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“La nemesi della Lega, nata da tangentopoli e finita tra le mazzette”, di Curzio Maltese

La storia politica è piena di nemesi, ma una crudele e grottesca come quella della Lega non s’era mai vista. I forcaioli della prima Tangentopoli sono diventati i nuovi socialisti della seconda. Precisi. In una settimana sono passati dalle manifestazioni in piazza contro la giunta Formigoni, “perché non si può andare avanti con un arresto al giorno”, alla teoria del complotto dei magistrati. Tutto perché stavolta hanno pizzicato uno dei loro e uno grosso, il Davide Boni, a trafficare mazzette di milioni di euro, altro che Mario Chiesa, in cambio di licenze per nuovi centri commerciali.
In uno studio televisivo sento la difesa di Attilio Fontana, sindaco di Varese, e mi sembra di riascoltare Carlo Tognoli, vent’anni dopo. Boni ne uscirà pulito, non si fanno i processi in piazza. Ma certo, salvo che la Lega sui processi in piazza, nel ’92 e dintorni, ha costruito tutte le sue fortune. Bossi e Maroni sono una riedizione più mesta del duo Craxi-Martelli, che litigavano su tutto, ma si ritrovavano all’unisono nella difesa dei tangentisti. È soltanto l’ultimo testacoda di una serie ormai infinita di giravolte e tradimenti del Carroccio. Era il movimento dell’antipartitocrazia e risulta ora il più “romano” di tutti. Era quello della lotta agli sprechi, dell’abolizione degli enti inutili, “a cominciare dalle Province”, ed è diventato il fiero paladino delle Province e della lottizzazione selvaggia. Era il baluardo della difesa del martoriato territorio del Nord Est dagli scempi ambientali, “mai più capannoni”, “basta Tir”, ed è diventato il padrino politico della peggior cementificazione privata e pubblica mai conosciuta dalla Padania dal Dopoguerra, il principale sponsor del raddoppio della rete di autostrade nella regione più asfaltata d’Europa, la Lombardia, il nemico giurato dei No Tav, contro i quali invoca l’esercito.
Alle ultime elezioni ha giurato al popolo lombardo di risolvere “in quattro e quattr’otto” la questione Malpensa e il risultato è che Malpensa è andata in rovina. Perfino la minaccia della secessione alla fine si era ridotta alla pagliacciata dei tre uffici ministeriali trasferiti e Monza e chiusi, con pietosa decenza, dal governo Monti.
I sondaggi dicono che la Lega, nonostante tutto, regge ancora. Ma la Lega non c’è più, si sta dissolvendo. Il passo indietro di Berlusconi mette in imbarazzo Bossi, la cui parabola politica è finita da un pezzo. D’altra parte, una leadership di Maroni scatenerebbe una guerra interna fra gli altri caporioni. E poi, che cosa andranno a raccontare la prossima volta agli elettori Bossi o Maroni? Che vanno a Roma da soli, o magari alleati ad Alfano, per portare a casa un federalismo mai pervenuto in dieci anni di governo con Berlusconi? Mi sbaglierò, ma la Lega rischia davvero la stessa fine del Psi di Craxi. E, anche stavolta, senza nessun rimpianto.

da Venerdì di Repubblica 17.03.12

“La nemesi della Lega, nata da tangentopoli e finita tra le mazzette”, di Curzio Maltese

La storia politica è piena di nemesi, ma una crudele e grottesca come quella della Lega non s’era mai vista. I forcaioli della prima Tangentopoli sono diventati i nuovi socialisti della seconda. Precisi. In una settimana sono passati dalle manifestazioni in piazza contro la giunta Formigoni, “perché non si può andare avanti con un arresto al giorno”, alla teoria del complotto dei magistrati. Tutto perché stavolta hanno pizzicato uno dei loro e uno grosso, il Davide Boni, a trafficare mazzette di milioni di euro, altro che Mario Chiesa, in cambio di licenze per nuovi centri commerciali.
In uno studio televisivo sento la difesa di Attilio Fontana, sindaco di Varese, e mi sembra di riascoltare Carlo Tognoli, vent’anni dopo. Boni ne uscirà pulito, non si fanno i processi in piazza. Ma certo, salvo che la Lega sui processi in piazza, nel ’92 e dintorni, ha costruito tutte le sue fortune. Bossi e Maroni sono una riedizione più mesta del duo Craxi-Martelli, che litigavano su tutto, ma si ritrovavano all’unisono nella difesa dei tangentisti. È soltanto l’ultimo testacoda di una serie ormai infinita di giravolte e tradimenti del Carroccio. Era il movimento dell’antipartitocrazia e risulta ora il più “romano” di tutti. Era quello della lotta agli sprechi, dell’abolizione degli enti inutili, “a cominciare dalle Province”, ed è diventato il fiero paladino delle Province e della lottizzazione selvaggia. Era il baluardo della difesa del martoriato territorio del Nord Est dagli scempi ambientali, “mai più capannoni”, “basta Tir”, ed è diventato il padrino politico della peggior cementificazione privata e pubblica mai conosciuta dalla Padania dal Dopoguerra, il principale sponsor del raddoppio della rete di autostrade nella regione più asfaltata d’Europa, la Lombardia, il nemico giurato dei No Tav, contro i quali invoca l’esercito.
Alle ultime elezioni ha giurato al popolo lombardo di risolvere “in quattro e quattr’otto” la questione Malpensa e il risultato è che Malpensa è andata in rovina. Perfino la minaccia della secessione alla fine si era ridotta alla pagliacciata dei tre uffici ministeriali trasferiti e Monza e chiusi, con pietosa decenza, dal governo Monti.
I sondaggi dicono che la Lega, nonostante tutto, regge ancora. Ma la Lega non c’è più, si sta dissolvendo. Il passo indietro di Berlusconi mette in imbarazzo Bossi, la cui parabola politica è finita da un pezzo. D’altra parte, una leadership di Maroni scatenerebbe una guerra interna fra gli altri caporioni. E poi, che cosa andranno a raccontare la prossima volta agli elettori Bossi o Maroni? Che vanno a Roma da soli, o magari alleati ad Alfano, per portare a casa un federalismo mai pervenuto in dieci anni di governo con Berlusconi? Mi sbaglierò, ma la Lega rischia davvero la stessa fine del Psi di Craxi. E, anche stavolta, senza nessun rimpianto.

da Venerdì di Repubblica 17.03.12

"La giustizia dopo Berlusconi", di Michele Ciliberto

Verboten! Quando in Italia si parla di giustizia scattano subito i veti, a cominciare ovviamente dal partito di Berlusconi. Anzi, ad essere precisi, si può parlare di tutto ma con due eccezioni: la giustizia e la tv. Non è difficile capire perché: si tratta dei due pilastri del sistema di potere personale costruito in quasi vent’anni da Silvio Berlusconi.
E sono strettamente connessi: la televisione è stato uno strumento essenziale per costruire una forma di moderno dispotismo su base democratica; il controllo della giustizia, fin dall’inizio, è stata la leva utilizzata per cercare di mettere in sicurezza cioè al riparo della legge Berlusconi.
Dai suoi «valvassini» il Cavaliere ha fatto varare in Parlamento (almeno) 37 leggi ad personam: dalle rogatorie alla riforma dei reati societari, dalla legge Gasparri sulle televisioni al Lodo Alfano, fino al decreto Salva-Milan. In breve: non c’è stato aspetto del suo sistema di potere personale ed economico che non sia stato toccato, e salvato, dalla «grazia» (laica) del Parlamento attraverso una sistematica sostituzione dell’arbitrio alla legge, con una sfrontata mortificazione del principio di ogni democrazia moderna quello secondo cui «tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge».
In diciassette anni Berlusconi ha subordinato, senza mai distrarsi, l’attività legislativa ai suoi interessi personali in un crescendo inarrestabile, con un uso «privatistico» dello Stato tipico del dispotismo classico. Ne è scaturita una situazione premoderna, di tipo feudale: come direbbe il vecchio Marx, siamo ritornati alla «democrazia dell’illibertà», alla «compiuta alienazione» tipica del Medioevo, in cui «ogni sfera privata ha carattere politico» e si proietta in una legge che è pura e immediata espressione degli interessi privati.Tutto questo lo vediamo bene proprio mentre il berlusconismo tramonta ha acuito al massimo il problema di una pronta, efficace e severa riforma della giustizia in Italia. Come per la televisione, il tema della giustizia oggi riguarda direttamente la struttura e la costituzione interiore della nostra democrazia. Di qui non si esce, e non si può uscire, se si vuole porre su basi salde il nostro «vivere civile», cominciando a lasciarsi alle spalle la lunga stagione del dispotismo democratico e ristabilendo finalmente, e per tutti, il primato della legge, fondamento originario della eguaglianza dei cittadini.
I punti su cui lavorare sono chiari, nascono dalle cose: la lotta alla corruzione, anzitutto, che è un cancro della nostra economia; la giustizia civile che riguarda direttamente la vita dei cittadini e delle aziende; la responsabilità civile dei magistrati che va affrontata senza spirito di vendetta; la questione delicatissima, ma non più rinviabile delle intercettazioni telefoniche per tutelare al meglio diritto all’informazione e tutela della privacy quando si tratta di colloqui non penalmente rilevanti. Non si tratta, come si vede, di richieste di tipo giacobino; né di problemi che coinvolgono solamente le forze di sinistra. Sono questioni e problemi che concernono il «vincolo» originario di una comunità di cittadini e, perciò, anche di coloro che auspicano la formazione in Italia di una destra post-feudale, moderna, democratica. Quindi sono problemi che dovrebbero riguardare anche molti di coloro che, pur militando nel partito di Berlusconi, non identificano le sorti, e il futuro, del movimento con i destini privati e personali del suo fondatore. Osservino bene quello che accade nel Paese: la campana suona anche per loro.

L’Unità 17.03.12

“La giustizia dopo Berlusconi”, di Michele Ciliberto

Verboten! Quando in Italia si parla di giustizia scattano subito i veti, a cominciare ovviamente dal partito di Berlusconi. Anzi, ad essere precisi, si può parlare di tutto ma con due eccezioni: la giustizia e la tv. Non è difficile capire perché: si tratta dei due pilastri del sistema di potere personale costruito in quasi vent’anni da Silvio Berlusconi.
E sono strettamente connessi: la televisione è stato uno strumento essenziale per costruire una forma di moderno dispotismo su base democratica; il controllo della giustizia, fin dall’inizio, è stata la leva utilizzata per cercare di mettere in sicurezza cioè al riparo della legge Berlusconi.
Dai suoi «valvassini» il Cavaliere ha fatto varare in Parlamento (almeno) 37 leggi ad personam: dalle rogatorie alla riforma dei reati societari, dalla legge Gasparri sulle televisioni al Lodo Alfano, fino al decreto Salva-Milan. In breve: non c’è stato aspetto del suo sistema di potere personale ed economico che non sia stato toccato, e salvato, dalla «grazia» (laica) del Parlamento attraverso una sistematica sostituzione dell’arbitrio alla legge, con una sfrontata mortificazione del principio di ogni democrazia moderna quello secondo cui «tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge».
In diciassette anni Berlusconi ha subordinato, senza mai distrarsi, l’attività legislativa ai suoi interessi personali in un crescendo inarrestabile, con un uso «privatistico» dello Stato tipico del dispotismo classico. Ne è scaturita una situazione premoderna, di tipo feudale: come direbbe il vecchio Marx, siamo ritornati alla «democrazia dell’illibertà», alla «compiuta alienazione» tipica del Medioevo, in cui «ogni sfera privata ha carattere politico» e si proietta in una legge che è pura e immediata espressione degli interessi privati.Tutto questo lo vediamo bene proprio mentre il berlusconismo tramonta ha acuito al massimo il problema di una pronta, efficace e severa riforma della giustizia in Italia. Come per la televisione, il tema della giustizia oggi riguarda direttamente la struttura e la costituzione interiore della nostra democrazia. Di qui non si esce, e non si può uscire, se si vuole porre su basi salde il nostro «vivere civile», cominciando a lasciarsi alle spalle la lunga stagione del dispotismo democratico e ristabilendo finalmente, e per tutti, il primato della legge, fondamento originario della eguaglianza dei cittadini.
I punti su cui lavorare sono chiari, nascono dalle cose: la lotta alla corruzione, anzitutto, che è un cancro della nostra economia; la giustizia civile che riguarda direttamente la vita dei cittadini e delle aziende; la responsabilità civile dei magistrati che va affrontata senza spirito di vendetta; la questione delicatissima, ma non più rinviabile delle intercettazioni telefoniche per tutelare al meglio diritto all’informazione e tutela della privacy quando si tratta di colloqui non penalmente rilevanti. Non si tratta, come si vede, di richieste di tipo giacobino; né di problemi che coinvolgono solamente le forze di sinistra. Sono questioni e problemi che concernono il «vincolo» originario di una comunità di cittadini e, perciò, anche di coloro che auspicano la formazione in Italia di una destra post-feudale, moderna, democratica. Quindi sono problemi che dovrebbero riguardare anche molti di coloro che, pur militando nel partito di Berlusconi, non identificano le sorti, e il futuro, del movimento con i destini privati e personali del suo fondatore. Osservino bene quello che accade nel Paese: la campana suona anche per loro.

L’Unità 17.03.12

“La giustizia dopo Berlusconi”, di Michele Ciliberto

Verboten! Quando in Italia si parla di giustizia scattano subito i veti, a cominciare ovviamente dal partito di Berlusconi. Anzi, ad essere precisi, si può parlare di tutto ma con due eccezioni: la giustizia e la tv. Non è difficile capire perché: si tratta dei due pilastri del sistema di potere personale costruito in quasi vent’anni da Silvio Berlusconi.
E sono strettamente connessi: la televisione è stato uno strumento essenziale per costruire una forma di moderno dispotismo su base democratica; il controllo della giustizia, fin dall’inizio, è stata la leva utilizzata per cercare di mettere in sicurezza cioè al riparo della legge Berlusconi.
Dai suoi «valvassini» il Cavaliere ha fatto varare in Parlamento (almeno) 37 leggi ad personam: dalle rogatorie alla riforma dei reati societari, dalla legge Gasparri sulle televisioni al Lodo Alfano, fino al decreto Salva-Milan. In breve: non c’è stato aspetto del suo sistema di potere personale ed economico che non sia stato toccato, e salvato, dalla «grazia» (laica) del Parlamento attraverso una sistematica sostituzione dell’arbitrio alla legge, con una sfrontata mortificazione del principio di ogni democrazia moderna quello secondo cui «tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge».
In diciassette anni Berlusconi ha subordinato, senza mai distrarsi, l’attività legislativa ai suoi interessi personali in un crescendo inarrestabile, con un uso «privatistico» dello Stato tipico del dispotismo classico. Ne è scaturita una situazione premoderna, di tipo feudale: come direbbe il vecchio Marx, siamo ritornati alla «democrazia dell’illibertà», alla «compiuta alienazione» tipica del Medioevo, in cui «ogni sfera privata ha carattere politico» e si proietta in una legge che è pura e immediata espressione degli interessi privati.Tutto questo lo vediamo bene proprio mentre il berlusconismo tramonta ha acuito al massimo il problema di una pronta, efficace e severa riforma della giustizia in Italia. Come per la televisione, il tema della giustizia oggi riguarda direttamente la struttura e la costituzione interiore della nostra democrazia. Di qui non si esce, e non si può uscire, se si vuole porre su basi salde il nostro «vivere civile», cominciando a lasciarsi alle spalle la lunga stagione del dispotismo democratico e ristabilendo finalmente, e per tutti, il primato della legge, fondamento originario della eguaglianza dei cittadini.
I punti su cui lavorare sono chiari, nascono dalle cose: la lotta alla corruzione, anzitutto, che è un cancro della nostra economia; la giustizia civile che riguarda direttamente la vita dei cittadini e delle aziende; la responsabilità civile dei magistrati che va affrontata senza spirito di vendetta; la questione delicatissima, ma non più rinviabile delle intercettazioni telefoniche per tutelare al meglio diritto all’informazione e tutela della privacy quando si tratta di colloqui non penalmente rilevanti. Non si tratta, come si vede, di richieste di tipo giacobino; né di problemi che coinvolgono solamente le forze di sinistra. Sono questioni e problemi che concernono il «vincolo» originario di una comunità di cittadini e, perciò, anche di coloro che auspicano la formazione in Italia di una destra post-feudale, moderna, democratica. Quindi sono problemi che dovrebbero riguardare anche molti di coloro che, pur militando nel partito di Berlusconi, non identificano le sorti, e il futuro, del movimento con i destini privati e personali del suo fondatore. Osservino bene quello che accade nel Paese: la campana suona anche per loro.

L’Unità 17.03.12

"Tutti i rischi di un vertice affollato", di Luigi La Spina

La foto di gruppo a palazzo Chigi con i tre segretari che sostengono il governo, spedita su Twitter durante il vertice di giovedì, oltre ad aggiornare i metodi comunicativi della politica italiana, segnala anche l’inizio della «fase due» nel rapporto tra Monti e i partiti della sua maggioranza parlamentare. Con l’intesa sulla riforma del mercato del lavoro, infatti, si chiude il tempo dell’emergenza economica, caratterizzato da quell’appoggio sospettoso, riluttante e intermittente, degli «strani» alleati, Alfano e Bersani, e dalla necessità, in Parlamento, di una decretazione a colpi di voti di fiducia. Si apre, invece, un periodo che arriverà sicuramente fino alle elezioni amministrative, ma che potrebbe prolungarsi fino al termine della legislatura, in cui i due maggiori partiti si uniranno al «terzo polo» di Casini nel «mettere la faccia», appunto, accanto a quella del governo e del presidente del Consiglio.

Un calcolo sbagliato era all’origine dell’atteggiamento del Pdl e del Pd. Pensavano che la necessità di misure severe di risanamento dei conti pubblici scavasse un solco di violenta impopolarità tra i cittadini e Monti, con il seguito dei suoi ministri tecnici. Con l’abbandono della prima linea, sulla scena della politica, ritenevano, perciò, di scansarne le pericolose conseguenze elettorali. Dalle retrovie, intanto, tentavano di tutelare gli interessi delle corporazioni a loro vicine, attraverso il ricatto dell’arma letale per il governo: il ritiro dell’appoggio parlamentare e, quindi, l’obbligo delle dimissioni di Monti.

La realtà ha smentito queste previsioni. I consensi al governo, nonostante i duri provvedimenti fiscali, non si sono ridotti a percentuali preoccupanti; anzi, si sono mantenuti a un livello rassicurante. Nel frattempo, la rapida riduzione del famoso «spread» tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, vero termometro della fiducia dei mercati sul futuro dell’Italia, sanzionava il successo del «ministero strano» e la stima dei partner europei nei confronti di Monti ne accresceva il prestigio, a scapito dei leader dei partiti nostrani. Insomma, tutti i meriti si indirizzavano verso palazzo Chigi e tutte le colpe dei compromessi, degli annacquamenti nelle misure annunciate dal governo venivano attribuite ai freni imposti dalle lobby partitiche e dai privilegi a cui i parlamentari non volevano rinunciare.

La controprova di questo sorprendente rovesciamento delle aspettative, veniva, poi, dall’altro fronte, quello delle opposizioni. La maggiore forza politica contro il governo Monti, la Lega di Bossi, non solo non veniva avvantaggiata dalla sua collocazione parlamentare, ma era squassata da tensioni interne dirompenti e l’appello alla demagogia antigovernativa sembrava cadere in un vuoto di credibilità impressionante. Nè i sondaggi erano più clementi nei confronti delle residue pattuglie dell’opposizione, a cominciare dall’Idv di Antonio Di Pietro.

Alla luce di queste sorprendenti vicende, il cambio di rotta si imponeva con una tale chiarezza che nè Alfano, nè Bersani potevano sacrificarlo alle loro inquiete basi parlamentari. Così, il forte abbraccio dei segretari stretto a Monti nella notte di giovedì costituisce, insieme, una rassicurazione sull’esistenza del governo, ma rischia di diventare persino un po’ troppo soffocante.

L’assunzione di una piena e chiara responsabilità nel sostegno a Monti, infatti, consente al presidente del Consiglio una navigazione politica meno solitaria e meno esposta alle turbolenze quotidiane. Anche il sostegno alle Camere dovrebbe essere più solido, dal momento che, finita la fase dell’emergenza economica, i provvedimenti governativi dovrebbero prendere la strada dei consueti disegni di legge. Come dimostra la via scelta per attuare l’accordo sulla giustizia trovato nel vertice notturno, dalle norme anticorruzione ai limiti sulle intercettazioni e sulla loro pubblicazione. Un ritorno alla normalità delle procedure di legislazione democratica che certamente andrebbe apprezzato. Così, si dovrebbe far credito ai partiti di voler cogliere l’opportunità di realizzare quelle riforme che da troppo tempo la società italiana aspetta e che le esasperate polemiche tra gli schieramenti finora hanno impedito di varare.

Gli abbracci troppo vigorosi, però, possono nascondere qualche insidia. Innanzi tutto, limitano gli spazi d’iniziativa autonoma. Finora, il presidente del Consiglio poteva esercitare la sua libertà d’azione con la sicurezza di poter dimostrare ai partiti che lo sostengono come la loro presunta «arma letale», il ritiro della fiducia, fosse, in realtà, una pistola scarica. Ora, con la fine del periodo più acuto della crisi finanziaria, ma soprattutto, con il metodo degli accordi preventivi e ufficiali, sanzionati dai vertici con i tre leader, la situazione si è modificata, non sempre a vantaggio del presidente del Consiglio. Perché i segretari dei partiti di maggioranza, di fronte a un provvedimento che non trovasse tutti d’accordo, potrebbero più facilmente rimproverare a Monti di voler imporre una misura sulla quale non è stata trovata un’intesa.

Nella «fase uno», questo governo rischiava di avanzare in terreni inesplorati, infidi e di trovarsi, un giorno, senza truppe alle spalle. Nella «fase due», il pericolo non sta più indietro, ma avanti: quello di vedere la strada troppo affollata e di essere costretto a indietreggiare.

La Stampa 17.03.12

“Tutti i rischi di un vertice affollato”, di Luigi La Spina

La foto di gruppo a palazzo Chigi con i tre segretari che sostengono il governo, spedita su Twitter durante il vertice di giovedì, oltre ad aggiornare i metodi comunicativi della politica italiana, segnala anche l’inizio della «fase due» nel rapporto tra Monti e i partiti della sua maggioranza parlamentare. Con l’intesa sulla riforma del mercato del lavoro, infatti, si chiude il tempo dell’emergenza economica, caratterizzato da quell’appoggio sospettoso, riluttante e intermittente, degli «strani» alleati, Alfano e Bersani, e dalla necessità, in Parlamento, di una decretazione a colpi di voti di fiducia. Si apre, invece, un periodo che arriverà sicuramente fino alle elezioni amministrative, ma che potrebbe prolungarsi fino al termine della legislatura, in cui i due maggiori partiti si uniranno al «terzo polo» di Casini nel «mettere la faccia», appunto, accanto a quella del governo e del presidente del Consiglio.

Un calcolo sbagliato era all’origine dell’atteggiamento del Pdl e del Pd. Pensavano che la necessità di misure severe di risanamento dei conti pubblici scavasse un solco di violenta impopolarità tra i cittadini e Monti, con il seguito dei suoi ministri tecnici. Con l’abbandono della prima linea, sulla scena della politica, ritenevano, perciò, di scansarne le pericolose conseguenze elettorali. Dalle retrovie, intanto, tentavano di tutelare gli interessi delle corporazioni a loro vicine, attraverso il ricatto dell’arma letale per il governo: il ritiro dell’appoggio parlamentare e, quindi, l’obbligo delle dimissioni di Monti.

La realtà ha smentito queste previsioni. I consensi al governo, nonostante i duri provvedimenti fiscali, non si sono ridotti a percentuali preoccupanti; anzi, si sono mantenuti a un livello rassicurante. Nel frattempo, la rapida riduzione del famoso «spread» tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, vero termometro della fiducia dei mercati sul futuro dell’Italia, sanzionava il successo del «ministero strano» e la stima dei partner europei nei confronti di Monti ne accresceva il prestigio, a scapito dei leader dei partiti nostrani. Insomma, tutti i meriti si indirizzavano verso palazzo Chigi e tutte le colpe dei compromessi, degli annacquamenti nelle misure annunciate dal governo venivano attribuite ai freni imposti dalle lobby partitiche e dai privilegi a cui i parlamentari non volevano rinunciare.

La controprova di questo sorprendente rovesciamento delle aspettative, veniva, poi, dall’altro fronte, quello delle opposizioni. La maggiore forza politica contro il governo Monti, la Lega di Bossi, non solo non veniva avvantaggiata dalla sua collocazione parlamentare, ma era squassata da tensioni interne dirompenti e l’appello alla demagogia antigovernativa sembrava cadere in un vuoto di credibilità impressionante. Nè i sondaggi erano più clementi nei confronti delle residue pattuglie dell’opposizione, a cominciare dall’Idv di Antonio Di Pietro.

Alla luce di queste sorprendenti vicende, il cambio di rotta si imponeva con una tale chiarezza che nè Alfano, nè Bersani potevano sacrificarlo alle loro inquiete basi parlamentari. Così, il forte abbraccio dei segretari stretto a Monti nella notte di giovedì costituisce, insieme, una rassicurazione sull’esistenza del governo, ma rischia di diventare persino un po’ troppo soffocante.

L’assunzione di una piena e chiara responsabilità nel sostegno a Monti, infatti, consente al presidente del Consiglio una navigazione politica meno solitaria e meno esposta alle turbolenze quotidiane. Anche il sostegno alle Camere dovrebbe essere più solido, dal momento che, finita la fase dell’emergenza economica, i provvedimenti governativi dovrebbero prendere la strada dei consueti disegni di legge. Come dimostra la via scelta per attuare l’accordo sulla giustizia trovato nel vertice notturno, dalle norme anticorruzione ai limiti sulle intercettazioni e sulla loro pubblicazione. Un ritorno alla normalità delle procedure di legislazione democratica che certamente andrebbe apprezzato. Così, si dovrebbe far credito ai partiti di voler cogliere l’opportunità di realizzare quelle riforme che da troppo tempo la società italiana aspetta e che le esasperate polemiche tra gli schieramenti finora hanno impedito di varare.

Gli abbracci troppo vigorosi, però, possono nascondere qualche insidia. Innanzi tutto, limitano gli spazi d’iniziativa autonoma. Finora, il presidente del Consiglio poteva esercitare la sua libertà d’azione con la sicurezza di poter dimostrare ai partiti che lo sostengono come la loro presunta «arma letale», il ritiro della fiducia, fosse, in realtà, una pistola scarica. Ora, con la fine del periodo più acuto della crisi finanziaria, ma soprattutto, con il metodo degli accordi preventivi e ufficiali, sanzionati dai vertici con i tre leader, la situazione si è modificata, non sempre a vantaggio del presidente del Consiglio. Perché i segretari dei partiti di maggioranza, di fronte a un provvedimento che non trovasse tutti d’accordo, potrebbero più facilmente rimproverare a Monti di voler imporre una misura sulla quale non è stata trovata un’intesa.

Nella «fase uno», questo governo rischiava di avanzare in terreni inesplorati, infidi e di trovarsi, un giorno, senza truppe alle spalle. Nella «fase due», il pericolo non sta più indietro, ma avanti: quello di vedere la strada troppo affollata e di essere costretto a indietreggiare.

La Stampa 17.03.12