attualità, economia, lavoro

“Modello tedesco anche per la soglia di applicazione”, di Luigi Mariucci

Sembra che nel confronto tra governo e parti sociali si sia aperto uno spiraglio positivo, se è vero che in materia di licenziamenti si sta ragionando su misure ispirate al modello tedesco. È questa la strada giusta, come chi scrive ha più volte proposto in queste pagine, se si vogliono affrontare i problemi reali ed evitare di dar vita a logoranti quanto inutili guerre ideologiche. Intanto va chiarita, una volte per tutte, la questione dei licenziamenti discriminatori: in merito non c’è nulla da cambiare, poiché già oggi i licenziamenti discriminatori sono radicalmente nulli, come è ovvio, e quindi sanzionati con la reintegrazione a prescindere dalle dimensioni d’impresa. Questo vale anche nel caso del licenziamento della collaboratrice domestica. Il punto è che nessuno dirà «ti licenzio perché ho scoperto che sei musulmana!». Vale a dire che la prova della discriminazione (politica, sindacale, di sesso, di religione ecc) è sempre difficile, quasi diabolica. La discriminazione infatti si nasconde dietro atti apparentemente neutri e motivi formalmente diversi, di tipo soggettivo (scarso rendimento, colpe disciplinari ecc.) o oggettivo, come nel caso del licenziamento per motivi cosiddetti economici, di carattere individuale o plurimo (al di sotto della soglia a cui si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi, derivata da una direttiva europea). Se vengono licenziati con causali in apparenza soggettive o economiche lavoratori guarda caso, impegnati sindacalmente, o di colore, o appartenenti tutti al medesimo sesso come si fa a provare la discriminazione? Per questo la legge prevede che il datore di lavoro debba dimostrare l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo e che in mancanza di questo il giudice disponga la rimozione dell’atto illegittimo, ovvero la reintegrazione. Questo dice l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, che perciò consiste in una norma di civiltà ed ha una forte carica deterrente poiché mette il lavoratore in condizione di rendere effettivi i propri diritti nel corso del rapporto Cos’è dunque che non funziona in questa norma? Anzitutto, com’è noto, la questione dei tempi: se i processi tra i vari gradi durano fino a sei-sette anni, come accade in molti (non tutti) i distretti giudiziari la reintegrazione con l’aggiunta del risarcimento diventa un non-senso. Qui occorre quindi adottare misure cogenti di accelerazione delle controversie, come giustamente si sta ipotizzando al tavolo del confronto governo-sindacati. L’altra cosa che non funziona nell’art.18 è la rigidità del meccanismo e del criterio che ne delimita il campo di applicazione: la famosa soglia dei 15 dipendenti (peraltro applicata anche ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali di cui alla parte III dello Statuto, e da altre normative, quali la Cassa integrazione). Tale soglia non è più attendibile, anche in ragione dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e del mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Questa soglia andrebbe rivista o introducendo criteri più razionali di valutazione della potenzialità economica dell’impresa, secondo formule già previste dalla Unione europea per il calcolo delle dimensioni d’impresa, o ispirandosi anche in questo caso al modello tedesco. Lì la legge sui licenziamenti del 1951 si applica alle imprese con più di 5 dipendenti ed è il giudice (non il datore di lavoro) a decidere, salvo il caso in cui sia provato il carattere discriminatorio del licenziamento, se disporre la reintegrazione ovvero stabilire un equo indennizzo in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa e al comportamento delle parti. Si manterrebbe in tal modo la funzione deterrente e di principio della reintegrazione ma ne verrebbe resa più flessibile l’attuazione. Non si dimentichi infatti che il primo compito del giudice è quello di promuovere la conciliazione delle controversie. Se poi ci si ispirasse al modello tedesco anche per quanto riguarda il funzionamento delle agenzie pubbliche del lavoro e i sistemi di sostegno del reddito di chi perde il lavoro e di chi (soprattutto giovani e donne) non lo trova, e si introducessero efficaci meccanismi di contrasto al ricorso abusivo ai contratti precari, si potrebbe concludere che finalmente il disegno della riforma comincia ad assumere un profilo positivo e, quel che più conta, utile al Paese.

L’Unità 16.03.12

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Monti: «Siamo vicini al traguardo». La Cgil rinvia la scelta al direttivo, di Laura Matteucci

Dopo la schiarita di mercoledì, sulla trattativa per il lavoro il governo accelera e riconvoca le parti sociali per martedì pomeriggio. Secondo Monti sarà l’occasione per «tirare le somme di un percorso di dialogo avviato il 23 gennaio e che porterà ad una conclusione, auspicabilmente con un pieno accordo, entro la fine di marzo», sostenendo che «il governo con le parti sociali è in dirittura d’arrivo, prima di portare il risultato di questo negoziato in Parlamento». E da Palazzo Chigi per le parti sociali arriva pure un elogio, con una nota che parla di «positivo spirito di collaborazione e contributo di idee da loro offerto sin dal primo momento». Anche i leader dei partiti che sostengono il governo, prima del vertice avuto in serata con Monti, invitano a chiudere in tempi brevi ma, se Alfano e Casini sottolineano soprattutto le esigenze delle imprese, Bersani ricorda che «ci sono ancora problemi su ammortizzatori, contratti e risorse».Una volta risolti, continua il segretario del Pd dopo aver avuto «contatti con tutti», «c’è la possibilità di arrivare ad un accordo. Mi aspetto parole chiare e passi avanti sulla riforma». Una conferma arriva anche dal ministro al Lavoro Fornero: «Siamo in una fase delicata rispetto alla quale nonposso anticipare contenuti, che spero possano essere portati all’accordo nei prossimi giorni». «Ci sono però concetti: inclusione, universalismo, dinamismo che ispirano la riforma – dice il ministro ancora una volta – fatta per aumentare l’occupazione. È questo il nostro obiettivo ultimo» facendo inmodoche sia «un po’ migliore per i giovani». Fornero torna anche a sostenere che «chi ha perso il lavoro deve essere assistito finanziariamente ma anche rispetto alla ricerca di un nuovo lavoro e nonperunaccompagnamento lungo verso la pensione. La conservazione di privilegi, di reti di protezione, di divisioni è qualcosa che non fa bene, che merita di essere smantellata. Senza procedere con metodi troppo energici». MONTAGNE RUSSE Di ostacoli all’intesa sembrano però essercene ancora. Rete imprese Italia punta i piedi e fa sapere che se aumenterà il costo del lavoro per le piccole e medie imprese, così come previsto, le associazioni aderenti potrebbero decidere di disdettare i contratti collettivi. La Cgil convocherà il direttivo mercoledì prossimo, occasione per valutare l’incontro al tavolo del giorno prima e, qualora ci fossero le condizioni, per dare ilmandato alla segreteria per concludere la trattativa. La minoranza interna intanto si fa sentire, con Gianni Rinaldini («La Cgil che vogliamo») che boccia la trattativa del governo Monti, il cui obiettivo sarebbe «non modificare le molteplici forme di lavoro precario, affermare la libertà di licenziamento riducendo ruolo, entità e durata della Cassa integrazione straordinaria, cancellare l’indennità di mobilità e operare manutenzioni sull’art.18, come dire che si afferma la totale libertà di licenziamento». E se la segretaria Cgil Susanna Camusso avverte che «l’incontro di mercoledì è stato utile, ma la trattativa è sulle montagne russe», il segretario Uil Luigi Angeletti chiosa «speriamo che non deragli, perché di solito il rischio è proprio che all’ultimo minuto si possa deragliare». «Ora – continua – ci sono condizioni migliori per una possibile intesa. La paccata di soldi non c’è, ma non c’è più neanche il rischio delle nozze coi fichi secchi ». Perché se cifre ancora non ne sonostate fatte, l’impegno ad assicurare risorse alla proroga del regime di cassa integrazione fino al 2016, quello c’è. Oltre a questo, una serie di aperture, ad esempio sugli esodati e suunmeccanismo che dovrebbe rendere più difficoltoso il ricorso a tipologie di contratti precari, hanno determinato l’accelerazione verso un esito positivo.❖

L’Unità 16.03.12

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“E i Piccoli minacciano di disdettare i contratti collettivi”, di Raffaella Cascioli

Rete Imprese Italia non ci sta e alza la voce. Nella trattativa sul mercato del lavoro, incamminata verso le battute conclusive, i diversi soggetti interessati – da Confindustria ai sindacati – stanno iniziando a trovare un punto di equilibrio. Tutti ad eccezione dei piccoli su cui si scaricherebbero non solo gli alti costi della riforma, ma anche le eventuali rigidità che potrebbero essere introdotte nella flessibilità in entrata. E così dopo le perplessità espresse sulle proposte presentate dalla Fornero e aver minacciato di non firmare una riforma che impone costi inaccettabili alle piccole e medie imprese, Rete Imprese Italia si accinge a valutare la disdetta dei contratti collettivi di lavoro.
In vista dell’incontro in serata tra Monti e i tre segretari di maggioranza, ieri pomeriggio i piccoli imprenditori hanno incontrato Casini, Bersani e Alfano a cui hanno spiegato il peso della riforma sulla realtà imprenditoriale italiana che si è dimostrata più vivace anche in tempo di crisi. E le forze politiche si sono mostrate sensibili alle posizioni di Rete Imprese Italia tanto che Bersani ha sottolineato come «la possibilità di un accordo esiste, anche se c’è ancora qualche problema, non sull’articolo 18, ma sul complesso dell’operazione e sugli ammortizzatori, sui contratti e sulle risorse».
Al tempo stesso l’Associazione ha messo a punto una serie di proposte alternative sia sul tema degli ammortizzatori sociali che della flessibilità in entrata, a breve sul tavolo del ministro Fornero. L’obiettivo è quello di arrivare al vertice di martedì convocato da Monti a palazzo Chigi con la possibilità di riaprire la partita. Ma cosa è che chiedono i piccoli? «Nessuna barricata, fanno sapere da Rete Imprese Italia, anzi siamo favorevoli all’allargamento delle tutele e alla buona flessibilità», purché a pagare il costo della riforma non siano solo i piccoli, già penalizzati da un aumento dei contributi previdenziali per 2,7 miliardi di euro. La denuncia è quella di far cassa sulle piccole e medie imprese costrette dalla riforma a far fronte ad un costo aggiuntivo di 1,2 miliardi di euro l’anno.
Di qui la necessità di operare qualche compensazione visto che l’Aspi, ovvero la vecchia indennità di disoccupazione, finirebbe per colpire soprattutto le pmi che oggi pagano in misura ridotta. Quello che artigiani e commercianti proporrebbero è che, a compensazione di questo ulteriore esborso, si provveda a una riduzione delle tariffe Inail e della gestione malattie Inps, dove si registra un avanzo complessivo di circa 20 miliardi di euro. C’è poi il problema della flessibilità in entrata con il rischio di un irrigidimento sui contratti a tempo determinato e a chiamata che, per le caratteristiche delle pmi, sono utilizzati da artigiani e commercianti e costituiscono «esempi di buona occupazione».
In questo senso occorre operare distinzioni tra grandi e piccole imprese, che devono fare i conti anche con la stagionalità. Tematiche queste specifiche per le pmi e che vanno considerate. Anche perché in proporzione le grandi imprese sarebbero meno penalizzate se non addirittura avvantaggiate in termini di costi dalla riforma. Una contrapposizione che mal si coniuga con il fatto che proprio grandi e piccole imprese a settembre di quest’anno hanno fatto fronte comune presentando il manifesto per le imprese (a cui hanno aderito Abi, Ania, Alleanza delle cooperative, Confindustria e Rete Imprese Italia) non solo per sottolineare i pericoli che correva il paese ma anche per condizionare un processo che poi ha portato l’Italia a voltare pagina, a chiudere la stagione di Berlusconi e aprirne una nuova.
Un’alleanza che ancora in questi giorni su temi caldi come il Sistri funziona, ma che sul tema del lavoro sembra non esistere.

da Europa Quotidiano 16.03.12

attualità, economia, lavoro

“Modello tedesco anche per la soglia di applicazione”, di Luigi Mariucci

Sembra che nel confronto tra governo e parti sociali si sia aperto uno spiraglio positivo, se è vero che in materia di licenziamenti si sta ragionando su misure ispirate al modello tedesco. È questa la strada giusta, come chi scrive ha più volte proposto in queste pagine, se si vogliono affrontare i problemi reali ed evitare di dar vita a logoranti quanto inutili guerre ideologiche. Intanto va chiarita, una volte per tutte, la questione dei licenziamenti discriminatori: in merito non c’è nulla da cambiare, poiché già oggi i licenziamenti discriminatori sono radicalmente nulli, come è ovvio, e quindi sanzionati con la reintegrazione a prescindere dalle dimensioni d’impresa. Questo vale anche nel caso del licenziamento della collaboratrice domestica. Il punto è che nessuno dirà «ti licenzio perché ho scoperto che sei musulmana!». Vale a dire che la prova della discriminazione (politica, sindacale, di sesso, di religione ecc) è sempre difficile, quasi diabolica. La discriminazione infatti si nasconde dietro atti apparentemente neutri e motivi formalmente diversi, di tipo soggettivo (scarso rendimento, colpe disciplinari ecc.) o oggettivo, come nel caso del licenziamento per motivi cosiddetti economici, di carattere individuale o plurimo (al di sotto della soglia a cui si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi, derivata da una direttiva europea). Se vengono licenziati con causali in apparenza soggettive o economiche lavoratori guarda caso, impegnati sindacalmente, o di colore, o appartenenti tutti al medesimo sesso come si fa a provare la discriminazione? Per questo la legge prevede che il datore di lavoro debba dimostrare l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo e che in mancanza di questo il giudice disponga la rimozione dell’atto illegittimo, ovvero la reintegrazione. Questo dice l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, che perciò consiste in una norma di civiltà ed ha una forte carica deterrente poiché mette il lavoratore in condizione di rendere effettivi i propri diritti nel corso del rapporto Cos’è dunque che non funziona in questa norma? Anzitutto, com’è noto, la questione dei tempi: se i processi tra i vari gradi durano fino a sei-sette anni, come accade in molti (non tutti) i distretti giudiziari la reintegrazione con l’aggiunta del risarcimento diventa un non-senso. Qui occorre quindi adottare misure cogenti di accelerazione delle controversie, come giustamente si sta ipotizzando al tavolo del confronto governo-sindacati. L’altra cosa che non funziona nell’art.18 è la rigidità del meccanismo e del criterio che ne delimita il campo di applicazione: la famosa soglia dei 15 dipendenti (peraltro applicata anche ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali di cui alla parte III dello Statuto, e da altre normative, quali la Cassa integrazione). Tale soglia non è più attendibile, anche in ragione dei diffusi processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e del mancato calcolo di un numero rilevante di dipendenti (apprendisti, somministrati, lavoratori a termine ecc.). Questa soglia andrebbe rivista o introducendo criteri più razionali di valutazione della potenzialità economica dell’impresa, secondo formule già previste dalla Unione europea per il calcolo delle dimensioni d’impresa, o ispirandosi anche in questo caso al modello tedesco. Lì la legge sui licenziamenti del 1951 si applica alle imprese con più di 5 dipendenti ed è il giudice (non il datore di lavoro) a decidere, salvo il caso in cui sia provato il carattere discriminatorio del licenziamento, se disporre la reintegrazione ovvero stabilire un equo indennizzo in rapporto alla natura del caso, alle dimensioni dell’impresa e al comportamento delle parti. Si manterrebbe in tal modo la funzione deterrente e di principio della reintegrazione ma ne verrebbe resa più flessibile l’attuazione. Non si dimentichi infatti che il primo compito del giudice è quello di promuovere la conciliazione delle controversie. Se poi ci si ispirasse al modello tedesco anche per quanto riguarda il funzionamento delle agenzie pubbliche del lavoro e i sistemi di sostegno del reddito di chi perde il lavoro e di chi (soprattutto giovani e donne) non lo trova, e si introducessero efficaci meccanismi di contrasto al ricorso abusivo ai contratti precari, si potrebbe concludere che finalmente il disegno della riforma comincia ad assumere un profilo positivo e, quel che più conta, utile al Paese.

L’Unità 16.03.12

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Monti: «Siamo vicini al traguardo». La Cgil rinvia la scelta al direttivo, di Laura Matteucci

Dopo la schiarita di mercoledì, sulla trattativa per il lavoro il governo accelera e riconvoca le parti sociali per martedì pomeriggio. Secondo Monti sarà l’occasione per «tirare le somme di un percorso di dialogo avviato il 23 gennaio e che porterà ad una conclusione, auspicabilmente con un pieno accordo, entro la fine di marzo», sostenendo che «il governo con le parti sociali è in dirittura d’arrivo, prima di portare il risultato di questo negoziato in Parlamento». E da Palazzo Chigi per le parti sociali arriva pure un elogio, con una nota che parla di «positivo spirito di collaborazione e contributo di idee da loro offerto sin dal primo momento». Anche i leader dei partiti che sostengono il governo, prima del vertice avuto in serata con Monti, invitano a chiudere in tempi brevi ma, se Alfano e Casini sottolineano soprattutto le esigenze delle imprese, Bersani ricorda che «ci sono ancora problemi su ammortizzatori, contratti e risorse».Una volta risolti, continua il segretario del Pd dopo aver avuto «contatti con tutti», «c’è la possibilità di arrivare ad un accordo. Mi aspetto parole chiare e passi avanti sulla riforma». Una conferma arriva anche dal ministro al Lavoro Fornero: «Siamo in una fase delicata rispetto alla quale nonposso anticipare contenuti, che spero possano essere portati all’accordo nei prossimi giorni». «Ci sono però concetti: inclusione, universalismo, dinamismo che ispirano la riforma – dice il ministro ancora una volta – fatta per aumentare l’occupazione. È questo il nostro obiettivo ultimo» facendo inmodoche sia «un po’ migliore per i giovani». Fornero torna anche a sostenere che «chi ha perso il lavoro deve essere assistito finanziariamente ma anche rispetto alla ricerca di un nuovo lavoro e nonperunaccompagnamento lungo verso la pensione. La conservazione di privilegi, di reti di protezione, di divisioni è qualcosa che non fa bene, che merita di essere smantellata. Senza procedere con metodi troppo energici». MONTAGNE RUSSE Di ostacoli all’intesa sembrano però essercene ancora. Rete imprese Italia punta i piedi e fa sapere che se aumenterà il costo del lavoro per le piccole e medie imprese, così come previsto, le associazioni aderenti potrebbero decidere di disdettare i contratti collettivi. La Cgil convocherà il direttivo mercoledì prossimo, occasione per valutare l’incontro al tavolo del giorno prima e, qualora ci fossero le condizioni, per dare ilmandato alla segreteria per concludere la trattativa. La minoranza interna intanto si fa sentire, con Gianni Rinaldini («La Cgil che vogliamo») che boccia la trattativa del governo Monti, il cui obiettivo sarebbe «non modificare le molteplici forme di lavoro precario, affermare la libertà di licenziamento riducendo ruolo, entità e durata della Cassa integrazione straordinaria, cancellare l’indennità di mobilità e operare manutenzioni sull’art.18, come dire che si afferma la totale libertà di licenziamento». E se la segretaria Cgil Susanna Camusso avverte che «l’incontro di mercoledì è stato utile, ma la trattativa è sulle montagne russe», il segretario Uil Luigi Angeletti chiosa «speriamo che non deragli, perché di solito il rischio è proprio che all’ultimo minuto si possa deragliare». «Ora – continua – ci sono condizioni migliori per una possibile intesa. La paccata di soldi non c’è, ma non c’è più neanche il rischio delle nozze coi fichi secchi ». Perché se cifre ancora non ne sonostate fatte, l’impegno ad assicurare risorse alla proroga del regime di cassa integrazione fino al 2016, quello c’è. Oltre a questo, una serie di aperture, ad esempio sugli esodati e suunmeccanismo che dovrebbe rendere più difficoltoso il ricorso a tipologie di contratti precari, hanno determinato l’accelerazione verso un esito positivo.❖

L’Unità 16.03.12

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“E i Piccoli minacciano di disdettare i contratti collettivi”, di Raffaella Cascioli

Rete Imprese Italia non ci sta e alza la voce. Nella trattativa sul mercato del lavoro, incamminata verso le battute conclusive, i diversi soggetti interessati – da Confindustria ai sindacati – stanno iniziando a trovare un punto di equilibrio. Tutti ad eccezione dei piccoli su cui si scaricherebbero non solo gli alti costi della riforma, ma anche le eventuali rigidità che potrebbero essere introdotte nella flessibilità in entrata. E così dopo le perplessità espresse sulle proposte presentate dalla Fornero e aver minacciato di non firmare una riforma che impone costi inaccettabili alle piccole e medie imprese, Rete Imprese Italia si accinge a valutare la disdetta dei contratti collettivi di lavoro.
In vista dell’incontro in serata tra Monti e i tre segretari di maggioranza, ieri pomeriggio i piccoli imprenditori hanno incontrato Casini, Bersani e Alfano a cui hanno spiegato il peso della riforma sulla realtà imprenditoriale italiana che si è dimostrata più vivace anche in tempo di crisi. E le forze politiche si sono mostrate sensibili alle posizioni di Rete Imprese Italia tanto che Bersani ha sottolineato come «la possibilità di un accordo esiste, anche se c’è ancora qualche problema, non sull’articolo 18, ma sul complesso dell’operazione e sugli ammortizzatori, sui contratti e sulle risorse».
Al tempo stesso l’Associazione ha messo a punto una serie di proposte alternative sia sul tema degli ammortizzatori sociali che della flessibilità in entrata, a breve sul tavolo del ministro Fornero. L’obiettivo è quello di arrivare al vertice di martedì convocato da Monti a palazzo Chigi con la possibilità di riaprire la partita. Ma cosa è che chiedono i piccoli? «Nessuna barricata, fanno sapere da Rete Imprese Italia, anzi siamo favorevoli all’allargamento delle tutele e alla buona flessibilità», purché a pagare il costo della riforma non siano solo i piccoli, già penalizzati da un aumento dei contributi previdenziali per 2,7 miliardi di euro. La denuncia è quella di far cassa sulle piccole e medie imprese costrette dalla riforma a far fronte ad un costo aggiuntivo di 1,2 miliardi di euro l’anno.
Di qui la necessità di operare qualche compensazione visto che l’Aspi, ovvero la vecchia indennità di disoccupazione, finirebbe per colpire soprattutto le pmi che oggi pagano in misura ridotta. Quello che artigiani e commercianti proporrebbero è che, a compensazione di questo ulteriore esborso, si provveda a una riduzione delle tariffe Inail e della gestione malattie Inps, dove si registra un avanzo complessivo di circa 20 miliardi di euro. C’è poi il problema della flessibilità in entrata con il rischio di un irrigidimento sui contratti a tempo determinato e a chiamata che, per le caratteristiche delle pmi, sono utilizzati da artigiani e commercianti e costituiscono «esempi di buona occupazione».
In questo senso occorre operare distinzioni tra grandi e piccole imprese, che devono fare i conti anche con la stagionalità. Tematiche queste specifiche per le pmi e che vanno considerate. Anche perché in proporzione le grandi imprese sarebbero meno penalizzate se non addirittura avvantaggiate in termini di costi dalla riforma. Una contrapposizione che mal si coniuga con il fatto che proprio grandi e piccole imprese a settembre di quest’anno hanno fatto fronte comune presentando il manifesto per le imprese (a cui hanno aderito Abi, Ania, Alleanza delle cooperative, Confindustria e Rete Imprese Italia) non solo per sottolineare i pericoli che correva il paese ma anche per condizionare un processo che poi ha portato l’Italia a voltare pagina, a chiudere la stagione di Berlusconi e aprirne una nuova.
Un’alleanza che ancora in questi giorni su temi caldi come il Sistri funziona, ma che sul tema del lavoro sembra non esistere.

da Europa Quotidiano 16.03.12