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“Modello tedesco anche per la soglia di applicazione”, di Luigi Mariucci

Sembra che nel confronto tra governo e parti sociali si sia aperto uno spiraglio positivo, se è vero che in materia di licenziamenti si sta ragionando su misure ispirate al modello tedesco. È questa la strada giusta, come chi scrive ha più volte proposto in queste pagine, se si vogliono affrontare i problemi reali ed evitare di dar vita a logoranti quanto inutili guerre ideologiche. Intanto va chiarita, una volte per tutte, la questione dei licenziamenti discriminatori: in merito non c’è nulla da cambiare, poiché già oggi i licenziamenti discriminatori sono radicalmente nulli, come è ovvio, e quindi sanzionati con la reintegrazione a prescindere dalle dimensioni d’impresa. Questo vale anche nel caso del licenziamento della collaboratrice domestica. Il punto è che nessuno dirà «ti licenzio perché ho scoperto che sei musulmana!». Vale a dire che la prova della discriminazione (politica, sindacale, di sesso, di religione ecc) è sempre difficile, quasi diabolica. La discriminazione infatti si nasconde dietro atti apparentemente neutri e motivi formalmente diversi, di tipo soggettivo (scarso rendimento, colpe disciplinari ecc.) o oggettivo, come nel caso del licenziamento per motivi cosiddetti economici, di carattere individuale o plurimo (al di sotto della soglia a cui si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi, derivata da una direttiva europea). Se vengono licenziati con causali in apparenza soggettive o economiche lavoratori guarda caso, impegnati sindacalmente, o di colore, o appartenenti tutti al medesimo sesso come si fa a provare la discriminazione? Per questo la legge prevede che il datore di lavoro debba dimostrare l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo e che in mancanza di questo il giudice disponga la rimozione dell’atto illegittimo, ovvero la reintegrazione. Questo dice l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, che perciò consiste in una norma di civiltà ed ha una forte carica deterrente poiché mette il lavoratore in condizione di rendere effettivi i propri diritti nel corso del rapporto Cos’è dunque che non funziona in questa norma? Anzitutto, com’è noto, la questione dei tempi: se i processi tra i vari gradi durano fino a sei-sette anni, come accade in molti (non tutti) i distretti giudiziari la reintegrazione con l’aggiunta del risarcimento diventa un non-senso. Qui occorre quindi adottare misure cogenti di accelerazione delle controversie, come giustamente si sta ipotizzando al tavolo del confronto governo-sindacati. L’altra cosa che non funziona nell’art.18 è la rigidità del meccanismo e del criterio che ne delimita il campo di applicazione: la famosa soglia dei 15 dipendenti (peraltro applicata anche ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali di cui alla parte III dello Statuto, e da altre normative, quali la Cassa integrazione). Tale soglia non è più attendibile, anche in ragione dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e del mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Questa soglia andrebbe rivista o introducendo criteri più razionali di valutazione della potenzialità economica dell’impresa, secondo formule già previste dalla Unione europea per il calcolo delle dimensioni d’impresa, o ispirandosi anche in questo caso al modello tedesco. Lì la legge sui licenziamenti del 1951 si applica alle imprese con più di 5 dipendenti ed è il giudice (non il datore di lavoro) a decidere, salvo il caso in cui sia provato il carattere discriminatorio del licenziamento, se disporre la reintegrazione ovvero stabilire un equo indennizzo in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa e al comportamento delle parti. Si manterrebbe in tal modo la funzione deterrente e di principio della reintegrazione ma ne verrebbe resa più flessibile l’attuazione. Non si dimentichi infatti che il primo compito del giudice è quello di promuovere la conciliazione delle controversie. Se poi ci si ispirasse al modello tedesco anche per quanto riguarda il funzionamento delle agenzie pubbliche del lavoro e i sistemi di sostegno del reddito di chi perde il lavoro e di chi (soprattutto giovani e donne) non lo trova, e si introducessero efficaci meccanismi di contrasto al ricorso abusivo ai contratti precari, si potrebbe concludere che finalmente il disegno della riforma comincia ad assumere un profilo positivo e, quel che più conta, utile al Paese.

L’Unità 16.03.12

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Monti: «Siamo vicini al traguardo». La Cgil rinvia la scelta al direttivo, di Laura Matteucci

Dopo la schiarita di mercoledì, sulla trattativa per il lavoro il governo accelera e riconvoca le parti sociali per martedì pomeriggio. Secondo Monti sarà l’occasione per «tirare le somme di un percorso di dialogo avviato il 23 gennaio e che porterà ad una conclusione, auspicabilmente con un pieno accordo, entro la fine di marzo», sostenendo che «il governo con le parti sociali è in dirittura d’arrivo, prima di portare il risultato di questo negoziato in Parlamento». E da Palazzo Chigi per le parti sociali arriva pure un elogio, con una nota che parla di «positivo spirito di collaborazione e contributo di idee da loro offerto sin dal primo momento». Anche i leader dei partiti che sostengono il governo, prima del vertice avuto in serata con Monti, invitano a chiudere in tempi brevi ma, se Alfano e Casini sottolineano soprattutto le esigenze delle imprese, Bersani ricorda che «ci sono ancora problemi su ammortizzatori, contratti e risorse».Una volta risolti, continua il segretario del Pd dopo aver avuto «contatti con tutti», «c’è la possibilità di arrivare ad un accordo. Mi aspetto parole chiare e passi avanti sulla riforma». Una conferma arriva anche dal ministro al Lavoro Fornero: «Siamo in una fase delicata rispetto alla quale nonposso anticipare contenuti, che spero possano essere portati all’accordo nei prossimi giorni». «Ci sono però concetti: inclusione, universalismo, dinamismo che ispirano la riforma – dice il ministro ancora una volta – fatta per aumentare l’occupazione. È questo il nostro obiettivo ultimo» facendo inmodoche sia «un po’ migliore per i giovani». Fornero torna anche a sostenere che «chi ha perso il lavoro deve essere assistito finanziariamente ma anche rispetto alla ricerca di un nuovo lavoro e nonperunaccompagnamento lungo verso la pensione. La conservazione di privilegi, di reti di protezione, di divisioni è qualcosa che non fa bene, che merita di essere smantellata. Senza procedere con metodi troppo energici». MONTAGNE RUSSE Di ostacoli all’intesa sembrano però essercene ancora. Rete imprese Italia punta i piedi e fa sapere che se aumenterà il costo del lavoro per le piccole e medie imprese, così come previsto, le associazioni aderenti potrebbero decidere di disdettare i contratti collettivi. La Cgil convocherà il direttivo mercoledì prossimo, occasione per valutare l’incontro al tavolo del giorno prima e, qualora ci fossero le condizioni, per dare ilmandato alla segreteria per concludere la trattativa. La minoranza interna intanto si fa sentire, con Gianni Rinaldini («La Cgil che vogliamo») che boccia la trattativa del governo Monti, il cui obiettivo sarebbe «non modificare le molteplici forme di lavoro precario, affermare la libertà di licenziamento riducendo ruolo, entità e durata della Cassa integrazione straordinaria, cancellare l’indennità di mobilità e operare manutenzioni sull’art.18, come dire che si afferma la totale libertà di licenziamento». E se la segretaria Cgil Susanna Camusso avverte che «l’incontro di mercoledì è stato utile, ma la trattativa è sulle montagne russe», il segretario Uil Luigi Angeletti chiosa «speriamo che non deragli, perché di solito il rischio è proprio che all’ultimo minuto si possa deragliare». «Ora – continua – ci sono condizioni migliori per una possibile intesa. La paccata di soldi non c’è, ma non c’è più neanche il rischio delle nozze coi fichi secchi ». Perché se cifre ancora non ne sonostate fatte, l’impegno ad assicurare risorse alla proroga del regime di cassa integrazione fino al 2016, quello c’è. Oltre a questo, una serie di aperture, ad esempio sugli esodati e suunmeccanismo che dovrebbe rendere più difficoltoso il ricorso a tipologie di contratti precari, hanno determinato l’accelerazione verso un esito positivo.❖

L’Unità 16.03.12

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“E i Piccoli minacciano di disdettare i contratti collettivi”, di Raffaella Cascioli

Rete Imprese Italia non ci sta e alza la voce. Nella trattativa sul mercato del lavoro, incamminata verso le battute conclusive, i diversi soggetti interessati – da Confindustria ai sindacati – stanno iniziando a trovare un punto di equilibrio. Tutti ad eccezione dei piccoli su cui si scaricherebbero non solo gli alti costi della riforma, ma anche le eventuali rigidità che potrebbero essere introdotte nella flessibilità in entrata. E così dopo le perplessità espresse sulle proposte presentate dalla Fornero e aver minacciato di non firmare una riforma che impone costi inaccettabili alle piccole e medie imprese, Rete Imprese Italia si accinge a valutare la disdetta dei contratti collettivi di lavoro.
In vista dell’incontro in serata tra Monti e i tre segretari di maggioranza, ieri pomeriggio i piccoli imprenditori hanno incontrato Casini, Bersani e Alfano a cui hanno spiegato il peso della riforma sulla realtà imprenditoriale italiana che si è dimostrata più vivace anche in tempo di crisi. E le forze politiche si sono mostrate sensibili alle posizioni di Rete Imprese Italia tanto che Bersani ha sottolineato come «la possibilità di un accordo esiste, anche se c’è ancora qualche problema, non sull’articolo 18, ma sul complesso dell’operazione e sugli ammortizzatori, sui contratti e sulle risorse».
Al tempo stesso l’Associazione ha messo a punto una serie di proposte alternative sia sul tema degli ammortizzatori sociali che della flessibilità in entrata, a breve sul tavolo del ministro Fornero. L’obiettivo è quello di arrivare al vertice di martedì convocato da Monti a palazzo Chigi con la possibilità di riaprire la partita. Ma cosa è che chiedono i piccoli? «Nessuna barricata, fanno sapere da Rete Imprese Italia, anzi siamo favorevoli all’allargamento delle tutele e alla buona flessibilità», purché a pagare il costo della riforma non siano solo i piccoli, già penalizzati da un aumento dei contributi previdenziali per 2,7 miliardi di euro. La denuncia è quella di far cassa sulle piccole e medie imprese costrette dalla riforma a far fronte ad un costo aggiuntivo di 1,2 miliardi di euro l’anno.
Di qui la necessità di operare qualche compensazione visto che l’Aspi, ovvero la vecchia indennità di disoccupazione, finirebbe per colpire soprattutto le pmi che oggi pagano in misura ridotta. Quello che artigiani e commercianti proporrebbero è che, a compensazione di questo ulteriore esborso, si provveda a una riduzione delle tariffe Inail e della gestione malattie Inps, dove si registra un avanzo complessivo di circa 20 miliardi di euro. C’è poi il problema della flessibilità in entrata con il rischio di un irrigidimento sui contratti a tempo determinato e a chiamata che, per le caratteristiche delle pmi, sono utilizzati da artigiani e commercianti e costituiscono «esempi di buona occupazione».
In questo senso occorre operare distinzioni tra grandi e piccole imprese, che devono fare i conti anche con la stagionalità. Tematiche queste specifiche per le pmi e che vanno considerate. Anche perché in proporzione le grandi imprese sarebbero meno penalizzate se non addirittura avvantaggiate in termini di costi dalla riforma. Una contrapposizione che mal si coniuga con il fatto che proprio grandi e piccole imprese a settembre di quest’anno hanno fatto fronte comune presentando il manifesto per le imprese (a cui hanno aderito Abi, Ania, Alleanza delle cooperative, Confindustria e Rete Imprese Italia) non solo per sottolineare i pericoli che correva il paese ma anche per condizionare un processo che poi ha portato l’Italia a voltare pagina, a chiudere la stagione di Berlusconi e aprirne una nuova.
Un’alleanza che ancora in questi giorni su temi caldi come il Sistri funziona, ma che sul tema del lavoro sembra non esistere.

da Europa Quotidiano 16.03.12

“Modello tedesco anche per la soglia di applicazione”, di Luigi Mariucci

Sembra che nel confronto tra governo e parti sociali si sia aperto uno spiraglio positivo, se è vero che in materia di licenziamenti si sta ragionando su misure ispirate al modello tedesco. È questa la strada giusta, come chi scrive ha più volte proposto in queste pagine, se si vogliono affrontare i problemi reali ed evitare di dar vita a logoranti quanto inutili guerre ideologiche. Intanto va chiarita, una volte per tutte, la questione dei licenziamenti discriminatori: in merito non c’è nulla da cambiare, poiché già oggi i licenziamenti discriminatori sono radicalmente nulli, come è ovvio, e quindi sanzionati con la reintegrazione a prescindere dalle dimensioni d’impresa. Questo vale anche nel caso del licenziamento della collaboratrice domestica. Il punto è che nessuno dirà «ti licenzio perché ho scoperto che sei musulmana!». Vale a dire che la prova della discriminazione (politica, sindacale, di sesso, di religione ecc) è sempre difficile, quasi diabolica. La discriminazione infatti si nasconde dietro atti apparentemente neutri e motivi formalmente diversi, di tipo soggettivo (scarso rendimento, colpe disciplinari ecc.) o oggettivo, come nel caso del licenziamento per motivi cosiddetti economici, di carattere individuale o plurimo (al di sotto della soglia a cui si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi, derivata da una direttiva europea). Se vengono licenziati con causali in apparenza soggettive o economiche lavoratori guarda caso, impegnati sindacalmente, o di colore, o appartenenti tutti al medesimo sesso come si fa a provare la discriminazione? Per questo la legge prevede che il datore di lavoro debba dimostrare l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo e che in mancanza di questo il giudice disponga la rimozione dell’atto illegittimo, ovvero la reintegrazione. Questo dice l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, che perciò consiste in una norma di civiltà ed ha una forte carica deterrente poiché mette il lavoratore in condizione di rendere effettivi i propri diritti nel corso del rapporto Cos’è dunque che non funziona in questa norma? Anzitutto, com’è noto, la questione dei tempi: se i processi tra i vari gradi durano fino a sei-sette anni, come accade in molti (non tutti) i distretti giudiziari la reintegrazione con l’aggiunta del risarcimento diventa un non-senso. Qui occorre quindi adottare misure cogenti di accelerazione delle controversie, come giustamente si sta ipotizzando al tavolo del confronto governo-sindacati. L’altra cosa che non funziona nell’art.18 è la rigidità del meccanismo e del criterio che ne delimita il campo di applicazione: la famosa soglia dei 15 dipendenti (peraltro applicata anche ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali di cui alla parte III dello Statuto, e da altre normative, quali la Cassa integrazione). Tale soglia non è più attendibile, anche in ragione dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e del mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Questa soglia andrebbe rivista o introducendo criteri più razionali di valutazione della potenzialità economica dell’impresa, secondo formule già previste dalla Unione europea per il calcolo delle dimensioni d’impresa, o ispirandosi anche in questo caso al modello tedesco. Lì la legge sui licenziamenti del 1951 si applica alle imprese con più di 5 dipendenti ed è il giudice (non il datore di lavoro) a decidere, salvo il caso in cui sia provato il carattere discriminatorio del licenziamento, se disporre la reintegrazione ovvero stabilire un equo indennizzo in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa e al comportamento delle parti. Si manterrebbe in tal modo la funzione deterrente e di principio della reintegrazione ma ne verrebbe resa più flessibile l’attuazione. Non si dimentichi infatti che il primo compito del giudice è quello di promuovere la conciliazione delle controversie. Se poi ci si ispirasse al modello tedesco anche per quanto riguarda il funzionamento delle agenzie pubbliche del lavoro e i sistemi di sostegno del reddito di chi perde il lavoro e di chi (soprattutto giovani e donne) non lo trova, e si introducessero efficaci meccanismi di contrasto al ricorso abusivo ai contratti precari, si potrebbe concludere che finalmente il disegno della riforma comincia ad assumere un profilo positivo e, quel che più conta, utile al Paese.

L’Unità 16.03.12

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Monti: «Siamo vicini al traguardo». La Cgil rinvia la scelta al direttivo, di Laura Matteucci

Dopo la schiarita di mercoledì, sulla trattativa per il lavoro il governo accelera e riconvoca le parti sociali per martedì pomeriggio. Secondo Monti sarà l’occasione per «tirare le somme di un percorso di dialogo avviato il 23 gennaio e che porterà ad una conclusione, auspicabilmente con un pieno accordo, entro la fine di marzo», sostenendo che «il governo con le parti sociali è in dirittura d’arrivo, prima di portare il risultato di questo negoziato in Parlamento». E da Palazzo Chigi per le parti sociali arriva pure un elogio, con una nota che parla di «positivo spirito di collaborazione e contributo di idee da loro offerto sin dal primo momento». Anche i leader dei partiti che sostengono il governo, prima del vertice avuto in serata con Monti, invitano a chiudere in tempi brevi ma, se Alfano e Casini sottolineano soprattutto le esigenze delle imprese, Bersani ricorda che «ci sono ancora problemi su ammortizzatori, contratti e risorse».Una volta risolti, continua il segretario del Pd dopo aver avuto «contatti con tutti», «c’è la possibilità di arrivare ad un accordo. Mi aspetto parole chiare e passi avanti sulla riforma». Una conferma arriva anche dal ministro al Lavoro Fornero: «Siamo in una fase delicata rispetto alla quale nonposso anticipare contenuti, che spero possano essere portati all’accordo nei prossimi giorni». «Ci sono però concetti: inclusione, universalismo, dinamismo che ispirano la riforma – dice il ministro ancora una volta – fatta per aumentare l’occupazione. È questo il nostro obiettivo ultimo» facendo inmodoche sia «un po’ migliore per i giovani». Fornero torna anche a sostenere che «chi ha perso il lavoro deve essere assistito finanziariamente ma anche rispetto alla ricerca di un nuovo lavoro e nonperunaccompagnamento lungo verso la pensione. La conservazione di privilegi, di reti di protezione, di divisioni è qualcosa che non fa bene, che merita di essere smantellata. Senza procedere con metodi troppo energici». MONTAGNE RUSSE Di ostacoli all’intesa sembrano però essercene ancora. Rete imprese Italia punta i piedi e fa sapere che se aumenterà il costo del lavoro per le piccole e medie imprese, così come previsto, le associazioni aderenti potrebbero decidere di disdettare i contratti collettivi. La Cgil convocherà il direttivo mercoledì prossimo, occasione per valutare l’incontro al tavolo del giorno prima e, qualora ci fossero le condizioni, per dare ilmandato alla segreteria per concludere la trattativa. La minoranza interna intanto si fa sentire, con Gianni Rinaldini («La Cgil che vogliamo») che boccia la trattativa del governo Monti, il cui obiettivo sarebbe «non modificare le molteplici forme di lavoro precario, affermare la libertà di licenziamento riducendo ruolo, entità e durata della Cassa integrazione straordinaria, cancellare l’indennità di mobilità e operare manutenzioni sull’art.18, come dire che si afferma la totale libertà di licenziamento». E se la segretaria Cgil Susanna Camusso avverte che «l’incontro di mercoledì è stato utile, ma la trattativa è sulle montagne russe», il segretario Uil Luigi Angeletti chiosa «speriamo che non deragli, perché di solito il rischio è proprio che all’ultimo minuto si possa deragliare». «Ora – continua – ci sono condizioni migliori per una possibile intesa. La paccata di soldi non c’è, ma non c’è più neanche il rischio delle nozze coi fichi secchi ». Perché se cifre ancora non ne sonostate fatte, l’impegno ad assicurare risorse alla proroga del regime di cassa integrazione fino al 2016, quello c’è. Oltre a questo, una serie di aperture, ad esempio sugli esodati e suunmeccanismo che dovrebbe rendere più difficoltoso il ricorso a tipologie di contratti precari, hanno determinato l’accelerazione verso un esito positivo.❖

L’Unità 16.03.12

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“E i Piccoli minacciano di disdettare i contratti collettivi”, di Raffaella Cascioli

Rete Imprese Italia non ci sta e alza la voce. Nella trattativa sul mercato del lavoro, incamminata verso le battute conclusive, i diversi soggetti interessati – da Confindustria ai sindacati – stanno iniziando a trovare un punto di equilibrio. Tutti ad eccezione dei piccoli su cui si scaricherebbero non solo gli alti costi della riforma, ma anche le eventuali rigidità che potrebbero essere introdotte nella flessibilità in entrata. E così dopo le perplessità espresse sulle proposte presentate dalla Fornero e aver minacciato di non firmare una riforma che impone costi inaccettabili alle piccole e medie imprese, Rete Imprese Italia si accinge a valutare la disdetta dei contratti collettivi di lavoro.
In vista dell’incontro in serata tra Monti e i tre segretari di maggioranza, ieri pomeriggio i piccoli imprenditori hanno incontrato Casini, Bersani e Alfano a cui hanno spiegato il peso della riforma sulla realtà imprenditoriale italiana che si è dimostrata più vivace anche in tempo di crisi. E le forze politiche si sono mostrate sensibili alle posizioni di Rete Imprese Italia tanto che Bersani ha sottolineato come «la possibilità di un accordo esiste, anche se c’è ancora qualche problema, non sull’articolo 18, ma sul complesso dell’operazione e sugli ammortizzatori, sui contratti e sulle risorse».
Al tempo stesso l’Associazione ha messo a punto una serie di proposte alternative sia sul tema degli ammortizzatori sociali che della flessibilità in entrata, a breve sul tavolo del ministro Fornero. L’obiettivo è quello di arrivare al vertice di martedì convocato da Monti a palazzo Chigi con la possibilità di riaprire la partita. Ma cosa è che chiedono i piccoli? «Nessuna barricata, fanno sapere da Rete Imprese Italia, anzi siamo favorevoli all’allargamento delle tutele e alla buona flessibilità», purché a pagare il costo della riforma non siano solo i piccoli, già penalizzati da un aumento dei contributi previdenziali per 2,7 miliardi di euro. La denuncia è quella di far cassa sulle piccole e medie imprese costrette dalla riforma a far fronte ad un costo aggiuntivo di 1,2 miliardi di euro l’anno.
Di qui la necessità di operare qualche compensazione visto che l’Aspi, ovvero la vecchia indennità di disoccupazione, finirebbe per colpire soprattutto le pmi che oggi pagano in misura ridotta. Quello che artigiani e commercianti proporrebbero è che, a compensazione di questo ulteriore esborso, si provveda a una riduzione delle tariffe Inail e della gestione malattie Inps, dove si registra un avanzo complessivo di circa 20 miliardi di euro. C’è poi il problema della flessibilità in entrata con il rischio di un irrigidimento sui contratti a tempo determinato e a chiamata che, per le caratteristiche delle pmi, sono utilizzati da artigiani e commercianti e costituiscono «esempi di buona occupazione».
In questo senso occorre operare distinzioni tra grandi e piccole imprese, che devono fare i conti anche con la stagionalità. Tematiche queste specifiche per le pmi e che vanno considerate. Anche perché in proporzione le grandi imprese sarebbero meno penalizzate se non addirittura avvantaggiate in termini di costi dalla riforma. Una contrapposizione che mal si coniuga con il fatto che proprio grandi e piccole imprese a settembre di quest’anno hanno fatto fronte comune presentando il manifesto per le imprese (a cui hanno aderito Abi, Ania, Alleanza delle cooperative, Confindustria e Rete Imprese Italia) non solo per sottolineare i pericoli che correva il paese ma anche per condizionare un processo che poi ha portato l’Italia a voltare pagina, a chiudere la stagione di Berlusconi e aprirne una nuova.
Un’alleanza che ancora in questi giorni su temi caldi come il Sistri funziona, ma che sul tema del lavoro sembra non esistere.

da Europa Quotidiano 16.03.12

"La Cassazione: alle coppie gay gli stessi diritti delle famiglie", di Natalia Aspesi

La Corte di Cassazione con una sua sentenza che qualche analfabeta di ritorno definirà shock, e che invece è solo finalmente giusta, ha stabilito una cosa ovvia. Ci ha detto che se in questo Paese, dove avvengono le massime trasgressioni ladrone non sempre perseguite, due persone che si amano ma appartengono allo stesso genere (detto anche sesso) non possono (per ora) sposarsi, hanno però i diritti di tutte le coppie diciamo tradizionali, che in chiesa e municipio hanno potuto sposarsi per il solo fatto di essere un uomo o una donna; il diritto di vivere liberamente la loro condizione di coppia, il diritto di condurre una vita familiare come gli garba, il diritto di pretendere «un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata».
Era ora! Visto che nella famosa Europa dove tutti i cittadini di tutti i paesi dovrebbero godere più o meno delle stesse leggi, noi siamo (o eravamo?) i soli fuori posto, fuori tempo, fuori realtà, fuori civiltà, fuori giustizia e anche fuori legge e fuori morale umana, per quel che riguarda la vita privata delle persone. Perché per il resto, se non si tratta di Giovanardi che ieri ha perso la testa, del povero Alfano che qualche giorno fa parlava a vanvera di nozze gay come della fine della civiltà, pochi altri peccatori incattiviti, più qualche scemo razzista, la maggior parte degli italiani non ne può più di tutti questi tremebondi legislatori e di questi monotoni prelati senza fede, e di anni e anni di su e giù sulle stesse posizioni polverose, mentre il mondo va avanti e il nostro paese arretra anche su altri temi più fondamentali del letto coniugale e di chi ha il diritto, legale, di occuparlo. Ormai il nostro paese, come il mondo, è pieno di coppie cosiddette di fatto, e c´è da dire che le più invidiate sono quelle gay, perché sono sempre meno litigiose di tante etero e non potendo, per ora, far l´errore di sposarsi, non gli viene neppure in mente di divorziare. Ogni volta che in Italia si è tentato di formulare una legge (vade retro matrimonio!) che consentisse come in Francia (e Svizzera e Germania) i cosiddetti Patti Civili di Solidarietà (anche Saint Laurent lo aveva sottoscritto con il compagno Pierre Bergè), ne sono successe di ogni colore, a destra come a sinistra, per non parlare dei pulpiti.
Insomma ogni tentativo di instaurare una legge simile a quella dell´Europa più timida (le coppie omo si sposano persino in Spagna e Portogallo, in Inghilterra adottano bambini), da noi è sempre caduta in un frastuono generale. Neanche i più convinti sostenitori dei diritti omosessuali, per intelligenza e prudenza, hanno mai affrontato discussioni sull´eventualità del matrimonio gay: ma la ridicola e violenta ipocrisia della destra peggiore e della sinistra bigotta ha sempre chiamato «matrimonio» ogni proposta di una legge di rispetto dei diritti civili delle omocoppie, satanizzandola. Ancora più vergognosa, per falsità, è la predica, di nuovo da ieri in circolazione, con probabili vaneggiamenti del segretario del Pdl, che se due giovanotti cucinano insieme e dormono nella stessa camera e vanno a trovare la mamma dell´uno e dell´altro, tutte e due contentissime per quei cari affettuosi ragazzi che si vogliono così bene, le famiglie “vere” si sfasciano. E non importa se queste unioni benedette da parroci e sindaci, e anche da vescovi, sono composte da un marito che cornifica la moglie anche con giovanotti, da una moglie che perde la casa giocando d´azzardo, e da figli presi regolarmente a ceffoni o spinti a partecipare tutti dipinti a gare canore tivu.
La famiglia è la famiglia, si sa, anche le coltellate alla moglie (o al marito) fanno parte del vero matrimonio. Fantastica la reazione del rustico Giovanardi, che se incazzato, straparlando manda scintille: per lui infatti, e qui ci si chiede come possa rappresentare politicamente anche solo un paio di sfortunati etero, la sentenza della Cassazione è solo il parere ovviamente sbagliato, di un qualsiasi cittadino. Certo, la Cassazione non fa leggi, però è intervenuta con tutta la sua autorità nel vuoto codardo della nostra politica: il suo parere conta moltissimo non solo nella giurisprudenza, ma anche nella vita di tutti. E´ un gran bel giorno non solo per i gay, ma per chiunque creda che anche l´Italia non sia esclusa dalla civiltà europea.

La Repubblica 16.03.12

“La Cassazione: alle coppie gay gli stessi diritti delle famiglie”, di Natalia Aspesi

La Corte di Cassazione con una sua sentenza che qualche analfabeta di ritorno definirà shock, e che invece è solo finalmente giusta, ha stabilito una cosa ovvia. Ci ha detto che se in questo Paese, dove avvengono le massime trasgressioni ladrone non sempre perseguite, due persone che si amano ma appartengono allo stesso genere (detto anche sesso) non possono (per ora) sposarsi, hanno però i diritti di tutte le coppie diciamo tradizionali, che in chiesa e municipio hanno potuto sposarsi per il solo fatto di essere un uomo o una donna; il diritto di vivere liberamente la loro condizione di coppia, il diritto di condurre una vita familiare come gli garba, il diritto di pretendere «un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata».
Era ora! Visto che nella famosa Europa dove tutti i cittadini di tutti i paesi dovrebbero godere più o meno delle stesse leggi, noi siamo (o eravamo?) i soli fuori posto, fuori tempo, fuori realtà, fuori civiltà, fuori giustizia e anche fuori legge e fuori morale umana, per quel che riguarda la vita privata delle persone. Perché per il resto, se non si tratta di Giovanardi che ieri ha perso la testa, del povero Alfano che qualche giorno fa parlava a vanvera di nozze gay come della fine della civiltà, pochi altri peccatori incattiviti, più qualche scemo razzista, la maggior parte degli italiani non ne può più di tutti questi tremebondi legislatori e di questi monotoni prelati senza fede, e di anni e anni di su e giù sulle stesse posizioni polverose, mentre il mondo va avanti e il nostro paese arretra anche su altri temi più fondamentali del letto coniugale e di chi ha il diritto, legale, di occuparlo. Ormai il nostro paese, come il mondo, è pieno di coppie cosiddette di fatto, e c´è da dire che le più invidiate sono quelle gay, perché sono sempre meno litigiose di tante etero e non potendo, per ora, far l´errore di sposarsi, non gli viene neppure in mente di divorziare. Ogni volta che in Italia si è tentato di formulare una legge (vade retro matrimonio!) che consentisse come in Francia (e Svizzera e Germania) i cosiddetti Patti Civili di Solidarietà (anche Saint Laurent lo aveva sottoscritto con il compagno Pierre Bergè), ne sono successe di ogni colore, a destra come a sinistra, per non parlare dei pulpiti.
Insomma ogni tentativo di instaurare una legge simile a quella dell´Europa più timida (le coppie omo si sposano persino in Spagna e Portogallo, in Inghilterra adottano bambini), da noi è sempre caduta in un frastuono generale. Neanche i più convinti sostenitori dei diritti omosessuali, per intelligenza e prudenza, hanno mai affrontato discussioni sull´eventualità del matrimonio gay: ma la ridicola e violenta ipocrisia della destra peggiore e della sinistra bigotta ha sempre chiamato «matrimonio» ogni proposta di una legge di rispetto dei diritti civili delle omocoppie, satanizzandola. Ancora più vergognosa, per falsità, è la predica, di nuovo da ieri in circolazione, con probabili vaneggiamenti del segretario del Pdl, che se due giovanotti cucinano insieme e dormono nella stessa camera e vanno a trovare la mamma dell´uno e dell´altro, tutte e due contentissime per quei cari affettuosi ragazzi che si vogliono così bene, le famiglie “vere” si sfasciano. E non importa se queste unioni benedette da parroci e sindaci, e anche da vescovi, sono composte da un marito che cornifica la moglie anche con giovanotti, da una moglie che perde la casa giocando d´azzardo, e da figli presi regolarmente a ceffoni o spinti a partecipare tutti dipinti a gare canore tivu.
La famiglia è la famiglia, si sa, anche le coltellate alla moglie (o al marito) fanno parte del vero matrimonio. Fantastica la reazione del rustico Giovanardi, che se incazzato, straparlando manda scintille: per lui infatti, e qui ci si chiede come possa rappresentare politicamente anche solo un paio di sfortunati etero, la sentenza della Cassazione è solo il parere ovviamente sbagliato, di un qualsiasi cittadino. Certo, la Cassazione non fa leggi, però è intervenuta con tutta la sua autorità nel vuoto codardo della nostra politica: il suo parere conta moltissimo non solo nella giurisprudenza, ma anche nella vita di tutti. E´ un gran bel giorno non solo per i gay, ma per chiunque creda che anche l´Italia non sia esclusa dalla civiltà europea.

La Repubblica 16.03.12

“La Cassazione: alle coppie gay gli stessi diritti delle famiglie”, di Natalia Aspesi

La Corte di Cassazione con una sua sentenza che qualche analfabeta di ritorno definirà shock, e che invece è solo finalmente giusta, ha stabilito una cosa ovvia. Ci ha detto che se in questo Paese, dove avvengono le massime trasgressioni ladrone non sempre perseguite, due persone che si amano ma appartengono allo stesso genere (detto anche sesso) non possono (per ora) sposarsi, hanno però i diritti di tutte le coppie diciamo tradizionali, che in chiesa e municipio hanno potuto sposarsi per il solo fatto di essere un uomo o una donna; il diritto di vivere liberamente la loro condizione di coppia, il diritto di condurre una vita familiare come gli garba, il diritto di pretendere «un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata».
Era ora! Visto che nella famosa Europa dove tutti i cittadini di tutti i paesi dovrebbero godere più o meno delle stesse leggi, noi siamo (o eravamo?) i soli fuori posto, fuori tempo, fuori realtà, fuori civiltà, fuori giustizia e anche fuori legge e fuori morale umana, per quel che riguarda la vita privata delle persone. Perché per il resto, se non si tratta di Giovanardi che ieri ha perso la testa, del povero Alfano che qualche giorno fa parlava a vanvera di nozze gay come della fine della civiltà, pochi altri peccatori incattiviti, più qualche scemo razzista, la maggior parte degli italiani non ne può più di tutti questi tremebondi legislatori e di questi monotoni prelati senza fede, e di anni e anni di su e giù sulle stesse posizioni polverose, mentre il mondo va avanti e il nostro paese arretra anche su altri temi più fondamentali del letto coniugale e di chi ha il diritto, legale, di occuparlo. Ormai il nostro paese, come il mondo, è pieno di coppie cosiddette di fatto, e c´è da dire che le più invidiate sono quelle gay, perché sono sempre meno litigiose di tante etero e non potendo, per ora, far l´errore di sposarsi, non gli viene neppure in mente di divorziare. Ogni volta che in Italia si è tentato di formulare una legge (vade retro matrimonio!) che consentisse come in Francia (e Svizzera e Germania) i cosiddetti Patti Civili di Solidarietà (anche Saint Laurent lo aveva sottoscritto con il compagno Pierre Bergè), ne sono successe di ogni colore, a destra come a sinistra, per non parlare dei pulpiti.
Insomma ogni tentativo di instaurare una legge simile a quella dell´Europa più timida (le coppie omo si sposano persino in Spagna e Portogallo, in Inghilterra adottano bambini), da noi è sempre caduta in un frastuono generale. Neanche i più convinti sostenitori dei diritti omosessuali, per intelligenza e prudenza, hanno mai affrontato discussioni sull´eventualità del matrimonio gay: ma la ridicola e violenta ipocrisia della destra peggiore e della sinistra bigotta ha sempre chiamato «matrimonio» ogni proposta di una legge di rispetto dei diritti civili delle omocoppie, satanizzandola. Ancora più vergognosa, per falsità, è la predica, di nuovo da ieri in circolazione, con probabili vaneggiamenti del segretario del Pdl, che se due giovanotti cucinano insieme e dormono nella stessa camera e vanno a trovare la mamma dell´uno e dell´altro, tutte e due contentissime per quei cari affettuosi ragazzi che si vogliono così bene, le famiglie “vere” si sfasciano. E non importa se queste unioni benedette da parroci e sindaci, e anche da vescovi, sono composte da un marito che cornifica la moglie anche con giovanotti, da una moglie che perde la casa giocando d´azzardo, e da figli presi regolarmente a ceffoni o spinti a partecipare tutti dipinti a gare canore tivu.
La famiglia è la famiglia, si sa, anche le coltellate alla moglie (o al marito) fanno parte del vero matrimonio. Fantastica la reazione del rustico Giovanardi, che se incazzato, straparlando manda scintille: per lui infatti, e qui ci si chiede come possa rappresentare politicamente anche solo un paio di sfortunati etero, la sentenza della Cassazione è solo il parere ovviamente sbagliato, di un qualsiasi cittadino. Certo, la Cassazione non fa leggi, però è intervenuta con tutta la sua autorità nel vuoto codardo della nostra politica: il suo parere conta moltissimo non solo nella giurisprudenza, ma anche nella vita di tutti. E´ un gran bel giorno non solo per i gay, ma per chiunque creda che anche l´Italia non sia esclusa dalla civiltà europea.

La Repubblica 16.03.12

"Onore ai maestri c'è grande bisogno di loro", di Alessandro D'Avenia

Un maestro è colui che, nella cornice di un relazione viva, risveglia in un altro essere umano forze e sogni potenziali e ancora latenti. Egli è chiamato a fare della propria unicità e del proprio intimo coltivarsi (la sua cultura) un dono al discepolo, che altrimenti non desidererà coltivare sé stesso, scoprendo chi è e che storia irripetibile è venuto a raccontare. Il maestro in sostanza è un pro-vocatore: uno che chiama l’altro ad assumere la propria vita come compito, come vocazione. Diventa te stesso, dice in ogni suo gesto e parola. Questo hanno fatto Socrate, Confucio, Cristo, Buddha, questo fanno tanti sconosciuti maestri nelle aule. Ma cosa autorizza un uomo o una donna a fare questo con un altro essere umano?

Invece di tirar fuori zanne e artigli, il cucciolo d’uomo è costretto ad un lunghissimo svezzamento senza il quale non è autosufficiente. Il bambino prima (e l’adolescente dopo) ha bisogno di essere accudito ed educato, altrimenti non sopravvive. Dovranno occuparsene la madre che lo ha generato, che instaura una relazione protettiva, come il grembo in cui lo ha custodito per nove mesi, e il padre che invece ha il compito di spingerlo ad affrontare il mondo aiutandolo a resistere e convivere con le proprie paure. Se un papà lancia in aria il bambino, la mamma impaurita chiederà di metterlo giù. La mamma lo ancora alla madre-terra, allo spazio orizzontale, il padre invece con le sue braccia forti lo lancia verso lo spazio verticale, il futuro: il bambino rimane sospeso, senza fiato, ma sa che le braccia lo aspettano di nuovo. Il padre educa il figlio all’assenza, al silenzio, alla distanza. Gli insegna la pazienza e l’attesa, mentre la madre è in contatto fisico diretto e accogliente, lo protegge dall’esterno. Abbiamo imparato ad andare in bicicletta con i nostri padri. Rimanevano distanti e ci dicevano: «Ora vai, non aver paura. Se succede qualcosa io sono qui». La nostra mamma sarebbe invece salita sulla bici al posto nostro e ci avrebbe detto «tu stai seduto là, mangia la merenda e guarda».

Gli insegnanti sono chiamati ad una sintesi dei due ruoli genitoriali, paterno e materno. Proteggere e sfidare, contenere e lanciare, con sapiente gradualità e studente per studente. Non tutti i docenti riescono in questo difficile compito, continuamente da riaffermare; può allora supplire l’equilibrio tra il numero di figure maschili e quello di figure femminili presenti in un consiglio di classe. Ma questo nella scuola italiana di oggi è quasi impossibile. La prevalenza di figure femminili è un dato di fatto che ha radici semplici: quale padre può mantenere oggi una famiglia facendo l’insegnante? L’insegnamento è un mestiere di appoggio, possibile solo per chi può permetterselo in termini di impegno di ore e di stipendio. Dobbiamo forse introdurre delle quote azzurre nella scuola o basterebbe migliorare le condizioni economiche di un docente?

Questa situazione si riflette (o è il riflesso) di una prassi familiare. Sono rari i casi in cui ai colloqui con i docenti si presentano i papà, rarissimi quelli in cui ai colloqui sono presenti entrambi i genitori. Come mai? Forse l’educazione è affare di uno solo? O affare solo delle mamme?

L’assenza o marginalità dello stile maschile nell’educazione familiare e scolare non è privo di conseguenze. Le scorgo nei miei studenti: insicuri e fragili, perché a volte privi o privati della autostima che un adolescente interiorizza grazie soprattutto alla figura paterna. Per una ragazza di 14-15 anni l’uomo più importante è suo padre, non certo il fidanzato. Diventano vittime della loro emotività elevata a sistema di valutazione del reale, poco educati come sono alla tenuta, al dolore, al silenzio, alla frustrazione in vista di un obiettivo ancora lontano.

Freud ha chiarito una volta per tutte che il padre è colui che pone il limite, mentre la madre eliminerebbe ogni ostacolo sul cammino del figlio. Il padre insegna che la vita va resa sacra (sacrificata) per qualcosa o qualcuno, mentre per la madre è la vita stessa del figlio ad essere sacra. La madre dà la vita, il padre invece ricorda che c’è la morte: quindi la vita va spesa per qualcosa. Sono necessari entrambi per l’equilibrio della donna e dell’uomo in formazione.

«Questo è il dovere di un padre: abituare il figlio a comportarsi bene da sé, e non per timore degli altri. La differenza tra un padre e un padrone sta qui. Chi non ne è capace, confessi che non sa farsi obbedire dai figli». Proprio in questi giorni sto lavorando con i miei studenti su I fratelli di Terenzio, da cui sono tratte queste parole e dalle quali (insieme ad una collega) partiremo per un approfondimento sui sistemi educativi antichi e moderni, passando per l’epocale «We don’t need no education» dei Pink Floyd. Dopo più di 30 anni da quell’urlo liberatorio, ci rendiamo conto che abbiamo sempre più bisogno di «education», per primi gli adulti con compiti di guida e di potere, spesso troppo impegnati a perseguire il bene particolare e il profitto, per fare onore ai maestri, che hanno in custodia le donne e gli uomini del futuro, il vero bene comune di un Paese.

La Stampa 16.03.12

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“Salvate gli ultimi prof maschi”, di SARA RICOTTA VOZA

C’ è una «questione maschile» in Italia e, a guardare solo la politica e l’economia, non ce ne eravamo neanche accorti. Infatti riguarda ambiti professionali in cui il potere è poco e il denaro ancora meno: scuola, educazione, cura. La «questione» affiora in due dati che già parlano da sé. Il primo: i bambini delle scuole elementari di oggi hanno 4,6 probabilità su 100 di incrociare sulla loro strada un maestro maschio. Il secondo: i laureati maschi in Scienze della Formazione – ex Magistero – sono costantemente calati nell’ultimo decennio fino a toccare nel 2009 quota 12 per cento (dati Almalaurea). Dodici beati tra 88 donne, e chissà quanti avranno lasciato in corsa per via del sentirsi minoranza.

Dati che hanno fatto scattare all’Università di Milano Bicocca l’allarme «questione maschile» dopo anni di «questione femminile» dominante, una sorta di segregazione (o autosegregazione) formativa al contrario, in cui a perderci non sono solo gli uomini che non vedono più nel mondo della scuola, dell’educazione e della cura un habitat per loro, ma soprattutto le nuove generazioni, che rischiano di avere una formazione tutta al femminile fino all’università.

Ne è nata una giornata di studio a cui hanno partecipato in qualificata moltitudine pedagogisti, sociologi, storici, insegnanti e operatori del mondo del sociale. Un primo brainstorming su un fenomeno di cui non sono ancora chiare le motivazioni né le conseguenze. La premessa è che la presenza maschile non è «uniformemente scarsa» in tutti i gradi dell’insegnamento. «Fra i professori ordinari in università è anzi preponderante, cala via via che i livelli educativi vanno verso la scuola primaria», rileva Carmen Leccardi, docente di sociologia.

Nella primaria, infatti, l’estinzione del maestro maschio è quasi completa (per non parlare della materna), mentre nelle medie e in alcune materie al liceo sta avanzando inesorabilmente. Con quali conseguenze, si è iniziato ora a discuterne. «Si manifesterà nella difficoltà a costruire modelli di genere soprattutto per i piccoli maschi e i giovani maschi, e in seguito nelle relazioni fra i due generi» sostiene Barbara Mapelli, docente di Pedagogia delle Differenze di genere.

Al contrario, «la presenza di figure educative di entrambi i generi in tutti i livelli di educazione scolastica e prescolastica offrirebbe a bambini e bambine la possibilità di acquisire una maggiore complessità di visione del mondo, per stili di vita, emotività, fisicità, comunicazione»: questa l’analisi di Stefania Ulivieri Stiozzi, docente di Teorie e modelli della consulenza pedagogica e organizzatrice del seminario alla Bicocca.

Ma quali sono le ragioni storiche e sociali di questo allontanamento dei maschi dall’educazione? C’è chi ha parlato quasi di un ritorno all’800, quando è nata la figura della «maestra» per consentire alla donna che non poteva o voleva essere solo madre di istruirsi e svolgere una professione lontano dagli studi e dalle posizioni elevate riservate agli uomini. C’è chi ha parlato di ritorno, anzi di persistenza del «virilismo» che ritiene antitetico alla virilità tutto ciò che ha a che fare con l’infanzia – regno dell’indeterminatezza, dell’insicurezza e della fragilità per antonomasia – , e questo in controtendenza con ciò che succede in famiglia, dove invece l’uomo non considera svilente occuparsi dei bambini.

Quali che siano le ragioni, per il professor Duccio Demetrio, ordinario di Filosofia dell’Educazione, si tratta di una «deriva inevitabile e irreversibile». Non resta che da chiedergli perché proprio lui, uno dei pochi maschi in facoltà, sia così tranchant. «La deriva è irreversibile perché si tratta di professioni che subiscono un calo progressivo di prestigio sociale. è un problema di immagine personale, prima di tutto davanti ai genitori. Ricordo la faccia di mio padre quando a 20 anni dissi che volevo fare l’alfabetizzatore di strada».

Per il professor Demetrio nonsi può far finta che non ci sia «il problema del denaro, del successo, della carriera». E conclude: «Educare, ex-ducere, vuol dire anche portare altrove, farti vedere lontano. Scontiamo una società in cui c’è una crisi del maschile intrinseca, perché gli uomini non riescono a dare mete in cui investire. Per fortuna i giovani le cercano, al di là dei padri».

La Stampa 16.03.12

“Onore ai maestri c’è grande bisogno di loro”, di Alessandro D’Avenia

Un maestro è colui che, nella cornice di un relazione viva, risveglia in un altro essere umano forze e sogni potenziali e ancora latenti. Egli è chiamato a fare della propria unicità e del proprio intimo coltivarsi (la sua cultura) un dono al discepolo, che altrimenti non desidererà coltivare sé stesso, scoprendo chi è e che storia irripetibile è venuto a raccontare. Il maestro in sostanza è un pro-vocatore: uno che chiama l’altro ad assumere la propria vita come compito, come vocazione. Diventa te stesso, dice in ogni suo gesto e parola. Questo hanno fatto Socrate, Confucio, Cristo, Buddha, questo fanno tanti sconosciuti maestri nelle aule. Ma cosa autorizza un uomo o una donna a fare questo con un altro essere umano?

Invece di tirar fuori zanne e artigli, il cucciolo d’uomo è costretto ad un lunghissimo svezzamento senza il quale non è autosufficiente. Il bambino prima (e l’adolescente dopo) ha bisogno di essere accudito ed educato, altrimenti non sopravvive. Dovranno occuparsene la madre che lo ha generato, che instaura una relazione protettiva, come il grembo in cui lo ha custodito per nove mesi, e il padre che invece ha il compito di spingerlo ad affrontare il mondo aiutandolo a resistere e convivere con le proprie paure. Se un papà lancia in aria il bambino, la mamma impaurita chiederà di metterlo giù. La mamma lo ancora alla madre-terra, allo spazio orizzontale, il padre invece con le sue braccia forti lo lancia verso lo spazio verticale, il futuro: il bambino rimane sospeso, senza fiato, ma sa che le braccia lo aspettano di nuovo. Il padre educa il figlio all’assenza, al silenzio, alla distanza. Gli insegna la pazienza e l’attesa, mentre la madre è in contatto fisico diretto e accogliente, lo protegge dall’esterno. Abbiamo imparato ad andare in bicicletta con i nostri padri. Rimanevano distanti e ci dicevano: «Ora vai, non aver paura. Se succede qualcosa io sono qui». La nostra mamma sarebbe invece salita sulla bici al posto nostro e ci avrebbe detto «tu stai seduto là, mangia la merenda e guarda».

Gli insegnanti sono chiamati ad una sintesi dei due ruoli genitoriali, paterno e materno. Proteggere e sfidare, contenere e lanciare, con sapiente gradualità e studente per studente. Non tutti i docenti riescono in questo difficile compito, continuamente da riaffermare; può allora supplire l’equilibrio tra il numero di figure maschili e quello di figure femminili presenti in un consiglio di classe. Ma questo nella scuola italiana di oggi è quasi impossibile. La prevalenza di figure femminili è un dato di fatto che ha radici semplici: quale padre può mantenere oggi una famiglia facendo l’insegnante? L’insegnamento è un mestiere di appoggio, possibile solo per chi può permetterselo in termini di impegno di ore e di stipendio. Dobbiamo forse introdurre delle quote azzurre nella scuola o basterebbe migliorare le condizioni economiche di un docente?

Questa situazione si riflette (o è il riflesso) di una prassi familiare. Sono rari i casi in cui ai colloqui con i docenti si presentano i papà, rarissimi quelli in cui ai colloqui sono presenti entrambi i genitori. Come mai? Forse l’educazione è affare di uno solo? O affare solo delle mamme?

L’assenza o marginalità dello stile maschile nell’educazione familiare e scolare non è privo di conseguenze. Le scorgo nei miei studenti: insicuri e fragili, perché a volte privi o privati della autostima che un adolescente interiorizza grazie soprattutto alla figura paterna. Per una ragazza di 14-15 anni l’uomo più importante è suo padre, non certo il fidanzato. Diventano vittime della loro emotività elevata a sistema di valutazione del reale, poco educati come sono alla tenuta, al dolore, al silenzio, alla frustrazione in vista di un obiettivo ancora lontano.

Freud ha chiarito una volta per tutte che il padre è colui che pone il limite, mentre la madre eliminerebbe ogni ostacolo sul cammino del figlio. Il padre insegna che la vita va resa sacra (sacrificata) per qualcosa o qualcuno, mentre per la madre è la vita stessa del figlio ad essere sacra. La madre dà la vita, il padre invece ricorda che c’è la morte: quindi la vita va spesa per qualcosa. Sono necessari entrambi per l’equilibrio della donna e dell’uomo in formazione.

«Questo è il dovere di un padre: abituare il figlio a comportarsi bene da sé, e non per timore degli altri. La differenza tra un padre e un padrone sta qui. Chi non ne è capace, confessi che non sa farsi obbedire dai figli». Proprio in questi giorni sto lavorando con i miei studenti su I fratelli di Terenzio, da cui sono tratte queste parole e dalle quali (insieme ad una collega) partiremo per un approfondimento sui sistemi educativi antichi e moderni, passando per l’epocale «We don’t need no education» dei Pink Floyd. Dopo più di 30 anni da quell’urlo liberatorio, ci rendiamo conto che abbiamo sempre più bisogno di «education», per primi gli adulti con compiti di guida e di potere, spesso troppo impegnati a perseguire il bene particolare e il profitto, per fare onore ai maestri, che hanno in custodia le donne e gli uomini del futuro, il vero bene comune di un Paese.

La Stampa 16.03.12

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“Salvate gli ultimi prof maschi”, di SARA RICOTTA VOZA

C’ è una «questione maschile» in Italia e, a guardare solo la politica e l’economia, non ce ne eravamo neanche accorti. Infatti riguarda ambiti professionali in cui il potere è poco e il denaro ancora meno: scuola, educazione, cura. La «questione» affiora in due dati che già parlano da sé. Il primo: i bambini delle scuole elementari di oggi hanno 4,6 probabilità su 100 di incrociare sulla loro strada un maestro maschio. Il secondo: i laureati maschi in Scienze della Formazione – ex Magistero – sono costantemente calati nell’ultimo decennio fino a toccare nel 2009 quota 12 per cento (dati Almalaurea). Dodici beati tra 88 donne, e chissà quanti avranno lasciato in corsa per via del sentirsi minoranza.

Dati che hanno fatto scattare all’Università di Milano Bicocca l’allarme «questione maschile» dopo anni di «questione femminile» dominante, una sorta di segregazione (o autosegregazione) formativa al contrario, in cui a perderci non sono solo gli uomini che non vedono più nel mondo della scuola, dell’educazione e della cura un habitat per loro, ma soprattutto le nuove generazioni, che rischiano di avere una formazione tutta al femminile fino all’università.

Ne è nata una giornata di studio a cui hanno partecipato in qualificata moltitudine pedagogisti, sociologi, storici, insegnanti e operatori del mondo del sociale. Un primo brainstorming su un fenomeno di cui non sono ancora chiare le motivazioni né le conseguenze. La premessa è che la presenza maschile non è «uniformemente scarsa» in tutti i gradi dell’insegnamento. «Fra i professori ordinari in università è anzi preponderante, cala via via che i livelli educativi vanno verso la scuola primaria», rileva Carmen Leccardi, docente di sociologia.

Nella primaria, infatti, l’estinzione del maestro maschio è quasi completa (per non parlare della materna), mentre nelle medie e in alcune materie al liceo sta avanzando inesorabilmente. Con quali conseguenze, si è iniziato ora a discuterne. «Si manifesterà nella difficoltà a costruire modelli di genere soprattutto per i piccoli maschi e i giovani maschi, e in seguito nelle relazioni fra i due generi» sostiene Barbara Mapelli, docente di Pedagogia delle Differenze di genere.

Al contrario, «la presenza di figure educative di entrambi i generi in tutti i livelli di educazione scolastica e prescolastica offrirebbe a bambini e bambine la possibilità di acquisire una maggiore complessità di visione del mondo, per stili di vita, emotività, fisicità, comunicazione»: questa l’analisi di Stefania Ulivieri Stiozzi, docente di Teorie e modelli della consulenza pedagogica e organizzatrice del seminario alla Bicocca.

Ma quali sono le ragioni storiche e sociali di questo allontanamento dei maschi dall’educazione? C’è chi ha parlato quasi di un ritorno all’800, quando è nata la figura della «maestra» per consentire alla donna che non poteva o voleva essere solo madre di istruirsi e svolgere una professione lontano dagli studi e dalle posizioni elevate riservate agli uomini. C’è chi ha parlato di ritorno, anzi di persistenza del «virilismo» che ritiene antitetico alla virilità tutto ciò che ha a che fare con l’infanzia – regno dell’indeterminatezza, dell’insicurezza e della fragilità per antonomasia – , e questo in controtendenza con ciò che succede in famiglia, dove invece l’uomo non considera svilente occuparsi dei bambini.

Quali che siano le ragioni, per il professor Duccio Demetrio, ordinario di Filosofia dell’Educazione, si tratta di una «deriva inevitabile e irreversibile». Non resta che da chiedergli perché proprio lui, uno dei pochi maschi in facoltà, sia così tranchant. «La deriva è irreversibile perché si tratta di professioni che subiscono un calo progressivo di prestigio sociale. è un problema di immagine personale, prima di tutto davanti ai genitori. Ricordo la faccia di mio padre quando a 20 anni dissi che volevo fare l’alfabetizzatore di strada».

Per il professor Demetrio nonsi può far finta che non ci sia «il problema del denaro, del successo, della carriera». E conclude: «Educare, ex-ducere, vuol dire anche portare altrove, farti vedere lontano. Scontiamo una società in cui c’è una crisi del maschile intrinseca, perché gli uomini non riescono a dare mete in cui investire. Per fortuna i giovani le cercano, al di là dei padri».

La Stampa 16.03.12