attualità, politica italiana

“Tutti i rischi di un vertice affollato”, di Luigi La Spina

La foto di gruppo a palazzo Chigi con i tre segretari che sostengono il governo, spedita su Twitter durante il vertice di giovedì, oltre ad aggiornare i metodi comunicativi della politica italiana, segnala anche l’inizio della «fase due» nel rapporto tra Monti e i partiti della sua maggioranza parlamentare. Con l’intesa sulla riforma del mercato del lavoro, infatti, si chiude il tempo dell’emergenza economica, caratterizzato da quell’appoggio sospettoso, riluttante e intermittente, degli «strani» alleati, Alfano e Bersani, e dalla necessità, in Parlamento, di una decretazione a colpi di voti di fiducia. Si apre, invece, un periodo che arriverà sicuramente fino alle elezioni amministrative, ma che potrebbe prolungarsi fino al termine della legislatura, in cui i due maggiori partiti si uniranno al «terzo polo» di Casini nel «mettere la faccia», appunto, accanto a quella del governo e del presidente del Consiglio.

Un calcolo sbagliato era all’origine dell’atteggiamento del Pdl e del Pd. Pensavano che la necessità di misure severe di risanamento dei conti pubblici scavasse un solco di violenta impopolarità tra i cittadini e Monti, con il seguito dei suoi ministri tecnici. Con l’abbandono della prima linea, sulla scena della politica, ritenevano, perciò, di scansarne le pericolose conseguenze elettorali. Dalle retrovie, intanto, tentavano di tutelare gli interessi delle corporazioni a loro vicine, attraverso il ricatto dell’arma letale per il governo: il ritiro dell’appoggio parlamentare e, quindi, l’obbligo delle dimissioni di Monti.

La realtà ha smentito queste previsioni. I consensi al governo, nonostante i duri provvedimenti fiscali, non si sono ridotti a percentuali preoccupanti; anzi, si sono mantenuti a un livello rassicurante. Nel frattempo, la rapida riduzione del famoso «spread» tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, vero termometro della fiducia dei mercati sul futuro dell’Italia, sanzionava il successo del «ministero strano» e la stima dei partner europei nei confronti di Monti ne accresceva il prestigio, a scapito dei leader dei partiti nostrani. Insomma, tutti i meriti si indirizzavano verso palazzo Chigi e tutte le colpe dei compromessi, degli annacquamenti nelle misure annunciate dal governo venivano attribuite ai freni imposti dalle lobby partitiche e dai privilegi a cui i parlamentari non volevano rinunciare.

La controprova di questo sorprendente rovesciamento delle aspettative, veniva, poi, dall’altro fronte, quello delle opposizioni. La maggiore forza politica contro il governo Monti, la Lega di Bossi, non solo non veniva avvantaggiata dalla sua collocazione parlamentare, ma era squassata da tensioni interne dirompenti e l’appello alla demagogia antigovernativa sembrava cadere in un vuoto di credibilità impressionante. Nè i sondaggi erano più clementi nei confronti delle residue pattuglie dell’opposizione, a cominciare dall’Idv di Antonio Di Pietro.

Alla luce di queste sorprendenti vicende, il cambio di rotta si imponeva con una tale chiarezza che nè Alfano, nè Bersani potevano sacrificarlo alle loro inquiete basi parlamentari. Così, il forte abbraccio dei segretari stretto a Monti nella notte di giovedì costituisce, insieme, una rassicurazione sull’esistenza del governo, ma rischia di diventare persino un po’ troppo soffocante.

L’assunzione di una piena e chiara responsabilità nel sostegno a Monti, infatti, consente al presidente del Consiglio una navigazione politica meno solitaria e meno esposta alle turbolenze quotidiane. Anche il sostegno alle Camere dovrebbe essere più solido, dal momento che, finita la fase dell’emergenza economica, i provvedimenti governativi dovrebbero prendere la strada dei consueti disegni di legge. Come dimostra la via scelta per attuare l’accordo sulla giustizia trovato nel vertice notturno, dalle norme anticorruzione ai limiti sulle intercettazioni e sulla loro pubblicazione. Un ritorno alla normalità delle procedure di legislazione democratica che certamente andrebbe apprezzato. Così, si dovrebbe far credito ai partiti di voler cogliere l’opportunità di realizzare quelle riforme che da troppo tempo la società italiana aspetta e che le esasperate polemiche tra gli schieramenti finora hanno impedito di varare.

Gli abbracci troppo vigorosi, però, possono nascondere qualche insidia. Innanzi tutto, limitano gli spazi d’iniziativa autonoma. Finora, il presidente del Consiglio poteva esercitare la sua libertà d’azione con la sicurezza di poter dimostrare ai partiti che lo sostengono come la loro presunta «arma letale», il ritiro della fiducia, fosse, in realtà, una pistola scarica. Ora, con la fine del periodo più acuto della crisi finanziaria, ma soprattutto, con il metodo degli accordi preventivi e ufficiali, sanzionati dai vertici con i tre leader, la situazione si è modificata, non sempre a vantaggio del presidente del Consiglio. Perché i segretari dei partiti di maggioranza, di fronte a un provvedimento che non trovasse tutti d’accordo, potrebbero più facilmente rimproverare a Monti di voler imporre una misura sulla quale non è stata trovata un’intesa.

Nella «fase uno», questo governo rischiava di avanzare in terreni inesplorati, infidi e di trovarsi, un giorno, senza truppe alle spalle. Nella «fase due», il pericolo non sta più indietro, ma avanti: quello di vedere la strada troppo affollata e di essere costretto a indietreggiare.

La Stampa 17.03.12

attualità, politica italiana

“Tutti i rischi di un vertice affollato”, di Luigi La Spina

La foto di gruppo a palazzo Chigi con i tre segretari che sostengono il governo, spedita su Twitter durante il vertice di giovedì, oltre ad aggiornare i metodi comunicativi della politica italiana, segnala anche l’inizio della «fase due» nel rapporto tra Monti e i partiti della sua maggioranza parlamentare. Con l’intesa sulla riforma del mercato del lavoro, infatti, si chiude il tempo dell’emergenza economica, caratterizzato da quell’appoggio sospettoso, riluttante e intermittente, degli «strani» alleati, Alfano e Bersani, e dalla necessità, in Parlamento, di una decretazione a colpi di voti di fiducia. Si apre, invece, un periodo che arriverà sicuramente fino alle elezioni amministrative, ma che potrebbe prolungarsi fino al termine della legislatura, in cui i due maggiori partiti si uniranno al «terzo polo» di Casini nel «mettere la faccia», appunto, accanto a quella del governo e del presidente del Consiglio.

Un calcolo sbagliato era all’origine dell’atteggiamento del Pdl e del Pd. Pensavano che la necessità di misure severe di risanamento dei conti pubblici scavasse un solco di violenta impopolarità tra i cittadini e Monti, con il seguito dei suoi ministri tecnici. Con l’abbandono della prima linea, sulla scena della politica, ritenevano, perciò, di scansarne le pericolose conseguenze elettorali. Dalle retrovie, intanto, tentavano di tutelare gli interessi delle corporazioni a loro vicine, attraverso il ricatto dell’arma letale per il governo: il ritiro dell’appoggio parlamentare e, quindi, l’obbligo delle dimissioni di Monti.

La realtà ha smentito queste previsioni. I consensi al governo, nonostante i duri provvedimenti fiscali, non si sono ridotti a percentuali preoccupanti; anzi, si sono mantenuti a un livello rassicurante. Nel frattempo, la rapida riduzione del famoso «spread» tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, vero termometro della fiducia dei mercati sul futuro dell’Italia, sanzionava il successo del «ministero strano» e la stima dei partner europei nei confronti di Monti ne accresceva il prestigio, a scapito dei leader dei partiti nostrani. Insomma, tutti i meriti si indirizzavano verso palazzo Chigi e tutte le colpe dei compromessi, degli annacquamenti nelle misure annunciate dal governo venivano attribuite ai freni imposti dalle lobby partitiche e dai privilegi a cui i parlamentari non volevano rinunciare.

La controprova di questo sorprendente rovesciamento delle aspettative, veniva, poi, dall’altro fronte, quello delle opposizioni. La maggiore forza politica contro il governo Monti, la Lega di Bossi, non solo non veniva avvantaggiata dalla sua collocazione parlamentare, ma era squassata da tensioni interne dirompenti e l’appello alla demagogia antigovernativa sembrava cadere in un vuoto di credibilità impressionante. Nè i sondaggi erano più clementi nei confronti delle residue pattuglie dell’opposizione, a cominciare dall’Idv di Antonio Di Pietro.

Alla luce di queste sorprendenti vicende, il cambio di rotta si imponeva con una tale chiarezza che nè Alfano, nè Bersani potevano sacrificarlo alle loro inquiete basi parlamentari. Così, il forte abbraccio dei segretari stretto a Monti nella notte di giovedì costituisce, insieme, una rassicurazione sull’esistenza del governo, ma rischia di diventare persino un po’ troppo soffocante.

L’assunzione di una piena e chiara responsabilità nel sostegno a Monti, infatti, consente al presidente del Consiglio una navigazione politica meno solitaria e meno esposta alle turbolenze quotidiane. Anche il sostegno alle Camere dovrebbe essere più solido, dal momento che, finita la fase dell’emergenza economica, i provvedimenti governativi dovrebbero prendere la strada dei consueti disegni di legge. Come dimostra la via scelta per attuare l’accordo sulla giustizia trovato nel vertice notturno, dalle norme anticorruzione ai limiti sulle intercettazioni e sulla loro pubblicazione. Un ritorno alla normalità delle procedure di legislazione democratica che certamente andrebbe apprezzato. Così, si dovrebbe far credito ai partiti di voler cogliere l’opportunità di realizzare quelle riforme che da troppo tempo la società italiana aspetta e che le esasperate polemiche tra gli schieramenti finora hanno impedito di varare.

Gli abbracci troppo vigorosi, però, possono nascondere qualche insidia. Innanzi tutto, limitano gli spazi d’iniziativa autonoma. Finora, il presidente del Consiglio poteva esercitare la sua libertà d’azione con la sicurezza di poter dimostrare ai partiti che lo sostengono come la loro presunta «arma letale», il ritiro della fiducia, fosse, in realtà, una pistola scarica. Ora, con la fine del periodo più acuto della crisi finanziaria, ma soprattutto, con il metodo degli accordi preventivi e ufficiali, sanzionati dai vertici con i tre leader, la situazione si è modificata, non sempre a vantaggio del presidente del Consiglio. Perché i segretari dei partiti di maggioranza, di fronte a un provvedimento che non trovasse tutti d’accordo, potrebbero più facilmente rimproverare a Monti di voler imporre una misura sulla quale non è stata trovata un’intesa.

Nella «fase uno», questo governo rischiava di avanzare in terreni inesplorati, infidi e di trovarsi, un giorno, senza truppe alle spalle. Nella «fase due», il pericolo non sta più indietro, ma avanti: quello di vedere la strada troppo affollata e di essere costretto a indietreggiare.

La Stampa 17.03.12