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"Dizionario di un Paese che mi fa commuovere", di Roberto Benigni

Garibaldi come Lennon, poi Trilussa. l’Unità d’Italia secondo Benigni. Le celebrazioni dei 150 anni d’Italia: l’attore legge brani di Cavour e Mazzini e si commuove per la lettera di una vittima della Resistenza

Grazie, buon giorno signor presidente, Donna Clio, presidenti delle Camere, autorità tutte, sono lieto di essere qua. (…) Volevo venire a cavallo ma non mi è stato permesso come a Sanremo, sarebbe stata un’entrata straordinaria in questo che è il palazzo più bello del mondo, il Quirinale.
Se lei presidente ha bisogno di me, sostituire un corazziere, fare un settennato tecnico, sono a disposizione. (…) Il presidente Amato mi ha chiamato per dirmi: «Potresti venire a leggere delle cose al Quirinale dall’Unità d’Italia alla Liberazione?». Ho detto sì! Quante ore ho? È una patria meravigliosa, piena di eroi. Vado a ricordare i fratelli Bandiera, Ciro Menotti, Enrico Toti che lancia la stampella contro gli austriaci, che allora i nemici si potevano vedere. Oggi il nemico non si vede, è impalpabile, non si può lanciare una stampella contro lo spread. Allora io ho cominciato proprio dall’inizio e vi leggerò la proclamazione del Regno d’Italia sulla Gazzetta Ufficiale numero 3: (…) «Vittorio Emanuele II re di Sardegna di Cipro e di Gerusalemme ecc., il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato. Articolo unico: il re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di re d’Italia». (…) Torino, addì 17 marzo 1861. Vittorio Emanuele, Cavour, Minghetti, Cassini, Sveggezzi, Fanti, Mamiani, Corsi e Peruzzi». Voi non ci crederete, ma c’era anche la pubblicità nella stessa Gazzetta Ufficiale: «Enrico Orfei, viale Santa Barbera 11, possiede un segreto per far nascere i capelli anche dopo dieci anni di mancanza dei medesimi». I problemi son sempre gli stessi. Anche questo fa parte della storia.
Dunque, i nostri tre padri: Cavour, Mazzini, Garibaldi. In quel periodo eravamo i primi nel mondo, il Risorgimento italiano ha fatto liberare tutta l’Europa oppressa, una cosa straordinaria. Cavour è stato il più grande statista del suo secolo, come ricorderete: «Libera chiesa in libero Stato». Era detto «il grande tessitore», poi a seconda delle contingenze storiche si passa dai grandi tessitori ai grandi tassatori, ma questo è un altro discorso. Cavour scrive alla contessa di Circourt: «Non ho alcuna fiducia nelle dittature e soprattutto nelle dittature civili. Io non mi sono mai sentito debole, se non quando le Camere erano chiuse. D’altra parte non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita: sono figlio della libertà. È ad essa che debbo tutto quel che sono. (…) Io scelgo la via parlamentare, è la più lunga ma è la via più sicura». Camillo Cavour.
Adesso vi leggo un brevissimo estratto di Giuseppe Mazzini. (…) dai Doveri dell’uomo: (…): «Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal voto nello sviluppo della vita nazionale, finché uno solo vegeta ineducato tra gli educati, finché uno solo capace e voglioso di lavoro langue per mancanza di lavoro nella miseria, voi non avrete la patria come dovreste averla». (…) Giuseppe Mazzini. (…) «Imagine all the people, you can say…», Garibaldi l’ha detto molto tempo prima di John Lennon. Scrive Garibaldi nel 1860: «(…) Per esempio supponiamo che l’Europa formasse un solo stato — siamo nel 1860 — chi mai penserebbe di disturbarla in casa sua? E in tale supposizione non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati ai bisogni e alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizi di sterminio, sarebbero convertiti a vantaggio del popolo». (…) Giuseppe Garibaldi.
Siamo stati i primi anche a configurare l’Europa come entità politica. Pio II scrisse il De Europa. È la prima volta che la parola Europa viene trovata scritta, politicamente. Pio II, papa Enea Piccolomini del famoso detto: «Quando ero Enea nessun mi conosceva, ora che son Pio tutti mi chiaman Zio». C’era il problema di unire l’Europa per proteggersi dal pericolo turco e adesso il problema dell’Europa è annettere o no la Turchia all’Europa. I problemi davvero sono sempre gli stessi.
La Prima guerra mondiale. C’erano scritti di Emilio Lussu, meravigliosi, Rigoni Stern, Gadda, Ungaretti. Ho scelto una poesia terribile, lancinante, sulla Prima guerra mondiale: si chiama «Voce di vedetta morta», è di Clemente Rebora: ha combattuto nel Carso, fu ferito gravemente. «C’è un corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata. / Frode la terra. / Forsennato non piango: / Affar di chi può, e del fango. / Però se ritorni / Tu uomo, di guerra / A chi ignora non dire; / Non dire la cosa, ove l’uomo / E la vita s’intendono ancora. / Ma afferra la donna / Una notte, dopo un gorgo di baci, / Se tornare potrai; / Sòffiale che nulla del mondo / Redimerà ciò ch’è perso / Di noi, i putrefatti di qui; / Stringile il cuore a strozzarla: / E se t’ama, lo capirai nella vita / Più tardi, o giammai».
Nel 1921 abbiamo l’idea straordinaria del colonnello Douhet, che il Parlamento ha votato all’unanimità, di tumulare la salma di un giovane soldato sconosciuto con una cerimonia straordinaria. (…) Ad Aquileia: la signora Maria Bergamas gettò un velo nero che casualmente andò su una bara. Lei era la mamma di un soldato che non si ritrovava e abbiamo fatto il monumento al Milite ignoto, che in origine lo sapete era il Vittoriano, il monumento a Vittorio Emanuele. Ma un soldato ignoto è diventato più grande di un re. Circa 10 anni dopo, l’articolo 18 del Regio decreto del 28 agosto 1931 stabiliva un giuramento di fedeltà al regime fascista per i professori universitari.
Su 1250 professori universitari 14 rifiutarono il giuramento: Ernesto Buonaiuti, Giuseppe Antonio Borgese, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Errico Presutti, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. E ci sono altre tre persone che lasciarono volontariamente l’università nel ’25-26 alle prime avvisaglie di ciò che sarebbe avvenuto nel 1931: Silvio Trentini, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti.
Nel 1938 c’è la pagina non dico nera, ma ridicola della nostra storia. Sono le leggi razziali (…). Se ne può parlare solo in maniera grottesca e ridicola, come ha fatto questo popolarissimo poeta romano. Si chiama Trilussa e l’ha scritta nel 1938: «C’avevo un gatto e lo chiamavo Ajò / ma dato ch’era un nome un po’ giudìo / agnedi da un prefetto amico mio / pe’ domannaje se potevo o no: / volevo sta’ tranquillo, tantoppiù / ch’ero disposto de chiamallo Ajù. / «Bisognerà studià», disse er prefetto / «la vera provenienza de la madre» / Dico: la madre è un’angora, ma er padre / era soriano e bazzicava er ghetto / er gatto mio, però, sarebbe nato / tre mesi doppo a casa der Curato. / «Se veramente ciai ‘ste prove in mano — me rispose er prefetto — / se fa presto». E detto questo / firmò ‘na carta e me lo fece ariano. / «Però — me disse — pe’ tranquillità / è forse mejo che lo chiami Ajà».
Siamo alla Seconda guerra mondiale, una tragedia con milioni di morti. Ma quanti morti ci sono stati perché noi oggi potessimo essere qui: è una cosa commovente. Vi leggo alcuni estratti dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Sono ragazzi di 18/20 anni: il primo è un elettricista e dice a un amico: «I giudici erano tutti assassini e delinquenti. Chiesero la mia condanna a morte con il sorriso sulle labbra e hanno pronunciato la mia condanna a morte ridendo sguaiatamente come se avessero assistito a una rappresentazione comica. Ti scrivo queste parole 10 ore prima di essere fucilato. Muoio contento di aver servito la causa della libertà fino all’ultimo, addio. Giovanni».
Questo è Domenico Cane, 29 anni, artigiano: «Mamma fra un’ora non sarò più in questo mondo. L’ultimo mio anelito sarà per te, nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita. Sono sereno e innocente. Del motivo che muoio vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato e che è morto per la libertà e ora perdono a tutti, ciao mamma, papà, Stefano, Alberto, ciao a tutti, tutto è pronto sono sereno. Addio mamma, mamma, mamma, mamma» (e qui Benigni si commuove, ndr).
C’è voluta questa morte e tutto questo amore perché potessero essere scritte queste parole. Articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Articolo 2, 3, 4, 5, 6… 136, 137, 138, 139. La presente Costituzione è promulgata dal capo provvisorio dello Stato entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea costituente ed entra in vigore il 1° gennaio 1948. Roma, addì 27 dicembre 1947, il capo provvisorio dello stato Enrico De Nicola. Controfirmano il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini, il presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, visto il Guardasigilli Giuseppe Grassi.
Grazie, viva l’Italia.

da Il Corriere della Sera

“Dizionario di un Paese che mi fa commuovere”, di Roberto Benigni

Garibaldi come Lennon, poi Trilussa. l’Unità d’Italia secondo Benigni. Le celebrazioni dei 150 anni d’Italia: l’attore legge brani di Cavour e Mazzini e si commuove per la lettera di una vittima della Resistenza

Grazie, buon giorno signor presidente, Donna Clio, presidenti delle Camere, autorità tutte, sono lieto di essere qua. (…) Volevo venire a cavallo ma non mi è stato permesso come a Sanremo, sarebbe stata un’entrata straordinaria in questo che è il palazzo più bello del mondo, il Quirinale.
Se lei presidente ha bisogno di me, sostituire un corazziere, fare un settennato tecnico, sono a disposizione. (…) Il presidente Amato mi ha chiamato per dirmi: «Potresti venire a leggere delle cose al Quirinale dall’Unità d’Italia alla Liberazione?». Ho detto sì! Quante ore ho? È una patria meravigliosa, piena di eroi. Vado a ricordare i fratelli Bandiera, Ciro Menotti, Enrico Toti che lancia la stampella contro gli austriaci, che allora i nemici si potevano vedere. Oggi il nemico non si vede, è impalpabile, non si può lanciare una stampella contro lo spread. Allora io ho cominciato proprio dall’inizio e vi leggerò la proclamazione del Regno d’Italia sulla Gazzetta Ufficiale numero 3: (…) «Vittorio Emanuele II re di Sardegna di Cipro e di Gerusalemme ecc., il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato. Articolo unico: il re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di re d’Italia». (…) Torino, addì 17 marzo 1861. Vittorio Emanuele, Cavour, Minghetti, Cassini, Sveggezzi, Fanti, Mamiani, Corsi e Peruzzi». Voi non ci crederete, ma c’era anche la pubblicità nella stessa Gazzetta Ufficiale: «Enrico Orfei, viale Santa Barbera 11, possiede un segreto per far nascere i capelli anche dopo dieci anni di mancanza dei medesimi». I problemi son sempre gli stessi. Anche questo fa parte della storia.
Dunque, i nostri tre padri: Cavour, Mazzini, Garibaldi. In quel periodo eravamo i primi nel mondo, il Risorgimento italiano ha fatto liberare tutta l’Europa oppressa, una cosa straordinaria. Cavour è stato il più grande statista del suo secolo, come ricorderete: «Libera chiesa in libero Stato». Era detto «il grande tessitore», poi a seconda delle contingenze storiche si passa dai grandi tessitori ai grandi tassatori, ma questo è un altro discorso. Cavour scrive alla contessa di Circourt: «Non ho alcuna fiducia nelle dittature e soprattutto nelle dittature civili. Io non mi sono mai sentito debole, se non quando le Camere erano chiuse. D’altra parte non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita: sono figlio della libertà. È ad essa che debbo tutto quel che sono. (…) Io scelgo la via parlamentare, è la più lunga ma è la via più sicura». Camillo Cavour.
Adesso vi leggo un brevissimo estratto di Giuseppe Mazzini. (…) dai Doveri dell’uomo: (…): «Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal voto nello sviluppo della vita nazionale, finché uno solo vegeta ineducato tra gli educati, finché uno solo capace e voglioso di lavoro langue per mancanza di lavoro nella miseria, voi non avrete la patria come dovreste averla». (…) Giuseppe Mazzini. (…) «Imagine all the people, you can say…», Garibaldi l’ha detto molto tempo prima di John Lennon. Scrive Garibaldi nel 1860: «(…) Per esempio supponiamo che l’Europa formasse un solo stato — siamo nel 1860 — chi mai penserebbe di disturbarla in casa sua? E in tale supposizione non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati ai bisogni e alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizi di sterminio, sarebbero convertiti a vantaggio del popolo». (…) Giuseppe Garibaldi.
Siamo stati i primi anche a configurare l’Europa come entità politica. Pio II scrisse il De Europa. È la prima volta che la parola Europa viene trovata scritta, politicamente. Pio II, papa Enea Piccolomini del famoso detto: «Quando ero Enea nessun mi conosceva, ora che son Pio tutti mi chiaman Zio». C’era il problema di unire l’Europa per proteggersi dal pericolo turco e adesso il problema dell’Europa è annettere o no la Turchia all’Europa. I problemi davvero sono sempre gli stessi.
La Prima guerra mondiale. C’erano scritti di Emilio Lussu, meravigliosi, Rigoni Stern, Gadda, Ungaretti. Ho scelto una poesia terribile, lancinante, sulla Prima guerra mondiale: si chiama «Voce di vedetta morta», è di Clemente Rebora: ha combattuto nel Carso, fu ferito gravemente. «C’è un corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata. / Frode la terra. / Forsennato non piango: / Affar di chi può, e del fango. / Però se ritorni / Tu uomo, di guerra / A chi ignora non dire; / Non dire la cosa, ove l’uomo / E la vita s’intendono ancora. / Ma afferra la donna / Una notte, dopo un gorgo di baci, / Se tornare potrai; / Sòffiale che nulla del mondo / Redimerà ciò ch’è perso / Di noi, i putrefatti di qui; / Stringile il cuore a strozzarla: / E se t’ama, lo capirai nella vita / Più tardi, o giammai».
Nel 1921 abbiamo l’idea straordinaria del colonnello Douhet, che il Parlamento ha votato all’unanimità, di tumulare la salma di un giovane soldato sconosciuto con una cerimonia straordinaria. (…) Ad Aquileia: la signora Maria Bergamas gettò un velo nero che casualmente andò su una bara. Lei era la mamma di un soldato che non si ritrovava e abbiamo fatto il monumento al Milite ignoto, che in origine lo sapete era il Vittoriano, il monumento a Vittorio Emanuele. Ma un soldato ignoto è diventato più grande di un re. Circa 10 anni dopo, l’articolo 18 del Regio decreto del 28 agosto 1931 stabiliva un giuramento di fedeltà al regime fascista per i professori universitari.
Su 1250 professori universitari 14 rifiutarono il giuramento: Ernesto Buonaiuti, Giuseppe Antonio Borgese, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Errico Presutti, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. E ci sono altre tre persone che lasciarono volontariamente l’università nel ’25-26 alle prime avvisaglie di ciò che sarebbe avvenuto nel 1931: Silvio Trentini, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti.
Nel 1938 c’è la pagina non dico nera, ma ridicola della nostra storia. Sono le leggi razziali (…). Se ne può parlare solo in maniera grottesca e ridicola, come ha fatto questo popolarissimo poeta romano. Si chiama Trilussa e l’ha scritta nel 1938: «C’avevo un gatto e lo chiamavo Ajò / ma dato ch’era un nome un po’ giudìo / agnedi da un prefetto amico mio / pe’ domannaje se potevo o no: / volevo sta’ tranquillo, tantoppiù / ch’ero disposto de chiamallo Ajù. / «Bisognerà studià», disse er prefetto / «la vera provenienza de la madre» / Dico: la madre è un’angora, ma er padre / era soriano e bazzicava er ghetto / er gatto mio, però, sarebbe nato / tre mesi doppo a casa der Curato. / «Se veramente ciai ‘ste prove in mano — me rispose er prefetto — / se fa presto». E detto questo / firmò ‘na carta e me lo fece ariano. / «Però — me disse — pe’ tranquillità / è forse mejo che lo chiami Ajà».
Siamo alla Seconda guerra mondiale, una tragedia con milioni di morti. Ma quanti morti ci sono stati perché noi oggi potessimo essere qui: è una cosa commovente. Vi leggo alcuni estratti dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Sono ragazzi di 18/20 anni: il primo è un elettricista e dice a un amico: «I giudici erano tutti assassini e delinquenti. Chiesero la mia condanna a morte con il sorriso sulle labbra e hanno pronunciato la mia condanna a morte ridendo sguaiatamente come se avessero assistito a una rappresentazione comica. Ti scrivo queste parole 10 ore prima di essere fucilato. Muoio contento di aver servito la causa della libertà fino all’ultimo, addio. Giovanni».
Questo è Domenico Cane, 29 anni, artigiano: «Mamma fra un’ora non sarò più in questo mondo. L’ultimo mio anelito sarà per te, nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita. Sono sereno e innocente. Del motivo che muoio vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato e che è morto per la libertà e ora perdono a tutti, ciao mamma, papà, Stefano, Alberto, ciao a tutti, tutto è pronto sono sereno. Addio mamma, mamma, mamma, mamma» (e qui Benigni si commuove, ndr).
C’è voluta questa morte e tutto questo amore perché potessero essere scritte queste parole. Articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Articolo 2, 3, 4, 5, 6… 136, 137, 138, 139. La presente Costituzione è promulgata dal capo provvisorio dello Stato entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea costituente ed entra in vigore il 1° gennaio 1948. Roma, addì 27 dicembre 1947, il capo provvisorio dello stato Enrico De Nicola. Controfirmano il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini, il presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, visto il Guardasigilli Giuseppe Grassi.
Grazie, viva l’Italia.

da Il Corriere della Sera

“Dizionario di un Paese che mi fa commuovere”, di Roberto Benigni

Garibaldi come Lennon, poi Trilussa. l’Unità d’Italia secondo Benigni. Le celebrazioni dei 150 anni d’Italia: l’attore legge brani di Cavour e Mazzini e si commuove per la lettera di una vittima della Resistenza

Grazie, buon giorno signor presidente, Donna Clio, presidenti delle Camere, autorità tutte, sono lieto di essere qua. (…) Volevo venire a cavallo ma non mi è stato permesso come a Sanremo, sarebbe stata un’entrata straordinaria in questo che è il palazzo più bello del mondo, il Quirinale.
Se lei presidente ha bisogno di me, sostituire un corazziere, fare un settennato tecnico, sono a disposizione. (…) Il presidente Amato mi ha chiamato per dirmi: «Potresti venire a leggere delle cose al Quirinale dall’Unità d’Italia alla Liberazione?». Ho detto sì! Quante ore ho? È una patria meravigliosa, piena di eroi. Vado a ricordare i fratelli Bandiera, Ciro Menotti, Enrico Toti che lancia la stampella contro gli austriaci, che allora i nemici si potevano vedere. Oggi il nemico non si vede, è impalpabile, non si può lanciare una stampella contro lo spread. Allora io ho cominciato proprio dall’inizio e vi leggerò la proclamazione del Regno d’Italia sulla Gazzetta Ufficiale numero 3: (…) «Vittorio Emanuele II re di Sardegna di Cipro e di Gerusalemme ecc., il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato. Articolo unico: il re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di re d’Italia». (…) Torino, addì 17 marzo 1861. Vittorio Emanuele, Cavour, Minghetti, Cassini, Sveggezzi, Fanti, Mamiani, Corsi e Peruzzi». Voi non ci crederete, ma c’era anche la pubblicità nella stessa Gazzetta Ufficiale: «Enrico Orfei, viale Santa Barbera 11, possiede un segreto per far nascere i capelli anche dopo dieci anni di mancanza dei medesimi». I problemi son sempre gli stessi. Anche questo fa parte della storia.
Dunque, i nostri tre padri: Cavour, Mazzini, Garibaldi. In quel periodo eravamo i primi nel mondo, il Risorgimento italiano ha fatto liberare tutta l’Europa oppressa, una cosa straordinaria. Cavour è stato il più grande statista del suo secolo, come ricorderete: «Libera chiesa in libero Stato». Era detto «il grande tessitore», poi a seconda delle contingenze storiche si passa dai grandi tessitori ai grandi tassatori, ma questo è un altro discorso. Cavour scrive alla contessa di Circourt: «Non ho alcuna fiducia nelle dittature e soprattutto nelle dittature civili. Io non mi sono mai sentito debole, se non quando le Camere erano chiuse. D’altra parte non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita: sono figlio della libertà. È ad essa che debbo tutto quel che sono. (…) Io scelgo la via parlamentare, è la più lunga ma è la via più sicura». Camillo Cavour.
Adesso vi leggo un brevissimo estratto di Giuseppe Mazzini. (…) dai Doveri dell’uomo: (…): «Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal voto nello sviluppo della vita nazionale, finché uno solo vegeta ineducato tra gli educati, finché uno solo capace e voglioso di lavoro langue per mancanza di lavoro nella miseria, voi non avrete la patria come dovreste averla». (…) Giuseppe Mazzini. (…) «Imagine all the people, you can say…», Garibaldi l’ha detto molto tempo prima di John Lennon. Scrive Garibaldi nel 1860: «(…) Per esempio supponiamo che l’Europa formasse un solo stato — siamo nel 1860 — chi mai penserebbe di disturbarla in casa sua? E in tale supposizione non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati ai bisogni e alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizi di sterminio, sarebbero convertiti a vantaggio del popolo». (…) Giuseppe Garibaldi.
Siamo stati i primi anche a configurare l’Europa come entità politica. Pio II scrisse il De Europa. È la prima volta che la parola Europa viene trovata scritta, politicamente. Pio II, papa Enea Piccolomini del famoso detto: «Quando ero Enea nessun mi conosceva, ora che son Pio tutti mi chiaman Zio». C’era il problema di unire l’Europa per proteggersi dal pericolo turco e adesso il problema dell’Europa è annettere o no la Turchia all’Europa. I problemi davvero sono sempre gli stessi.
La Prima guerra mondiale. C’erano scritti di Emilio Lussu, meravigliosi, Rigoni Stern, Gadda, Ungaretti. Ho scelto una poesia terribile, lancinante, sulla Prima guerra mondiale: si chiama «Voce di vedetta morta», è di Clemente Rebora: ha combattuto nel Carso, fu ferito gravemente. «C’è un corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata. / Frode la terra. / Forsennato non piango: / Affar di chi può, e del fango. / Però se ritorni / Tu uomo, di guerra / A chi ignora non dire; / Non dire la cosa, ove l’uomo / E la vita s’intendono ancora. / Ma afferra la donna / Una notte, dopo un gorgo di baci, / Se tornare potrai; / Sòffiale che nulla del mondo / Redimerà ciò ch’è perso / Di noi, i putrefatti di qui; / Stringile il cuore a strozzarla: / E se t’ama, lo capirai nella vita / Più tardi, o giammai».
Nel 1921 abbiamo l’idea straordinaria del colonnello Douhet, che il Parlamento ha votato all’unanimità, di tumulare la salma di un giovane soldato sconosciuto con una cerimonia straordinaria. (…) Ad Aquileia: la signora Maria Bergamas gettò un velo nero che casualmente andò su una bara. Lei era la mamma di un soldato che non si ritrovava e abbiamo fatto il monumento al Milite ignoto, che in origine lo sapete era il Vittoriano, il monumento a Vittorio Emanuele. Ma un soldato ignoto è diventato più grande di un re. Circa 10 anni dopo, l’articolo 18 del Regio decreto del 28 agosto 1931 stabiliva un giuramento di fedeltà al regime fascista per i professori universitari.
Su 1250 professori universitari 14 rifiutarono il giuramento: Ernesto Buonaiuti, Giuseppe Antonio Borgese, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Errico Presutti, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. E ci sono altre tre persone che lasciarono volontariamente l’università nel ’25-26 alle prime avvisaglie di ciò che sarebbe avvenuto nel 1931: Silvio Trentini, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti.
Nel 1938 c’è la pagina non dico nera, ma ridicola della nostra storia. Sono le leggi razziali (…). Se ne può parlare solo in maniera grottesca e ridicola, come ha fatto questo popolarissimo poeta romano. Si chiama Trilussa e l’ha scritta nel 1938: «C’avevo un gatto e lo chiamavo Ajò / ma dato ch’era un nome un po’ giudìo / agnedi da un prefetto amico mio / pe’ domannaje se potevo o no: / volevo sta’ tranquillo, tantoppiù / ch’ero disposto de chiamallo Ajù. / «Bisognerà studià», disse er prefetto / «la vera provenienza de la madre» / Dico: la madre è un’angora, ma er padre / era soriano e bazzicava er ghetto / er gatto mio, però, sarebbe nato / tre mesi doppo a casa der Curato. / «Se veramente ciai ‘ste prove in mano — me rispose er prefetto — / se fa presto». E detto questo / firmò ‘na carta e me lo fece ariano. / «Però — me disse — pe’ tranquillità / è forse mejo che lo chiami Ajà».
Siamo alla Seconda guerra mondiale, una tragedia con milioni di morti. Ma quanti morti ci sono stati perché noi oggi potessimo essere qui: è una cosa commovente. Vi leggo alcuni estratti dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Sono ragazzi di 18/20 anni: il primo è un elettricista e dice a un amico: «I giudici erano tutti assassini e delinquenti. Chiesero la mia condanna a morte con il sorriso sulle labbra e hanno pronunciato la mia condanna a morte ridendo sguaiatamente come se avessero assistito a una rappresentazione comica. Ti scrivo queste parole 10 ore prima di essere fucilato. Muoio contento di aver servito la causa della libertà fino all’ultimo, addio. Giovanni».
Questo è Domenico Cane, 29 anni, artigiano: «Mamma fra un’ora non sarò più in questo mondo. L’ultimo mio anelito sarà per te, nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita. Sono sereno e innocente. Del motivo che muoio vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato e che è morto per la libertà e ora perdono a tutti, ciao mamma, papà, Stefano, Alberto, ciao a tutti, tutto è pronto sono sereno. Addio mamma, mamma, mamma, mamma» (e qui Benigni si commuove, ndr).
C’è voluta questa morte e tutto questo amore perché potessero essere scritte queste parole. Articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Articolo 2, 3, 4, 5, 6… 136, 137, 138, 139. La presente Costituzione è promulgata dal capo provvisorio dello Stato entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea costituente ed entra in vigore il 1° gennaio 1948. Roma, addì 27 dicembre 1947, il capo provvisorio dello stato Enrico De Nicola. Controfirmano il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini, il presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, visto il Guardasigilli Giuseppe Grassi.
Grazie, viva l’Italia.

da Il Corriere della Sera

"Manifesto della nuova Europa. Bersani: «Destra al capolinea»", di Simone Collini

Presentato a Parigi il documento dei progressisti. Sul palco Hollande, Bersani, Gabriel. Il segretario dei democratici: «L’austerità non basta». D’Alema: «Ora serve un riequilibrio sociale»
Un nuovo ciclo nelle politiche europee. Arrivati a Parigi per sostenere la corsa di François Hollande all’Eliseo, i leader di tutti i maggiori partiti progressisti lanciano il loro manifesto: un programma comune per l’Europa

Sotto la volta del Cirque d’Hiver sventolano bandiere col nome di François Hollande ma gli applausi sono anche per gli altri leader delle forze progressiste, per questa sorta di gemellaggio europeista.
Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e quello della Spd Sigmar Gabriel sono arrivati a Parigi per sostenere la candidatura del leader socialista francese alle presidenziali di maggio, ma anche per firmare una piattaforma programmatica comune. A metterla a punto sono state la Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps) e altre fondazioni vicine al Pd (Italianieuropei), al Ps (Jean Jaurès) e ai socialdemocratici tedeschi (Friedrich Ebert Stiftung).
Ma i leader politici dei tre partiti hanno concordato sulla necessità di dare un seguito non solo di elaborazione a questa operazione. Hollande, Gabriel e Bersani hanno infatti deciso di continuare con l’elaborazione programmatica comune ma anche con la cooperazione rafforzata nelle istituzioni europee e con la pianificazione di altri appuntamenti di carattere elettorale che verranno organizzati la primavera del prossimo anno a Roma (prima delle elezioni politiche) e poi in autunno a Berlino (prima del voto in Germania).
CAMBIARE VOLTO ALL’EUROPA
«Nei prossimi diciotto mesi l’Europa può cambiare volto», dice aprendo i lavori Massimo D’Alema, che come presidente della Feps ha pianificato e lavorato per la riuscita di questa operazione. «Il problema non è l’Europa in sé, è questa Europa, guidata da governi conservatori con miopia ed egoismo». Che le prossime elezioni in Francia, Italia e Germania possono cambiare la direzione politica dell’Ue è un concetto che non sfugge a nessuno. Non sfugge a un britannico che aveva allentato i rapporti con le forze progressiste europee come David Miliband e che a sorpresa è venuto a Parigi per partecipare al seminario preparatorio alla conferenza di ieri, a un tedesco come Martin Schulz, a un bulgaro come Sergei Stanishev, a un austriaco come Hannes Swoboda o ai politici svedesi che hanno partecipato insieme agli altri a una cena in cui si è parlato dei prossimi mesi e in cui l’ottimismo sulla possibilità di un cambio di vento era piuttosto palpabile.
IL PATTO DI STABILITÀ NON BASTA
Insiste sulla necessità di aprire un nuovo ciclo nelle politiche europee anche Bersani. Una vittoria di Hollande è per il leader del Pd una prima conferma che c’è una strada alternativa a quella tracciata in questi anni dall’asse “Merkozy” e dai partiti conservatori al governo. «Soprattutto sarà la conferma che l’Europa più egoista e cinica sta chiudendo il suo ciclo». I quattromila parigini stipati nel Cirque d’Hiver esplodono in un applauso quando Bersani ricorda che l’ultimo anno «si è portato via il governo Berlusconi, anche grazie al Pd». Un discorso che riguarda l’Italia, che «è di nuovo un paese ascoltato», ma che riguarda anche i destini comunitari: «I progressisti mostrano la volontà che li unisce, aprire una nuova stagione della storia e della politica per l’Europa. Questo è il nostro tempo. I conservatori la loro chance l’hanno avuta. Hanno guidato a lungo le sorti dell’Europa, hanno seminato le loro idee e i loro valori. Ma la raccolta si è rivelata disastrosa». Con la Grecia a fare da simbolo del cinismo e del fallimento delle loro politiche.
Tra i principali errori commessi dai governi guidati dalle forze di destra c’è per Bersani l’insistere esclusivamente su politiche di austerità. Anche il «Fiscal compact» fortemente voluto da Merkozy può rappresentare più una minaccia che un’opportunità per l’Europa. «Quel trattato non basta, non è sufficiente», dice Bersani tra gli applausi dei sostenitori di Hollande, che ha già annunciato l’intenzione di ridiscuterlo, nel caso dovesse andare all’Eliseo. Nel documento siglato a Parigi dai leader progressisti si fa riferimento alla necessità di integrare il patto di stabilità con politiche per la crescita. E Bersani non vede nessuna contraddizione nel sostenere Monti, che ha firmato insieme ad altri 24 capi di governo quel testo, e auspicare una vittoria di Hollande alle presidenziali francesi. «Il governo italiano ha firmato e manterrà la sua firma – dice ai giornalisti che lo avvicinano al termine dell’iniziativa – ma da italiano di buon senso dico che se un Paese sovrano come la Francia pone questo problema, si può aprire uno spazio di discussione con la prospettiva di un miglioramento. C’è la possibilità di rafforzare il trattato sul versante della crescita e può essere interesse dell’Italia e non solo dell’Europa». Fa notare anche D’Alema di fronte a chi ricorda le critiche di Sarkozy all’intenzione di Hollande di ridiscutere il patto di stabilità. «I Parlamenti sono sovrani e la ratifica di un trattato non è un rituale. È un diritto sovrano inalienabile dei francesi rinegoziare, riequilibrare le politiche coniugando alla disciplina di bilancio misure urgenti di sostegno alla crescita, all’occupazione, all’eguaglianza». È un diritto anche degli italiani, e la discussione potrebbe presto aprirsi in Parlamento.

da l’Unità 18.3.12

******

“E se «Merkozy» resiste? Il leader Pd vede i rischi ma la strada è obbligata”, di S.C.
Il rapporto con i socialisti Nel Pd non ci sono più resistenze interne di tipo ideologico. L’alleanza coi socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi è fondamentale anche per impostare le elezioni del 2013 come una competizione tra progressisti e conservatori

Né la foto di Vasto con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro perché il campo è troppo stretto né quella a Palazzo Chigi con Pier Ferdinando Casini e Angelino Alfano scattata col cellulare del leader dell’Udc perché l’inquadratura è troppo larga. Considerato che ormai le istantanee sono entrate stabilmente nel dibattito politico, è con la foto di Parigi con François Hollande e Sigmar Gabriel che Pier Luigi Bersani vuole andare alla prossima campagna elettorale. E non a caso il gruppo dirigente del Pd, appena siglata nella capitale francese la piattaforma programmatica comune sulle politiche europee, già si è messo al lavoro per preparare a Roma il 19 e 20 aprile una conferenza internazionale a cui sono stati invitati i vertici di tutti i gruppi parlamentari progressisti presenti a Strasburgo.
Per Bersani l’alleanza con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi (ma anche i laburisti inglesi e gli altri partiti progressisti del Belgio e della Scandinavia) è strategica per più di un motivo, quando finita la fase di transizione guidata dal governo Monti si andrà alle urne. Stringere un patto con le altre forze di centrosinistra europee vuol dire da un lato cominciare ad impostare fin d’ora per la primavera 2013 una competizione tra progressisti e conservatori chiudendo così la porta all’ipotesi di una Grosse Koalition in salsa italiana, caldeggiata fuori ma anche dentro il Pd. Dall’altro lato, l’esito delle presidenziali d’Oltralpe influenzerà in un senso o nell’altro il tipo di coalizione e anche la candidatura per la premiership alle prossime politiche italiane.
Bersani, che comunque pensa debbano essere le primarie a scegliere il candidato premier, sa bene che la scommessa ha una posta tanto alta quanto è alto il rischio che l’operazione comporta. Legare strettamente le vicende nostrane all’esito delle presidenziali francesi e anche ai consensi su cui potrà contare nei prossimi mesi Angela Merkel è chiaramente pericoloso. Nicolas Sarkozy non ha esitato a mettere in discussione Schengen pur di guadagnare qualche punto nei sondaggi, e il timore confessato dai socialisti francesi agli italiani arrivati a Parigi è che da qui a maggio giocherà altre carte pericolose per la tenuta dell’Ue. Puntare su un cambio del vento in Europa è d’obbligo per il Pd, ma se la fine del ciclo conservatore dovesse rivelarsi nei prossimi mesi un’illusione il contraccolpo si farebbe sentire pesantemente anche sulle vicende italiane.
L’Udc soprattutto, ma anche alcuni settori del Pd di provenienza centrista o ex-popolare puntano a un governo di larghe intese anche per la prossima legislatura. E se l’asse Merkozy dovesse riaffermarsi si farebbe più complicato per i Democratici esprimere il candidato premier.
Casini lo dice chiaramente che lavora per un avvicinamento di Pd e Pdl in vista della prossima campagna elettorale, ma va letto in questa chiave anche il memorandum firmato proprio in questi giorni da Beppe Fioroni, Marco Follini e una dozzina di esponenti ex-Ppi e della minoranza di Movimento democratico favorevole al “Monti bis”, un documento critico nei confronti del sostegno a Hollande e favorevoli invece a un’intesa con il centrista François Bayrou.
Un aspetto positivo per Bersani è che comunque in questo passaggio non deve fare i conti con resistenze interne di tipo ideologico sul rapporto con i partiti socialisti europei. Il fatto che la vecchia discussione sull’appartenenza alle famiglie politiche non sia stata sollevata da nessuno dopo che è stato creato a Strasburgo il gruppo dei Socialisti e Democratici consente al leader del Pd un’ampia possibilità di manovra in questa operazione.
Bersani però non vuole rischiare a agli interlocutori francesi e tedeschi ha spiegato che il campo socialista deve allargarsi. «Arriviamo a questo appuntamento forti della nostra storia e della identità di ciascuno, storie ed identità che non sono mai nemiche del coraggio e dell’innovazione», è il messaggio consegnato a Hollande e a Gabriel. «Noi democratici italiani in questi anni abbiamo innovato molto, abbiamo scelto di superare le antiche appartenenze e di dare vita a un Pd che già adesso, a quattro anni dalla sua nascita, è il primo partito italiano».
Da questo alla possibilità di esprimere il candidato premier alle prossime politiche c’è un percorso che, nel bene o nel male, passa anche per l’Europa.

da L’Unità

“Manifesto della nuova Europa. Bersani: «Destra al capolinea»”, di Simone Collini

Presentato a Parigi il documento dei progressisti. Sul palco Hollande, Bersani, Gabriel. Il segretario dei democratici: «L’austerità non basta». D’Alema: «Ora serve un riequilibrio sociale»
Un nuovo ciclo nelle politiche europee. Arrivati a Parigi per sostenere la corsa di François Hollande all’Eliseo, i leader di tutti i maggiori partiti progressisti lanciano il loro manifesto: un programma comune per l’Europa

Sotto la volta del Cirque d’Hiver sventolano bandiere col nome di François Hollande ma gli applausi sono anche per gli altri leader delle forze progressiste, per questa sorta di gemellaggio europeista.
Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e quello della Spd Sigmar Gabriel sono arrivati a Parigi per sostenere la candidatura del leader socialista francese alle presidenziali di maggio, ma anche per firmare una piattaforma programmatica comune. A metterla a punto sono state la Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps) e altre fondazioni vicine al Pd (Italianieuropei), al Ps (Jean Jaurès) e ai socialdemocratici tedeschi (Friedrich Ebert Stiftung).
Ma i leader politici dei tre partiti hanno concordato sulla necessità di dare un seguito non solo di elaborazione a questa operazione. Hollande, Gabriel e Bersani hanno infatti deciso di continuare con l’elaborazione programmatica comune ma anche con la cooperazione rafforzata nelle istituzioni europee e con la pianificazione di altri appuntamenti di carattere elettorale che verranno organizzati la primavera del prossimo anno a Roma (prima delle elezioni politiche) e poi in autunno a Berlino (prima del voto in Germania).
CAMBIARE VOLTO ALL’EUROPA
«Nei prossimi diciotto mesi l’Europa può cambiare volto», dice aprendo i lavori Massimo D’Alema, che come presidente della Feps ha pianificato e lavorato per la riuscita di questa operazione. «Il problema non è l’Europa in sé, è questa Europa, guidata da governi conservatori con miopia ed egoismo». Che le prossime elezioni in Francia, Italia e Germania possono cambiare la direzione politica dell’Ue è un concetto che non sfugge a nessuno. Non sfugge a un britannico che aveva allentato i rapporti con le forze progressiste europee come David Miliband e che a sorpresa è venuto a Parigi per partecipare al seminario preparatorio alla conferenza di ieri, a un tedesco come Martin Schulz, a un bulgaro come Sergei Stanishev, a un austriaco come Hannes Swoboda o ai politici svedesi che hanno partecipato insieme agli altri a una cena in cui si è parlato dei prossimi mesi e in cui l’ottimismo sulla possibilità di un cambio di vento era piuttosto palpabile.
IL PATTO DI STABILITÀ NON BASTA
Insiste sulla necessità di aprire un nuovo ciclo nelle politiche europee anche Bersani. Una vittoria di Hollande è per il leader del Pd una prima conferma che c’è una strada alternativa a quella tracciata in questi anni dall’asse “Merkozy” e dai partiti conservatori al governo. «Soprattutto sarà la conferma che l’Europa più egoista e cinica sta chiudendo il suo ciclo». I quattromila parigini stipati nel Cirque d’Hiver esplodono in un applauso quando Bersani ricorda che l’ultimo anno «si è portato via il governo Berlusconi, anche grazie al Pd». Un discorso che riguarda l’Italia, che «è di nuovo un paese ascoltato», ma che riguarda anche i destini comunitari: «I progressisti mostrano la volontà che li unisce, aprire una nuova stagione della storia e della politica per l’Europa. Questo è il nostro tempo. I conservatori la loro chance l’hanno avuta. Hanno guidato a lungo le sorti dell’Europa, hanno seminato le loro idee e i loro valori. Ma la raccolta si è rivelata disastrosa». Con la Grecia a fare da simbolo del cinismo e del fallimento delle loro politiche.
Tra i principali errori commessi dai governi guidati dalle forze di destra c’è per Bersani l’insistere esclusivamente su politiche di austerità. Anche il «Fiscal compact» fortemente voluto da Merkozy può rappresentare più una minaccia che un’opportunità per l’Europa. «Quel trattato non basta, non è sufficiente», dice Bersani tra gli applausi dei sostenitori di Hollande, che ha già annunciato l’intenzione di ridiscuterlo, nel caso dovesse andare all’Eliseo. Nel documento siglato a Parigi dai leader progressisti si fa riferimento alla necessità di integrare il patto di stabilità con politiche per la crescita. E Bersani non vede nessuna contraddizione nel sostenere Monti, che ha firmato insieme ad altri 24 capi di governo quel testo, e auspicare una vittoria di Hollande alle presidenziali francesi. «Il governo italiano ha firmato e manterrà la sua firma – dice ai giornalisti che lo avvicinano al termine dell’iniziativa – ma da italiano di buon senso dico che se un Paese sovrano come la Francia pone questo problema, si può aprire uno spazio di discussione con la prospettiva di un miglioramento. C’è la possibilità di rafforzare il trattato sul versante della crescita e può essere interesse dell’Italia e non solo dell’Europa». Fa notare anche D’Alema di fronte a chi ricorda le critiche di Sarkozy all’intenzione di Hollande di ridiscutere il patto di stabilità. «I Parlamenti sono sovrani e la ratifica di un trattato non è un rituale. È un diritto sovrano inalienabile dei francesi rinegoziare, riequilibrare le politiche coniugando alla disciplina di bilancio misure urgenti di sostegno alla crescita, all’occupazione, all’eguaglianza». È un diritto anche degli italiani, e la discussione potrebbe presto aprirsi in Parlamento.

da l’Unità 18.3.12

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“E se «Merkozy» resiste? Il leader Pd vede i rischi ma la strada è obbligata”, di S.C.
Il rapporto con i socialisti Nel Pd non ci sono più resistenze interne di tipo ideologico. L’alleanza coi socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi è fondamentale anche per impostare le elezioni del 2013 come una competizione tra progressisti e conservatori

Né la foto di Vasto con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro perché il campo è troppo stretto né quella a Palazzo Chigi con Pier Ferdinando Casini e Angelino Alfano scattata col cellulare del leader dell’Udc perché l’inquadratura è troppo larga. Considerato che ormai le istantanee sono entrate stabilmente nel dibattito politico, è con la foto di Parigi con François Hollande e Sigmar Gabriel che Pier Luigi Bersani vuole andare alla prossima campagna elettorale. E non a caso il gruppo dirigente del Pd, appena siglata nella capitale francese la piattaforma programmatica comune sulle politiche europee, già si è messo al lavoro per preparare a Roma il 19 e 20 aprile una conferenza internazionale a cui sono stati invitati i vertici di tutti i gruppi parlamentari progressisti presenti a Strasburgo.
Per Bersani l’alleanza con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi (ma anche i laburisti inglesi e gli altri partiti progressisti del Belgio e della Scandinavia) è strategica per più di un motivo, quando finita la fase di transizione guidata dal governo Monti si andrà alle urne. Stringere un patto con le altre forze di centrosinistra europee vuol dire da un lato cominciare ad impostare fin d’ora per la primavera 2013 una competizione tra progressisti e conservatori chiudendo così la porta all’ipotesi di una Grosse Koalition in salsa italiana, caldeggiata fuori ma anche dentro il Pd. Dall’altro lato, l’esito delle presidenziali d’Oltralpe influenzerà in un senso o nell’altro il tipo di coalizione e anche la candidatura per la premiership alle prossime politiche italiane.
Bersani, che comunque pensa debbano essere le primarie a scegliere il candidato premier, sa bene che la scommessa ha una posta tanto alta quanto è alto il rischio che l’operazione comporta. Legare strettamente le vicende nostrane all’esito delle presidenziali francesi e anche ai consensi su cui potrà contare nei prossimi mesi Angela Merkel è chiaramente pericoloso. Nicolas Sarkozy non ha esitato a mettere in discussione Schengen pur di guadagnare qualche punto nei sondaggi, e il timore confessato dai socialisti francesi agli italiani arrivati a Parigi è che da qui a maggio giocherà altre carte pericolose per la tenuta dell’Ue. Puntare su un cambio del vento in Europa è d’obbligo per il Pd, ma se la fine del ciclo conservatore dovesse rivelarsi nei prossimi mesi un’illusione il contraccolpo si farebbe sentire pesantemente anche sulle vicende italiane.
L’Udc soprattutto, ma anche alcuni settori del Pd di provenienza centrista o ex-popolare puntano a un governo di larghe intese anche per la prossima legislatura. E se l’asse Merkozy dovesse riaffermarsi si farebbe più complicato per i Democratici esprimere il candidato premier.
Casini lo dice chiaramente che lavora per un avvicinamento di Pd e Pdl in vista della prossima campagna elettorale, ma va letto in questa chiave anche il memorandum firmato proprio in questi giorni da Beppe Fioroni, Marco Follini e una dozzina di esponenti ex-Ppi e della minoranza di Movimento democratico favorevole al “Monti bis”, un documento critico nei confronti del sostegno a Hollande e favorevoli invece a un’intesa con il centrista François Bayrou.
Un aspetto positivo per Bersani è che comunque in questo passaggio non deve fare i conti con resistenze interne di tipo ideologico sul rapporto con i partiti socialisti europei. Il fatto che la vecchia discussione sull’appartenenza alle famiglie politiche non sia stata sollevata da nessuno dopo che è stato creato a Strasburgo il gruppo dei Socialisti e Democratici consente al leader del Pd un’ampia possibilità di manovra in questa operazione.
Bersani però non vuole rischiare a agli interlocutori francesi e tedeschi ha spiegato che il campo socialista deve allargarsi. «Arriviamo a questo appuntamento forti della nostra storia e della identità di ciascuno, storie ed identità che non sono mai nemiche del coraggio e dell’innovazione», è il messaggio consegnato a Hollande e a Gabriel. «Noi democratici italiani in questi anni abbiamo innovato molto, abbiamo scelto di superare le antiche appartenenze e di dare vita a un Pd che già adesso, a quattro anni dalla sua nascita, è il primo partito italiano».
Da questo alla possibilità di esprimere il candidato premier alle prossime politiche c’è un percorso che, nel bene o nel male, passa anche per l’Europa.

da L’Unità

“Manifesto della nuova Europa. Bersani: «Destra al capolinea»”, di Simone Collini

Presentato a Parigi il documento dei progressisti. Sul palco Hollande, Bersani, Gabriel. Il segretario dei democratici: «L’austerità non basta». D’Alema: «Ora serve un riequilibrio sociale»
Un nuovo ciclo nelle politiche europee. Arrivati a Parigi per sostenere la corsa di François Hollande all’Eliseo, i leader di tutti i maggiori partiti progressisti lanciano il loro manifesto: un programma comune per l’Europa

Sotto la volta del Cirque d’Hiver sventolano bandiere col nome di François Hollande ma gli applausi sono anche per gli altri leader delle forze progressiste, per questa sorta di gemellaggio europeista.
Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e quello della Spd Sigmar Gabriel sono arrivati a Parigi per sostenere la candidatura del leader socialista francese alle presidenziali di maggio, ma anche per firmare una piattaforma programmatica comune. A metterla a punto sono state la Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps) e altre fondazioni vicine al Pd (Italianieuropei), al Ps (Jean Jaurès) e ai socialdemocratici tedeschi (Friedrich Ebert Stiftung).
Ma i leader politici dei tre partiti hanno concordato sulla necessità di dare un seguito non solo di elaborazione a questa operazione. Hollande, Gabriel e Bersani hanno infatti deciso di continuare con l’elaborazione programmatica comune ma anche con la cooperazione rafforzata nelle istituzioni europee e con la pianificazione di altri appuntamenti di carattere elettorale che verranno organizzati la primavera del prossimo anno a Roma (prima delle elezioni politiche) e poi in autunno a Berlino (prima del voto in Germania).
CAMBIARE VOLTO ALL’EUROPA
«Nei prossimi diciotto mesi l’Europa può cambiare volto», dice aprendo i lavori Massimo D’Alema, che come presidente della Feps ha pianificato e lavorato per la riuscita di questa operazione. «Il problema non è l’Europa in sé, è questa Europa, guidata da governi conservatori con miopia ed egoismo». Che le prossime elezioni in Francia, Italia e Germania possono cambiare la direzione politica dell’Ue è un concetto che non sfugge a nessuno. Non sfugge a un britannico che aveva allentato i rapporti con le forze progressiste europee come David Miliband e che a sorpresa è venuto a Parigi per partecipare al seminario preparatorio alla conferenza di ieri, a un tedesco come Martin Schulz, a un bulgaro come Sergei Stanishev, a un austriaco come Hannes Swoboda o ai politici svedesi che hanno partecipato insieme agli altri a una cena in cui si è parlato dei prossimi mesi e in cui l’ottimismo sulla possibilità di un cambio di vento era piuttosto palpabile.
IL PATTO DI STABILITÀ NON BASTA
Insiste sulla necessità di aprire un nuovo ciclo nelle politiche europee anche Bersani. Una vittoria di Hollande è per il leader del Pd una prima conferma che c’è una strada alternativa a quella tracciata in questi anni dall’asse “Merkozy” e dai partiti conservatori al governo. «Soprattutto sarà la conferma che l’Europa più egoista e cinica sta chiudendo il suo ciclo». I quattromila parigini stipati nel Cirque d’Hiver esplodono in un applauso quando Bersani ricorda che l’ultimo anno «si è portato via il governo Berlusconi, anche grazie al Pd». Un discorso che riguarda l’Italia, che «è di nuovo un paese ascoltato», ma che riguarda anche i destini comunitari: «I progressisti mostrano la volontà che li unisce, aprire una nuova stagione della storia e della politica per l’Europa. Questo è il nostro tempo. I conservatori la loro chance l’hanno avuta. Hanno guidato a lungo le sorti dell’Europa, hanno seminato le loro idee e i loro valori. Ma la raccolta si è rivelata disastrosa». Con la Grecia a fare da simbolo del cinismo e del fallimento delle loro politiche.
Tra i principali errori commessi dai governi guidati dalle forze di destra c’è per Bersani l’insistere esclusivamente su politiche di austerità. Anche il «Fiscal compact» fortemente voluto da Merkozy può rappresentare più una minaccia che un’opportunità per l’Europa. «Quel trattato non basta, non è sufficiente», dice Bersani tra gli applausi dei sostenitori di Hollande, che ha già annunciato l’intenzione di ridiscuterlo, nel caso dovesse andare all’Eliseo. Nel documento siglato a Parigi dai leader progressisti si fa riferimento alla necessità di integrare il patto di stabilità con politiche per la crescita. E Bersani non vede nessuna contraddizione nel sostenere Monti, che ha firmato insieme ad altri 24 capi di governo quel testo, e auspicare una vittoria di Hollande alle presidenziali francesi. «Il governo italiano ha firmato e manterrà la sua firma – dice ai giornalisti che lo avvicinano al termine dell’iniziativa – ma da italiano di buon senso dico che se un Paese sovrano come la Francia pone questo problema, si può aprire uno spazio di discussione con la prospettiva di un miglioramento. C’è la possibilità di rafforzare il trattato sul versante della crescita e può essere interesse dell’Italia e non solo dell’Europa». Fa notare anche D’Alema di fronte a chi ricorda le critiche di Sarkozy all’intenzione di Hollande di ridiscutere il patto di stabilità. «I Parlamenti sono sovrani e la ratifica di un trattato non è un rituale. È un diritto sovrano inalienabile dei francesi rinegoziare, riequilibrare le politiche coniugando alla disciplina di bilancio misure urgenti di sostegno alla crescita, all’occupazione, all’eguaglianza». È un diritto anche degli italiani, e la discussione potrebbe presto aprirsi in Parlamento.

da l’Unità 18.3.12

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“E se «Merkozy» resiste? Il leader Pd vede i rischi ma la strada è obbligata”, di S.C.
Il rapporto con i socialisti Nel Pd non ci sono più resistenze interne di tipo ideologico. L’alleanza coi socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi è fondamentale anche per impostare le elezioni del 2013 come una competizione tra progressisti e conservatori

Né la foto di Vasto con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro perché il campo è troppo stretto né quella a Palazzo Chigi con Pier Ferdinando Casini e Angelino Alfano scattata col cellulare del leader dell’Udc perché l’inquadratura è troppo larga. Considerato che ormai le istantanee sono entrate stabilmente nel dibattito politico, è con la foto di Parigi con François Hollande e Sigmar Gabriel che Pier Luigi Bersani vuole andare alla prossima campagna elettorale. E non a caso il gruppo dirigente del Pd, appena siglata nella capitale francese la piattaforma programmatica comune sulle politiche europee, già si è messo al lavoro per preparare a Roma il 19 e 20 aprile una conferenza internazionale a cui sono stati invitati i vertici di tutti i gruppi parlamentari progressisti presenti a Strasburgo.
Per Bersani l’alleanza con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi (ma anche i laburisti inglesi e gli altri partiti progressisti del Belgio e della Scandinavia) è strategica per più di un motivo, quando finita la fase di transizione guidata dal governo Monti si andrà alle urne. Stringere un patto con le altre forze di centrosinistra europee vuol dire da un lato cominciare ad impostare fin d’ora per la primavera 2013 una competizione tra progressisti e conservatori chiudendo così la porta all’ipotesi di una Grosse Koalition in salsa italiana, caldeggiata fuori ma anche dentro il Pd. Dall’altro lato, l’esito delle presidenziali d’Oltralpe influenzerà in un senso o nell’altro il tipo di coalizione e anche la candidatura per la premiership alle prossime politiche italiane.
Bersani, che comunque pensa debbano essere le primarie a scegliere il candidato premier, sa bene che la scommessa ha una posta tanto alta quanto è alto il rischio che l’operazione comporta. Legare strettamente le vicende nostrane all’esito delle presidenziali francesi e anche ai consensi su cui potrà contare nei prossimi mesi Angela Merkel è chiaramente pericoloso. Nicolas Sarkozy non ha esitato a mettere in discussione Schengen pur di guadagnare qualche punto nei sondaggi, e il timore confessato dai socialisti francesi agli italiani arrivati a Parigi è che da qui a maggio giocherà altre carte pericolose per la tenuta dell’Ue. Puntare su un cambio del vento in Europa è d’obbligo per il Pd, ma se la fine del ciclo conservatore dovesse rivelarsi nei prossimi mesi un’illusione il contraccolpo si farebbe sentire pesantemente anche sulle vicende italiane.
L’Udc soprattutto, ma anche alcuni settori del Pd di provenienza centrista o ex-popolare puntano a un governo di larghe intese anche per la prossima legislatura. E se l’asse Merkozy dovesse riaffermarsi si farebbe più complicato per i Democratici esprimere il candidato premier.
Casini lo dice chiaramente che lavora per un avvicinamento di Pd e Pdl in vista della prossima campagna elettorale, ma va letto in questa chiave anche il memorandum firmato proprio in questi giorni da Beppe Fioroni, Marco Follini e una dozzina di esponenti ex-Ppi e della minoranza di Movimento democratico favorevole al “Monti bis”, un documento critico nei confronti del sostegno a Hollande e favorevoli invece a un’intesa con il centrista François Bayrou.
Un aspetto positivo per Bersani è che comunque in questo passaggio non deve fare i conti con resistenze interne di tipo ideologico sul rapporto con i partiti socialisti europei. Il fatto che la vecchia discussione sull’appartenenza alle famiglie politiche non sia stata sollevata da nessuno dopo che è stato creato a Strasburgo il gruppo dei Socialisti e Democratici consente al leader del Pd un’ampia possibilità di manovra in questa operazione.
Bersani però non vuole rischiare a agli interlocutori francesi e tedeschi ha spiegato che il campo socialista deve allargarsi. «Arriviamo a questo appuntamento forti della nostra storia e della identità di ciascuno, storie ed identità che non sono mai nemiche del coraggio e dell’innovazione», è il messaggio consegnato a Hollande e a Gabriel. «Noi democratici italiani in questi anni abbiamo innovato molto, abbiamo scelto di superare le antiche appartenenze e di dare vita a un Pd che già adesso, a quattro anni dalla sua nascita, è il primo partito italiano».
Da questo alla possibilità di esprimere il candidato premier alle prossime politiche c’è un percorso che, nel bene o nel male, passa anche per l’Europa.

da L’Unità

“Alla festa è mancato il futuro”, di Massimo Gramellini

Siamo più o meno italiani di un anno fa? Siamo più poveri, più arrabbiati, più disorientati. Ma forse, e con qualche sorpresa, anche più italiani. Non era affatto scontato, il 17 marzo 2011. La ricorrenza dei Centocinquanta planò su un Paese distratto e cinico, ripiegato nel suo «particulare» e poco propenso a farsi sedurre dal fascino retorico della Patria. L’anniversario pareva eccitare solo gli animi dei faziosi, che ne trassero spunto per riaprire vecchie e mai chiuse ferite (in Italia i cerotti della memoria sono di pessima fattura e si staccano al primo venticello bilioso). Cavurriani contro garibaldini, borbonici contro sabaudi, secessionisti padani e autonomisti meridionali uniti nella lotta per sfasciare quel poco di coesione nazionale che in un secolo e mezzo eravamo riusciti a costruire, nonostante una dittatura, una guerra civile, le stragi di Stato, il terrorismo, la mafia e le mani leste dei tangentocrati.
Le premesse per un autogol della Storia c’erano tutte e invece, incredibilmente, i cittadini del Paese meno nazionalista del mondo hanno partecipato alla festa.

Più al Nord che al Sud e più a Torino che altrove. Ma ovunque si è registrata un’adesione superiore alle attese, un senso di appartenenza che ha stupito per primi coloro che lo manifestavano. Come se le trombe della crisi economica avessero chiamato a raccolta le paure e le incertezze di tutti, per dar loro riparo all’ombra di una comunità più ampia della famiglia e del campanile. In fondo, persino quel litigare viscerale e ossessivo sui nodi irrisolti della propria storia era un modo isterico, quindi molto italiano, di sentirsene parte.

Il sentimento nazionale è cresciuto quasi per emulazione: la bandiera al balcone, l’inno cantato a squarciagola. Sembrava un gioco, ma è diventato una cosa seria, come tutte le cose che gli italiani cominciano per gioco. Ha unito un po’ tutti, da destra a sinistra. Tranne la Lega, che aveva scommesso sul fallimento delle celebrazioni (oltre che sul crollo dell’euro) per risollevare la bandiera della secessione e si è ritrovata un boomerang tricolore sulla testa. Infatti, contro ogni previsione, gli italiani non si vergognavano di ricordare la Patria. Naturalmente la onoravano alla loro maniera: riaprendo gli album di famiglia per scovare brandelli di appartenenza nel trisnonno brigante o nel nonno partigiano. Insieme con l’interesse per l’Italia cresceva l’attaccamento alle sue istituzioni, in particolare la presidenza della Repubblica. Nel Paese delle eterne curve, Napolitano diventava il Distinto Centrale, la zona dello stadio dove gli opposti schieramenti si fondono con più senso civico di quanto avvenga talvolta nella tribuna delle autorità.

Si era a questo punto quando lo spettro ancora fragile della italianità ritrovata è stato messo alla prova da un doppio trauma: il precipitare della recessione e l’incartarsi del berlusconismo. Pungolati dagli eventi, ci siamo dimenticati di consultare la memoria degli ultimi 150 anni: vi avremmo visto quel che in effetti è poi accaduto, e cioè che sull’orlo del precipizio questo Paese riesce sempre a fare un passo indietro. E non è mai un passo normale, da torre degli scacchi, ma una mossa estrosa. La mossa del cavallo. Quella che Napolitano ha escogitato nominando Monti senatore a vita e costruendo le premesse per un cambiamento su cui nessun esperto avrebbe scommesso un euro bucato.

Dalla bandana al loden, e dal bunga bunga allo spread, il passaggio è stato brusco ma perfettamente coerente con la nostra storia di giravolte alla ricerca perenne di quel giusto mezzo, plasmato nel buon senso più che nell’eroismo, in cui va infine sempre a placarsi l’insopprimibile «democristianità» dell’italiano medio. Da un giorno all’altro il teatro del Centocinquantenario ha cambiato cartellone, con i dossier economici che sostituivano le intercettazioni e i silenzi algidi degli esperti al posto delle «boutade» grottesche dei dilettanti. Si portava così a compimento il vero paradosso di questa festa: mentre il rispetto per le istituzioni si estendeva dal Presidente al governo (di cui veniva riconosciuta, accanto alla durezza, la serietà) e persino il senso dello Stato faceva timidamente capolino incarnandosi in un sentimento inedito di ostilità verso gli evasori fiscali, evaporava il credito residuo dei partiti politici, che dalla stragrande maggioranza degli italiani vengono ormai considerati, nei casi migliori, delle associazioni a scopo di lucro gestite da personaggi inefficienti e mediocri.

Se qualcosa è mancato in questa festa tricolore che oggi ammaina le sue bandiere, non è stato il presente e nemmeno il passato. E’ stato il futuro. Non ne ha parlato nessuno, se non in termini vaghi e retorici. Dalla politica, «sollevata» da compiti di governo, ci saremmo aspettati almeno questo: che oltre ad autoimporsi una cura dimagrante per rientrare nei limiti della decenza, si sforzasse di offrire una visione sull’avvenire possibile del Paese. Invece la classe dirigente (?) non si è degnata di dirci come immagina l’Italia fra cinquant’anni: quel gigantesco parco-giochi cultural-ambientale che vorrebbe il mondo e noi ci ostiniamo a non essere, oppure qualcos’altro? Nel silenzio degli indecenti, come sempre la risposta verrà dagli italiani che non hanno potere ma istinto di sopravvivenza. E come sempre non sarà quella che ci si aspetta da loro, qualunque essa sia.

da La Stampa

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“A chiusura del 150° Napolitano indica che la missione è «continuare»”, di Stefano Folli
Il Governo Monti figlio della coesione nazionale ma resta molto da fare. È un messaggio ai partiti

Riuscire a chiudere in modo non retorico le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità era un compito non facile. Riuscire poi a legare il passato con il presente, annodando i fili della storia alle incognite dell’attualità, era ancora più insidioso. Invece la cerimonia di ieri mattina al Quirinale ha detto qualcosa di nuovo agli italiani. Questo grazie all’abilità di Benigni, certo, al magnifico coro dei bambini che hanno cantato l’inno di Mameli, alle ricostruzioni storiche di Galasso, Cazzullo e Dacia Maraini.
Ma soprattutto grazie all’intervento di Napolitano che ha dato corpo a un’impressione diffusa da tempo e non solo nelle stanze del Quirinale. L’impressione che i lunghi mesi delle celebrazioni per l’Unità, che hanno occupato tutto lo scorso anno e che avevano richiesto in precedenza altri mesi di preparazione (a opera del comitato presieduto prima da Ciampi e poi da Amato), abbiano stimolato una forma di coesione nella coscienza degli italiani. Al di là delle aspettative più ottimistiche.
Tale coesione nazionale ha rappresentato il sottofondo, si può dire, la premessa della svolta politica di novembre, quando Berlusconi si è ritirato e ha consentito – anche con i voti determinanti del Pdl – la nascita del governo Monti. Il presidente della Repubblica considera fondamentale questo passaggio e lo si è capito dalle sue parole di ieri. L’anno dell’Unità è servito a verificare che l’Italia è un paese più unito e meno fazioso di quanto si creda. Più coeso e forse persino più ottimista di quanto pretenda un certo spirito auto-flagellatorio che riaffiora sovente.
Se non fosse esistito questo sentimento unitario e solidale, questa volontà di non farsi schiacciare dalle difficoltà e di guardare avanti, l’avvento di un governo innovativo e con pochi precedenti come l’attuale non sarebbe stato possibile. Invece è accaduto. Anche perché la nazione era in grado di sostenere la svolta, per quanto tutt’altro che «indolore». E se nello scorso autunno la politica era malata e i partiti tradizionali apparivano in affanno, l’antidoto è arrivato da un senso di appartenenza vigoroso e quasi insospettato.
Questa in sostanza l’analisi di Napolitano. Con una postilla essenziale: ora bisogna «continuare». Continuare lungo la via imboccata da Monti – nonostante i sacrifici che il percorso comporta – perché i risultati sono significativi. Continuare nel segno di un’emergenza non ancora finita, come ha detto proprio ieri lo stesso presidente del Consiglio. Nella coscienza che c’è molto da fare, anche in Europa. Ma in particolare, nella visione del capo dello Stato, sono i partiti ad aver di fronte un lungo cammino per recuperare credibilità. C’è un’esigenza di moralità e di trasparenza che oggi si misura nella volontà di varare misure serie contro quella corruzione che avvelena la vita pubblica. E poi naturalmente c’è il capitolo ancora da scrivere che riguarda le riforme istituzionali (e la legge elettorale, ieri non citata ma sempre sullo sfondo).
Rinnovamento morale e riforme di sistema: un impegno non da poco per le forze politiche quando manca meno di un anno alla scadenza effettiva della legislatura. Il clima politico è discreto, come si è visto nel vertice di Palazzo Chigi dell’altra sera. Ma il tempo scorre e l’ora delle decisioni si avvicina. Per non disperdere ciò che di buono l’Italia ha mostrato nell’anno dell’Unità.

da www.ilsole24ore.com