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“Decreto semplificazioni: ok Commissione Cultura Senato”, di R.P. da La Tecnica della Scuola

I senatori confermano l’ossimoro dell’articolo 50: “organico funzionale ad inviarianza di spesa”. Nessuna proposta di modifica neppure agli altri articoli relativi alla scuola. In due sedute, svoltesi il 20 e il 21 marzo, la Commissione Cultura del Senato ha esaminato e licenziato favorevolmente il decreto semplificazioni.
Il provvedimento è stato presentato in Commissione dai senatori Asciutti (Pdl), che si è soffermato soprattutto sugli aspetti riguardanti università e ricerca e Rusconi (Pd) che ha illustrato gli articoli relativi all’istruzione.
Alla fine il parere emesso dalla Commissione è sostanzialmente positivo anche se in merito all’articolo 50, i senatori esprimono “rammarico per la mancata integrazione dell’organico dell’autonomia di diecimila ulteriori posti, nonchè per il carattere incerto dei fondi destinati alla definizione della consistenza numerica massima degli organici”.
La Commissione chiede anche che si approfondisca un aspetto decisivo del provvedimento: come si potrà gestire l’aumento delle classi senza un corrispondente aumento di cattedre ?
E infatti i senatori sottolineano che “deve comunque essere fatta salva l’eventuale variazione di organico derivante dalla consistenza della popolazione scolastica”.
In merito agli stanziamenti destinati all’edilizia la Commissione evidenzia poi che
“data la scarsità di risorse statali rispetto alle reali necessità per la messa in sicurezza delle scuole, si esprime l’auspicio che i fondi stanziati a tale fine dagli enti locali siano esclusi dal patto di stabilità”.
Nei prossimi giorni il decreto dovrà passare al vaglio della Commissione Bilancio che avrebbe la possibilità di apportare qualche modifica, ma ormai sembra che i giochi siano fatti anche perché eventuali correzioni al provvedimento potrebbero mettere in discussione i delicati equilibri politici che hanno consentito di arrivare alla formulazione attuale.
Per il momento, insomma, la scuola deve rassegnarsi a fare i conti con organici funzionali ad “invarianza di spesa”.

La Tecnica della Scuola 22.03.12

"Resta aperto il problema vero: creare più lavoro", di Michele Dau

Resta aperto il problema vero: creare più lavoro. Se c’è la siccità la priorità politica non può essere quella di affidare ad un gruppo di professori di idraulica la razionalizzazione delle tubature, dei depositi idrici, delle valvole e dei rubinetti. Urge avere più acqua a disposizione. Fuor di metafora se manca il lavoro, se l’occupazione si riduce, concentrarsi solo sulle regole e i meccanismi è molto tecnico ma assai poco politico. Il governo tecnico si appresta alla fase conclusiva dopo un lungo confronto che, impostato in modo accademico, è atterrato su proposte regolatorie fuori da un progetto complessivo per il paese. Dopo l’impatto timido delle liberalizzazioni questa è un’altra risposta debole.
Si può fotografare così la situazione che si è creata, rispetto alla quale occorre una lucida valutazione politica. La disoccupazione ha superato il 9 per cento. Quella dei giovani e delle donne è uno su tre e una su due. Il mercato del lavoro è stato indebolito e precarizzato. Lo stesso lavoro è stato posto in secondo piano. Le nostre piccole imprese, i nostri distretti produttivi sono stati lasciati soli, senza politiche di vero supporto all’integrazione, all’innovazione, all’esportazione. Le misure a sostegno della domanda interna sono state saltuarie, perché vi era un odio ideologico verso un approccio che aveva caratterizzato i governi centrosinistra. I rapporti con le forze sociali e la società civile organizzata sono stati disarticolati e, in molti casi, anche mercenarizzati.
Il risultato è che oggi non solo non c’è crescita ma c’è recessione. Abbiamo di fronte il periodo più duro da attraversare.
La situazione odierna non è figlia di un destino ingrato o del caso, ma è stata pesantemente causata e aggravata da circa un decennio di inadeguati governi del centrodestra. All’inizio degli anni duemila la crescita è stata debolissima. Dal 2008 al 2011 il quadro ha assunto tinte fosche con la crisi a lungo negata e una propaganda ossessiva sul fatto che il paese, comunque, teneva.
Grazie alla cassa integrazione (oltre 20 miliardi spesi), al lavoro nero reclamizzato. Grazie ad una ardita contabilizzazione dei patrimoni e dei risparmi privati che, divisi per il totale delle famiglie, determina una media importante. Ma che dimentica che la gran parte della ricchezza reale è concentrata nel 20 per cento delle famiglie. Dunque narcosi assistenziale e propaganda mediatica senza scrupoli. La spesa pubblica corrente è cresciuta senza controlli e qualità. Gli investimenti pubblici reali sono crollati.
La nostra politica europea è stata accantonata privilegiando relazioni bilaterali amicali con la Bielorussia, con la stessa Federazione Russa, con la Libia. La ex maggioranza si è preoccupata, con una certa ansia, anche dei familiari di Mubarak. Quando il governo Berlusconi alla fine ha mollato il parlamento era in una condizione di stallo, perché non vi era una maggioranza politica alternativa. Una larga palude, fatta di nominati senza qualità, di chi cerca comunque la ricandidatura o solo il vitalizio, impediva ogni dinamica politica parlamentare che per decenni ha assicurato una forte governabilità.
Un paese seduto guarda la conclusione di questo confronto sul mercato del lavoro che non porta lavoro e neanche speranze concrete, ma aiuta a far crescere il numero dei disoccupati e dice ai giovani che ci potranno essere condizioni contrattuali migliori per loro se e quando ci sarà lo sviluppo. Certo, non tutte le misure proposte sono sbagliate. Molte sono razionali e chirurgicamente pragmatiche. Il confronto parlamentare potrà migliorarle. Rimane però interamente aperto il problema vero: creare più lavoro, specie per i ragazzi. Inserirli rapidamente nella società, anche con salari più contenuti se necessario, ma inserirli stabilmente. Devono dare le loro energie per lo sviluppo e la competitività, e devono anche avere cittadinanza in un sistema sociale e previdenziale chiaro. Questo vale anche per l’occupazione femminile. Così come vale per chi ha più di cinquant’anni e si troverà fuori dall’azienda. Il mercato da solo non può risolvere questi problemi, e neanche l’assistenzialismo.
Paesi socialmente più avanzati e organizzati di noi li affrontano con un mix di politiche attive mirate e oculate, con il partenariato pubblico-privato, con un coinvolgimento più forte delle organizzazioni sociali e del terzo settore, con la valorizzazione dello spirito comunitario e di responsabilità sociale. Poi occorre accelerare le iniziative in mano alle pubbliche amministrazioni centrali e locali, per spendere le risorse già stanziate, per rendere più efficiente e produttiva la spesa. Così come occorre stimolare le categorie produttive ad assumere loro stesse una maggiore responsabilità nella lotta senza quartiere da condurre all’evasione fiscale.
Il governo si presenterà senza lavoro, con le sue proposte e i suoi verbali notarili al parlamento. Si sta per aprire una fase di importante campagna elettorale locale. Bisognerà ricordarsi di spiegare ai cittadini perché siamo finiti così e di chi sono le vere responsabilità. Ma bisognerà anche adoperarsi perché la politica prenda il sopravvento, senza tifare ingenuamente per le razionali attività dei professori di idraulica. Il presidente Napoletano ha richiamato l’austerità. Ci siamo dentro fino al collo. Ma spetta ai partiti e alla politica dare un senso e una prospettiva a questa difficile fase.

da Europa Quotidiano 22.03.12

“Resta aperto il problema vero: creare più lavoro”, di Michele Dau

Resta aperto il problema vero: creare più lavoro. Se c’è la siccità la priorità politica non può essere quella di affidare ad un gruppo di professori di idraulica la razionalizzazione delle tubature, dei depositi idrici, delle valvole e dei rubinetti. Urge avere più acqua a disposizione. Fuor di metafora se manca il lavoro, se l’occupazione si riduce, concentrarsi solo sulle regole e i meccanismi è molto tecnico ma assai poco politico. Il governo tecnico si appresta alla fase conclusiva dopo un lungo confronto che, impostato in modo accademico, è atterrato su proposte regolatorie fuori da un progetto complessivo per il paese. Dopo l’impatto timido delle liberalizzazioni questa è un’altra risposta debole.
Si può fotografare così la situazione che si è creata, rispetto alla quale occorre una lucida valutazione politica. La disoccupazione ha superato il 9 per cento. Quella dei giovani e delle donne è uno su tre e una su due. Il mercato del lavoro è stato indebolito e precarizzato. Lo stesso lavoro è stato posto in secondo piano. Le nostre piccole imprese, i nostri distretti produttivi sono stati lasciati soli, senza politiche di vero supporto all’integrazione, all’innovazione, all’esportazione. Le misure a sostegno della domanda interna sono state saltuarie, perché vi era un odio ideologico verso un approccio che aveva caratterizzato i governi centrosinistra. I rapporti con le forze sociali e la società civile organizzata sono stati disarticolati e, in molti casi, anche mercenarizzati.
Il risultato è che oggi non solo non c’è crescita ma c’è recessione. Abbiamo di fronte il periodo più duro da attraversare.
La situazione odierna non è figlia di un destino ingrato o del caso, ma è stata pesantemente causata e aggravata da circa un decennio di inadeguati governi del centrodestra. All’inizio degli anni duemila la crescita è stata debolissima. Dal 2008 al 2011 il quadro ha assunto tinte fosche con la crisi a lungo negata e una propaganda ossessiva sul fatto che il paese, comunque, teneva.
Grazie alla cassa integrazione (oltre 20 miliardi spesi), al lavoro nero reclamizzato. Grazie ad una ardita contabilizzazione dei patrimoni e dei risparmi privati che, divisi per il totale delle famiglie, determina una media importante. Ma che dimentica che la gran parte della ricchezza reale è concentrata nel 20 per cento delle famiglie. Dunque narcosi assistenziale e propaganda mediatica senza scrupoli. La spesa pubblica corrente è cresciuta senza controlli e qualità. Gli investimenti pubblici reali sono crollati.
La nostra politica europea è stata accantonata privilegiando relazioni bilaterali amicali con la Bielorussia, con la stessa Federazione Russa, con la Libia. La ex maggioranza si è preoccupata, con una certa ansia, anche dei familiari di Mubarak. Quando il governo Berlusconi alla fine ha mollato il parlamento era in una condizione di stallo, perché non vi era una maggioranza politica alternativa. Una larga palude, fatta di nominati senza qualità, di chi cerca comunque la ricandidatura o solo il vitalizio, impediva ogni dinamica politica parlamentare che per decenni ha assicurato una forte governabilità.
Un paese seduto guarda la conclusione di questo confronto sul mercato del lavoro che non porta lavoro e neanche speranze concrete, ma aiuta a far crescere il numero dei disoccupati e dice ai giovani che ci potranno essere condizioni contrattuali migliori per loro se e quando ci sarà lo sviluppo. Certo, non tutte le misure proposte sono sbagliate. Molte sono razionali e chirurgicamente pragmatiche. Il confronto parlamentare potrà migliorarle. Rimane però interamente aperto il problema vero: creare più lavoro, specie per i ragazzi. Inserirli rapidamente nella società, anche con salari più contenuti se necessario, ma inserirli stabilmente. Devono dare le loro energie per lo sviluppo e la competitività, e devono anche avere cittadinanza in un sistema sociale e previdenziale chiaro. Questo vale anche per l’occupazione femminile. Così come vale per chi ha più di cinquant’anni e si troverà fuori dall’azienda. Il mercato da solo non può risolvere questi problemi, e neanche l’assistenzialismo.
Paesi socialmente più avanzati e organizzati di noi li affrontano con un mix di politiche attive mirate e oculate, con il partenariato pubblico-privato, con un coinvolgimento più forte delle organizzazioni sociali e del terzo settore, con la valorizzazione dello spirito comunitario e di responsabilità sociale. Poi occorre accelerare le iniziative in mano alle pubbliche amministrazioni centrali e locali, per spendere le risorse già stanziate, per rendere più efficiente e produttiva la spesa. Così come occorre stimolare le categorie produttive ad assumere loro stesse una maggiore responsabilità nella lotta senza quartiere da condurre all’evasione fiscale.
Il governo si presenterà senza lavoro, con le sue proposte e i suoi verbali notarili al parlamento. Si sta per aprire una fase di importante campagna elettorale locale. Bisognerà ricordarsi di spiegare ai cittadini perché siamo finiti così e di chi sono le vere responsabilità. Ma bisognerà anche adoperarsi perché la politica prenda il sopravvento, senza tifare ingenuamente per le razionali attività dei professori di idraulica. Il presidente Napoletano ha richiamato l’austerità. Ci siamo dentro fino al collo. Ma spetta ai partiti e alla politica dare un senso e una prospettiva a questa difficile fase.

da Europa Quotidiano 22.03.12

“Resta aperto il problema vero: creare più lavoro”, di Michele Dau

Resta aperto il problema vero: creare più lavoro. Se c’è la siccità la priorità politica non può essere quella di affidare ad un gruppo di professori di idraulica la razionalizzazione delle tubature, dei depositi idrici, delle valvole e dei rubinetti. Urge avere più acqua a disposizione. Fuor di metafora se manca il lavoro, se l’occupazione si riduce, concentrarsi solo sulle regole e i meccanismi è molto tecnico ma assai poco politico. Il governo tecnico si appresta alla fase conclusiva dopo un lungo confronto che, impostato in modo accademico, è atterrato su proposte regolatorie fuori da un progetto complessivo per il paese. Dopo l’impatto timido delle liberalizzazioni questa è un’altra risposta debole.
Si può fotografare così la situazione che si è creata, rispetto alla quale occorre una lucida valutazione politica. La disoccupazione ha superato il 9 per cento. Quella dei giovani e delle donne è uno su tre e una su due. Il mercato del lavoro è stato indebolito e precarizzato. Lo stesso lavoro è stato posto in secondo piano. Le nostre piccole imprese, i nostri distretti produttivi sono stati lasciati soli, senza politiche di vero supporto all’integrazione, all’innovazione, all’esportazione. Le misure a sostegno della domanda interna sono state saltuarie, perché vi era un odio ideologico verso un approccio che aveva caratterizzato i governi centrosinistra. I rapporti con le forze sociali e la società civile organizzata sono stati disarticolati e, in molti casi, anche mercenarizzati.
Il risultato è che oggi non solo non c’è crescita ma c’è recessione. Abbiamo di fronte il periodo più duro da attraversare.
La situazione odierna non è figlia di un destino ingrato o del caso, ma è stata pesantemente causata e aggravata da circa un decennio di inadeguati governi del centrodestra. All’inizio degli anni duemila la crescita è stata debolissima. Dal 2008 al 2011 il quadro ha assunto tinte fosche con la crisi a lungo negata e una propaganda ossessiva sul fatto che il paese, comunque, teneva.
Grazie alla cassa integrazione (oltre 20 miliardi spesi), al lavoro nero reclamizzato. Grazie ad una ardita contabilizzazione dei patrimoni e dei risparmi privati che, divisi per il totale delle famiglie, determina una media importante. Ma che dimentica che la gran parte della ricchezza reale è concentrata nel 20 per cento delle famiglie. Dunque narcosi assistenziale e propaganda mediatica senza scrupoli. La spesa pubblica corrente è cresciuta senza controlli e qualità. Gli investimenti pubblici reali sono crollati.
La nostra politica europea è stata accantonata privilegiando relazioni bilaterali amicali con la Bielorussia, con la stessa Federazione Russa, con la Libia. La ex maggioranza si è preoccupata, con una certa ansia, anche dei familiari di Mubarak. Quando il governo Berlusconi alla fine ha mollato il parlamento era in una condizione di stallo, perché non vi era una maggioranza politica alternativa. Una larga palude, fatta di nominati senza qualità, di chi cerca comunque la ricandidatura o solo il vitalizio, impediva ogni dinamica politica parlamentare che per decenni ha assicurato una forte governabilità.
Un paese seduto guarda la conclusione di questo confronto sul mercato del lavoro che non porta lavoro e neanche speranze concrete, ma aiuta a far crescere il numero dei disoccupati e dice ai giovani che ci potranno essere condizioni contrattuali migliori per loro se e quando ci sarà lo sviluppo. Certo, non tutte le misure proposte sono sbagliate. Molte sono razionali e chirurgicamente pragmatiche. Il confronto parlamentare potrà migliorarle. Rimane però interamente aperto il problema vero: creare più lavoro, specie per i ragazzi. Inserirli rapidamente nella società, anche con salari più contenuti se necessario, ma inserirli stabilmente. Devono dare le loro energie per lo sviluppo e la competitività, e devono anche avere cittadinanza in un sistema sociale e previdenziale chiaro. Questo vale anche per l’occupazione femminile. Così come vale per chi ha più di cinquant’anni e si troverà fuori dall’azienda. Il mercato da solo non può risolvere questi problemi, e neanche l’assistenzialismo.
Paesi socialmente più avanzati e organizzati di noi li affrontano con un mix di politiche attive mirate e oculate, con il partenariato pubblico-privato, con un coinvolgimento più forte delle organizzazioni sociali e del terzo settore, con la valorizzazione dello spirito comunitario e di responsabilità sociale. Poi occorre accelerare le iniziative in mano alle pubbliche amministrazioni centrali e locali, per spendere le risorse già stanziate, per rendere più efficiente e produttiva la spesa. Così come occorre stimolare le categorie produttive ad assumere loro stesse una maggiore responsabilità nella lotta senza quartiere da condurre all’evasione fiscale.
Il governo si presenterà senza lavoro, con le sue proposte e i suoi verbali notarili al parlamento. Si sta per aprire una fase di importante campagna elettorale locale. Bisognerà ricordarsi di spiegare ai cittadini perché siamo finiti così e di chi sono le vere responsabilità. Ma bisognerà anche adoperarsi perché la politica prenda il sopravvento, senza tifare ingenuamente per le razionali attività dei professori di idraulica. Il presidente Napoletano ha richiamato l’austerità. Ci siamo dentro fino al collo. Ma spetta ai partiti e alla politica dare un senso e una prospettiva a questa difficile fase.

da Europa Quotidiano 22.03.12

"La riforma del Gattopardo", di Tito Boeri e Pietro Garibaldi

La riforma del lavoro che si va delineando ha due pregi e molti difetti. Il primo pregio è nel metodo. Sancisce, almeno sulla carta, la fine del diritto di veto delle parti sociali, che è cosa diversa dalla concertazione. Il lungo negoziato si concluderà senza firma delle parti sociali ma con un verbale in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all´esecutivo di intervenire senza il consenso delle parti sociali. embra, infatti, che si procederà non per decreto – come sin qui previsto nel caso di accordo – ma per legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il processo di attuazione delle leggi delega. Ad ogni modo la novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su materie di portata così generale.
Il secondo pregio è nell´ampiezza della riforma. I problemi da affrontare erano quattro 1) l´entrata nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato. La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi.
Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l´impressione di un intervento voluto dal Principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell´articolo 18 e l´opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo. Vediamo perché, iniziando dalla flessibilità in uscita, dall´articolo 18.
La riforma dell´articolo 18 non riduce l´incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del licenziamento. La nuova norma – stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero e ai testi circolati sino ad oggi – lascia in vigore il fronte esistente tra licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma apre un nuovo fronte che sin qui non c´era: quello della distinzione fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino ad oggi il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento economico. Con la nuova riforma questa distinzione diventa cruciale. Col licenziamento disciplinare, infatti, il lavoratore è maggiormente compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato. La distinzione fra licenziamento economico e disciplinare è nella pratica molto labile. Chi è davvero in grado di stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento disciplinare) o perché inserito in un´unità in crisi in cui non può “dare di più” (licenziamento economico)? In verità tutte e due le ragioni sono sempre vere, altrimenti l´azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento.
Insomma, con la riforma si trasferisce un potere enorme ai giudici che, d´ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni. Se il licenziamento è legittimo o illegittimo. Nel caso in cui fosse illegittimo, se è discriminatorio o non discriminatorio. Nel caso in cui non sia legittimo e non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare. Nel caso in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione o solo il risarcimento del lavoratore.
Si aumenta così l´incertezza del procedimento e molto probabilmente la sua lunghezza. Chi guadagnerà veramente da questa riforma non saranno nè le imprese, nè i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro.
Sugli ammortizzatori sociali non c´è allargamento nella platea dei potenziali beneficiari, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 250.000 persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno ad essere esclusi dagli ammortizzatori. Non c´è neanche il promesso riordino degli strumenti esistenti. Non verrà abolita la cassa integrazione straordinaria, né di fatto verrà soppressa la cassa integrazione in deroga, destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Non viene abolito il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l´indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell´edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. La recessione non è comunque il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione e la “paccata di soldi” data oggi, trasferimenti dalla fiscalità generale.
La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori precari e non. I lavori precari costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a tempo determinato che di lavori a progetto. Questa avviene aumentando il cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli ammortizzatori, l´aumento dei contributi sarebbe potuto apparire ai lavoratori come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra contributi e prestazioni sarà tutt´altro che evidente.
In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavorano in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese.
Il meccanismo di entrata principale sarà quello dell´apprendistato. è un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo. Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Inoltre le parti sociali si aspettano un alleggerimento fiscale per l´apprendistato. Quello di aver aperto il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo, poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E avrà effetti negativi sul deficit di bilancio.
In conclusione, gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente la domanda di lavoro. La vera sconfitta e il vero paradosso sarebbe proprio quello, che la grande riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il numero dei lavoratori occupati.

La Repubblica 22.03.12

“La riforma del Gattopardo”, di Tito Boeri e Pietro Garibaldi

La riforma del lavoro che si va delineando ha due pregi e molti difetti. Il primo pregio è nel metodo. Sancisce, almeno sulla carta, la fine del diritto di veto delle parti sociali, che è cosa diversa dalla concertazione. Il lungo negoziato si concluderà senza firma delle parti sociali ma con un verbale in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all´esecutivo di intervenire senza il consenso delle parti sociali. embra, infatti, che si procederà non per decreto – come sin qui previsto nel caso di accordo – ma per legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il processo di attuazione delle leggi delega. Ad ogni modo la novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su materie di portata così generale.
Il secondo pregio è nell´ampiezza della riforma. I problemi da affrontare erano quattro 1) l´entrata nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato. La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi.
Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l´impressione di un intervento voluto dal Principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell´articolo 18 e l´opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo. Vediamo perché, iniziando dalla flessibilità in uscita, dall´articolo 18.
La riforma dell´articolo 18 non riduce l´incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del licenziamento. La nuova norma – stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero e ai testi circolati sino ad oggi – lascia in vigore il fronte esistente tra licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma apre un nuovo fronte che sin qui non c´era: quello della distinzione fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino ad oggi il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento economico. Con la nuova riforma questa distinzione diventa cruciale. Col licenziamento disciplinare, infatti, il lavoratore è maggiormente compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato. La distinzione fra licenziamento economico e disciplinare è nella pratica molto labile. Chi è davvero in grado di stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento disciplinare) o perché inserito in un´unità in crisi in cui non può “dare di più” (licenziamento economico)? In verità tutte e due le ragioni sono sempre vere, altrimenti l´azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento.
Insomma, con la riforma si trasferisce un potere enorme ai giudici che, d´ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni. Se il licenziamento è legittimo o illegittimo. Nel caso in cui fosse illegittimo, se è discriminatorio o non discriminatorio. Nel caso in cui non sia legittimo e non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare. Nel caso in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione o solo il risarcimento del lavoratore.
Si aumenta così l´incertezza del procedimento e molto probabilmente la sua lunghezza. Chi guadagnerà veramente da questa riforma non saranno nè le imprese, nè i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro.
Sugli ammortizzatori sociali non c´è allargamento nella platea dei potenziali beneficiari, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 250.000 persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno ad essere esclusi dagli ammortizzatori. Non c´è neanche il promesso riordino degli strumenti esistenti. Non verrà abolita la cassa integrazione straordinaria, né di fatto verrà soppressa la cassa integrazione in deroga, destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Non viene abolito il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l´indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell´edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. La recessione non è comunque il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione e la “paccata di soldi” data oggi, trasferimenti dalla fiscalità generale.
La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori precari e non. I lavori precari costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a tempo determinato che di lavori a progetto. Questa avviene aumentando il cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli ammortizzatori, l´aumento dei contributi sarebbe potuto apparire ai lavoratori come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra contributi e prestazioni sarà tutt´altro che evidente.
In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavorano in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese.
Il meccanismo di entrata principale sarà quello dell´apprendistato. è un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo. Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Inoltre le parti sociali si aspettano un alleggerimento fiscale per l´apprendistato. Quello di aver aperto il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo, poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E avrà effetti negativi sul deficit di bilancio.
In conclusione, gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente la domanda di lavoro. La vera sconfitta e il vero paradosso sarebbe proprio quello, che la grande riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il numero dei lavoratori occupati.

La Repubblica 22.03.12

“La riforma del Gattopardo”, di Tito Boeri e Pietro Garibaldi

La riforma del lavoro che si va delineando ha due pregi e molti difetti. Il primo pregio è nel metodo. Sancisce, almeno sulla carta, la fine del diritto di veto delle parti sociali, che è cosa diversa dalla concertazione. Il lungo negoziato si concluderà senza firma delle parti sociali ma con un verbale in cui si annotano le differenti posizioni. E poi il governo procederà comunque. Staremo a vedere se il Parlamento permetterà all´esecutivo di intervenire senza il consenso delle parti sociali. embra, infatti, che si procederà non per decreto – come sin qui previsto nel caso di accordo – ma per legge delega e sappiamo quanto lungo, tortuoso e spesso inconcludente sia il processo di attuazione delle leggi delega. Ad ogni modo la novità è importante e positiva: le parti sociali non possono porre il veto su materie di portata così generale.
Il secondo pregio è nell´ampiezza della riforma. I problemi da affrontare erano quattro 1) l´entrata nel mercato del lavoro 2) la cosiddetta “flessibilità in uscita” 3) il riordino degli ammortizzatori sociali e 4) il dualismo fra lavoratori precari e lavoratori assunti con i contratti di lavoro a tempo indeterminato. La riforma indubbiamente affronta tutti questi temi.
Purtroppo questa ampiezza avviene a scapito della profondità e si ha come l´impressione di un intervento voluto dal Principe di Salina, “affinché tutto cambi perché nulla cambi”, per accontentare gli investitori esteri con il tabù infranto dell´articolo 18 e l´opposizione ricercata della Cgil (segnale del fatto che “è una riforma vera”), ma volendo di fatto conservare lo status quo. Vediamo perché, iniziando dalla flessibilità in uscita, dall´articolo 18.
La riforma dell´articolo 18 non riduce l´incertezza per le imprese dal partecipare alla roulette russa del licenziamento. La nuova norma – stando a quanto dichiarato dal ministro Fornero e ai testi circolati sino ad oggi – lascia in vigore il fronte esistente tra licenziamento giuridicamente legittimo e illegittimo, ma apre un nuovo fronte che sin qui non c´era: quello della distinzione fra licenziamenti economici individuali e licenziamenti disciplinari. Fino ad oggi il lavoratore licenziato in maniera illegittima non aveva interesse a chiedere di far valere la distinzione fra licenziamento disciplinare e licenziamento economico. Con la nuova riforma questa distinzione diventa cruciale. Col licenziamento disciplinare, infatti, il lavoratore è maggiormente compensato e, giudice permettendo, può essere reintegrato. La distinzione fra licenziamento economico e disciplinare è nella pratica molto labile. Chi è davvero in grado di stabilire se un lavoratore è poco produttivo perché lavora male (licenziamento disciplinare) o perché inserito in un´unità in crisi in cui non può “dare di più” (licenziamento economico)? In verità tutte e due le ragioni sono sempre vere, altrimenti l´azienda non lo avrebbe licenziato. Per questo il contenzioso inevitabilmente finirà per riguardare anche la qualifica, economica o disciplinare, del licenziamento.
Insomma, con la riforma si trasferisce un potere enorme ai giudici che, d´ora in poi, dovranno prendere le seguenti decisioni. Se il licenziamento è legittimo o illegittimo. Nel caso in cui fosse illegittimo, se è discriminatorio o non discriminatorio. Nel caso in cui non sia legittimo e non discriminatorio, se il licenziamento è economico o disciplinare. Nel caso in cui il licenziamento sia disciplinare, se si deve imporre la reintegrazione o solo il risarcimento del lavoratore.
Si aumenta così l´incertezza del procedimento e molto probabilmente la sua lunghezza. Chi guadagnerà veramente da questa riforma non saranno nè le imprese, nè i lavoratori, bensì gli avvocati specializzati in cause di lavoro.
Sugli ammortizzatori sociali non c´è allargamento nella platea dei potenziali beneficiari, estesa dalla riforma ai soli apprendisti e artisti-dipendenti, meno di 250.000 persone in tutto. I lavoratori a progetto e i precari continueranno ad essere esclusi dagli ammortizzatori. Non c´è neanche il promesso riordino degli strumenti esistenti. Non verrà abolita la cassa integrazione straordinaria, né di fatto verrà soppressa la cassa integrazione in deroga, destinata a trasformarsi in un ampio numero di fondi di solidarietà, presumibilmente uno per settore produttivo. Non viene abolito il sussidio di disoccupazione a requisiti ridotti e l´indennità speciale per i lavoratori agricoli e nell´edilizia, che servono oggi per lo più a integrare i salari di chi già lavora, piuttosto che ad aiutare chi ha perso il lavoro e ne sta cercando un altro. La recessione non è comunque il momento migliore per avviare queste riforme. Si rischia, infatti, di far decollare nuovi strumenti che sono strutturalmente in passivo e che richiederanno, ben oltre la recessione e la “paccata di soldi” data oggi, trasferimenti dalla fiscalità generale.
La riforma ridurrà in parte le differenze tra lavori precari e non. I lavori precari costeranno di più in termini di contributi, sia nel caso di contratti a tempo determinato che di lavori a progetto. Questa avviene aumentando il cuneo fiscale, la differenza tra costo del lavoro pagato dalle imprese e reddito netto percepito dal lavoratore. Nel caso di un vero riordino degli ammortizzatori, l´aumento dei contributi sarebbe potuto apparire ai lavoratori come un premio assicurativo piuttosto che una tassa. Così il legame fra contributi e prestazioni sarà tutt´altro che evidente.
In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavorano in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese.
Il meccanismo di entrata principale sarà quello dell´apprendistato. è un contratto che offre poche protezioni durante il periodo formativo, perché può essere interrotto al termine del periodo di apprendistato senza alcun indennizzo. Inoltre si applica soltanto ai giovani fino a 29 anni, mentre oggi più del 50 per cento dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Inoltre le parti sociali si aspettano un alleggerimento fiscale per l´apprendistato. Quello di aver aperto il portafoglio è stato forse il maggiore errore negoziale fatto del governo, poiché non è servito nemmeno a “comprare” il consenso delle parti sociali. E avrà effetti negativi sul deficit di bilancio.
In conclusione, gli interventi sul dualismo possono peggiorare la condizione dei lavoratori duali e aggravano i costi delle imprese senza offrire una vera e propria nuova modalità contrattuale in ingresso. Tutto questo rischia di ridurre fortemente la domanda di lavoro. La vera sconfitta e il vero paradosso sarebbe proprio quello, che la grande riforma non solo cambi tutto per non cambiare nulla, ma addirittura riduca il numero dei lavoratori occupati.

La Repubblica 22.03.12