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“Il velo strappato”, di Massimo Giannini

«Niente birra e panini al numero 10 di Downing Street», era il motto di Margareth Thatcher ai tempi della storica vertenza con i minatori inglesi. Nella Gran Bretagna di Iron Lady con i sindacati non si trattava. Trent´anni dopo, nell´Italia di Mario Monti le porte di Palazzo Chigi sono aperte: con le parti sociali si tratta, e si è trattato a lungo in questi giorni e in queste settimane. Ma il risultato pratico è lo stesso. Se i «corpi intermedi» della società condividono le scelte, tanto meglio. In caso contrario, il governo va avanti comunque. Lo strappo si è dunque compiuto. Il presidente del Consiglio ha deciso di scrivere la sua riforma del mercato del lavoro sacrificando la Cgil. Un sacrificio pesante, e gravido di conseguenze. È ancora una volta l´articolo 18 a segnare un decisivo cambio di fase, che modifica strutturalmente non solo le relazioni industriali, ma anche le consuetudini politiche del Paese. Dietro alla rottura tra Monti e Camusso c´è molto di più di un dissenso sulle nuove norme che regolano i licenziamenti. C´è la fine della concertazione, che ha scandito i rapporti tra politica ed economia nella Seconda Repubblica. C´è la fine di una costituzione materiale, che dal 1992 ha affiancato la Costituzione formale nelle fasi più acute della crisi italiana.

Nel passo compiuto dal governo c´è una svolta di merito. Anche nella legislazione giuslavoristica italiana cade quello che tutti consideravano l´ultimo tabù. L´articolo 18, cioè l´obbligo di reintegrare il lavoratore, resterà solo nei licenziamenti per motivi discriminatori, e varrà per tutte le aziende, comprese quelle con meno di 15 dipendenti. Ma a questa estensione «dimensionale» della tutela corrisponde una limitazione di quella «funzionale». Nei licenziamenti per motivi disciplinari soggettivi toccherà al giudice decidere se applicare la reintegra o l´indennizzo. E nei licenziamenti per motivi economici oggettivi scatterà solo l´indennizzo. Proprio quest´ultima è stata la molla che ha fatto scattare il no della Cgil.
Sarebbe ingeneroso liquidare questo no come il solito riflesso pavloviano di una deriva sindacale massimalista e conservatrice. La preoccupazione della Camusso, ancorché non del tutto condivisa da Bonanni e Angeletti, è tutt´altro che infondata. In questo nuovo schema l´articolo 18, di fatto, non viene «manutenuto», ma manomesso. I diritti si trasformano in moneta. Una forzatura paradossalmente accettabile, in un Paese che cresce a ritmi del 3% e crea un milione di posti di lavoro l´anno, o in un Paese che ha un sistema collaudato e coperto di flexsecurity scandinavo. Non nell´Italia di oggi, in piena recessione, con una disoccupazione giovanile del 29,7% e un nuovo sistema di ammortizzatori sociali che entrerà a regime solo nel 2017. In queste condizioni, la «via bassa» della produttività e della competitività scelta finora dalle imprese espone i lavoratori a un rischio oggettivo: qualunque crisi aziendale sarà regolata con i licenziamenti per motivi economici, al «prezzo» di un indennizzo che costerà poco più di un qualunque pre-pensionamento.
Questo aspetto non può essere trascurato, in un sistema produttivo che investe assai poco (negli ultimi dieci anni la quota di ammortamenti dell´industria è calato dal 6 al 3,7% rispetto al fatturato) e che già ora tende a far pagare ai più deboli il conto della crisi. È un problema serio, che indebolisce il molto di buono che pure c´è nella riforma del governo, dall´introduzione di una tutela universale per chi perde il lavoro al disincentivo alle troppe forme contrattuali che hanno perpetuato finora il massacro sociale del precariato. E stupisce che il premier giustifichi la decisione di scardinare l´articolo 18 con la necessità di far cadere un impedimento «vero o presunto» agli investimenti esteri in Italia. Non si comprime un diritto, in nome di una «presunzione». Se c´è anche solo un ragionevole dubbio che per le imprese straniere l´articolo 18 sia «un alibi» per non investire, allora le si convince con la forza dei numeri. E i numeri, oggi, dicono che su 160 mila cause di lavoro pendenti solo 300/500 sono attivate ai sensi di quella norma, che dunque è un falso problema.
Ma nel passo compiuto dal governo c´è anche una svolta di metodo. Monti lo spiega con una chiarezza esemplare. Quando riconosce il dispiacere per la rottura con la Cgil, ma aggiunge che il «potere di veto» non è più consentito a nessuno. Quando racconta di aver cercato fino all´ultimo il consenso di tutti, ma annuncia che al vertice finale di domani «non ci sarà alcuna firma» delle parti sociali su un documento del governo. Quando ammette che il dialogo con le parti sociali «è importantissimo», ma avverte che non può tradursi in una «cultura consociativa» che in passato ha scaricato il costo degli accordi sulla collettività. La cesura, culturale e politica, è chiarissima: il governo consulta, ma non concerta. Il suo unico interlocutore è il Parlamento, ripete più volte il premier. È al Parlamento che questo governo risponde, ed è in Parlamento che questo governo si andrà a cercare i numeri che servono a far passare questa riforma.
È un principio incontestabile. La sovranità del potere legislativo non è in discussione. Neanche (o meno che mai) per un governo tecnico che si regge su una convergenza tripartita, piuttosto che su una maggioranza organica. Ma anche qui ci sono due domande, che non possono essere evase. La prima domanda: il governo ha fatto davvero tutto il possibile per imbarcare anche la Camusso nell´intesa? Il dubbio è legittimo: l´impressione che in una parte del governo e del Parlamento vi siano forze che animate da una rivincita ideologica spingono per «dare una lezione» alla Cgil è forte, e non da oggi. Come è forte l´impressione che all´esecutivo, in fondo, non dispiaccia presentare a Bruxelles e ai mercati una riforma del lavoro accompagnata dallo «scalpo» del sindacato più importante, da esibire come un trofeo di «guerra».
La seconda domanda: il governo ha chiare le implicazioni politiche di questo strappo? L´accordo separato che esclude la Cgil riapre una drammatica spaccatura dentro il Pd. Il silenzio di Bersani è assordante, e rivela da solo l´enorme imbarazzo di un partito irrisolto, che sarà pure attraversato dalla faglia «socialdemocratica», ma che resta pur sempre l´«azionista di riferimento» del governo Monti. Il presidente del Consiglio non può non essere consapevole di cosa può accadere nel centrosinistra (e magari anche nella Lega) di qui al voto parlamentare sulla riforma. Caduto un tabù, può cadere anche un governo.

La Repubblica 21.03.12

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Articolo 18 ridotto al minimo Monti: “La questione è chiusa” solo Cgil dice no e prepara lo sciopero, di FRANCESCO BEI ROBERTO MANIA

L´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non c´è quasi più. Rimarrà solo per proteggere i licenziamenti discriminatori. Aveva resistito integro per oltre quarant´anni. Il governo Monti ha ottenuto il consenso di tutte le parti sociali, tranne quello della Cgil di Susanna Camusso. Per questo la riforma (che riguarda anche i contratti di entrata nel mercato del lavoro e i nuovi ammortizzatori sociali) è senza accordo, senza la firma di nessuno se non quella del governo. Sarà presentata così in Parlamento. Ci sarà poi un verbale nel quale saranno espresse le posizioni di sindacati e imprese. Dal Quirinale filtra il rammarico per la mancata intesa: «Forse – notavano ieri sera dal Colle – non tutti gli sforzi sono stati fatti da entrambe le parti».

ORE 8,30. TUTTI A PALAZZO CHIGI
Quella di ieri, dunque, è stata la lunga giornata del disaccordo con la Cgil. Cominciata presto perché il premier Mario Monti ha convocato alle 8,30 di mattina nel suo ufficio al primo piano di Palazzo Chigi i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, e il presidente della Confindustria. Sanno già perché stanno lì. Monti ha già comunicato loro che non ci sono le condizioni di una firma condivisa da tutti. Sull´articolo 18 la Cgil non cambia linea, ma nemmeno il governo. «Abbiamo gli occhi del mondo addosso», fa notare il premier, mentre intorno a palazzo Chigi si sistemano i pulmini attrezzati delle tv internazionali. È da sabato scorso che lo scenario è mutato. A Milano, al convegno confindustriale, si è consumato lo strappo. «Sarà la riforma del governo – spiega Monti – ce ne assumeremo tutta la responsabilità in Parlamento». Anche se il Pd preferirebbe una legge delega (dai tempi più lunghi) al momento palazzo Chigi non esclude nulla, «nemmeno un decreto legge».
La riforma del mercato del lavoro è la prova del fuoco per il governo Monti. In gioco c´è la sua credibilità. Il premier sa anche che senza la Cgil «varrà di più sui mercati». Misurerà la profondità dei provvedimenti. Ritornerà, lungo la giornata, questo ragionamento.

ORE 11,00. SI TRATTA ANCHE AL MINISTERO DEL LAVORO
“Ristretta” di Monti con i sindacati. Nelle liturgie sindacali sono le riunioni che contano, quelle durante le quali si decide il da farsi. Bonanni dice sì ma Angeletti nicchia ancora. Camusso è per il no. Al ministero del Lavoro gli sherpa di sindacati e industriali hanno ripreso a scrivere i testi sugli ammortizzatori sociali e i contratti.

ORE 12,00. CAMUSSO, BONANNI E ANGELETTI
LASCIANO PALAZZO CHIGI
È mezzogiorno quando Camusso stanca e tesa in volto e con l´ennesima sigaretta tra le dita esce da Palazzo Chigi, insieme a Bonanni e Angeletti. L´unità d´azione sindacale è durata poco più dello spazio di un mattino. Ma Bonanni e Angeletti rispettano il patto che avevano sottoscritto: nessun accordo separato sul lavoro. D´altra parte nemmeno il governo lo avrebbe voluto. Entra Emma Marcegaglia che ha quasi stravinto: il suo predecessore Antonio D´Amato finì sconfitto nel 2002 quando aprì la battaglia sull´articolo 18. La Marcegaglia, in un contesto economico radicalmente diverso, ha fatto fare la battaglia al Professore ma dietro le quinte ha giocato la sua partita con tutte le sue sponde nel governo, dal ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, al viceministro dell´Economia Vittorio Grilli. Finisce il mandato con lo scalpo dell´articolo 18. Anche nelle fabbriche del suo gruppo la Fiom sta scioperando per due ore a difesa dell´articolo 18. Ma è ininfluente.

ORE 13,00. I PICCOLI, “PRONTI ALL´ACCORDO”
Le piccole imprese avevano minacciato la rivolta a cominciare dalla disdetta dei contratti perché Fornero intendeva alzare i contributi per l´indennità di disoccupazione e per i contratti stagionali. Non passa né l´una né l´altra misura. I piccoli sono per buona parte il blocco sociale della destra. Il Pdl ha fatto pressing sul governo e ha portato a casa non poco. In cambio, però, il governo ha esteso alle aziende con meno di 15 dipendenti il diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiustificato discriminatorio. Anche il direttore generale della Confindustria, Giampaolo Galli, protesta, dice che molte cose non vanno bene. Tatticismo negoziale. La Marcegaglia ha appena detto a Monti che la sua riforma è ok.

ORE 13,30. SI RIUNISCE LA SEGRETERIA DELLA CGIL MA CISL E UIL VANNO IN CONFINDUSTRIA
Quarto piano del palazzone di Corso d´Italia. I membri della segreteria nazionale del più grande sindacato sono già lì nella sala riunione ad aspettare la Camusso. Si fuma. C´è preoccupazione e rabbia. Per la prima volta da almeno dieci anni questo è il gruppo dirigente della Cgil che accetta di intervenire sull´articolo 18. La loro apertura però non è servita. Camusso è convinta e lo ripete ai suoi: «Il governo non voleva l´accordo. È un governo attento ai mercati e non ai lavoratori». Lo dirà anche in conferenza stampa. Gli scioperi li deciderà il Direttivo già convocato per oggi. Ma ci saranno. La Fiom di Maurizio Landini vuole lo sciopero generale. Camusso punta a una mobilitazione più lunga e articolata. «Non sarà una fiammata. Faremo di tutto per contrastare la riforma. Ci sarà tensione sociale», dice. Dal governo, in serata, si augurano tuttavia che «le modalità della mobilitazione si svolgano nel rispetto della dialettica democratica». Dura un paio d´ore la riunione. Alla fine una nota della segreteria che sancisce la rottura con il governo di professori: «L´obiettivo del governo sono i licenziamenti facili». A meno di un chilometro di distanza Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti sono con Emma Marcegaglia in via Veneto alla Foresteria della Confindustria. Monti ha chiesto alla Marcegaglia di convincere Angeletti sui licenziamenti disciplinari. Ci riuscirà. Il governo sostiene che non era scontato «recuperare la Uil e la stessa Cisl che fino a qualche giorno fa parlava di macelleria sociale».

ORE 14,00. BERSANI: «TOCCA AL GOVERNO COLMARE
LE DISTANZE»
Il segretario del Pd invita a tener conto delle proposte della Cgil. Invano. Ora palazzo Chigi spera che il Pd non si divida sul provvedimento, ma in ogni caso si fa notare come durante il vertice dei segretari “ABC” anche da Bersani fosse venuto un via libera alla riforma. «Spetta al Parlamento decidere», ricorda comunque Bersani.

ORE 14,20. IL GOVERNO: MARGINI STRETTI, PREMONO I MERCATI
Monti fa sapere che i margini per un possibile compromesso non ci sono. Premono i mercati. Dice uno dei ministri: «Le proteste della Cgil dimostrano che la riforma è vera. Le critiche sono fisiologiche ma le avevamo messe in conto». Nella conferenza stampa finale il premier ricorda ancora che la riforma viene incontro alle raccomandazione della Commissione di Bruxelles e anche dell´Ocse. È la morsa che ha stretto la Cgil. «Nessun ha più un potere di veto», dice Monti e aggiunge: «Mi aspetto che le imprese raddoppino i loro investimenti ora che non avranno l´handicap o l´alibi, a seconda del punto di vista, di avere un trattamento dei licenziamenti diverso da quello delle economie più avanzate».

ORE 17,20. RIUNIONE IN SALA VERDE
AL TERZO PIANO
È l´epilogo. Tutto già previsto. Attorno al tavolo della grande Sala Verde al terzo piano di Palazzo Chigi si consuma l´ultimo rito di quella che non è mai stata un revival della concertazione. Monti cita Napolitano («prevalga l´interesse generale») e concede l´onore delle armi al segretario Cgil: «La ringrazio, signora Camusso, perché con il suo no ha fatto capire a tutti che governare non è facile. Spero però che, nelle forme e nei modi che vorrà, possa anche dire quello che c´è di buono in questa riforma».

ore 20,15. IL PREMIER, «STRINGIAMO PER FAVORE…»
«Signori, stringiamo per favore…», Mario Monti richiama il portavoce di Rete Imprese Italia, Marco Venturi, perché esprima rapidamente il suo giudizio.

ore 20,30. MONTI TELEFONA A NAPOLITANO
Il premier chiama il Quirinale: «Abbiamo finito, lo ritengo un successo». Ma il Capo dello Stato si raccomanda di evitare che «non essendoci un accordo su tutto, non si trasformi con la Cgil in una rottura su tutto».

La Repubblica 21.03.12

Il Pd non ha un piano B «Monti faccia l’accordo», di Simone Collini

Senza intesa «rischia di aprirsi un conflitto di tutti contro tutti. Ma l’Italia non può permetterselo, davanti a una recessione così grave»
L’Idv attacca tutti, Fornero e partiti. Sel tace a tutela della Camusso. L’accordo è indispensabile». Pier Luigi Bersani lo ha ripetuto sia a Mario Monti che ai vertici delle parti sociali. Il Pd non ha giocato il ruolo di mediatore nella partita della riforma del mercato del lavoro. Ma da un lato ha chiesto al governo di mettere all’angolo spinte che pure sono arrivate dal suo interno affinché si procedesse senza preoccuparsi di raggiungere un’intesa pur di dare un segnale ai mercati (in questo senso sono apparse sospette alcune uscite del ministro Corrado Passera). Dall’altro, dal Pd è partita la sollecitazione nei confronti di leader sindacali e dirigenti di Confindustria e delle altre associazioni di imprenditori a presentarsi al tavolo con una posizione comune. «Non esiste un accordo separato è il ragionamento di Bersani questo è uno schema che poteva andar bene per il precedente governo, non oggi». Il timore del leader Pd è che senza intesa «rischia di aprirsi un conflitto di tutti contro tutti che di fronte alla grave recessione in atto il Paese non si può permettere».
Per questo ieri sia Bersani che il responsabile per l’Economia del Pd Stefano Fassina hanno passato la giornata al telefono a discutere con governo e parti sociali, insistendo sul fatto che il confronto non può arenarsi sull’articolo 18, che è solo una parte di una più complessiva riforma che deve portare anche a un reale disboscamento dei contratti precari e a un’estensione universalitisca delle indennità di disoccupazione e di mobilità. L’impressione tratta dai colloqui che hanno avuto gli esponenti del Pd è che né Susanna Camusso né Raffaele Bonanni né Luigi Angeletti vogliano o frenare o partire in solitarie fughe in avanti. Ma starà anche al governo creare il terreno favorevole a un accordo. Non a caso il coordinatore delle Commissioni economiche del gruppo del Pd alla Camera, Francesco Boccia, dà al governo questo «consiglio»: «Invece di usare l’accetta e la clava del decreto legge, io userei tanta pazienza perché poi le riforme vengono approvate dal Parlamento, e quindi una legge delega farebbe stare più tranquilli tutti». Si tratterebbe di un segnale, anche se è chiaro che se già in queste ore si arrivasse a un’intesa tra governo e parti sociali, la forma in cui la riforma arriverà in Parlamento sarebbe, per dirla con Bersani, «un problema secondario». Il Pd non dubita che una riforma sia necessaria, anche perché come dice Massimo D’Alema citando Marco Biagi «abbiamo il peggior mercato del lavoro d’Europa». Il presidente del Copasir ricorda il giuslavorista e dice che il suo lavoro può aiutare «a mettere al centro le persone in carne ed ossa e a superare astratte contrapposizioni di principio».
A preoccupare il Pd sono le tensioni interne alla Cgil e la decisione della Fiom di indire subito uno sciopero a difesa dell’articolo 18. Bersani, che ha ricevuto dal governo una rassicurazione sul fatto che non c’è l’intenzione di cancellare «il pilastro» della giusta causa, giudica un errore concentrare la discussione su quello che definisce un «falso problema». E guarda con favore a una possibile convergenza che porti all’introduzione del modello tedesco, che prevede in caso di licenziamento che sia il giudice a decidere tra il reintegro e l’indennizzo monetario.
Il Pd, che chiaramente sarebbe il partito che più soffrirebbe una rottura tra governo e parti sociali, guarda con sospetto anche ai movimenti delle altre forze parlamentari. Non rassicurano infatti né le parole del leader del Pdl Angelino Alfano, per il quale «se non c’è l’accordo noi non siamo per la paralisi, ma per dire sì perché il governo vada avanti», né gli attacchi dell’Idv a Elsa Fornero, definita da Antonio Di Pietro una «Signora Madre Badessa» che non propone un contratto ma «un capestro».
L’ex pm attacca anche «i signori sindacati e i signori politici della pseudo maggioranza che si riuniscono nottetempo per prendersi un bicchierino a palazzo Chigi»: «Non basta che decidiate voi che cosa fare. Bisogna che i contratti li accettino e li firmino i diretti interessati, se sono d’accordo, cioè i lavoratori». Una posizione filo-Fiom che non sposa a questi livelli neanche Nichi Vendola. Il leader di Sel sta invece attento a non uscire con dichiarazioni che potrebbero creare difficoltà a Camusso, e si limita a dire che sarebbe «un fatto gravissimo» una riforma senza l’accordo della Cgil.

L’Unità 20.03.12

Profumo: «La scuola deve gestire l’inclusione dei nuovi cittadini», di Federica Fantozzi

Il ministro: «Basta riforme, bisogna far funzionare il sistema. Troppe norme e circolari» D’Alema punzecchia il governo: «Deve dare più peso al rapporto tra istruzione e lavoro». Una scuola in difficoltà, senza risorse e resa più povera dalla crisi, eppure con in sé la forza per ripartire. Una scuola che, per fronteggiare la società accelerata, deve fornire ai ragazzi nozioni ma soprattutto strumenti per aggiornarle da soli, per diventare “resilienti” e capaci di «rigenerarsi ». Una scuola che per 150 anni è stata «il vero elemento su cui si è costruito il Paese», ha «tramandato i valori fondanti dell’identità italiana», ma adesso è chiamata a una nuova sfida: gestire l’inclusione dei nuovi cittadini provenienti daaltri Paesi. Incasellare il multiculturalismo in «un sistema di valori condivisi». Sono le linee del convegno di Italianieuropei sull’istruzione pubblica, con il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, il professor Giulio Ferroni e Massimo d’Alema. Profumo, pur avvisando che l’ultima cosa che serve è l’ennesima riforma (anzi, basta norme e circolari in eccesso) annuncia il suo programma che punta a incentivare nei giovani un orientamento consapevole, a investire sull’istruzuone tecnico- professionale, a immettere «linfa nuova» tra docenti e dirigenti scolastici. E punzecchia premier e Fornero: speriamo che si risolva bene il tavolo sul lavoro, ma «credo che non sia stato dato il giusto peso al rapporto tra scuola e lavoro. In certi Paesi ministero dell’Istruzione e del Lavoro sono lo stesso…». Proprio mentre coordinamenti scolastici, comitati e associazioni di genitori e insegnanti lanciano per venerdì 23 e sabato 24 marzo la manifestazione «Un urlo per la scuola». Due giorni di protesta con lo slogan: «Il governo dei professori non è interessato alla scuola». Accuse: tagli alla pulizia degli istituti e agli insegnanti di sostegno, disattenzione ai bambini disagiati.

NUOVI ORIZZONTI Intanto, a Palazzo San Macuto, Ferroni ragiona su come salvare la scuola dalla «cultura dell’alleggerimento», dalla corsa ll’aggiornamento perpetuo imposta dalle nuove tecnologie. Come, insomma, diventare cittadini del mondo senza perdere l’identità. Tema(a cui è dedicato l’ultimo numero della rivista della Fondazione) analizzato da D’Alema nei pro e contro: «La formazione è prioritaria anche per costruire una risposta forte alla crisi. Oggi l’Europa è l’anello debole della ripresa mondiale, nonostante il nostro patrimonio storico e culturale ». E dunque, nuovi orizzonti: «Io no nmi beo di esaltare il multiculturalismo: sta in piedi in un sistema di valori condivisi». L’ex premier denuncia la «preoccupante» scarsità di risorse, i difetti applicativi dell’autonomia scolastica, e il rischio di «deperimento » del nostro sapere umanistico. L’intervento più atteso è ovviamente quello di Profumo. Che in questi mesi, racconta, ha visitato molte scuole dagli asili agli istituti tecnici per «fotografare» la situazione. Risultato: è colpito negativamente dal fatto che «per ogni cosa si deve fare una norma o una circolare». E «dicevo a Monti,dobbiamo semplificare il sistema ». Altra criticità: «L’autonomia è sulla carta, ci sono poche risorse e troppo tempo per averle». Sapore di vecchio: «I banchi di fòrmica verde, le solite lavagne. Qualcosa non funziona, qualcosa si è perso per strada. Nonsolo fondi, la capacità di realizzare il progetto». Basta aule-pollaio, ora «centri civici con interazione continua ». Infine, pur senza nuove riforme, il programma di governo. Cinque i cardini Migliorare il sistema di valutazione. Riflettere sul rapporto tra formazione e lavoro (basta «formare mestieri che non esistono più»). Puntare sull’istruzione tecnico-professionale. In Italia è scelta da meno del 40% dei ragazzi. Al contrario di Germania e Svizzera «che hanno superato meglio la crisi economica, noi non siamo riusciti a trasmettere questo messaggio ». Poi approfondire e anticipare l’orientamento: «Il35%degli iscritti all’università non la finisce, il 25% si ritira dopo l’impatto con il primo anno. È un costo sociale indescrivibile ». Infine, abbassare l’età di docenti e dirigenti, oggi tra i 47 e i 51 anni.

L’Unità 20.03.12

"L´Europa antisemita", di Marek Halter

Quando accadono tragedie come quelle di Tolosa, mi chiedo se si possono ancora considerare gli ebrei come i capri espiatori della Storia. Ebbene, la risposta è sì. Mi torna in mente quella barzelletta triste di quei due amici che s´incontrano al bar e cominciano a parlare di crisi, disoccupazione, miseria. A un certo punto uno dice all´altro: «È tutta colpa degli ebrei e dei ciclisti!». E l´altro gli risponde: «E perché mai dei ciclisti?». Ora, in questi tempi di ristrettezze sta crescendo in Francia la rabbia verso gli “arabi”, perché sono visti come quelli che ci mangiano nel piatto, e parallelamente aumenta l´antisemitismo. Appena la società si rivolta contro una minoranza, a pagarne le conseguenze sono anche gli ebrei, che però non sono minoranza, poiché da secoli gli ebrei francesi sono cittadini francesi come gli ebrei italiani sono cittadini italiani. Ma da duemila anni sono loro i “colpevoli” di tutti mali. Primo tra tutti, quello di aver ucciso Cristo. Appena si punta il dito contro un popolo accusandolo di un peccato qualsiasi, purtroppo si pensa immediatamente anche agli ebrei.
Negli ultimi anni la comunità ebraica di Francia è stata vittima di numerosi attentati: nel 1979 contro una scuola ebraica parigina, nel 1980 contro la sinagoga della rue Copernic, nel 1982 contro un ristorante nel “ghetto” della rue des Rosiers, nel 1996 contro il giornale Tribune Juive. Non è dunque la prima volta, dal dopoguerra a oggi, che si uccidono degli ebrei in quanto ebrei.
La strage di Tolosa è avvenuta nell´anniversario dell´indipendenza dell´Algeria. L´assassino avrebbe ucciso prima dei paracadutisti francesi, che sono gli ultimi che lasciarono Algeri, dopo aver compiuto barbari crimini. Poi ha ammazzato gli ebrei. Ma perché gli ebrei? Perché entrare armato fino ai denti in una scuola nella periferia della città e sparare su chiunque gli si presentava davanti? C´è premeditazione, in questo massacro. E ci sono stati sicuramente dei sopralluoghi, anche perché il killer sapeva che alle 8 meno 5 arrivavano i professori e gli alunni.
È verosimile che l´assassino si sia detto: «Se uccido solo dei parà la stampa non ne parlerà abbastanza. Ma se ammazzerò anche qualche ebreo ne parleranno tutti». Così è stato. Tutto sembra minuziosamente preparato, attentamente meditato.
Nella campagna per le presidenziali francesi alcuni leader hanno proposto un controllo più severo delle frontiere per fermare “l´invasione” di rom o di extracomunitari nordafricani, accusati di chissà quali reati. Il risultato di questa campagna xenofoba è stato devastante, soprattutto se si guardano le cifre degli atti razzisti e antisemiti, che sono aumentati del 150 per cento.
È fortemente simbolico attaccare una scuola religiosa dove si insegna il giudaismo, e dove i bambini indossano tutti la kippà. Chi detesta gli ebrei vuole ucciderli quando sono ancora piccoli. Un po´ come nel culto della Geenna, a Gerusalemme, dove si sacrificavano bambini a Moloch.
In quella scuola di Tolosa c´ero stato all´inizio del mese. Quei bimbi sono poi venuti a vedere il mio documentario su Birobidjan. Ed è terribile pensare che alcuni di quei bimbi che sono venuti ad applaudire il filmato, oggi non ci sono più. Se non fossero bambini ebrei sarebbe altrettanto doloroso.
È già capitato che in Francia un pazzo prenda in ostaggio una scuola. Quando accadde a Neuilly, fu l´occasione per Sarkozy di far parlare di sé per la prima volta. Era allora sindaco di quel ricco sobborgo di Parigi. Entrò disarmato nell´aula dove l´attentatore s´era rinchiuso con i bambini e lo convinse ad arrendersi.
Diverso è l´attacco di Tolosa. Perché non c´è casualità nella strage di ieri. Sono convinto che sia stata ordinata da qualcuno. O voluta da un´ideologia, o da gruppi politici. Come il norvegese neonazista che lo scorso luglio ha ucciso un´ottantina di ragazzi perché ai suoi occhi incarnavano la rivoluzione marxista. Se si sceglie un luogo così simbolico per compiere un olocausto non si agisce solo per follia.
La sparatoria nella scuola è un gesto che ha sconvolto la Francia. Non è un caso che tutti i politici si siano precipitati a Tolosa dopo aver deciso di fermare la campagna elettorale. François Hollande ha annullato un suo intervento in tv e Nicolas Sarkozy ha procrastinato una sua intervista alla radio. Nel nome della Repubblica francese si sentono tutti coinvolti da quanto è accaduto. Anche se questa Repubblica non è in grado di proteggere i suoi cittadini, quando questi sono ebrei.
(testo raccolto da Pietro Del Re)

La Repubblica 20.03.12

“L´Europa antisemita”, di Marek Halter

Quando accadono tragedie come quelle di Tolosa, mi chiedo se si possono ancora considerare gli ebrei come i capri espiatori della Storia. Ebbene, la risposta è sì. Mi torna in mente quella barzelletta triste di quei due amici che s´incontrano al bar e cominciano a parlare di crisi, disoccupazione, miseria. A un certo punto uno dice all´altro: «È tutta colpa degli ebrei e dei ciclisti!». E l´altro gli risponde: «E perché mai dei ciclisti?». Ora, in questi tempi di ristrettezze sta crescendo in Francia la rabbia verso gli “arabi”, perché sono visti come quelli che ci mangiano nel piatto, e parallelamente aumenta l´antisemitismo. Appena la società si rivolta contro una minoranza, a pagarne le conseguenze sono anche gli ebrei, che però non sono minoranza, poiché da secoli gli ebrei francesi sono cittadini francesi come gli ebrei italiani sono cittadini italiani. Ma da duemila anni sono loro i “colpevoli” di tutti mali. Primo tra tutti, quello di aver ucciso Cristo. Appena si punta il dito contro un popolo accusandolo di un peccato qualsiasi, purtroppo si pensa immediatamente anche agli ebrei.
Negli ultimi anni la comunità ebraica di Francia è stata vittima di numerosi attentati: nel 1979 contro una scuola ebraica parigina, nel 1980 contro la sinagoga della rue Copernic, nel 1982 contro un ristorante nel “ghetto” della rue des Rosiers, nel 1996 contro il giornale Tribune Juive. Non è dunque la prima volta, dal dopoguerra a oggi, che si uccidono degli ebrei in quanto ebrei.
La strage di Tolosa è avvenuta nell´anniversario dell´indipendenza dell´Algeria. L´assassino avrebbe ucciso prima dei paracadutisti francesi, che sono gli ultimi che lasciarono Algeri, dopo aver compiuto barbari crimini. Poi ha ammazzato gli ebrei. Ma perché gli ebrei? Perché entrare armato fino ai denti in una scuola nella periferia della città e sparare su chiunque gli si presentava davanti? C´è premeditazione, in questo massacro. E ci sono stati sicuramente dei sopralluoghi, anche perché il killer sapeva che alle 8 meno 5 arrivavano i professori e gli alunni.
È verosimile che l´assassino si sia detto: «Se uccido solo dei parà la stampa non ne parlerà abbastanza. Ma se ammazzerò anche qualche ebreo ne parleranno tutti». Così è stato. Tutto sembra minuziosamente preparato, attentamente meditato.
Nella campagna per le presidenziali francesi alcuni leader hanno proposto un controllo più severo delle frontiere per fermare “l´invasione” di rom o di extracomunitari nordafricani, accusati di chissà quali reati. Il risultato di questa campagna xenofoba è stato devastante, soprattutto se si guardano le cifre degli atti razzisti e antisemiti, che sono aumentati del 150 per cento.
È fortemente simbolico attaccare una scuola religiosa dove si insegna il giudaismo, e dove i bambini indossano tutti la kippà. Chi detesta gli ebrei vuole ucciderli quando sono ancora piccoli. Un po´ come nel culto della Geenna, a Gerusalemme, dove si sacrificavano bambini a Moloch.
In quella scuola di Tolosa c´ero stato all´inizio del mese. Quei bimbi sono poi venuti a vedere il mio documentario su Birobidjan. Ed è terribile pensare che alcuni di quei bimbi che sono venuti ad applaudire il filmato, oggi non ci sono più. Se non fossero bambini ebrei sarebbe altrettanto doloroso.
È già capitato che in Francia un pazzo prenda in ostaggio una scuola. Quando accadde a Neuilly, fu l´occasione per Sarkozy di far parlare di sé per la prima volta. Era allora sindaco di quel ricco sobborgo di Parigi. Entrò disarmato nell´aula dove l´attentatore s´era rinchiuso con i bambini e lo convinse ad arrendersi.
Diverso è l´attacco di Tolosa. Perché non c´è casualità nella strage di ieri. Sono convinto che sia stata ordinata da qualcuno. O voluta da un´ideologia, o da gruppi politici. Come il norvegese neonazista che lo scorso luglio ha ucciso un´ottantina di ragazzi perché ai suoi occhi incarnavano la rivoluzione marxista. Se si sceglie un luogo così simbolico per compiere un olocausto non si agisce solo per follia.
La sparatoria nella scuola è un gesto che ha sconvolto la Francia. Non è un caso che tutti i politici si siano precipitati a Tolosa dopo aver deciso di fermare la campagna elettorale. François Hollande ha annullato un suo intervento in tv e Nicolas Sarkozy ha procrastinato una sua intervista alla radio. Nel nome della Repubblica francese si sentono tutti coinvolti da quanto è accaduto. Anche se questa Repubblica non è in grado di proteggere i suoi cittadini, quando questi sono ebrei.
(testo raccolto da Pietro Del Re)

La Repubblica 20.03.12

"No al manuale Cencelli della ricerca", di Giovanna dall'Ongaro

Intervista a Guido Martinelli. Il direttore della Scuola internazionale di studi avanzati di Trieste teme che le alleanze fra atenei per ottenere i fondi saranno basate sulle quote disponibili e non sul merito dei progetti. E poi un appello: meno burocrazia. Se valesse il criterio del «purché sene parli», il ministro Francesco Profumo potrebbe ritenersi soddisfatto: le novità che interessano il settore della ricerca non sono certo passate sotto silenzio. Il bando Prin 2010 (Programmi di Ricerca di Interesse Nazionale), con i nuovi e macchinosi criteri per la distribuzione di un finanziamento di 175 milioni di euro alla ricerca di base, tiene ancora impegnati in complesse analisi tanto i blogger pluridiplomati quanto i professori universitari. L’imponente macchina della Valutazione della Qualità della Ricerca, in procinto di partire sotto la guida dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), ha puntati addosso gli occhi dell’intero mondo accademico che torna, per la prima volta dopo sette anni, dalla parte di chi viene esaminato e teme il voto in pagella. Bene o male, di entrambe le inizia tive si è discusso molto. E vale la pena continuare a farlo perché da queste dipende il futuro della ricerca nel nostro paese. Così abbiamo chiesto a Guido Martinelli, direttore della Scuola Internazionale di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, istituto di eccellenza, il primo in Italia ad avere offerto il titolo di PhD, di commentare l’attuale politica della ricerca e suggerire eventuali cambi di rotta. Professor Martinelli, secondo lei il governo riconosce il ruolo della ricerca come motore della crescita economica? «Sono convinto di sì, perché una squadra di professori universitari non può sottovalutare il peso della ricerca. Anche se finora di segnali concreti non se ne sono ancora visti. Ma aspettiamo fiduciosi». Quale segnale si aspetta? «Una sostanziosa riduzione di assurde incombenze burocratiche, che è ilmale peggiore che affligge la ricerca in Italia. Non è ammissibile, per esempio, che i ricercatori vincitori di prestigiosi grant europei vadano incontro a mille ostacoli per lavorare in Italia.Quando chiesi a una quarantina di colleghi, vincitori di grant come me, di firmare una lettera al ministro precedente con la minaccia (provocatoria) di trasferire i nostri soldi all’estero, perché qui non avremmo potuto spenderli, molti di loro mi confessarono di avere già spostato i finanziamenti in laboratori in Germania, Svizzera, Francia. Questo, pur di non passare il tempo a risolvere beghe burocratiche, facendo lo slalom tra regole concepite con il pallottoliere da qualcuno, che sembra divertirsi a complicare la vita a chi cerca di fare della buona ricerca». Ifinanziamenti europei di cui lei parla, inoltre, sono difficili da ottenere. Almeno per gli italiani che dal VII Programma Quadro hanno ricavato solo poche briciole. Per non perdere anche la prossima opportunità nel 2014, gli 80 miliardi di euro stanziati dal programma Horizon 2020, il ministro ha previsto una sorta di “allenamento in casa”, i Prin, per imparare a lavorare in squadra e mettere in piedi grandi progetti. Le chiediamo, sono una buona palestra? «Condivido le intenzioni, ma il metodo di allenamento è sbagliato. La nuova regola dei Prin 2010 che prevede per ogni università un tetto massimo di progetti da poter presentare ha effetti distorsivi: un’università a cui è stato assegnato un limite di 20 progetti e se ne ritrova 60, tutti validi, dovrà buttare a mare 40 buone idee solo perché sono in esubero. Il ministro sostiene che così le università saranno spinte ad allearsi. Peccato però che l’unico criterio che guiderà la scelta del partner sarà quello delle quote ancora disponibili e non del merito del progetto. Si assisterà a un inevitabile mercato delle vacche con la compravendita di ricercatori in base ai posti liberi. Si tratta di regole da manuale Cencelli che di fatto renderanno possibile presentare le domande solo in base al numero delle teste invece che alla valutazione di merito scientifico. Una prassi sconosciuta al resto del mondo». È giusto puntare tutto sui progetti di grandi gruppi? «I grandi progetti di ricerca vanno sostenuti,ma non bisogna trascurare un tipo di ricerca più di nicchia, condotta da pochi individui con idee innovative. Altrimenti si rischia di finanziare solo il conformismo scientifico. Perché esiste la Big Science che si fa al Cern con migliaia di ricercatori, ma esistono laboratori di poche persone dove si può scoprire il grafene e vincere il Nobel». «Continuiamo a ripetere che i nostri scienziati sono molto apprezzati all’estero. Quanto noi, invece, apprezziamo gli stranieri? «La qualità dell’insegnamento delle nostre università è certamente molto alta e per questo i nostri studenti ottengono posti di ricerca all’estero. Ma ciò non basta per attirare studenti e ricercatori stranieri in Italia. Se mancano gli alloggi per ospitare gli studenti anche il più prestigioso ateneo perde il suo fascino agli occhi di un dottorando con una borsa di 1.000 euro. In Inghilterra,ma anche alla Normale di Pisa, gli studenti stranieri sono invogliati a rimanere perché ci sono strutture e servizi. Lo sappiamo bene alla Sissa che nasce con vocazione internazionale, dove è straniero circa il40%degli studenti e il 10% dei docenti e dove le lezioni sono tutte in inglese». A proposito di qualità delle università, sta per partire la grande valutazione. Cosa si aspetta dal test sul mondo accademico? «Come accade in altri Paesi, se un dipartimento di Fisica viene classificato come A dovrebbe ricevere un finanziamento di 100, come B di 50 e come C nulla. In poche parole il merito deve essere premiato e le risorse concentrate. Nessun Paese della taglia dell’Italia può permettersi decine e decine di dipartimenti di Fisica, vanno mantenuti solo quelli dove la ricerca è a livello internazionale. Non credo che da noi sia possibile,come è stato ipotizzato, distinguere gli atenei in quelli dediti alla didattica e quelli dediti alla ricerca, come accade nei Paesi anglosassoni dove c’è sia l’university che il college. Non è con le etichette che si potranno classificare le università. Ma con una corretta valutazione della qualità della ricerca, a cui deve seguire una efficiente distribuzione dei fondi. Confido che l’Anvur, dove lavorano persone che stimo moltissimo, riuscirà a far funzionare un simile sistema premiale ».

L’Unità 20.03.12

“No al manuale Cencelli della ricerca”, di Giovanna dall’Ongaro

Intervista a Guido Martinelli. Il direttore della Scuola internazionale di studi avanzati di Trieste teme che le alleanze fra atenei per ottenere i fondi saranno basate sulle quote disponibili e non sul merito dei progetti. E poi un appello: meno burocrazia. Se valesse il criterio del «purché sene parli», il ministro Francesco Profumo potrebbe ritenersi soddisfatto: le novità che interessano il settore della ricerca non sono certo passate sotto silenzio. Il bando Prin 2010 (Programmi di Ricerca di Interesse Nazionale), con i nuovi e macchinosi criteri per la distribuzione di un finanziamento di 175 milioni di euro alla ricerca di base, tiene ancora impegnati in complesse analisi tanto i blogger pluridiplomati quanto i professori universitari. L’imponente macchina della Valutazione della Qualità della Ricerca, in procinto di partire sotto la guida dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), ha puntati addosso gli occhi dell’intero mondo accademico che torna, per la prima volta dopo sette anni, dalla parte di chi viene esaminato e teme il voto in pagella. Bene o male, di entrambe le inizia tive si è discusso molto. E vale la pena continuare a farlo perché da queste dipende il futuro della ricerca nel nostro paese. Così abbiamo chiesto a Guido Martinelli, direttore della Scuola Internazionale di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, istituto di eccellenza, il primo in Italia ad avere offerto il titolo di PhD, di commentare l’attuale politica della ricerca e suggerire eventuali cambi di rotta. Professor Martinelli, secondo lei il governo riconosce il ruolo della ricerca come motore della crescita economica? «Sono convinto di sì, perché una squadra di professori universitari non può sottovalutare il peso della ricerca. Anche se finora di segnali concreti non se ne sono ancora visti. Ma aspettiamo fiduciosi». Quale segnale si aspetta? «Una sostanziosa riduzione di assurde incombenze burocratiche, che è ilmale peggiore che affligge la ricerca in Italia. Non è ammissibile, per esempio, che i ricercatori vincitori di prestigiosi grant europei vadano incontro a mille ostacoli per lavorare in Italia.Quando chiesi a una quarantina di colleghi, vincitori di grant come me, di firmare una lettera al ministro precedente con la minaccia (provocatoria) di trasferire i nostri soldi all’estero, perché qui non avremmo potuto spenderli, molti di loro mi confessarono di avere già spostato i finanziamenti in laboratori in Germania, Svizzera, Francia. Questo, pur di non passare il tempo a risolvere beghe burocratiche, facendo lo slalom tra regole concepite con il pallottoliere da qualcuno, che sembra divertirsi a complicare la vita a chi cerca di fare della buona ricerca». Ifinanziamenti europei di cui lei parla, inoltre, sono difficili da ottenere. Almeno per gli italiani che dal VII Programma Quadro hanno ricavato solo poche briciole. Per non perdere anche la prossima opportunità nel 2014, gli 80 miliardi di euro stanziati dal programma Horizon 2020, il ministro ha previsto una sorta di “allenamento in casa”, i Prin, per imparare a lavorare in squadra e mettere in piedi grandi progetti. Le chiediamo, sono una buona palestra? «Condivido le intenzioni, ma il metodo di allenamento è sbagliato. La nuova regola dei Prin 2010 che prevede per ogni università un tetto massimo di progetti da poter presentare ha effetti distorsivi: un’università a cui è stato assegnato un limite di 20 progetti e se ne ritrova 60, tutti validi, dovrà buttare a mare 40 buone idee solo perché sono in esubero. Il ministro sostiene che così le università saranno spinte ad allearsi. Peccato però che l’unico criterio che guiderà la scelta del partner sarà quello delle quote ancora disponibili e non del merito del progetto. Si assisterà a un inevitabile mercato delle vacche con la compravendita di ricercatori in base ai posti liberi. Si tratta di regole da manuale Cencelli che di fatto renderanno possibile presentare le domande solo in base al numero delle teste invece che alla valutazione di merito scientifico. Una prassi sconosciuta al resto del mondo». È giusto puntare tutto sui progetti di grandi gruppi? «I grandi progetti di ricerca vanno sostenuti,ma non bisogna trascurare un tipo di ricerca più di nicchia, condotta da pochi individui con idee innovative. Altrimenti si rischia di finanziare solo il conformismo scientifico. Perché esiste la Big Science che si fa al Cern con migliaia di ricercatori, ma esistono laboratori di poche persone dove si può scoprire il grafene e vincere il Nobel». «Continuiamo a ripetere che i nostri scienziati sono molto apprezzati all’estero. Quanto noi, invece, apprezziamo gli stranieri? «La qualità dell’insegnamento delle nostre università è certamente molto alta e per questo i nostri studenti ottengono posti di ricerca all’estero. Ma ciò non basta per attirare studenti e ricercatori stranieri in Italia. Se mancano gli alloggi per ospitare gli studenti anche il più prestigioso ateneo perde il suo fascino agli occhi di un dottorando con una borsa di 1.000 euro. In Inghilterra,ma anche alla Normale di Pisa, gli studenti stranieri sono invogliati a rimanere perché ci sono strutture e servizi. Lo sappiamo bene alla Sissa che nasce con vocazione internazionale, dove è straniero circa il40%degli studenti e il 10% dei docenti e dove le lezioni sono tutte in inglese». A proposito di qualità delle università, sta per partire la grande valutazione. Cosa si aspetta dal test sul mondo accademico? «Come accade in altri Paesi, se un dipartimento di Fisica viene classificato come A dovrebbe ricevere un finanziamento di 100, come B di 50 e come C nulla. In poche parole il merito deve essere premiato e le risorse concentrate. Nessun Paese della taglia dell’Italia può permettersi decine e decine di dipartimenti di Fisica, vanno mantenuti solo quelli dove la ricerca è a livello internazionale. Non credo che da noi sia possibile,come è stato ipotizzato, distinguere gli atenei in quelli dediti alla didattica e quelli dediti alla ricerca, come accade nei Paesi anglosassoni dove c’è sia l’university che il college. Non è con le etichette che si potranno classificare le università. Ma con una corretta valutazione della qualità della ricerca, a cui deve seguire una efficiente distribuzione dei fondi. Confido che l’Anvur, dove lavorano persone che stimo moltissimo, riuscirà a far funzionare un simile sistema premiale ».

L’Unità 20.03.12