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“Corruzione, leggi efficaci e lo sguardo un po’ lungo” di Michele Ainis

Ma non è un singolo giudizio il fardello che da troppo tempo ci portiamo sul groppone. È l’illegalità diffusa, è la corruzione che dissangua l’economia italiana (60 miliardi l’anno, secondo la Corte dei conti) e indebolisce l’etica pubblica (l’ultima classifica di Transparency International ci situa al 69º posto, peggio di Portorico e del Ruanda). Dunque è con questi occhiali che dobbiamo guardare la riforma. E d’altra parte non è che se un provvedimento (la soppressione della concussione) va bene all’imputato Berlusconi, allora deve per forza andar male a tutti gli altri. Così come un provvedimento sbagliato del governo Berlusconi (il disegno di legge sulle intercettazioni) non diventa di colpo sacrosanto se lo benedice Monti. Altrimenti seguiteremo a comportarci da tifosi, senza cavare mai un ragno dal buco.
Quanto alla concussione, non è affatto vero che abolendo l’articolo 317 del Codice penale andremmo al «tana libera tutti». Da 12 anni ce lo chiede l’Ocse, ma per la ragione opposta: perché fin qui il concusso (di regola, un imprenditore) la faceva franca, apparendo al cospetto della legge italiana come vittima, anziché come complice e beneficiario del reato. E infatti l’accordo di maggioranza tende ad allargare la sfera dei comportamenti penalmente rilevanti, non a restringerla. Confeziona due nuovi reati (corruzione privata e traffico d’influenza), offrendo un presidio normativo al valore costituzionale della concorrenza, oltre che a un principio di lealtà. Per intendersi: se oggi pago una mazzetta al manager d’una fabbrica di scarpe in cambio dell’esclusiva sulla vendita, rischierò al massimo una causa civile di risarcimento verso i proprietari dell’azienda; con la riforma, viceversa, sia io che il manager finiamo dritti davanti al giudice penale. E se invece c’è di mezzo un’amministrazione pubblica? Niente concussione, ma potranno farne le veci l’estorsione aggravata o la corruzione allargata. Cambia insomma la parola, non la cosa. Anzi: aumentano le pene edittali.
Poi, certo, ci sarà da vigilare. Quando il governo metterà nero su bianco la riforma complessiva, dovremo valutare per esempio se il principio di responsabilità possa finalmente declinarsi pure per i giudici, che fin qui ne sono stati immuni; ma senza compromettere la loro indipendenza. Dovremo misurare lo spazio della libertà di stampa dopo la stretta sulle intercettazioni. Dovremo infine controllare che questa miscela normativa contenga una bella purga sulle prescrizioni: negli ultimi tre lustri sono triplicate, toccando nel 2011 il record europeo di 180 mila processi andati in fumo. Un falò che brucia 80 milioni l’anno, ma soprattutto manda in fiamme il nostro senso di giustizia. È di questo, non d’un singolo processo, che ora dobbiamo occuparci.

Il Corriere della Sera 19.03.12

"Il suo obiettivo era favorire buona flessibilità", di Tiziano Treu

A dieci anni dall’uccisione di Marco Biagi il suo ricordo è sempre vivo, specie per chi, come me, gli è stato vicino nel lavoro e negli ideali. In questi anni non tutti i ricordi hanno reso giustizia alla sua opera e alle sue intenzioni. Non gli ha reso
giustizia chi ha usato il nome di Marco per avvalorare le proprie idee; ma neppure chi al contrario ha attribuito alle proposte di Biagi i mali della precarietà del lavoro. In realtà il progetto di Marco si ispirava all’idea della cosiddetta «flexicurity» e al metodo della partecipazione, che sono entrambi centrali nel modello sociale europeo. La partecipazione, se bene intesa, è essenziale per la coesione sociale e anche per la qualità del lavoro. La «flexicurity» migliora il mercato del lavoro se la
flessibilità è regolata, oggi si direbbe se è buona, e se è bilanciata da una rete di ammortizzatori attivi, capaci di dare sicurezza ai lavoratori.
Marco Biagi voleva questo. Il suo disegno era equilibrato; ma è stato attuato in modo parziale, perché la flessibilità non è stata
ben regolata e non si sono previsti né ammortizzatori sociali estesi a tutti i lavoratori né servizi all’impiego e formativi
necessari a sostenere gli stessi lavoratori nei difficili mercati dei lavori attuali. La legislazione successiva ha accentuato gli
squilibri indotti da un’economia turbolenta, invece di correggerli
e ha quindi aggravato i rischi di precarietà.
Anche l’apprendistato era nei progetti di Biagi come risulta dalla legislazione dell’epoca e doveva servire (per questo oggi è ancora all‘ordine del giorno) ad arricchire le competenze professionali dei giovani nella transizione dalla scuola al lavoro. Il confronto in atto fra governo e parti sociali è chiamato a intervenire sulle criticità del nostro mercato del lavoro: a sostenere l’entrata dei giovani al lavoro, ora così drammaticamente esclusi, a contrastare le forme di precarietà e i veri e propri abusi contrattuali, a estendere le tutele per i lavoratori colpiti dalla crisi e dalla
disoccupazione. Sono questi i capitoli essenziali di una vera riforma, ben più che l’articolo18. Secondo Biagi l’articolo 18 richiedeva di essere modificato; ma doveva farsi sempre in chiave europea, in particolare secondo il modello tedesco. Inoltre la questione non andava enfatizzata ed ideologizzata come si sta facendo; nel suo libro bianco Marco vi dedica poche righe.
Il nostro mercato del lavoro è già abbastanza flessibile nel suo
complesso; siamo in media europea come riconosce anche l’Ocse; mentre invece siamo in grave ritardo nelle politiche di sostegno all’occupazione, nell’efficacia e nell’equità delle tutele e dei servizi. Il sistema degli ammortizzatori è in ritardo di 15 anni sull’Europa. Questo costituisce il più grave dualismo del nostro mercato del lavoro ed è un fattore di crescente disagio sociale.
Correggere questo ritardo richiede risorse, anzitutto delle parti e poi pubbliche; ma il recupero del ritardo può essere graduale purché si indichi chiaramente il punto d’arrivo, come in tutte le vere riforme. È giusto che una parte delle risorse risparmiate dai padri con la riforma delle pensioni siano messe a disposizione dei figli. Un accordo unitario fra le forze sociali su questi temi è
indispensabile non solo per migliorare le condizioni del lavoro, anzitutto dei giovani, ma anche per dare un sostegno sociale oltre che politico, a un governo che non è solo tecnico. Arrivare a questo accordo sarebbe un motivo ulteriore per riconoscere l’attualità delle idee di Biagi e per ricordarlo.

L’Unità 19.03.12

“Il suo obiettivo era favorire buona flessibilità”, di Tiziano Treu

A dieci anni dall’uccisione di Marco Biagi il suo ricordo è sempre vivo, specie per chi, come me, gli è stato vicino nel lavoro e negli ideali. In questi anni non tutti i ricordi hanno reso giustizia alla sua opera e alle sue intenzioni. Non gli ha reso
giustizia chi ha usato il nome di Marco per avvalorare le proprie idee; ma neppure chi al contrario ha attribuito alle proposte di Biagi i mali della precarietà del lavoro. In realtà il progetto di Marco si ispirava all’idea della cosiddetta «flexicurity» e al metodo della partecipazione, che sono entrambi centrali nel modello sociale europeo. La partecipazione, se bene intesa, è essenziale per la coesione sociale e anche per la qualità del lavoro. La «flexicurity» migliora il mercato del lavoro se la
flessibilità è regolata, oggi si direbbe se è buona, e se è bilanciata da una rete di ammortizzatori attivi, capaci di dare sicurezza ai lavoratori.
Marco Biagi voleva questo. Il suo disegno era equilibrato; ma è stato attuato in modo parziale, perché la flessibilità non è stata
ben regolata e non si sono previsti né ammortizzatori sociali estesi a tutti i lavoratori né servizi all’impiego e formativi
necessari a sostenere gli stessi lavoratori nei difficili mercati dei lavori attuali. La legislazione successiva ha accentuato gli
squilibri indotti da un’economia turbolenta, invece di correggerli
e ha quindi aggravato i rischi di precarietà.
Anche l’apprendistato era nei progetti di Biagi come risulta dalla legislazione dell’epoca e doveva servire (per questo oggi è ancora all‘ordine del giorno) ad arricchire le competenze professionali dei giovani nella transizione dalla scuola al lavoro. Il confronto in atto fra governo e parti sociali è chiamato a intervenire sulle criticità del nostro mercato del lavoro: a sostenere l’entrata dei giovani al lavoro, ora così drammaticamente esclusi, a contrastare le forme di precarietà e i veri e propri abusi contrattuali, a estendere le tutele per i lavoratori colpiti dalla crisi e dalla
disoccupazione. Sono questi i capitoli essenziali di una vera riforma, ben più che l’articolo18. Secondo Biagi l’articolo 18 richiedeva di essere modificato; ma doveva farsi sempre in chiave europea, in particolare secondo il modello tedesco. Inoltre la questione non andava enfatizzata ed ideologizzata come si sta facendo; nel suo libro bianco Marco vi dedica poche righe.
Il nostro mercato del lavoro è già abbastanza flessibile nel suo
complesso; siamo in media europea come riconosce anche l’Ocse; mentre invece siamo in grave ritardo nelle politiche di sostegno all’occupazione, nell’efficacia e nell’equità delle tutele e dei servizi. Il sistema degli ammortizzatori è in ritardo di 15 anni sull’Europa. Questo costituisce il più grave dualismo del nostro mercato del lavoro ed è un fattore di crescente disagio sociale.
Correggere questo ritardo richiede risorse, anzitutto delle parti e poi pubbliche; ma il recupero del ritardo può essere graduale purché si indichi chiaramente il punto d’arrivo, come in tutte le vere riforme. È giusto che una parte delle risorse risparmiate dai padri con la riforma delle pensioni siano messe a disposizione dei figli. Un accordo unitario fra le forze sociali su questi temi è
indispensabile non solo per migliorare le condizioni del lavoro, anzitutto dei giovani, ma anche per dare un sostegno sociale oltre che politico, a un governo che non è solo tecnico. Arrivare a questo accordo sarebbe un motivo ulteriore per riconoscere l’attualità delle idee di Biagi e per ricordarlo.

L’Unità 19.03.12

“Il suo obiettivo era favorire buona flessibilità”, di Tiziano Treu

A dieci anni dall’uccisione di Marco Biagi il suo ricordo è sempre vivo, specie per chi, come me, gli è stato vicino nel lavoro e negli ideali. In questi anni non tutti i ricordi hanno reso giustizia alla sua opera e alle sue intenzioni. Non gli ha reso
giustizia chi ha usato il nome di Marco per avvalorare le proprie idee; ma neppure chi al contrario ha attribuito alle proposte di Biagi i mali della precarietà del lavoro. In realtà il progetto di Marco si ispirava all’idea della cosiddetta «flexicurity» e al metodo della partecipazione, che sono entrambi centrali nel modello sociale europeo. La partecipazione, se bene intesa, è essenziale per la coesione sociale e anche per la qualità del lavoro. La «flexicurity» migliora il mercato del lavoro se la
flessibilità è regolata, oggi si direbbe se è buona, e se è bilanciata da una rete di ammortizzatori attivi, capaci di dare sicurezza ai lavoratori.
Marco Biagi voleva questo. Il suo disegno era equilibrato; ma è stato attuato in modo parziale, perché la flessibilità non è stata
ben regolata e non si sono previsti né ammortizzatori sociali estesi a tutti i lavoratori né servizi all’impiego e formativi
necessari a sostenere gli stessi lavoratori nei difficili mercati dei lavori attuali. La legislazione successiva ha accentuato gli
squilibri indotti da un’economia turbolenta, invece di correggerli
e ha quindi aggravato i rischi di precarietà.
Anche l’apprendistato era nei progetti di Biagi come risulta dalla legislazione dell’epoca e doveva servire (per questo oggi è ancora all‘ordine del giorno) ad arricchire le competenze professionali dei giovani nella transizione dalla scuola al lavoro. Il confronto in atto fra governo e parti sociali è chiamato a intervenire sulle criticità del nostro mercato del lavoro: a sostenere l’entrata dei giovani al lavoro, ora così drammaticamente esclusi, a contrastare le forme di precarietà e i veri e propri abusi contrattuali, a estendere le tutele per i lavoratori colpiti dalla crisi e dalla
disoccupazione. Sono questi i capitoli essenziali di una vera riforma, ben più che l’articolo18. Secondo Biagi l’articolo 18 richiedeva di essere modificato; ma doveva farsi sempre in chiave europea, in particolare secondo il modello tedesco. Inoltre la questione non andava enfatizzata ed ideologizzata come si sta facendo; nel suo libro bianco Marco vi dedica poche righe.
Il nostro mercato del lavoro è già abbastanza flessibile nel suo
complesso; siamo in media europea come riconosce anche l’Ocse; mentre invece siamo in grave ritardo nelle politiche di sostegno all’occupazione, nell’efficacia e nell’equità delle tutele e dei servizi. Il sistema degli ammortizzatori è in ritardo di 15 anni sull’Europa. Questo costituisce il più grave dualismo del nostro mercato del lavoro ed è un fattore di crescente disagio sociale.
Correggere questo ritardo richiede risorse, anzitutto delle parti e poi pubbliche; ma il recupero del ritardo può essere graduale purché si indichi chiaramente il punto d’arrivo, come in tutte le vere riforme. È giusto che una parte delle risorse risparmiate dai padri con la riforma delle pensioni siano messe a disposizione dei figli. Un accordo unitario fra le forze sociali su questi temi è
indispensabile non solo per migliorare le condizioni del lavoro, anzitutto dei giovani, ma anche per dare un sostegno sociale oltre che politico, a un governo che non è solo tecnico. Arrivare a questo accordo sarebbe un motivo ulteriore per riconoscere l’attualità delle idee di Biagi e per ricordarlo.

L’Unità 19.03.12

"Un dominus tv che salvi il salvabile", di Giovanni Valentini

Per quanto rilevante ed essenziale sia la questione della Rai, in questo momento non si può considerare tanto decisiva da compromettere il delicato equilibrio su cui si regge il governo Monti. E quindi tanto decisiva da compromettere l´impegno dell´esecutivo per il risanamento. L´economia nazionale viene prima anche della televisione pubblica. Viale Mazzini – rovesciando il motto attribuito a Enrico di Borbone, per giustificare la conversione dalla religione protestante a quella cattolica – non vale insomma una messa.
È evidente tuttavia che, in vista ormai dell´imminente scadenza del Consiglio di amministrazione, una soluzione bisogna pur trovarla senza proroghe o rinvii, per rinnovare il vertice e soprattutto l´assetto dell´azienda. Cioè per affrancarla dalla subalternità politica e restituirla alla funzione istituzionale di servizio pubblico, come continua a sollecitare anche l´Usigrai, il sindacato dei giornalisti, con il suo segretario Carlo Verna. E verosimilmente non c´è governo più autorevole e forte di questo per avviare almeno una bonifica di tale portata.
L´ipotesi del commissariamento di fatto, messa sul tavolo dal professor Monti nel recente vertice dei tre segretari di partito che fanno parte dell´attuale maggioranza, condivisa dal Pd di Bersani e dal Terzo polo prima con Fini e ieri anche con Casini, può corrispondere dunque a una logica di necessità e urgenza, come si dice per i decreti-legge: vale a dire un intervento d´emergenza o di pronto soccorso. Non un commissariamento in senso stretto, per il quale non ricorrono i presupposti giuridici dal momento che ancora quest´anno il bilancio Rai chiude formalmente in pareggio. Ma comunque, in attesa di una riforma organica della “governance”, un rafforzamento delle responsabilità e quindi dei poteri del direttore generale attraverso un ampliamento delle sue deleghe operative.
Nelle mani del presidente del Consiglio, questo può anche essere un deterrente o magari uno spauracchio per indurre il Pdl a più miti consigli. E in ogni caso, al contrario di quanto va blaterando l´ex ministro Gasparri, si tratta di una prospettiva del tutto legittima e costituzionale. È proprio in forza della scellerata legge che reca ancora le sue impronte digitali, infatti, che l´esecutivo è pienamente autorizzato a procedere di conseguenza, nominando ora il nuovo rappresentante del Tesoro all´interno del Cda e modificando in pratica i vecchi equilibri tra l´ex maggioranza e l´ex opposizione.
Fin dai tempi di Ettore Bernabei, del resto, il direttore generale è il “dominus” dell´azienda. Ma è stata la partitocrazia a limitarne sempre più i poteri per legargli le mani e tenere la Rai sotto controllo. Al momento, dunque, il numero uno di viale Mazzini è un manager a sovranità limitata: può fare proposte al Cda, ma deve sottomettersi alle sue decisioni e soprattutto ha un limite di spesa (un paio di milioni di euro) che nel mercato televisivo – dove si trattano produzioni, appalti, compensi e diritti per cifre molto più elevate – rappresenta oggettivamente un “minus” o un impedimento alla sua libertà di azione.
Finora, il direttore generale della Rai ha incarnato – per così dire – la maggioranza di governo e ancor più i voleri dell´esecutivo. Nella fase terminale dell´era berlusconiana, da Mauro Masi a Lorenza Lei, si può dire anzi che sia stato praticamente un funzionario di palazzo Chigi, eseguendo più o meno alla lettera le direttive ricevute dall´alto, disponendo a cascata l´organigramma e smantellando pezzi dell´azienda, fino all´espulsione di tanti collaudati professionisti dalla Rai e alla riprovevole nomina di Augusto Minzolini alla direzione del Tg1. Tutti danni d´immagine e ancor più materiali, in termini di audience e quindi di raccolta pubblicitaria.
Ben venga, allora, un super-direttore generale dotato di pieni e ampi poteri. Meglio ancora se si trattasse di una figura manageriale con un´esperienza specifica in campo televisivo, magari già conoscitore dell´azienda e dei suoi meccanismi interni. Un commissario straordinario, insomma, in grado di rispondere più ai cittadini, al popolo dei telespettatori e degli abbonati, piuttosto che alla nomenclatura politica.

La Repubblica 19.03.12

******

“L´azienda a un dg interno stop alla greppia dei partiti”, di Antonio Caporale

Napolitano e Monti hanno il potere di chiedere ai politici di non nominare dei meri rappresentanti nel cda. La Rai è stata la grande risorsa del potere maschile: designare, insediare, insidiare corpi di donne. «Se la tua nave sta affondando tenta di attraccarla in porto, ricava dalla sua prua un vascello. Porterai con te meno gente, ma potrai riprendere il largo».
Enrico Mentana non crede però a un Mosè che conduca la Rai fuori dall´Egitto.
«Un commissario esterno farebbe la fine dei professori: parentesi tecnocratica in un corpo allenato al rigetto. Ci vuole un uomo nato a viale Mazzini che faccia il direttore generale e renda normale un´azienda abnorme nelle dimensioni, irriconoscibile nelle capacità di governo, pletorica nella struttura di comando».
Renderla normale significa per caso normalizzarla?
«L´età del berlusconismo ha impedito di fare scelte sagge: normalizzarla allora voleva dire unicamente renderla serva di Mediaset. Ma oggi quel verbo, che non dobbiamo avere timore a promuoverlo nella sua identità letterale, induce solo a riflettere sull´esigenza prima: tenere i conti in pareggio, non affondare nei debiti, non morire».
Lo dice lei ai politici che dovranno presto buttarsi a mare?
«E´ questa è la difficoltà che precede ogni altra. Quel che resta dei partiti possiede quel che resta della Rai. Ogni loro potere è perduto tranne quella piccola fiammella accesa. La Rai finora è stata la greppia per piazzare persone, il posto eletto per i fiduciari politici, anche il luogo di autofinanziamento attraverso la quotazione delle fiction. E infine la grande risorsa del potere maschile: designare, insediare, insidiare corpi di donne. Come fanno oggi a soffiare sopra questo ben di Dio?».
Spegnere questa Rai è spegnere la propria vita.
«Vero. E questi partiti senza più idee e senza futuro se perdono anche la visibilità televisiva finiranno esuli in terra patria. Per alcune sigle politiche la tv è l´unico mezzo per farsi riconoscere. E almeno illudersi che la Rai gli porti vita, non morte».
Stima che gli italiani facciano fatica persino a connettere volto con partito?
«Dico esattamente questo. Con Berlusconi al comando dell´Italia gli spalti erano gremiti da tifosi e si poteva convocare uno Stracquadanio e un De Magistris a ogni ora del giorno o della notte e fare il pieno di ascolti. Un giornalismo pigro vedeva servita a tavola il pasto lauto senza muovere un passo. Adesso tutto cambia».
Il commissario appunto, dicono Casini e Fini. E sembra che Bersani…
«Mah, confermo i miei dubbi. Napolitano e Monti hanno il potere, e forse lo eserciteranno, di chiedere ai partiti di non nominare dei rappresentanti di lista nei consiglio di amministrazione. Forse avremo un direttore generale che comanderà sul serio, come è normale. Questa è la soluzione che mi sembra possibile, praticabile, auspicabile».
Se i partiti hanno le loro colpe, noi giornalisti abbiamo spesso indossato l´abito di chi apparecchia a tavola silente e felice.
«E quale dubbio c´è? Tante carriere si sono costruite senza talento ma nell´attesa, che mai è stata vana, di qualcuno che sorreggesse il tuo corpo e lo conducesse ai piani alti».
Il corpo avvista il naufragio e si ribellerà.
«Ma se per esempio vuoi fare un telegiornale di racconto, come immagina Angelo Guglielmi, non ti serve una redazione infinita. Alla Rai ti diranno che la Rai è servizio pubblico e pertanto l´informazione ha bisogno di essere completa, quindi pesante, larga».
Servizio pubblico: la truffa delle parole.
«Quando cadde l´impero sovietico i cremlinologi si trovarono a parlare una lingua morta. D´un tratto successe. Dobbiamo sopravvivere alle nostre abitudini, alle nostre stesse regole. E´ questo, in definitiva, il piacere ultimo del giornalismo: inventare nuove forme di narrazione».
Anche i talk show perdono ascolti, e anche la sua rete deve provvedere a usare il cervello più che il corpo dei tifosi.
«E´ la conferma che con la pigrizia mentale non si va lontani».

La Repubblica 19.03.12

“Un dominus tv che salvi il salvabile”, di Giovanni Valentini

Per quanto rilevante ed essenziale sia la questione della Rai, in questo momento non si può considerare tanto decisiva da compromettere il delicato equilibrio su cui si regge il governo Monti. E quindi tanto decisiva da compromettere l´impegno dell´esecutivo per il risanamento. L´economia nazionale viene prima anche della televisione pubblica. Viale Mazzini – rovesciando il motto attribuito a Enrico di Borbone, per giustificare la conversione dalla religione protestante a quella cattolica – non vale insomma una messa.
È evidente tuttavia che, in vista ormai dell´imminente scadenza del Consiglio di amministrazione, una soluzione bisogna pur trovarla senza proroghe o rinvii, per rinnovare il vertice e soprattutto l´assetto dell´azienda. Cioè per affrancarla dalla subalternità politica e restituirla alla funzione istituzionale di servizio pubblico, come continua a sollecitare anche l´Usigrai, il sindacato dei giornalisti, con il suo segretario Carlo Verna. E verosimilmente non c´è governo più autorevole e forte di questo per avviare almeno una bonifica di tale portata.
L´ipotesi del commissariamento di fatto, messa sul tavolo dal professor Monti nel recente vertice dei tre segretari di partito che fanno parte dell´attuale maggioranza, condivisa dal Pd di Bersani e dal Terzo polo prima con Fini e ieri anche con Casini, può corrispondere dunque a una logica di necessità e urgenza, come si dice per i decreti-legge: vale a dire un intervento d´emergenza o di pronto soccorso. Non un commissariamento in senso stretto, per il quale non ricorrono i presupposti giuridici dal momento che ancora quest´anno il bilancio Rai chiude formalmente in pareggio. Ma comunque, in attesa di una riforma organica della “governance”, un rafforzamento delle responsabilità e quindi dei poteri del direttore generale attraverso un ampliamento delle sue deleghe operative.
Nelle mani del presidente del Consiglio, questo può anche essere un deterrente o magari uno spauracchio per indurre il Pdl a più miti consigli. E in ogni caso, al contrario di quanto va blaterando l´ex ministro Gasparri, si tratta di una prospettiva del tutto legittima e costituzionale. È proprio in forza della scellerata legge che reca ancora le sue impronte digitali, infatti, che l´esecutivo è pienamente autorizzato a procedere di conseguenza, nominando ora il nuovo rappresentante del Tesoro all´interno del Cda e modificando in pratica i vecchi equilibri tra l´ex maggioranza e l´ex opposizione.
Fin dai tempi di Ettore Bernabei, del resto, il direttore generale è il “dominus” dell´azienda. Ma è stata la partitocrazia a limitarne sempre più i poteri per legargli le mani e tenere la Rai sotto controllo. Al momento, dunque, il numero uno di viale Mazzini è un manager a sovranità limitata: può fare proposte al Cda, ma deve sottomettersi alle sue decisioni e soprattutto ha un limite di spesa (un paio di milioni di euro) che nel mercato televisivo – dove si trattano produzioni, appalti, compensi e diritti per cifre molto più elevate – rappresenta oggettivamente un “minus” o un impedimento alla sua libertà di azione.
Finora, il direttore generale della Rai ha incarnato – per così dire – la maggioranza di governo e ancor più i voleri dell´esecutivo. Nella fase terminale dell´era berlusconiana, da Mauro Masi a Lorenza Lei, si può dire anzi che sia stato praticamente un funzionario di palazzo Chigi, eseguendo più o meno alla lettera le direttive ricevute dall´alto, disponendo a cascata l´organigramma e smantellando pezzi dell´azienda, fino all´espulsione di tanti collaudati professionisti dalla Rai e alla riprovevole nomina di Augusto Minzolini alla direzione del Tg1. Tutti danni d´immagine e ancor più materiali, in termini di audience e quindi di raccolta pubblicitaria.
Ben venga, allora, un super-direttore generale dotato di pieni e ampi poteri. Meglio ancora se si trattasse di una figura manageriale con un´esperienza specifica in campo televisivo, magari già conoscitore dell´azienda e dei suoi meccanismi interni. Un commissario straordinario, insomma, in grado di rispondere più ai cittadini, al popolo dei telespettatori e degli abbonati, piuttosto che alla nomenclatura politica.

La Repubblica 19.03.12

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“L´azienda a un dg interno stop alla greppia dei partiti”, di Antonio Caporale

Napolitano e Monti hanno il potere di chiedere ai politici di non nominare dei meri rappresentanti nel cda. La Rai è stata la grande risorsa del potere maschile: designare, insediare, insidiare corpi di donne. «Se la tua nave sta affondando tenta di attraccarla in porto, ricava dalla sua prua un vascello. Porterai con te meno gente, ma potrai riprendere il largo».
Enrico Mentana non crede però a un Mosè che conduca la Rai fuori dall´Egitto.
«Un commissario esterno farebbe la fine dei professori: parentesi tecnocratica in un corpo allenato al rigetto. Ci vuole un uomo nato a viale Mazzini che faccia il direttore generale e renda normale un´azienda abnorme nelle dimensioni, irriconoscibile nelle capacità di governo, pletorica nella struttura di comando».
Renderla normale significa per caso normalizzarla?
«L´età del berlusconismo ha impedito di fare scelte sagge: normalizzarla allora voleva dire unicamente renderla serva di Mediaset. Ma oggi quel verbo, che non dobbiamo avere timore a promuoverlo nella sua identità letterale, induce solo a riflettere sull´esigenza prima: tenere i conti in pareggio, non affondare nei debiti, non morire».
Lo dice lei ai politici che dovranno presto buttarsi a mare?
«E´ questa è la difficoltà che precede ogni altra. Quel che resta dei partiti possiede quel che resta della Rai. Ogni loro potere è perduto tranne quella piccola fiammella accesa. La Rai finora è stata la greppia per piazzare persone, il posto eletto per i fiduciari politici, anche il luogo di autofinanziamento attraverso la quotazione delle fiction. E infine la grande risorsa del potere maschile: designare, insediare, insidiare corpi di donne. Come fanno oggi a soffiare sopra questo ben di Dio?».
Spegnere questa Rai è spegnere la propria vita.
«Vero. E questi partiti senza più idee e senza futuro se perdono anche la visibilità televisiva finiranno esuli in terra patria. Per alcune sigle politiche la tv è l´unico mezzo per farsi riconoscere. E almeno illudersi che la Rai gli porti vita, non morte».
Stima che gli italiani facciano fatica persino a connettere volto con partito?
«Dico esattamente questo. Con Berlusconi al comando dell´Italia gli spalti erano gremiti da tifosi e si poteva convocare uno Stracquadanio e un De Magistris a ogni ora del giorno o della notte e fare il pieno di ascolti. Un giornalismo pigro vedeva servita a tavola il pasto lauto senza muovere un passo. Adesso tutto cambia».
Il commissario appunto, dicono Casini e Fini. E sembra che Bersani…
«Mah, confermo i miei dubbi. Napolitano e Monti hanno il potere, e forse lo eserciteranno, di chiedere ai partiti di non nominare dei rappresentanti di lista nei consiglio di amministrazione. Forse avremo un direttore generale che comanderà sul serio, come è normale. Questa è la soluzione che mi sembra possibile, praticabile, auspicabile».
Se i partiti hanno le loro colpe, noi giornalisti abbiamo spesso indossato l´abito di chi apparecchia a tavola silente e felice.
«E quale dubbio c´è? Tante carriere si sono costruite senza talento ma nell´attesa, che mai è stata vana, di qualcuno che sorreggesse il tuo corpo e lo conducesse ai piani alti».
Il corpo avvista il naufragio e si ribellerà.
«Ma se per esempio vuoi fare un telegiornale di racconto, come immagina Angelo Guglielmi, non ti serve una redazione infinita. Alla Rai ti diranno che la Rai è servizio pubblico e pertanto l´informazione ha bisogno di essere completa, quindi pesante, larga».
Servizio pubblico: la truffa delle parole.
«Quando cadde l´impero sovietico i cremlinologi si trovarono a parlare una lingua morta. D´un tratto successe. Dobbiamo sopravvivere alle nostre abitudini, alle nostre stesse regole. E´ questo, in definitiva, il piacere ultimo del giornalismo: inventare nuove forme di narrazione».
Anche i talk show perdono ascolti, e anche la sua rete deve provvedere a usare il cervello più che il corpo dei tifosi.
«E´ la conferma che con la pigrizia mentale non si va lontani».

La Repubblica 19.03.12

“Un dominus tv che salvi il salvabile”, di Giovanni Valentini

Per quanto rilevante ed essenziale sia la questione della Rai, in questo momento non si può considerare tanto decisiva da compromettere il delicato equilibrio su cui si regge il governo Monti. E quindi tanto decisiva da compromettere l´impegno dell´esecutivo per il risanamento. L´economia nazionale viene prima anche della televisione pubblica. Viale Mazzini – rovesciando il motto attribuito a Enrico di Borbone, per giustificare la conversione dalla religione protestante a quella cattolica – non vale insomma una messa.
È evidente tuttavia che, in vista ormai dell´imminente scadenza del Consiglio di amministrazione, una soluzione bisogna pur trovarla senza proroghe o rinvii, per rinnovare il vertice e soprattutto l´assetto dell´azienda. Cioè per affrancarla dalla subalternità politica e restituirla alla funzione istituzionale di servizio pubblico, come continua a sollecitare anche l´Usigrai, il sindacato dei giornalisti, con il suo segretario Carlo Verna. E verosimilmente non c´è governo più autorevole e forte di questo per avviare almeno una bonifica di tale portata.
L´ipotesi del commissariamento di fatto, messa sul tavolo dal professor Monti nel recente vertice dei tre segretari di partito che fanno parte dell´attuale maggioranza, condivisa dal Pd di Bersani e dal Terzo polo prima con Fini e ieri anche con Casini, può corrispondere dunque a una logica di necessità e urgenza, come si dice per i decreti-legge: vale a dire un intervento d´emergenza o di pronto soccorso. Non un commissariamento in senso stretto, per il quale non ricorrono i presupposti giuridici dal momento che ancora quest´anno il bilancio Rai chiude formalmente in pareggio. Ma comunque, in attesa di una riforma organica della “governance”, un rafforzamento delle responsabilità e quindi dei poteri del direttore generale attraverso un ampliamento delle sue deleghe operative.
Nelle mani del presidente del Consiglio, questo può anche essere un deterrente o magari uno spauracchio per indurre il Pdl a più miti consigli. E in ogni caso, al contrario di quanto va blaterando l´ex ministro Gasparri, si tratta di una prospettiva del tutto legittima e costituzionale. È proprio in forza della scellerata legge che reca ancora le sue impronte digitali, infatti, che l´esecutivo è pienamente autorizzato a procedere di conseguenza, nominando ora il nuovo rappresentante del Tesoro all´interno del Cda e modificando in pratica i vecchi equilibri tra l´ex maggioranza e l´ex opposizione.
Fin dai tempi di Ettore Bernabei, del resto, il direttore generale è il “dominus” dell´azienda. Ma è stata la partitocrazia a limitarne sempre più i poteri per legargli le mani e tenere la Rai sotto controllo. Al momento, dunque, il numero uno di viale Mazzini è un manager a sovranità limitata: può fare proposte al Cda, ma deve sottomettersi alle sue decisioni e soprattutto ha un limite di spesa (un paio di milioni di euro) che nel mercato televisivo – dove si trattano produzioni, appalti, compensi e diritti per cifre molto più elevate – rappresenta oggettivamente un “minus” o un impedimento alla sua libertà di azione.
Finora, il direttore generale della Rai ha incarnato – per così dire – la maggioranza di governo e ancor più i voleri dell´esecutivo. Nella fase terminale dell´era berlusconiana, da Mauro Masi a Lorenza Lei, si può dire anzi che sia stato praticamente un funzionario di palazzo Chigi, eseguendo più o meno alla lettera le direttive ricevute dall´alto, disponendo a cascata l´organigramma e smantellando pezzi dell´azienda, fino all´espulsione di tanti collaudati professionisti dalla Rai e alla riprovevole nomina di Augusto Minzolini alla direzione del Tg1. Tutti danni d´immagine e ancor più materiali, in termini di audience e quindi di raccolta pubblicitaria.
Ben venga, allora, un super-direttore generale dotato di pieni e ampi poteri. Meglio ancora se si trattasse di una figura manageriale con un´esperienza specifica in campo televisivo, magari già conoscitore dell´azienda e dei suoi meccanismi interni. Un commissario straordinario, insomma, in grado di rispondere più ai cittadini, al popolo dei telespettatori e degli abbonati, piuttosto che alla nomenclatura politica.

La Repubblica 19.03.12

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“L´azienda a un dg interno stop alla greppia dei partiti”, di Antonio Caporale

Napolitano e Monti hanno il potere di chiedere ai politici di non nominare dei meri rappresentanti nel cda. La Rai è stata la grande risorsa del potere maschile: designare, insediare, insidiare corpi di donne. «Se la tua nave sta affondando tenta di attraccarla in porto, ricava dalla sua prua un vascello. Porterai con te meno gente, ma potrai riprendere il largo».
Enrico Mentana non crede però a un Mosè che conduca la Rai fuori dall´Egitto.
«Un commissario esterno farebbe la fine dei professori: parentesi tecnocratica in un corpo allenato al rigetto. Ci vuole un uomo nato a viale Mazzini che faccia il direttore generale e renda normale un´azienda abnorme nelle dimensioni, irriconoscibile nelle capacità di governo, pletorica nella struttura di comando».
Renderla normale significa per caso normalizzarla?
«L´età del berlusconismo ha impedito di fare scelte sagge: normalizzarla allora voleva dire unicamente renderla serva di Mediaset. Ma oggi quel verbo, che non dobbiamo avere timore a promuoverlo nella sua identità letterale, induce solo a riflettere sull´esigenza prima: tenere i conti in pareggio, non affondare nei debiti, non morire».
Lo dice lei ai politici che dovranno presto buttarsi a mare?
«E´ questa è la difficoltà che precede ogni altra. Quel che resta dei partiti possiede quel che resta della Rai. Ogni loro potere è perduto tranne quella piccola fiammella accesa. La Rai finora è stata la greppia per piazzare persone, il posto eletto per i fiduciari politici, anche il luogo di autofinanziamento attraverso la quotazione delle fiction. E infine la grande risorsa del potere maschile: designare, insediare, insidiare corpi di donne. Come fanno oggi a soffiare sopra questo ben di Dio?».
Spegnere questa Rai è spegnere la propria vita.
«Vero. E questi partiti senza più idee e senza futuro se perdono anche la visibilità televisiva finiranno esuli in terra patria. Per alcune sigle politiche la tv è l´unico mezzo per farsi riconoscere. E almeno illudersi che la Rai gli porti vita, non morte».
Stima che gli italiani facciano fatica persino a connettere volto con partito?
«Dico esattamente questo. Con Berlusconi al comando dell´Italia gli spalti erano gremiti da tifosi e si poteva convocare uno Stracquadanio e un De Magistris a ogni ora del giorno o della notte e fare il pieno di ascolti. Un giornalismo pigro vedeva servita a tavola il pasto lauto senza muovere un passo. Adesso tutto cambia».
Il commissario appunto, dicono Casini e Fini. E sembra che Bersani…
«Mah, confermo i miei dubbi. Napolitano e Monti hanno il potere, e forse lo eserciteranno, di chiedere ai partiti di non nominare dei rappresentanti di lista nei consiglio di amministrazione. Forse avremo un direttore generale che comanderà sul serio, come è normale. Questa è la soluzione che mi sembra possibile, praticabile, auspicabile».
Se i partiti hanno le loro colpe, noi giornalisti abbiamo spesso indossato l´abito di chi apparecchia a tavola silente e felice.
«E quale dubbio c´è? Tante carriere si sono costruite senza talento ma nell´attesa, che mai è stata vana, di qualcuno che sorreggesse il tuo corpo e lo conducesse ai piani alti».
Il corpo avvista il naufragio e si ribellerà.
«Ma se per esempio vuoi fare un telegiornale di racconto, come immagina Angelo Guglielmi, non ti serve una redazione infinita. Alla Rai ti diranno che la Rai è servizio pubblico e pertanto l´informazione ha bisogno di essere completa, quindi pesante, larga».
Servizio pubblico: la truffa delle parole.
«Quando cadde l´impero sovietico i cremlinologi si trovarono a parlare una lingua morta. D´un tratto successe. Dobbiamo sopravvivere alle nostre abitudini, alle nostre stesse regole. E´ questo, in definitiva, il piacere ultimo del giornalismo: inventare nuove forme di narrazione».
Anche i talk show perdono ascolti, e anche la sua rete deve provvedere a usare il cervello più che il corpo dei tifosi.
«E´ la conferma che con la pigrizia mentale non si va lontani».

La Repubblica 19.03.12