiste, è solo strumentale o che comunque non c’è nessun nesso causale tra la ragione economica e quel singolo lavoratore o lavoratrice da licenziare, il giudice avrebbe le la monetizzazione del licenziamento. Ma cos’è un licenziamento economico in cui il motivo economico è «inesistente»? Non può che essere arbitrario. E licenziamento «arbitrario» non significa necessariamente «discriminatorio», come qualche osservatore vorrebbe farci credere. Discriminazione è altro, richiede una prova comparativa, difficilissima da dare, specie quando si è di fronte a un singolo licenziamento. C’è quindi una sola interpretazione logica della disposizione descritta: si vuole dare libertà di licenziamento sub specie di motivi economici (anche fasulli). È evidente infatti che se anche ricorrendo al giudice, perdendo tempo e risorse, al massimo si arriva all’indennizzo, quell’indennizzo conviene negoziarlo prima con il datore di lavoro. Si chiama monetizzazione del licenziamento illegittimo. Ma perché mai si vuole costituire questa corsia privilegiata per i licenziamenti arbitrari sotto specie di pseudo-motivo economico, mentre per i disciplinari si prevede, giustamente, il potere discrezionale del giudice di optare tra indennizzo e reintegrazione? Chi saranno mai questi lavoratori candidati ai licenziamenti liberi? La risposta è ovvia: i lavoratori «scomodi» a vario titolo, meno produttivi perché afflitti da malattie croniche, le donne oberate di carichi familiari, e soprattutto quelli più anziani e usurati per i quali di recente si è alzata l’età pensionabile, usando l’argomento della crescita delle aspettative di vita e della «vecchiaia attiva». Non a caso si prevede una indennità, nel massimo, molto elevata: fino a 27 mensilità. È chiaro che essa è destinata a quei lavoratori prima vicini e ora più lontani dalla pensione, che si troveranno nel limbo tra perdita del lavoro e attesa della pensione. Alla faccia delle retoriche sulla vecchiaia attiva. È evidente quindi che ai licenziamenti economici va riferita la medesima disciplina prevista per i licenziamenti disciplinari: lasciare al giudice la decisione tra indennizzo e reintegrazione, a seconda della natura del caso. Così si fa in Germania. Altrimenti si aprirebbe un problema insuperabile in termini di parità di trattamento, sullo stesso piano costituzionale. A proposito di parità di trattamento è emersa un’altra singolare questione. L’applicabilità o meno ai pubblici dipendenti della nuova normativa. Osservo che, checché ne dicano i diversi ministri, la nuova disciplina non può non applicarsi all’impiego pubblico. Altrimenti nel testo unico sul pubblico impiego si dovrebbe scrivere che lì si applica, qualunque sia la dimensione degli enti (compresa quindi la più sperduta comunità montana) l’art. 18 nella vecchia versione. Si tratterebbe di una soluzione aberrante, che scava di nuovo un divario tra lavoro pubblico e privato. A seguito della quale si riaprirebbe una campagna denigratoria e indifferenziata contro il lavoro pubblico. Meglio evitarlo, e costruire quindi una disciplina ragionevole per tutti i lavoratori dipendenti, privati o pubblici che siano.

L’Unità 23.03.12

Il PD contro il diktat. Bersani: cambieremo la norma sull’art.18″, di Maria Zegarelli

Ha passato la giornata al telefono, ha sentito il presidente della Repubblica, il premier Mario Monti, Pierferdinando Casini e le parti sociali. «Nella riforma ci sono alcune cose buone ma sull’articolo 18 non ci siamo, bisogna intervenire per modificarlo, puntando al modello tedesco». E cioè affidando a un giudice, o a una figura terza, l’ultima parola anche sui licenziamenti per motivi economici. È questo che il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, ha ripetuto ai suoi interlocutori mentre era in viaggio verso la Liguria. E se non sarà il governo a cambiare la formulazione del nuovo articolo 18, «allora lo farà il Parlamento », dove non sarà possibile «non tenere conto del grande schieramento di forze che si sta creando attorno alla richiesta di un cambiamento». E questo è il primo risultato che incassa il Pd: veder riaperta una partita che in molti – anche al suo interno – avevano dato per persa. Il primo effetto interno è quello di uscire dal dibattito-tormentone sul rischio implosione del Pd (sempre dietro l’angolo) mentre Bersani, accusato da alcuni di essere rimasto schiacciato sulle posizioni della Cgil, trova la sponda più forte – e forse inaspettata – proprio nella Cei. Con il passare delle ore, infatti, il Pd e la Cgil si sono ritrovati in nutrita compagnia. «Provo dispiacere nel vedere la Cgil lasciata fuori da questa riforma», dice monsignor Bregantini, presidente della Commissione Lavoro della Conferenza Episcopale. Anche il segretario Cisl, Raffaele Bonanni, prende le distanze dalla proposta di Palazzo Chigi, mentre si mobilitano le Acli, la rete e, come ha dimostrato il sondaggio di RenatoMannheimerl’altra sera a Porta a Porta, l’opinione pubblica – sia di destra sia di sinistra – boccia la ricetta Monti-Fornero.
IL PRESSING Il pressing è talmente forte che il premier, dopo l’incontro al Quirinale, è costretto a tornare sui suoi passi su quella chiusura che sembrava definitiva proprio sulla parte più delicata della riforma. «È stata anche la nostra posizione unitaria ad aver determinato questo cambio di prospettiva», dicono al Nazareno. «Certo si delineano soluzioni che in gran parte sono buone ma restano dei punti problematici che riguardano alcuni fondamentali del diritto e credo che il Parlamento abbia la possibilità di apportare miglioramenti e correzioni», commenta con cautela da Lerici Bersani. Credo che anche le altre forze politiche possano percepire il turbamento che c’è nell’opinione pubblica. Non possiamo ridurre tutto o quasi tutto il meccanismo dei licenziamenti al meccanismo di indennizzo ». In serata Walter Veltroni dal Tg3 ribadisce: «Monti non può dirci “prendere o lasciare”. Non può dirlo né al Pd né al Parlamento». Aggiunge poi un apprezzamento per il segnale di ascolto: «Il presidente Monti ha dato un primo segno di attenzione nei confronti di quello che si sta muovendo nel Paese e credo che il governo vorrà ascoltare la voce di una forza determinante per questa maggioranza come il Pd». Un partito che, assicura l’ex segretario, non rischia divorzi perché «nel Pd non c’è mai stato un voto diverso anche se al suo interno ci sono culture diverse. Il partito deve ora spingere per una correzione all’insegna dell’equità e della riforma sul mercato del lavoro ricordandosi come stavamo qualche mese fa, quando il Paese era sull’orlo del tracollo e sapendo che questo momento dovrà essere seguito da una stagione riformista. E il Pd è la forza decisiva senza la quale non c’è sfida riformista». È evidente che la partita che si giocherà in Parlamento non sarà facile e il risultato non è scontato,machi puntava sull’articolo 18 «per far saltare il Pd resterà a bocca asciutta, non c’è mai stato questo pericolo», assicura Beppe Fioroni, che la riforma l’avrebbe votata comunque. Dunque le «due anime» del partito, i montiani senza se e senza ma e l’ala più critica dall’altra, lunedì durante la direzione dovranno trovare la quadra: un punto di sintesi da tradurre negli emendamenti «che dovranno essere condivisi». «Occorre lavorare per trovare compromessi sull’articolo 18 in Aula – dichiara il vicesegretario Enrico Letta – superare lo stallo con il sindacato e preservare l’unità del partito». Perché, aggiunge, «se collassa ilPd collassa anche il governo Monti». E quello che il segretario non aveva detto mercoledì lo dice giovedì, cioè ieri: «Penso che non sia il caso di staccare la spina al governo, ci sono cose positive, serie, da non buttare via nella riforma ». Lo dice in risposta a Nichi Vendola che lo aveva invitato a non dare più la fiducia a Monti, avvertendo che sull’articolo 18 si giocano le alleanze future. A Vendola, certo, ma ancheun segnale a Palazzo Chigi. ❖

L’Unià 23.03.12

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“Il modello arbitrario”, di Luigi Mariucci

Fa una certa impressione leggere questa formulazione al comma 9 del nuovo art.18 nella versione che ho potuto consultare: «Nell’ipotesi in cui annulla il licenziamento perché accerta l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria ». Il giustificato motivo oggettivo è definito dalla legge 604 del 1966 e consiste in «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Si noti che la legge tedesca è più stringente e parla di «urgente necessità aziendale». La versione italiana è più lasca, tant’è che a suo tempo nelle ragioni oggettive fu incluso anche il caso della «eccessiva morbilità del lavoratore», cioè dell’eccessivo ricorso ad assenze per malattia, anche regolarmente giustificate. In ogni caso il nuovo art.18 prevederebbe che il giudice possa ordinare solo l’indennizzo quando il giustificato motivo è appunto «inesistente». Questo significa che, anche se fosse acclarato che il motivo economico non esiste, è solo strumentale o che comunque non c’è nessun nesso causale tra la ragione economica e quel singolo lavoratore o lavoratrice da licenziare, il giudice avrebbe le la monetizzazione del licenziamento. Ma cos’è un licenziamento economico in cui il motivo economico è «inesistente»? Non può che essere arbitrario. E licenziamento «arbitrario» non significa necessariamente «discriminatorio», come qualche osservatore vorrebbe farci credere. Discriminazione è altro, richiede una prova comparativa, difficilissima da dare, specie quando si è di fronte a un singolo licenziamento. C’è quindi una sola interpretazione logica della disposizione descritta: si vuole dare libertà di licenziamento sub specie di motivi economici (anche fasulli). È evidente infatti che se anche ricorrendo al giudice, perdendo tempo e risorse, al massimo si arriva all’indennizzo, quell’indennizzo conviene negoziarlo prima con il datore di lavoro. Si chiama monetizzazione del licenziamento illegittimo. Ma perché mai si vuole costituire questa corsia privilegiata per i licenziamenti arbitrari sotto specie di pseudo-motivo economico, mentre per i disciplinari si prevede, giustamente, il potere discrezionale del giudice di optare tra indennizzo e reintegrazione? Chi saranno mai questi lavoratori candidati ai licenziamenti liberi? La risposta è ovvia: i lavoratori «scomodi» a vario titolo, meno produttivi perché afflitti da malattie croniche, le donne oberate di carichi familiari, e soprattutto quelli più anziani e usurati per i quali di recente si è alzata l’età pensionabile, usando l’argomento della crescita delle aspettative di vita e della «vecchiaia attiva». Non a caso si prevede una indennità, nel massimo, molto elevata: fino a 27 mensilità. È chiaro che essa è destinata a quei lavoratori prima vicini e ora più lontani dalla pensione, che si troveranno nel limbo tra perdita del lavoro e attesa della pensione. Alla faccia delle retoriche sulla vecchiaia attiva. È evidente quindi che ai licenziamenti economici va riferita la medesima disciplina prevista per i licenziamenti disciplinari: lasciare al giudice la decisione tra indennizzo e reintegrazione, a seconda della natura del caso. Così si fa in Germania. Altrimenti si aprirebbe un problema insuperabile in termini di parità di trattamento, sullo stesso piano costituzionale. A proposito di parità di trattamento è emersa un’altra singolare questione. L’applicabilità o meno ai pubblici dipendenti della nuova normativa. Osservo che, checché ne dicano i diversi ministri, la nuova disciplina non può non applicarsi all’impiego pubblico. Altrimenti nel testo unico sul pubblico impiego si dovrebbe scrivere che lì si applica, qualunque sia la dimensione degli enti (compresa quindi la più sperduta comunità montana) l’art. 18 nella vecchia versione. Si tratterebbe di una soluzione aberrante, che scava di nuovo un divario tra lavoro pubblico e privato. A seguito della quale si riaprirebbe una campagna denigratoria e indifferenziata contro il lavoro pubblico. Meglio evitarlo, e costruire quindi una disciplina ragionevole per tutti i lavoratori dipendenti, privati o pubblici che siano.

L’Unità 23.03.12

Il PD contro il diktat. Bersani: cambieremo la norma sull’art.18″, di Maria Zegarelli

Ha passato la giornata al telefono, ha sentito il presidente della Repubblica, il premier Mario Monti, Pierferdinando Casini e le parti sociali. «Nella riforma ci sono alcune cose buone ma sull’articolo 18 non ci siamo, bisogna intervenire per modificarlo, puntando al modello tedesco». E cioè affidando a un giudice, o a una figura terza, l’ultima parola anche sui licenziamenti per motivi economici. È questo che il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, ha ripetuto ai suoi interlocutori mentre era in viaggio verso la Liguria. E se non sarà il governo a cambiare la formulazione del nuovo articolo 18, «allora lo farà il Parlamento », dove non sarà possibile «non tenere conto del grande schieramento di forze che si sta creando attorno alla richiesta di un cambiamento». E questo è il primo risultato che incassa il Pd: veder riaperta una partita che in molti – anche al suo interno – avevano dato per persa. Il primo effetto interno è quello di uscire dal dibattito-tormentone sul rischio implosione del Pd (sempre dietro l’angolo) mentre Bersani, accusato da alcuni di essere rimasto schiacciato sulle posizioni della Cgil, trova la sponda più forte – e forse inaspettata – proprio nella Cei. Con il passare delle ore, infatti, il Pd e la Cgil si sono ritrovati in nutrita compagnia. «Provo dispiacere nel vedere la Cgil lasciata fuori da questa riforma», dice monsignor Bregantini, presidente della Commissione Lavoro della Conferenza Episcopale. Anche il segretario Cisl, Raffaele Bonanni, prende le distanze dalla proposta di Palazzo Chigi, mentre si mobilitano le Acli, la rete e, come ha dimostrato il sondaggio di RenatoMannheimerl’altra sera a Porta a Porta, l’opinione pubblica – sia di destra sia di sinistra – boccia la ricetta Monti-Fornero.
IL PRESSING Il pressing è talmente forte che il premier, dopo l’incontro al Quirinale, è costretto a tornare sui suoi passi su quella chiusura che sembrava definitiva proprio sulla parte più delicata della riforma. «È stata anche la nostra posizione unitaria ad aver determinato questo cambio di prospettiva», dicono al Nazareno. «Certo si delineano soluzioni che in gran parte sono buone ma restano dei punti problematici che riguardano alcuni fondamentali del diritto e credo che il Parlamento abbia la possibilità di apportare miglioramenti e correzioni», commenta con cautela da Lerici Bersani. Credo che anche le altre forze politiche possano percepire il turbamento che c’è nell’opinione pubblica. Non possiamo ridurre tutto o quasi tutto il meccanismo dei licenziamenti al meccanismo di indennizzo ». In serata Walter Veltroni dal Tg3 ribadisce: «Monti non può dirci “prendere o lasciare”. Non può dirlo né al Pd né al Parlamento». Aggiunge poi un apprezzamento per il segnale di ascolto: «Il presidente Monti ha dato un primo segno di attenzione nei confronti di quello che si sta muovendo nel Paese e credo che il governo vorrà ascoltare la voce di una forza determinante per questa maggioranza come il Pd». Un partito che, assicura l’ex segretario, non rischia divorzi perché «nel Pd non c’è mai stato un voto diverso anche se al suo interno ci sono culture diverse. Il partito deve ora spingere per una correzione all’insegna dell’equità e della riforma sul mercato del lavoro ricordandosi come stavamo qualche mese fa, quando il Paese era sull’orlo del tracollo e sapendo che questo momento dovrà essere seguito da una stagione riformista. E il Pd è la forza decisiva senza la quale non c’è sfida riformista». È evidente che la partita che si giocherà in Parlamento non sarà facile e il risultato non è scontato,machi puntava sull’articolo 18 «per far saltare il Pd resterà a bocca asciutta, non c’è mai stato questo pericolo», assicura Beppe Fioroni, che la riforma l’avrebbe votata comunque. Dunque le «due anime» del partito, i montiani senza se e senza ma e l’ala più critica dall’altra, lunedì durante la direzione dovranno trovare la quadra: un punto di sintesi da tradurre negli emendamenti «che dovranno essere condivisi». «Occorre lavorare per trovare compromessi sull’articolo 18 in Aula – dichiara il vicesegretario Enrico Letta – superare lo stallo con il sindacato e preservare l’unità del partito». Perché, aggiunge, «se collassa ilPd collassa anche il governo Monti». E quello che il segretario non aveva detto mercoledì lo dice giovedì, cioè ieri: «Penso che non sia il caso di staccare la spina al governo, ci sono cose positive, serie, da non buttare via nella riforma ». Lo dice in risposta a Nichi Vendola che lo aveva invitato a non dare più la fiducia a Monti, avvertendo che sull’articolo 18 si giocano le alleanze future. A Vendola, certo, ma ancheun segnale a Palazzo Chigi. ❖

L’Unià 23.03.12

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“Il modello arbitrario”, di Luigi Mariucci

Fa una certa impressione leggere questa formulazione al comma 9 del nuovo art.18 nella versione che ho potuto consultare: «Nell’ipotesi in cui annulla il licenziamento perché accerta l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria ». Il giustificato motivo oggettivo è definito dalla legge 604 del 1966 e consiste in «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Si noti che la legge tedesca è più stringente e parla di «urgente necessità aziendale». La versione italiana è più lasca, tant’è che a suo tempo nelle ragioni oggettive fu incluso anche il caso della «eccessiva morbilità del lavoratore», cioè dell’eccessivo ricorso ad assenze per malattia, anche regolarmente giustificate. In ogni caso il nuovo art.18 prevederebbe che il giudice possa ordinare solo l’indennizzo quando il giustificato motivo è appunto «inesistente». Questo significa che, anche se fosse acclarato che il motivo economico non esiste, è solo strumentale o che comunque non c’è nessun nesso causale tra la ragione economica e quel singolo lavoratore o lavoratrice da licenziare, il giudice avrebbe le la monetizzazione del licenziamento. Ma cos’è un licenziamento economico in cui il motivo economico è «inesistente»? Non può che essere arbitrario. E licenziamento «arbitrario» non significa necessariamente «discriminatorio», come qualche osservatore vorrebbe farci credere. Discriminazione è altro, richiede una prova comparativa, difficilissima da dare, specie quando si è di fronte a un singolo licenziamento. C’è quindi una sola interpretazione logica della disposizione descritta: si vuole dare libertà di licenziamento sub specie di motivi economici (anche fasulli). È evidente infatti che se anche ricorrendo al giudice, perdendo tempo e risorse, al massimo si arriva all’indennizzo, quell’indennizzo conviene negoziarlo prima con il datore di lavoro. Si chiama monetizzazione del licenziamento illegittimo. Ma perché mai si vuole costituire questa corsia privilegiata per i licenziamenti arbitrari sotto specie di pseudo-motivo economico, mentre per i disciplinari si prevede, giustamente, il potere discrezionale del giudice di optare tra indennizzo e reintegrazione? Chi saranno mai questi lavoratori candidati ai licenziamenti liberi? La risposta è ovvia: i lavoratori «scomodi» a vario titolo, meno produttivi perché afflitti da malattie croniche, le donne oberate di carichi familiari, e soprattutto quelli più anziani e usurati per i quali di recente si è alzata l’età pensionabile, usando l’argomento della crescita delle aspettative di vita e della «vecchiaia attiva». Non a caso si prevede una indennità, nel massimo, molto elevata: fino a 27 mensilità. È chiaro che essa è destinata a quei lavoratori prima vicini e ora più lontani dalla pensione, che si troveranno nel limbo tra perdita del lavoro e attesa della pensione. Alla faccia delle retoriche sulla vecchiaia attiva. È evidente quindi che ai licenziamenti economici va riferita la medesima disciplina prevista per i licenziamenti disciplinari: lasciare al giudice la decisione tra indennizzo e reintegrazione, a seconda della natura del caso. Così si fa in Germania. Altrimenti si aprirebbe un problema insuperabile in termini di parità di trattamento, sullo stesso piano costituzionale. A proposito di parità di trattamento è emersa un’altra singolare questione. L’applicabilità o meno ai pubblici dipendenti della nuova normativa. Osservo che, checché ne dicano i diversi ministri, la nuova disciplina non può non applicarsi all’impiego pubblico. Altrimenti nel testo unico sul pubblico impiego si dovrebbe scrivere che lì si applica, qualunque sia la dimensione degli enti (compresa quindi la più sperduta comunità montana) l’art. 18 nella vecchia versione. Si tratterebbe di una soluzione aberrante, che scava di nuovo un divario tra lavoro pubblico e privato. A seguito della quale si riaprirebbe una campagna denigratoria e indifferenziata contro il lavoro pubblico. Meglio evitarlo, e costruire quindi una disciplina ragionevole per tutti i lavoratori dipendenti, privati o pubblici che siano.

L’Unità 23.03.12

"I tecno-giacobini che invocano l'interesse generale", di Michele Prospero

È stato un politologo americano, Robert Dahl, a riflettere molto su due concetti, quello di responsabilità (accountability) e di risposta (responsive), che per lui sono gli indicatori migliori della qualità di una democrazia. Un partito o una istituzione che si mostra responsabile e congruente, ossia capace di dare risposta alle preferenze collettive, è un trasparente segnale di un buon rendimento della democrazia. E invece no. In Italia un partito responsabile e “responsivo” rispetto alle preferenze della sua base sociale, sensibile cioè alle grandi inquietudini del suo elettorato dinanzi a una scelta inattesa e inopinata, diventa l’emblema di un becero conservatorismo (così il Pd appare a Giovanni Sabbatucci sul Messaggero), incapace di mettere a tacere umori regressivi e di innovare il mercato del lavoro strappando il nesso con vetusti richiami identitari. Certi commentatori, che ancora hanno fresco l’inchiostro indelebile con la parola «casta» ben impressa, ora urlano contro il Pd perché si è buttato in «un vicolo cieco» (così la Stampa) pur di seguire le bizze della base molto arrabbiata. Insomma: esiste la casta o no? Taluni organi, che inveiscono in maniera professionale contro la casta, descritta come un ottuso e omologato ceto dominante insensibile alle voci disarmate dei cittadini, ora aggrediscono il Pd perché appare schiavo dell’opinione pubblica in subbuglio. Ma per certuni i lavoratori non sono cittadini e comunque non creano opinione. Molti giornali della gazzarra anticasta in realtà vorrebbero che l’intera classe politica si comportasse davvero come una sola voce e come una casta con una identica volontà. Per difendere interessi che stanno molto a cuore dei loro editori, la casta non è più un tabù, tutti i politici anzi devono stringersi in una casta coesa, pronta a votare a favore dell’interesse generale (dell’impresa) e scacciare gli intollerabili interessi particolari (dei lavoratori). Se la prendono con la casta solo perché, purtroppo per loro, non esiste e anzi certi partiti che osano ribellarsi all’idea di «monetizzare il lavoro» sono marchiati come dei biechi soggetti antimoderni. I giornali come il Corriere della sera, che esultano alla bellezza – persino dal punto di vista strettamente estetico – di un governo che decide di «verbalizzare e non più di concertare», vorrebbero che la società disperdesse ogni voce critica e obbedisse alla ricetta del tecnico che per definizione ha sempre la verità in tasca. Il governo rompe la coesione. Bene, è nel suo potere. Ma perché lamentarsi poi se le forze colpite dalle decisioni si organizzano e danno battaglia? È troppo facile decidere ignorando gli impegni, e scherzare persino contro una malintesa «consociazione», e poi piagnucolare se, quando le reti della trattativa sono state spezzate, ognuno dei soggetti in campo si sente libero di rispondere come meglio crede alla tutela dei propri rappresentati. In democrazia non c’è un organo, un partito, un potere che in quanto tale sia l’interprete autorizzato dell’interesse generale e dal suo pulpito può giudicare gli altri interessi che osano mobilitarsi come di per sé inferiori, eccentrici e ostili al bene pubblico. La democrazia liberale è per definizione il conflitto tra interessi (particolari) che si contendono con il voto il potere di legiferare. Ciascuno dei competitori è una parte, e non può dire di essere l’interesse generale. Dopo che sono state accumulate montagne di parole contro i giacobini e la loro vituperata idea di volontà generale, ora prevale un inedito giacobinismo tecnico-padronale che dichiara di legiferare non in nome di interessi più forti di altri, ma in nome del vero e unico interesse generale. Jacob Talmon chiamava questa abitudine mentale democrazia totalitaria. Solo in una prospettiva totalitaria infatti chi governa è il generale e chi si oppone a una norma che lo danneggia è bollato come il deteriore seguace del particolare che fa ombra al bene comune. Se si intende buttare a mare la concertazione, se si giudica di per sé antimoderna la coesione sociale, poi non bisogna rompere le scatole a chi già prenota la piazza. Nessuno, neanche il custode della tecnica ha il potere di chiedere la resa incondizionata all’interesse sociale soccombente in una nuova legge. Troppo comodo pavoneggiarsi per aver spezzato con intrepido coraggio le reni del consociativismo e poi stizzirsi se la piazza torna a riempirsi e qualcuno annuncia barricate. Recuperare la coesione, riprendere i fili della concertazione è ancora possibile. In un vicolo cieco non c’è il Pd, ma solo chi pretende di decidere sfregiando il legame sociale e poi cammina tra le macerie.

L’Unià 23.03.12

“I tecno-giacobini che invocano l’interesse generale”, di Michele Prospero

È stato un politologo americano, Robert Dahl, a riflettere molto su due concetti, quello di responsabilità (accountability) e di risposta (responsive), che per lui sono gli indicatori migliori della qualità di una democrazia. Un partito o una istituzione che si mostra responsabile e congruente, ossia capace di dare risposta alle preferenze collettive, è un trasparente segnale di un buon rendimento della democrazia. E invece no. In Italia un partito responsabile e “responsivo” rispetto alle preferenze della sua base sociale, sensibile cioè alle grandi inquietudini del suo elettorato dinanzi a una scelta inattesa e inopinata, diventa l’emblema di un becero conservatorismo (così il Pd appare a Giovanni Sabbatucci sul Messaggero), incapace di mettere a tacere umori regressivi e di innovare il mercato del lavoro strappando il nesso con vetusti richiami identitari. Certi commentatori, che ancora hanno fresco l’inchiostro indelebile con la parola «casta» ben impressa, ora urlano contro il Pd perché si è buttato in «un vicolo cieco» (così la Stampa) pur di seguire le bizze della base molto arrabbiata. Insomma: esiste la casta o no? Taluni organi, che inveiscono in maniera professionale contro la casta, descritta come un ottuso e omologato ceto dominante insensibile alle voci disarmate dei cittadini, ora aggrediscono il Pd perché appare schiavo dell’opinione pubblica in subbuglio. Ma per certuni i lavoratori non sono cittadini e comunque non creano opinione. Molti giornali della gazzarra anticasta in realtà vorrebbero che l’intera classe politica si comportasse davvero come una sola voce e come una casta con una identica volontà. Per difendere interessi che stanno molto a cuore dei loro editori, la casta non è più un tabù, tutti i politici anzi devono stringersi in una casta coesa, pronta a votare a favore dell’interesse generale (dell’impresa) e scacciare gli intollerabili interessi particolari (dei lavoratori). Se la prendono con la casta solo perché, purtroppo per loro, non esiste e anzi certi partiti che osano ribellarsi all’idea di «monetizzare il lavoro» sono marchiati come dei biechi soggetti antimoderni. I giornali come il Corriere della sera, che esultano alla bellezza – persino dal punto di vista strettamente estetico – di un governo che decide di «verbalizzare e non più di concertare», vorrebbero che la società disperdesse ogni voce critica e obbedisse alla ricetta del tecnico che per definizione ha sempre la verità in tasca. Il governo rompe la coesione. Bene, è nel suo potere. Ma perché lamentarsi poi se le forze colpite dalle decisioni si organizzano e danno battaglia? È troppo facile decidere ignorando gli impegni, e scherzare persino contro una malintesa «consociazione», e poi piagnucolare se, quando le reti della trattativa sono state spezzate, ognuno dei soggetti in campo si sente libero di rispondere come meglio crede alla tutela dei propri rappresentati. In democrazia non c’è un organo, un partito, un potere che in quanto tale sia l’interprete autorizzato dell’interesse generale e dal suo pulpito può giudicare gli altri interessi che osano mobilitarsi come di per sé inferiori, eccentrici e ostili al bene pubblico. La democrazia liberale è per definizione il conflitto tra interessi (particolari) che si contendono con il voto il potere di legiferare. Ciascuno dei competitori è una parte, e non può dire di essere l’interesse generale. Dopo che sono state accumulate montagne di parole contro i giacobini e la loro vituperata idea di volontà generale, ora prevale un inedito giacobinismo tecnico-padronale che dichiara di legiferare non in nome di interessi più forti di altri, ma in nome del vero e unico interesse generale. Jacob Talmon chiamava questa abitudine mentale democrazia totalitaria. Solo in una prospettiva totalitaria infatti chi governa è il generale e chi si oppone a una norma che lo danneggia è bollato come il deteriore seguace del particolare che fa ombra al bene comune. Se si intende buttare a mare la concertazione, se si giudica di per sé antimoderna la coesione sociale, poi non bisogna rompere le scatole a chi già prenota la piazza. Nessuno, neanche il custode della tecnica ha il potere di chiedere la resa incondizionata all’interesse sociale soccombente in una nuova legge. Troppo comodo pavoneggiarsi per aver spezzato con intrepido coraggio le reni del consociativismo e poi stizzirsi se la piazza torna a riempirsi e qualcuno annuncia barricate. Recuperare la coesione, riprendere i fili della concertazione è ancora possibile. In un vicolo cieco non c’è il Pd, ma solo chi pretende di decidere sfregiando il legame sociale e poi cammina tra le macerie.

L’Unià 23.03.12