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"Ambrosoli "sgradito" al ricordo del padre" di Michele Brambilla

Al bon ton della politica mancava questo: invitare il figlio di una vittima della mafia a non partecipare alla commemorazione del padre. Lacuna colmata ieri mattina dalla Regione Lombardia, che ha rivolto un gentile «lei è meglio che non si faccia vedere» a Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana ucciso l’11 luglio 1979 su ordine di Michele Sindona.

Chi ha avuto lo stomaco di arrivare a tanto? Ai vertici della Regione Lombardia tutti tacciono, almeno formalmente: informalmente, è partito un rimpallarsi di responsabilità fra presidenza del consiglio (il leghista Boni) e presidenza della giunta (Formigoni). Ma stiamo ai fatti.

Ieri era la prima «Giornata regionale dell’impegno contro le mafie in ricordo delle vittime». Programma: proiezione al Pirellone, a trecento ragazzi delle scuole lombarde, del film «Un eroe borghese», dedicato appunto a Giorgio Ambrosoli. C’era l’ex giudice Giuliano Turone, c’era l’assessore regionale Giulio Boscagli che ha portato il saluto di Formigoni, c’era Francesca Ambrosoli figlia di Giorgio. Ma non c’era Umberto, il figlio. Come mai?

Secondo l’associazione Saveria Antiochia Omicron, che collabora con la Regione per questa giornata contro la mafia, Umberto Ambrosoli è vittima di una ritorsione. Il sito dell’associazione, http://www.centrostudisao.org/, esprime «indignazione perché l’ufficio di presidenza della Regione ha rifiutato la partecipazione di Umberto Ambrosoli, a causa delle sue dichiarazioni a Repubblica sulla necessità di azzerare la giunta». Qualche giorno fa infatti Umberto Ambrosoli aveva rilasciato un’intervista sulla raffica di scandali e di inchieste giudiziarie che ha investito il Pirellone, sostenendo fra l’altro che Formigoni farebbe meglio ad «azzerare la giunta».

Sta di fatto che ieri Umberto Ambrosoli avrebbe dovuto parlare ai ragazzi e invece non c’era. Jole Garruti, direttrice di Saveria Aniochia Omicron, la racconta così: «Lunedì mattina Carlo Borghetti, consigliere regionale del Pd, mi ha detto che l’ufficio di presidenza del consiglio non gradiva la presenza del figlio. Ho chiamato allora un altro consigliere regionale, il leghista Massimiliano Romeo, e ho avuto conferma del “non gradimento”. Gli ho risposto che mi sembrava assurdo, e lui mi ha assicurato che avrebbe fatto presente il problema all’ufficio di presidenza. Morale: nel pomeriggio mi arriva il programma definitivo e il nome di Umberto Ambrosoli non c’è». Una censura, sostiene la direttrice, provocata proprio dall’intervista a Repubblica.

È così? Massimiliano Romeo dà una versione un po’ diversa: «È vero che, parlando con Jole Garruti, ho detto che l’intervista di Umberto Ambrosoli era stata sgradevole, e che certe cose se le poteva risparmiare. Ho detto che eravamo un po’ contrariati. Ma non mi sono mai sognato di dire che c’era un veto dell’ufficio di presidenza. Ieri è venuta la sorella, Francesca, ed è stata accolta benissimo». Sorella che però non aveva rilasciato interviste sul Pirellone. «Sarebbe stato accolto allo stesso modo anche il fratello», assicura Romeo, che parla di «polemica politica pretestuosa». Jole Garruti in serata ha commentato lo scaricabarile parlando sul suo sito di «mistero su chi non ha voluto che ci fosse Umberto Ambrosoli, visto che l’ufficio di presidenza nega tale responsabilità».

E lui, Umberto Ambrosoli? Non getta benzina sul fuoco: «È un episodio spiacevole, sul quale bisogna però evitare le polemiche. Prevale il fatto che tanti ragazzi hanno avuto modo di vedere il film». L’unica lezione di bon ton viene da lui, «lo sgradito».

La Stampa 21.03.12

“Ambrosoli “sgradito” al ricordo del padre” di Michele Brambilla

Al bon ton della politica mancava questo: invitare il figlio di una vittima della mafia a non partecipare alla commemorazione del padre. Lacuna colmata ieri mattina dalla Regione Lombardia, che ha rivolto un gentile «lei è meglio che non si faccia vedere» a Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana ucciso l’11 luglio 1979 su ordine di Michele Sindona.

Chi ha avuto lo stomaco di arrivare a tanto? Ai vertici della Regione Lombardia tutti tacciono, almeno formalmente: informalmente, è partito un rimpallarsi di responsabilità fra presidenza del consiglio (il leghista Boni) e presidenza della giunta (Formigoni). Ma stiamo ai fatti.

Ieri era la prima «Giornata regionale dell’impegno contro le mafie in ricordo delle vittime». Programma: proiezione al Pirellone, a trecento ragazzi delle scuole lombarde, del film «Un eroe borghese», dedicato appunto a Giorgio Ambrosoli. C’era l’ex giudice Giuliano Turone, c’era l’assessore regionale Giulio Boscagli che ha portato il saluto di Formigoni, c’era Francesca Ambrosoli figlia di Giorgio. Ma non c’era Umberto, il figlio. Come mai?

Secondo l’associazione Saveria Antiochia Omicron, che collabora con la Regione per questa giornata contro la mafia, Umberto Ambrosoli è vittima di una ritorsione. Il sito dell’associazione, http://www.centrostudisao.org/, esprime «indignazione perché l’ufficio di presidenza della Regione ha rifiutato la partecipazione di Umberto Ambrosoli, a causa delle sue dichiarazioni a Repubblica sulla necessità di azzerare la giunta». Qualche giorno fa infatti Umberto Ambrosoli aveva rilasciato un’intervista sulla raffica di scandali e di inchieste giudiziarie che ha investito il Pirellone, sostenendo fra l’altro che Formigoni farebbe meglio ad «azzerare la giunta».

Sta di fatto che ieri Umberto Ambrosoli avrebbe dovuto parlare ai ragazzi e invece non c’era. Jole Garruti, direttrice di Saveria Aniochia Omicron, la racconta così: «Lunedì mattina Carlo Borghetti, consigliere regionale del Pd, mi ha detto che l’ufficio di presidenza del consiglio non gradiva la presenza del figlio. Ho chiamato allora un altro consigliere regionale, il leghista Massimiliano Romeo, e ho avuto conferma del “non gradimento”. Gli ho risposto che mi sembrava assurdo, e lui mi ha assicurato che avrebbe fatto presente il problema all’ufficio di presidenza. Morale: nel pomeriggio mi arriva il programma definitivo e il nome di Umberto Ambrosoli non c’è». Una censura, sostiene la direttrice, provocata proprio dall’intervista a Repubblica.

È così? Massimiliano Romeo dà una versione un po’ diversa: «È vero che, parlando con Jole Garruti, ho detto che l’intervista di Umberto Ambrosoli era stata sgradevole, e che certe cose se le poteva risparmiare. Ho detto che eravamo un po’ contrariati. Ma non mi sono mai sognato di dire che c’era un veto dell’ufficio di presidenza. Ieri è venuta la sorella, Francesca, ed è stata accolta benissimo». Sorella che però non aveva rilasciato interviste sul Pirellone. «Sarebbe stato accolto allo stesso modo anche il fratello», assicura Romeo, che parla di «polemica politica pretestuosa». Jole Garruti in serata ha commentato lo scaricabarile parlando sul suo sito di «mistero su chi non ha voluto che ci fosse Umberto Ambrosoli, visto che l’ufficio di presidenza nega tale responsabilità».

E lui, Umberto Ambrosoli? Non getta benzina sul fuoco: «È un episodio spiacevole, sul quale bisogna però evitare le polemiche. Prevale il fatto che tanti ragazzi hanno avuto modo di vedere il film». L’unica lezione di bon ton viene da lui, «lo sgradito».

La Stampa 21.03.12

“Ambrosoli “sgradito” al ricordo del padre” di Michele Brambilla

Al bon ton della politica mancava questo: invitare il figlio di una vittima della mafia a non partecipare alla commemorazione del padre. Lacuna colmata ieri mattina dalla Regione Lombardia, che ha rivolto un gentile «lei è meglio che non si faccia vedere» a Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana ucciso l’11 luglio 1979 su ordine di Michele Sindona.

Chi ha avuto lo stomaco di arrivare a tanto? Ai vertici della Regione Lombardia tutti tacciono, almeno formalmente: informalmente, è partito un rimpallarsi di responsabilità fra presidenza del consiglio (il leghista Boni) e presidenza della giunta (Formigoni). Ma stiamo ai fatti.

Ieri era la prima «Giornata regionale dell’impegno contro le mafie in ricordo delle vittime». Programma: proiezione al Pirellone, a trecento ragazzi delle scuole lombarde, del film «Un eroe borghese», dedicato appunto a Giorgio Ambrosoli. C’era l’ex giudice Giuliano Turone, c’era l’assessore regionale Giulio Boscagli che ha portato il saluto di Formigoni, c’era Francesca Ambrosoli figlia di Giorgio. Ma non c’era Umberto, il figlio. Come mai?

Secondo l’associazione Saveria Antiochia Omicron, che collabora con la Regione per questa giornata contro la mafia, Umberto Ambrosoli è vittima di una ritorsione. Il sito dell’associazione, http://www.centrostudisao.org/, esprime «indignazione perché l’ufficio di presidenza della Regione ha rifiutato la partecipazione di Umberto Ambrosoli, a causa delle sue dichiarazioni a Repubblica sulla necessità di azzerare la giunta». Qualche giorno fa infatti Umberto Ambrosoli aveva rilasciato un’intervista sulla raffica di scandali e di inchieste giudiziarie che ha investito il Pirellone, sostenendo fra l’altro che Formigoni farebbe meglio ad «azzerare la giunta».

Sta di fatto che ieri Umberto Ambrosoli avrebbe dovuto parlare ai ragazzi e invece non c’era. Jole Garruti, direttrice di Saveria Aniochia Omicron, la racconta così: «Lunedì mattina Carlo Borghetti, consigliere regionale del Pd, mi ha detto che l’ufficio di presidenza del consiglio non gradiva la presenza del figlio. Ho chiamato allora un altro consigliere regionale, il leghista Massimiliano Romeo, e ho avuto conferma del “non gradimento”. Gli ho risposto che mi sembrava assurdo, e lui mi ha assicurato che avrebbe fatto presente il problema all’ufficio di presidenza. Morale: nel pomeriggio mi arriva il programma definitivo e il nome di Umberto Ambrosoli non c’è». Una censura, sostiene la direttrice, provocata proprio dall’intervista a Repubblica.

È così? Massimiliano Romeo dà una versione un po’ diversa: «È vero che, parlando con Jole Garruti, ho detto che l’intervista di Umberto Ambrosoli era stata sgradevole, e che certe cose se le poteva risparmiare. Ho detto che eravamo un po’ contrariati. Ma non mi sono mai sognato di dire che c’era un veto dell’ufficio di presidenza. Ieri è venuta la sorella, Francesca, ed è stata accolta benissimo». Sorella che però non aveva rilasciato interviste sul Pirellone. «Sarebbe stato accolto allo stesso modo anche il fratello», assicura Romeo, che parla di «polemica politica pretestuosa». Jole Garruti in serata ha commentato lo scaricabarile parlando sul suo sito di «mistero su chi non ha voluto che ci fosse Umberto Ambrosoli, visto che l’ufficio di presidenza nega tale responsabilità».

E lui, Umberto Ambrosoli? Non getta benzina sul fuoco: «È un episodio spiacevole, sul quale bisogna però evitare le polemiche. Prevale il fatto che tanti ragazzi hanno avuto modo di vedere il film». L’unica lezione di bon ton viene da lui, «lo sgradito».

La Stampa 21.03.12

"Il sangue e il voto", di Bernardo Valli

Per ventiquattro ore, dopo l´uccisione dei bambini ebrei di Tolosa, la società francese ha avuto una condotta davvero esemplare. Nonostante il clima politico rovente della campagna presidenziale in corso (si voterà in due tempi il 22 aprile e il 6 maggio) nessun uomo politico di rilievo «ha aggiunto l´ignobile all´orribile», secondo l´espressione di Alain Juppé, il ministro degli Esteri. Nessuno, durante il primo giorno, ha osato strumentalizzare quel sangue. Il quale poteva offrire spunti polemici ai candidati all´Eliseo, dell´uno o dell´altro campo. Se l´autore della strage, cominciata con l´assassinio di quattro militari, paracadutisti, alcuni dei quali di origine magrebina, l´11 e il 15 marzo, prima a Tolosa e poi a Montauban, si fosse rivelato di estrema destra la sinistra ne avrebbe potuto trarre seri argomenti. Ma quasi subito gli inquirenti hanno intravisto in quegli omicidi, ritmati a distanza di quattro giorni, l´impronta “fondamentalista”. Fin da lunedì era infatti privilegiata la pista di un salafita, ansioso di vendicare l´Afghanistan con l´uccisione dei parà colpevoli di partecipare a quella guerra e di colpire i piccoli ebrei, franco-israeliani, per il conflitto in Palestina. Quando è emerso il nome del franco-algerino Mohammed Merah, i vertici della società politica, dunque i principali candidati alla presidenza, in testa ovviamente il presidente-candidato Sarkozy, conoscevano già la natura ideologica del delitto, maturato in un giovane disoccupato, con qualche piccolo reato alle spalle e un mese di prigione da scontare, un giovane arabo spinto dal fanatismo a imprese spettacolari, capaci di dare notorietà.
Non si trattava dunque di un serial killer animato da una generica fobia, da un raptus omicida, e ispirato dall´atmosfera prevalente nelle nostre società, ma di un assassino al quale si poteva aggiudicare un´ideologia. Un´identità ibrida, confusa, da ricostruire ricorrendo al ricordo di nonni e padri sottomessi al dominio coloniale della Francia, della quale lui, Mohammed, era diventato un cittadino. Un cittadino frustrato e senza lavoro. Poi il mito di Al Qaeda, sinonimo di rivolta, di sfida per un giovane musulmano nato in Europa. Il terrorismo era diventata un´impresa avventurosa. Le vantate brevi esperienze in Pakistan e in Afghanistan sono ben lontane dal provare una sua concreta affiliazione all´organizzazione creata da Bin Laden.
Stando agli amici Mohammed Merah era un “lupo solitario”. Per il suo avvocato era «dolce, aveva una faccia d´angelo e un linguaggio educato». Nascondeva bene la ferocia che l´ha condotto a uccidere dei bambini a sangue freddo. Ma chi gli ha dato le armi? Chi gli ha dato i soldi per comperarle? E quelli per affittare due automobili, come ha detto ai poliziotti d´élite del Raid (unità di Ricerca, Assistenza, Intervento e Dissuasione) che lo assediavano e volevano prenderlo vivo, nel quartiere di Coté Pavée, a Tolosa? Strano lupo solitario, con un arsenale a disposizione. E anche strano jihadista. Sempre ai poliziotti ha detto di non avere l´animo di un kamikaze e che quindi non si sarebbe suicidato. I compagni del quartiere hanno raccontato che Mohammed voleva a un certo punto arruolarsi nella Legione Straniera. Ma fu rifiutato. Per questo ha poi puntato su Al Qaeda. Uno sbandato. Un piccolo delinquente mitomane che con la sua azione potrebbe influenzare l´elezione del futuro presidente della Quinta Repubblica.
Proprio in questi giorni si celebra il cinquantenario degli accordi di Evian che condussero tre mesi dopo all´indipendenza dell´Algeria. La fine di quella guerra (1954-1962) ha portato in Francia tanti ebrei sefarditi, al punto che la comunità ebraica è adesso la più numerosa (seicentomila) dopo quelle di Israele e degli Stati Uniti. E al tempo stesso i musulmani, in gran parte algerini, già cittadini francesi o ancora immigrati, si aggirano sui sei milioni. La cifra è approssimativa perché la legge proibisce le statistiche religiose. Mohammed Merah appartiene a una generazione di immigrati nata in Francia.
Nella sua mente si sono accumulate le vecchie passioni del periodo coloniale ereditate da padri e nonni, e quelle attuali, bollenti, del problema israelo-palestinese. L´irrisolto dramma mediorientale ha dei riflessi sulle due grandi comunità. In quella musulmana e in quella ebraica che, all´ombra della bandiera francese, vivono una accanto all´altra. Lo Stato accentratore, giacobino, condanna il comunitarismo come un grave peccato anglosassone, e tuttavia per certi aspetti la tenzone ebrei-musulmani si è trasferita in Francia. E alimenta passioni che si mischiano a quelle locali, indigene, attuali. Politiche e sociali. Le tendenze anti-immigrati sono sfruttate dai partiti di destra e di estrema destra. E dunque dai rispettivi candidati alla presidenza. Nonostante gli argomenti offerti dai delitti avvenuti nel Sud Ovest, in particolare quelli agghiaccianti di Tolosa, la campagna elettorale non ha aggiunto l´ignobile all´orrore. Al punto che Jean Daniel, nato in Algeria da una famiglia ebrea, e fedele in egual misura alle sue origini e alla ragione repubblicana, non si è trattenuto dall´esprimere ammirazione. E ha scritto: «Con una forza impeccabile, quasi con rabbia, la nazione francese ha affermato la propria esistenza davanti all´orrore».
Ma la condotta esemplare è arrivata a stento alla fine della tregua elettorale, decisa da Nicolas Sarkozy e da François Hollande, i due principali candidati. Non ha retto più di ventiquattro ore. Doveva scadere ieri, mercoledì. Di fatto è scaduta quando è stata resa pubblica l´identità dell´assassino. Dichiarandosi «uno di Al Qaeda», un islamista radicale, meglio un jihadista, nella versione guerriera, terroristica, Mohammed Merah ha dato il via a un´altra campagna elettorale. Marine Le Pen è stata la prima a infrangere l´iniziale condotta esemplare della società politica. La candidata alla presidenza del Front National ha subito preso l´assassino islamista come una prova vivente dell´incapacità di Sarkozy di combattere il terrorismo. Il quale è per lei, contraria all´immigrazione, in particolare a quella arabo-musulmana, implicitamente annidato nelle masse magrebine che «occupano la Francia». Un comunicato del Front National denuncia «i farabutti» che l´hanno accusato di razzismo. Marine Le Pen non mancherà di argomenti nei prossimi comizi.
Mohammed Merah ha tuttavia favorito elettoralmente soprattutto Nicolas Sarkozy. Gli ha dato l´occasione di dimostrare la sua fermezza e il suo dinamismo in un momento critico. E in questi frangenti il presidente-candidato dà il meglio di se stesso. È deciso e ha i riflessi pronti. Nelle ultime ore ha predicato l´unità del Paese, ha ricevuto insieme le autorità religiose musulmane ed ebraiche, ha invitato a «non cedere alla confusione e alla vendetta», è corso a Tolosa per visitare i poliziotti che accerchiavano Mohammed Merah e a Montauban per assistere al funerale dei paracadutisti, ha visitato una scuola e ha presieduto un Consiglio dei ministri. È apparso insomma il presidente capace di garantire la sicurezza del Paese. Questo non farà dimenticare il presidente amico dei ricchi e incline a comportamenti che non si addicono a un capo dello Stato francese, ma renderà meno facile la vittoria quasi annunciata di François Hollande, il candidato socialista.

La Repubblica 22.03.12

“Il sangue e il voto”, di Bernardo Valli

Per ventiquattro ore, dopo l´uccisione dei bambini ebrei di Tolosa, la società francese ha avuto una condotta davvero esemplare. Nonostante il clima politico rovente della campagna presidenziale in corso (si voterà in due tempi il 22 aprile e il 6 maggio) nessun uomo politico di rilievo «ha aggiunto l´ignobile all´orribile», secondo l´espressione di Alain Juppé, il ministro degli Esteri. Nessuno, durante il primo giorno, ha osato strumentalizzare quel sangue. Il quale poteva offrire spunti polemici ai candidati all´Eliseo, dell´uno o dell´altro campo. Se l´autore della strage, cominciata con l´assassinio di quattro militari, paracadutisti, alcuni dei quali di origine magrebina, l´11 e il 15 marzo, prima a Tolosa e poi a Montauban, si fosse rivelato di estrema destra la sinistra ne avrebbe potuto trarre seri argomenti. Ma quasi subito gli inquirenti hanno intravisto in quegli omicidi, ritmati a distanza di quattro giorni, l´impronta “fondamentalista”. Fin da lunedì era infatti privilegiata la pista di un salafita, ansioso di vendicare l´Afghanistan con l´uccisione dei parà colpevoli di partecipare a quella guerra e di colpire i piccoli ebrei, franco-israeliani, per il conflitto in Palestina. Quando è emerso il nome del franco-algerino Mohammed Merah, i vertici della società politica, dunque i principali candidati alla presidenza, in testa ovviamente il presidente-candidato Sarkozy, conoscevano già la natura ideologica del delitto, maturato in un giovane disoccupato, con qualche piccolo reato alle spalle e un mese di prigione da scontare, un giovane arabo spinto dal fanatismo a imprese spettacolari, capaci di dare notorietà.
Non si trattava dunque di un serial killer animato da una generica fobia, da un raptus omicida, e ispirato dall´atmosfera prevalente nelle nostre società, ma di un assassino al quale si poteva aggiudicare un´ideologia. Un´identità ibrida, confusa, da ricostruire ricorrendo al ricordo di nonni e padri sottomessi al dominio coloniale della Francia, della quale lui, Mohammed, era diventato un cittadino. Un cittadino frustrato e senza lavoro. Poi il mito di Al Qaeda, sinonimo di rivolta, di sfida per un giovane musulmano nato in Europa. Il terrorismo era diventata un´impresa avventurosa. Le vantate brevi esperienze in Pakistan e in Afghanistan sono ben lontane dal provare una sua concreta affiliazione all´organizzazione creata da Bin Laden.
Stando agli amici Mohammed Merah era un “lupo solitario”. Per il suo avvocato era «dolce, aveva una faccia d´angelo e un linguaggio educato». Nascondeva bene la ferocia che l´ha condotto a uccidere dei bambini a sangue freddo. Ma chi gli ha dato le armi? Chi gli ha dato i soldi per comperarle? E quelli per affittare due automobili, come ha detto ai poliziotti d´élite del Raid (unità di Ricerca, Assistenza, Intervento e Dissuasione) che lo assediavano e volevano prenderlo vivo, nel quartiere di Coté Pavée, a Tolosa? Strano lupo solitario, con un arsenale a disposizione. E anche strano jihadista. Sempre ai poliziotti ha detto di non avere l´animo di un kamikaze e che quindi non si sarebbe suicidato. I compagni del quartiere hanno raccontato che Mohammed voleva a un certo punto arruolarsi nella Legione Straniera. Ma fu rifiutato. Per questo ha poi puntato su Al Qaeda. Uno sbandato. Un piccolo delinquente mitomane che con la sua azione potrebbe influenzare l´elezione del futuro presidente della Quinta Repubblica.
Proprio in questi giorni si celebra il cinquantenario degli accordi di Evian che condussero tre mesi dopo all´indipendenza dell´Algeria. La fine di quella guerra (1954-1962) ha portato in Francia tanti ebrei sefarditi, al punto che la comunità ebraica è adesso la più numerosa (seicentomila) dopo quelle di Israele e degli Stati Uniti. E al tempo stesso i musulmani, in gran parte algerini, già cittadini francesi o ancora immigrati, si aggirano sui sei milioni. La cifra è approssimativa perché la legge proibisce le statistiche religiose. Mohammed Merah appartiene a una generazione di immigrati nata in Francia.
Nella sua mente si sono accumulate le vecchie passioni del periodo coloniale ereditate da padri e nonni, e quelle attuali, bollenti, del problema israelo-palestinese. L´irrisolto dramma mediorientale ha dei riflessi sulle due grandi comunità. In quella musulmana e in quella ebraica che, all´ombra della bandiera francese, vivono una accanto all´altra. Lo Stato accentratore, giacobino, condanna il comunitarismo come un grave peccato anglosassone, e tuttavia per certi aspetti la tenzone ebrei-musulmani si è trasferita in Francia. E alimenta passioni che si mischiano a quelle locali, indigene, attuali. Politiche e sociali. Le tendenze anti-immigrati sono sfruttate dai partiti di destra e di estrema destra. E dunque dai rispettivi candidati alla presidenza. Nonostante gli argomenti offerti dai delitti avvenuti nel Sud Ovest, in particolare quelli agghiaccianti di Tolosa, la campagna elettorale non ha aggiunto l´ignobile all´orrore. Al punto che Jean Daniel, nato in Algeria da una famiglia ebrea, e fedele in egual misura alle sue origini e alla ragione repubblicana, non si è trattenuto dall´esprimere ammirazione. E ha scritto: «Con una forza impeccabile, quasi con rabbia, la nazione francese ha affermato la propria esistenza davanti all´orrore».
Ma la condotta esemplare è arrivata a stento alla fine della tregua elettorale, decisa da Nicolas Sarkozy e da François Hollande, i due principali candidati. Non ha retto più di ventiquattro ore. Doveva scadere ieri, mercoledì. Di fatto è scaduta quando è stata resa pubblica l´identità dell´assassino. Dichiarandosi «uno di Al Qaeda», un islamista radicale, meglio un jihadista, nella versione guerriera, terroristica, Mohammed Merah ha dato il via a un´altra campagna elettorale. Marine Le Pen è stata la prima a infrangere l´iniziale condotta esemplare della società politica. La candidata alla presidenza del Front National ha subito preso l´assassino islamista come una prova vivente dell´incapacità di Sarkozy di combattere il terrorismo. Il quale è per lei, contraria all´immigrazione, in particolare a quella arabo-musulmana, implicitamente annidato nelle masse magrebine che «occupano la Francia». Un comunicato del Front National denuncia «i farabutti» che l´hanno accusato di razzismo. Marine Le Pen non mancherà di argomenti nei prossimi comizi.
Mohammed Merah ha tuttavia favorito elettoralmente soprattutto Nicolas Sarkozy. Gli ha dato l´occasione di dimostrare la sua fermezza e il suo dinamismo in un momento critico. E in questi frangenti il presidente-candidato dà il meglio di se stesso. È deciso e ha i riflessi pronti. Nelle ultime ore ha predicato l´unità del Paese, ha ricevuto insieme le autorità religiose musulmane ed ebraiche, ha invitato a «non cedere alla confusione e alla vendetta», è corso a Tolosa per visitare i poliziotti che accerchiavano Mohammed Merah e a Montauban per assistere al funerale dei paracadutisti, ha visitato una scuola e ha presieduto un Consiglio dei ministri. È apparso insomma il presidente capace di garantire la sicurezza del Paese. Questo non farà dimenticare il presidente amico dei ricchi e incline a comportamenti che non si addicono a un capo dello Stato francese, ma renderà meno facile la vittoria quasi annunciata di François Hollande, il candidato socialista.

La Repubblica 22.03.12

“Il sangue e il voto”, di Bernardo Valli

Per ventiquattro ore, dopo l´uccisione dei bambini ebrei di Tolosa, la società francese ha avuto una condotta davvero esemplare. Nonostante il clima politico rovente della campagna presidenziale in corso (si voterà in due tempi il 22 aprile e il 6 maggio) nessun uomo politico di rilievo «ha aggiunto l´ignobile all´orribile», secondo l´espressione di Alain Juppé, il ministro degli Esteri. Nessuno, durante il primo giorno, ha osato strumentalizzare quel sangue. Il quale poteva offrire spunti polemici ai candidati all´Eliseo, dell´uno o dell´altro campo. Se l´autore della strage, cominciata con l´assassinio di quattro militari, paracadutisti, alcuni dei quali di origine magrebina, l´11 e il 15 marzo, prima a Tolosa e poi a Montauban, si fosse rivelato di estrema destra la sinistra ne avrebbe potuto trarre seri argomenti. Ma quasi subito gli inquirenti hanno intravisto in quegli omicidi, ritmati a distanza di quattro giorni, l´impronta “fondamentalista”. Fin da lunedì era infatti privilegiata la pista di un salafita, ansioso di vendicare l´Afghanistan con l´uccisione dei parà colpevoli di partecipare a quella guerra e di colpire i piccoli ebrei, franco-israeliani, per il conflitto in Palestina. Quando è emerso il nome del franco-algerino Mohammed Merah, i vertici della società politica, dunque i principali candidati alla presidenza, in testa ovviamente il presidente-candidato Sarkozy, conoscevano già la natura ideologica del delitto, maturato in un giovane disoccupato, con qualche piccolo reato alle spalle e un mese di prigione da scontare, un giovane arabo spinto dal fanatismo a imprese spettacolari, capaci di dare notorietà.
Non si trattava dunque di un serial killer animato da una generica fobia, da un raptus omicida, e ispirato dall´atmosfera prevalente nelle nostre società, ma di un assassino al quale si poteva aggiudicare un´ideologia. Un´identità ibrida, confusa, da ricostruire ricorrendo al ricordo di nonni e padri sottomessi al dominio coloniale della Francia, della quale lui, Mohammed, era diventato un cittadino. Un cittadino frustrato e senza lavoro. Poi il mito di Al Qaeda, sinonimo di rivolta, di sfida per un giovane musulmano nato in Europa. Il terrorismo era diventata un´impresa avventurosa. Le vantate brevi esperienze in Pakistan e in Afghanistan sono ben lontane dal provare una sua concreta affiliazione all´organizzazione creata da Bin Laden.
Stando agli amici Mohammed Merah era un “lupo solitario”. Per il suo avvocato era «dolce, aveva una faccia d´angelo e un linguaggio educato». Nascondeva bene la ferocia che l´ha condotto a uccidere dei bambini a sangue freddo. Ma chi gli ha dato le armi? Chi gli ha dato i soldi per comperarle? E quelli per affittare due automobili, come ha detto ai poliziotti d´élite del Raid (unità di Ricerca, Assistenza, Intervento e Dissuasione) che lo assediavano e volevano prenderlo vivo, nel quartiere di Coté Pavée, a Tolosa? Strano lupo solitario, con un arsenale a disposizione. E anche strano jihadista. Sempre ai poliziotti ha detto di non avere l´animo di un kamikaze e che quindi non si sarebbe suicidato. I compagni del quartiere hanno raccontato che Mohammed voleva a un certo punto arruolarsi nella Legione Straniera. Ma fu rifiutato. Per questo ha poi puntato su Al Qaeda. Uno sbandato. Un piccolo delinquente mitomane che con la sua azione potrebbe influenzare l´elezione del futuro presidente della Quinta Repubblica.
Proprio in questi giorni si celebra il cinquantenario degli accordi di Evian che condussero tre mesi dopo all´indipendenza dell´Algeria. La fine di quella guerra (1954-1962) ha portato in Francia tanti ebrei sefarditi, al punto che la comunità ebraica è adesso la più numerosa (seicentomila) dopo quelle di Israele e degli Stati Uniti. E al tempo stesso i musulmani, in gran parte algerini, già cittadini francesi o ancora immigrati, si aggirano sui sei milioni. La cifra è approssimativa perché la legge proibisce le statistiche religiose. Mohammed Merah appartiene a una generazione di immigrati nata in Francia.
Nella sua mente si sono accumulate le vecchie passioni del periodo coloniale ereditate da padri e nonni, e quelle attuali, bollenti, del problema israelo-palestinese. L´irrisolto dramma mediorientale ha dei riflessi sulle due grandi comunità. In quella musulmana e in quella ebraica che, all´ombra della bandiera francese, vivono una accanto all´altra. Lo Stato accentratore, giacobino, condanna il comunitarismo come un grave peccato anglosassone, e tuttavia per certi aspetti la tenzone ebrei-musulmani si è trasferita in Francia. E alimenta passioni che si mischiano a quelle locali, indigene, attuali. Politiche e sociali. Le tendenze anti-immigrati sono sfruttate dai partiti di destra e di estrema destra. E dunque dai rispettivi candidati alla presidenza. Nonostante gli argomenti offerti dai delitti avvenuti nel Sud Ovest, in particolare quelli agghiaccianti di Tolosa, la campagna elettorale non ha aggiunto l´ignobile all´orrore. Al punto che Jean Daniel, nato in Algeria da una famiglia ebrea, e fedele in egual misura alle sue origini e alla ragione repubblicana, non si è trattenuto dall´esprimere ammirazione. E ha scritto: «Con una forza impeccabile, quasi con rabbia, la nazione francese ha affermato la propria esistenza davanti all´orrore».
Ma la condotta esemplare è arrivata a stento alla fine della tregua elettorale, decisa da Nicolas Sarkozy e da François Hollande, i due principali candidati. Non ha retto più di ventiquattro ore. Doveva scadere ieri, mercoledì. Di fatto è scaduta quando è stata resa pubblica l´identità dell´assassino. Dichiarandosi «uno di Al Qaeda», un islamista radicale, meglio un jihadista, nella versione guerriera, terroristica, Mohammed Merah ha dato il via a un´altra campagna elettorale. Marine Le Pen è stata la prima a infrangere l´iniziale condotta esemplare della società politica. La candidata alla presidenza del Front National ha subito preso l´assassino islamista come una prova vivente dell´incapacità di Sarkozy di combattere il terrorismo. Il quale è per lei, contraria all´immigrazione, in particolare a quella arabo-musulmana, implicitamente annidato nelle masse magrebine che «occupano la Francia». Un comunicato del Front National denuncia «i farabutti» che l´hanno accusato di razzismo. Marine Le Pen non mancherà di argomenti nei prossimi comizi.
Mohammed Merah ha tuttavia favorito elettoralmente soprattutto Nicolas Sarkozy. Gli ha dato l´occasione di dimostrare la sua fermezza e il suo dinamismo in un momento critico. E in questi frangenti il presidente-candidato dà il meglio di se stesso. È deciso e ha i riflessi pronti. Nelle ultime ore ha predicato l´unità del Paese, ha ricevuto insieme le autorità religiose musulmane ed ebraiche, ha invitato a «non cedere alla confusione e alla vendetta», è corso a Tolosa per visitare i poliziotti che accerchiavano Mohammed Merah e a Montauban per assistere al funerale dei paracadutisti, ha visitato una scuola e ha presieduto un Consiglio dei ministri. È apparso insomma il presidente capace di garantire la sicurezza del Paese. Questo non farà dimenticare il presidente amico dei ricchi e incline a comportamenti che non si addicono a un capo dello Stato francese, ma renderà meno facile la vittoria quasi annunciata di François Hollande, il candidato socialista.

La Repubblica 22.03.12

Scuola, Pd, riforma organi collegiali non deve essere apripista per privatizzazione

Ghizzoni: non concederemo legislativa su testo che non ci piace. “Sulla riforma degli organi collegiali degli istituti scolastici c’è ancora molto da fare. E per il Pd la volontà o meno di concedere la legislativa, e quindi agevolarne fortemente il percorso parlamentare, dipenderà dal contenuto del testo che sarà approvato dal comitato ristretto. È chiaro che se in quel testo vi saranno elementi che preludono ad una privatizzazione della scuola, come ad esempio la possibilità per gli istituti di costituirsi in fondazioni, per noi la partita si chiude immediatamente”. Così la capogruppo democratica nella commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni interviene sull’iter parlamentare del testo di legge sulla riforma degli organi collegiali delle scuole al vaglio della commissione Cultura della Camera