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“Il dolore che non si può sopportare”, di Ferdinando Camon

Non ci sono gradazioni alla disperazione, perché la disperazione è lo stadio estremo del dolore. Ma se ci fosse una gradazione, questo sarebbe il vertice: un’ecatombe di bambini sui 12 anni, vitali e festosi, che rientrano a casa dopo una settimana bianca, in pullman, e vengono falciati in un incidente assurdo. Ventidue muoiono sul colpo, altri vanno in coma, altri ancora sono feriti gravi. È una di quelle scene che non hanno risposte sulla Terra, e ti fanno alzare gli occhi al cielo. L’uomo non è fatto per sopravvivere alla morte di un figlio, la morte di un figlio è un capovolgimento della natura. E qui è avvenuto un capovolgimento innaturale della vita di decine di famiglie, e delle famiglie a loro collegate. Non è umanamente possibile reggere questa piena di dolore. Nessuna delle esistenze toccate da questa tragedia potrà continuare come prima. Tutte le vite subiranno una deviazione, una stortura. Compiendosi in un attimo, la tragedia avrà conseguenze per sempre.

Quando si dice «figlio» non si dice tutto, perché un figlio cambia di significato per i genitori lungo le fasi della vita: se c’è una fase in cui è «più figlio» è questa, sui 12 anni. A quell’età i figli hanno ancora qualcosa di quand’erano bambini e fanno già vedere qualcosa di quando saranno uomini o, le bambine, donne. E noi padri, amandoli a quell’età, li amiamo per quel che sono, quel che erano e quel che saranno. Riempiamo la loro vita, e questo riempimento fa la nostra felicità. Loro lo sentono, e ci fan vedere che la loro vita è piena apposta per farci felici. Questi bambini tenevano un blog in cui annotavano le loro emozioni, e in questa settimana bianca scrivevano: «Papà, mamma, siamo felici ma ci mancate». È amore filiale allo stato puro, senza quelle ambiguità (rivalità, proteste, autonomia) che inveleniscono il rapporto 5-6 anni dopo. Dategli ancora 5-6 anni, a questi figli, e quelle parole non le scriveranno più. Ma adesso le scrivono. Il rapporto genitori-figli a quell’età è gioia pura, da conservare nel ricordo. Qui la gioia pura si è rovesciata nel dolore irrimediabile, che ti fa perdere la ragione. È questo il momento terribile, nella cronaca di questa disgrazia: quando i genitori vedono i figli. Mentre scrivo, i genitori sono in volo dalle Fiandre verso la Svizzera. Le cronache non lo dicono, ma in ciascuno di quei genitori si agita la speranza che suo figlio non sia tra le vittime, che fra poco avverrà il grande abbraccio che ridarà un figlio al padre e alla vita. Il bambino non sa ancora di essere mortale, lo imparerà più tardi, molto più tardi, nella terza età. In giovinezza si crede eterno. E anche i suoi genitori lo credono così. A questo livello, la disgrazia non squassa il cuore soltanto, e i nervi, ma la ragione, la fa vacillare o crollare. E non occorre essere il padre o la madre di uno di quei bambini. Basta soltanto essere un uomo o una donna che passa di lì. C’è una donna che ha visto il pullman sfracellato mentre dai suoi finestrini svolazzavano dei fogli, dunque a urto appena avvenuto, e descrive la scena come farebbe un automa: pullman sventrato, sedili tranciati, sangue dappertutto, bambini che la fissano con occhi spalancati, «non sa se vivi o morti». A quest’ora i genitori saranno arrivati, tutti. E sapranno. Le analisi per l’identificazione saranno finite o finiranno presto. I figli torneranno ai padri nell’unico modo possibile. Non ci sarà spiegazione. Sulla morte di un figlio di questa età il regista Malick ha costruito un film che ha ottenuto la Palma d’Oro nel 2011. Nel film la madre di un figlio morto in un incidente alza gli occhi e chiede: «Cosa siamo noi per te?», dall’alto scende una risposta che la gela: «Dov’eri tu quand’io creavo le galassie e gli abissi?». Mi torna sempre in mente questa botta-risposta, quando penso al problema. È nella Bibbia, Giobbe. Posto così, il problema è un rapporto di potere: noi non abbiamo alcun ruolo se non quello di sopportare l’insopportabile.

La Stampa 15.03.12

"Il necessario patto sociale", di Claudio Sardo

Al tavolo sul mercato del lavoro si decide assai più di una misura d’emergenza odi una politica settoriale. È in gioco il profilo stesso del governo. Anzi, il segno sociale di questa transizione. Solo chi ha perso il senso della realtà può immaginare scambi politici tra l’articolo 18 e la legge anticorruzione, oppure la riforma della Rai.Il tema cruciale è la capacità del Paese di rispondere con coesione alla sfida della crisi e della competitività. Il «patto sociale» – cioè la partecipazione alle scelte e l’assunzione di responsabilità dei sindacati e dei corpi intermedi – non è un dettaglio. È una condizione di credibilità per l’Italia. Come fu al tempo del governo Ciampi nel ’93, anche oggi è questa la credenziale migliore per il governo Monti, oltre che un punto di forza in Europa. Nondia retta il premier alle tante sirene che consigliano la rottura, ora sostenendo che i sindacati sono per loro natura inadatti a rappresentare l’interesse generale, ora argomentando che i mercati vogliono vedere il sangue dei lavoratori. Sono i cattivi maestri. EMonti e Fornero farebbero meglio a leggere l’intervista che Martin Winterkorn, amministratore delegato della Volkswagen, ha rilasciato l’altro ieri a la Repubblica: «Per vincere nel mondo non contano solo i numeri (delle auto), ma anche la qualità del prodotto e la concertazione con il sindacato ». Proprio così: la coesione sociale non indica solo un grado di civiltà e di democrazia, è anche un fattore di produttività e di crescita. Ne potrebbe prendere nota anche il diretto concorrente di Winterkorn, Sergio Marchionne, che invece predica la divisione sindacale e spinge governo e Confindustria sulla linea della rottura. L’accordo sul mercato del lavoro è possibile, nonostante qualche intemperenza della ministra che speriamo tradisca più l’inesperienza che le intenzioni. Ieri l’incontro tra Fornero e i leader sindacali ha avuto un segno positivo, anche se restano diversi nodi irrisolti. Il merito, ovviamente, non è una variabile indipendente. Già il decreto salva-Italia ha lasciato uno strascico di iniquità, che stanno pagando soprattutto i lavoratori precoci in prossimità della pensione e i disoccupati che hanno già consumato il periodo di mobilità e cassa integrazione. Ora è necessario che la riforma degli ammortizzatori sociali sani alcune ingiustizie e che non riduca le tutele negli anni della transizione dalle vecchie alle nuove normative. I sindacati non possono certo avallare soluzioni che espongano le fasce più deboli, quelle colpite da crisi aziendali e mobilità, all’abbandono e alla disperazione. Sono necessarie nuove risorse. Che diano il segno di una maggiore equità nella distribuzione dei sacrifici. È ora che dall’evasione fiscale e dalle rendite arrivi ciò che fin qui è mancato. Ed è positivo che il governo preveda finalmente un peso fiscale maggiore per il lavoro precario rispetto al lavoro stabile. L’articolo18non è los calpo che i lavoratori devono offrire sull’altare dei mercati. Questo è inaccettabile perché la riforma dell’articolo 18 non serve a migliorare la competitività, né ad incrementare gli investimenti esteri, né a favorire i giovani. Se qualche correttivo fosse utile per definire meglio il diritto e consentire un’applicazione più coerente in sede giudiziaria, allora se ne discuta. Ma a garantirne la validità sociale deve essere la piena assunzione di responsabilità dei sindacati. Tocca anzitutto a loro avanzare un proposta e negoziarla con la controparte datoriale. Il governo si limiti a favorire l’intesa. Forse qualche cantore della rottura sociale griderà al tradimento di Monti. Ma il vantaggio della discontinuità con il governo Berlusconi sarà enorme. Il Cavaliere aveva fatto dell’emarginazione della Cgil il proprio asse strategico. Non a caso l’accordo del 28 giugno, il primo firmato da tutte le parti sociali dopo anni, ha segnato l’inizio della fine di Berlusconi. Da quel momento è risultato chiaro a tutti che la coesione sociale fosse ormai inconciliabile con la continuità di quel governo. Non sono mancati ovviamente tentativi di rivincita. Il più clamoroso è stato l’articolo 8 del decreto di ferragosto, quello che consentiva deroghe ai contratti collettivi e allo stesso diritto del lavoro. Un assist per la strategia di rottura di Marchionne. E anche un tentativo di colpire Confindustria dall’interno, dopo che Marcegaglia aveva firmato l’accordo del 28 giugno. Il governo Monti deve scegliere tra la via di Berlusconi e quella di Ciampi. Noi speriamo che l’intesa sul mercato del lavoro si faccia. Sarebbe un colpo per quelli che vogliono eliminare i partiti, i sindacati, i corpi intermedi. Il corollario di una buona intesa sarebbe poi l’eliminazione dell’articolo 8 del decreto di ferragosto. E la modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori in modo da evitare che un sindacato rappresentativo (come la Fiom in Fiat) venga escluso perché dissenziente. Questa è una lesione costituzionale che solo in epoca di governi Berlusconi poteva essere tollerata.❖

L’Unità 15.03.12

“Il necessario patto sociale”, di Claudio Sardo

Al tavolo sul mercato del lavoro si decide assai più di una misura d’emergenza odi una politica settoriale. È in gioco il profilo stesso del governo. Anzi, il segno sociale di questa transizione. Solo chi ha perso il senso della realtà può immaginare scambi politici tra l’articolo 18 e la legge anticorruzione, oppure la riforma della Rai.Il tema cruciale è la capacità del Paese di rispondere con coesione alla sfida della crisi e della competitività. Il «patto sociale» – cioè la partecipazione alle scelte e l’assunzione di responsabilità dei sindacati e dei corpi intermedi – non è un dettaglio. È una condizione di credibilità per l’Italia. Come fu al tempo del governo Ciampi nel ’93, anche oggi è questa la credenziale migliore per il governo Monti, oltre che un punto di forza in Europa. Nondia retta il premier alle tante sirene che consigliano la rottura, ora sostenendo che i sindacati sono per loro natura inadatti a rappresentare l’interesse generale, ora argomentando che i mercati vogliono vedere il sangue dei lavoratori. Sono i cattivi maestri. EMonti e Fornero farebbero meglio a leggere l’intervista che Martin Winterkorn, amministratore delegato della Volkswagen, ha rilasciato l’altro ieri a la Repubblica: «Per vincere nel mondo non contano solo i numeri (delle auto), ma anche la qualità del prodotto e la concertazione con il sindacato ». Proprio così: la coesione sociale non indica solo un grado di civiltà e di democrazia, è anche un fattore di produttività e di crescita. Ne potrebbe prendere nota anche il diretto concorrente di Winterkorn, Sergio Marchionne, che invece predica la divisione sindacale e spinge governo e Confindustria sulla linea della rottura. L’accordo sul mercato del lavoro è possibile, nonostante qualche intemperenza della ministra che speriamo tradisca più l’inesperienza che le intenzioni. Ieri l’incontro tra Fornero e i leader sindacali ha avuto un segno positivo, anche se restano diversi nodi irrisolti. Il merito, ovviamente, non è una variabile indipendente. Già il decreto salva-Italia ha lasciato uno strascico di iniquità, che stanno pagando soprattutto i lavoratori precoci in prossimità della pensione e i disoccupati che hanno già consumato il periodo di mobilità e cassa integrazione. Ora è necessario che la riforma degli ammortizzatori sociali sani alcune ingiustizie e che non riduca le tutele negli anni della transizione dalle vecchie alle nuove normative. I sindacati non possono certo avallare soluzioni che espongano le fasce più deboli, quelle colpite da crisi aziendali e mobilità, all’abbandono e alla disperazione. Sono necessarie nuove risorse. Che diano il segno di una maggiore equità nella distribuzione dei sacrifici. È ora che dall’evasione fiscale e dalle rendite arrivi ciò che fin qui è mancato. Ed è positivo che il governo preveda finalmente un peso fiscale maggiore per il lavoro precario rispetto al lavoro stabile. L’articolo18non è los calpo che i lavoratori devono offrire sull’altare dei mercati. Questo è inaccettabile perché la riforma dell’articolo 18 non serve a migliorare la competitività, né ad incrementare gli investimenti esteri, né a favorire i giovani. Se qualche correttivo fosse utile per definire meglio il diritto e consentire un’applicazione più coerente in sede giudiziaria, allora se ne discuta. Ma a garantirne la validità sociale deve essere la piena assunzione di responsabilità dei sindacati. Tocca anzitutto a loro avanzare un proposta e negoziarla con la controparte datoriale. Il governo si limiti a favorire l’intesa. Forse qualche cantore della rottura sociale griderà al tradimento di Monti. Ma il vantaggio della discontinuità con il governo Berlusconi sarà enorme. Il Cavaliere aveva fatto dell’emarginazione della Cgil il proprio asse strategico. Non a caso l’accordo del 28 giugno, il primo firmato da tutte le parti sociali dopo anni, ha segnato l’inizio della fine di Berlusconi. Da quel momento è risultato chiaro a tutti che la coesione sociale fosse ormai inconciliabile con la continuità di quel governo. Non sono mancati ovviamente tentativi di rivincita. Il più clamoroso è stato l’articolo 8 del decreto di ferragosto, quello che consentiva deroghe ai contratti collettivi e allo stesso diritto del lavoro. Un assist per la strategia di rottura di Marchionne. E anche un tentativo di colpire Confindustria dall’interno, dopo che Marcegaglia aveva firmato l’accordo del 28 giugno. Il governo Monti deve scegliere tra la via di Berlusconi e quella di Ciampi. Noi speriamo che l’intesa sul mercato del lavoro si faccia. Sarebbe un colpo per quelli che vogliono eliminare i partiti, i sindacati, i corpi intermedi. Il corollario di una buona intesa sarebbe poi l’eliminazione dell’articolo 8 del decreto di ferragosto. E la modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori in modo da evitare che un sindacato rappresentativo (come la Fiom in Fiat) venga escluso perché dissenziente. Questa è una lesione costituzionale che solo in epoca di governi Berlusconi poteva essere tollerata.❖

L’Unità 15.03.12

"Accordo vicino Ipotesi decreto per un testo blindato", di Alessandro Barbera

«Mai stata poco fiduciosa, l’accordo è realizzabile entro la prossima settimana». Per far cambiare direzione alla trattativa sulla riforma del mercato del lavoro sono bastate 24 ore e un incontro a quattr’occhi. Attorno al tavolo della sala riunioni del ministero del Welfare si sono incontrati Elsa Fornero e i leader dei principali sindacati. La battuta di martedì del ministro – «non metteremo a disposizione una paccata di miliardi senza il sì delle sigle» – aveva creato tensioni, ma rendeva bene lo stato delle cose. Per garantire una riforma graduale (e più onerosa del previsto) della riforma degli ammortizzatori, il ministro chiedeva ai sindacati altrettante garanzie sul punto più controverso: il sì ad una modifica dell’articolo 18 e delle norme sui licenziamenti. Ci sono ancora tasselli da sistemare, ma in buona sostanza lo scambio è pronto: il governo allunga l’entrata in vigore della riforma, i sindacati dicono sì ai licenziamenti per motivi economici e disciplinari e alla fine del reintegro obbligatorio.

L’incontro va così bene che nel pomeriggio, durante la registrazione di una intervista a «La Storia siamo noi» con Giovanni Minoli, la (solitamente) cauta leader della Cgil Susanna Camusso si spinge a dire che «stanno maturando cose positive». Poco dopo, uscendo dall’ufficio di Raffaele Bonanni alla Cisl, il leader Pd Pierluigi Bersani conferma il clima: «Domani chiederemo al premier di cercare l’accordo». C’è chi pronostica che da lunedì, il giorno in cui le parti si incontreranno a Palazzo Chigi, ogni momento è buono per la firma. Un accordo che – se ne discute in queste ore fra i leader della maggioranza – potrebbe essere blindato con decreto: l’unica strada per evitare che in Parlamento il testo possa subire gli sgambetti della Lega o di quella parte del Pd che non vorrebbe alcuna modifica all’articolo 18. Sintetizza uno degli esponenti impegnati in prima persona nella trattativa: «Se il governo non procede per decreto, rischiano lui e il delicato equilibrio che abbiamo trovato».

Ma cosa è accaduto? Come è stato possibile passare in tre giorni dal rischio di accordo separato alla possibilità di chiudere con il sì della Cgil? I sindacati, sostenuti da Confindustria e dai piccoli di Rete Imprese, chiedevano di allontanare l’entrata a regime del nuovo sistema di ammortizzatori. I primi temono le conseguenze sul consenso nelle fabbriche, perché la sostituzione della «indennità di mobilità» (fino a due anni) con un più breve assegno di licenziamento si potrebbe ripercuotere sugli ultracinquantenni. Le imprese ne temono i costi: o per l’uscita dal lavoro di quegli stessi dipendenti, o nel caso dei piccoli, per i maggiori costi derivanti dalla fine della cassa in deroga, nata nel 2008 e oggi tutta a carico dello Stato. Fornero è pronta a rinviare l’entrata a regime del nuovo sistema al 2017, anche se non è chiaro se e quando scatterebbe la fine della cassa in deroga, che oggi costa quasi due miliardi l’anno. Il pressing del Pd perché si venga incontro alle piccole imprese è forte.

Se si troverà l’accordo su questi dettagli, ci sarà il sì dei sindacati alla riforma dell’articolo 18. La soluzione ipotizzata somiglia a grandi linee al modello tedesco: il lavoratore può essere licenziato per motivi economici o disciplinari, non per ragioni discriminatorie. Lo stesso lavoratore può comunque ricorrere al giudice, il quale, se ne ravvisa i motivi, dispone il reintegro. La differenza con le attuali regole sarebbe tutta qui: il giudice non deve più reintegrare obbligatoriamente, ma può disporlo, oppure decidere per un congruo risarcimento.

La Stampa 15.03.12

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“Lavoro, intesa vicina Fornero: si può già fare la prossima settimana”, Roberto Bagnoli

La partita si è sbloccata e la riforma si può fare. Tutti hanno fatto un passo indietro e il grande accordo sul nuovo mercato del lavoro va avanti. In particolare l’andata a regime del nuovo sistema di ammortizzatori sociali torna al 2017, si allungano i tempi per la mobilità degli «esodati» anziani e sull’articolo 18 nessuna abolizione ma «ristrutturazione» in salsa tedesca. Oggi il premier Mario Monti vedrà i tre segretari dei partiti di maggioranza per un’ultima verifica, poi weekend a Milano con intervento al convegno di Confindustria e martedì gran finale a Palazzo Chigi con tutte le forze sociali. L’obiettivo è partire per l’Asia con la riforma in tasca. Il ministro del Lavoro Elsa Fornero ora vede rosa dopo il frontale dell’altro giorno con le parti sociali: «A me sembra realizzabile un’intesa che potremmo già raggiungere entro settimana prossima». Così ha detto il ministro nel corso di un’audizione in Senato sintetizzando l’esito di un vertice durato cinque ore con i quattro leader sindacali. Parole di grande apertura anche da parte del segretario generale della Cgil Susanna Camusso: «Cose positive, il ministro è tenace, anche se a volte arrogante». E dal leader Cisl Raffaele Bonanni la conferma che «la situazione si sta ammorbidendo, posso dire che va meglio dell’altro ieri». Per il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia occorre che ora «il governo fissi dei punti fermi e indichi le cifre».
Tutti si sono impegnati al silenzio stampa ma le indiscrezioni indicano che lo «scambio» per arrivare a un punto di convergenza sia sui tempi dell’operazione sia sull’articolo 18. La fase di transizione sugli ammortizzatori non finirà più nel 2015 come voleva Fornero ma nel 2016 o 2017. Ci sarà così più tempo per gestire gli oltre 200 tavoli di crisi industriale con gli strumenti attuali. E, come chiedevano i sindacati, ci sarà un ampio margine di manovra per trovare le risorse per finanziare l’indennità «universale». I sindacati saranno accontentati anche sulla indennità di mobilità: continuerà a vivere per consentire agli «esodati» anziani di 55-58 anni, una volta finita l’Aspi, la nuova indennità di disoccupazione, di approdare alla pensione. In cambio la Fornero ha ottenuto un sostanziale benestare sull’impianto complessivo della sua proposta e la disponibilità a «ristrutturare» — parole di Bonanni — l’articolo 18 con una apertura almeno sulle procedure anche dalla Camusso. Alla fine probabilmente sull’articolo 18 si farà un po’ di manutenzione, forse con una più specifica definizione della giusta causa e dei motivi disciplinari, dando maggiori poteri al giudice che potrà decidere (ma entro sei mesi come in Germania) se il lavoratore licenziato ha diritto al reintegro o all’indennizzo economico.
Nel lungo incontro di ieri mattina al ministero del Lavoro, al quale ha partecipato anche il leader dell’Ugl Giovanni Centrella, Fornero a un certo punto si è assentata per convincere i grandi scontenti di questa trattativa, cioè i «piccoli» di Rete Imprese Italia che lamentano un aggravio dei costi del lavoro di 1,2 miliardi. «Se è così noi non potremo firmare» hanno affermato in una nota auspicando «che il ministro comprenda la situazione».
Che la trattativa si avvii verso uno sbocco positivo, dopo quasi tre mesi di discussione, lo dimostra anche l’attivismo del segretario del Pd Pier Luigi Bersani che ieri ha incontrato tutti i rappresentati delle parti sociali per arrivare oggi da Monti con un quadro preciso.

Il Corriere della Sera 15.03.12

“Accordo vicino Ipotesi decreto per un testo blindato”, di Alessandro Barbera

«Mai stata poco fiduciosa, l’accordo è realizzabile entro la prossima settimana». Per far cambiare direzione alla trattativa sulla riforma del mercato del lavoro sono bastate 24 ore e un incontro a quattr’occhi. Attorno al tavolo della sala riunioni del ministero del Welfare si sono incontrati Elsa Fornero e i leader dei principali sindacati. La battuta di martedì del ministro – «non metteremo a disposizione una paccata di miliardi senza il sì delle sigle» – aveva creato tensioni, ma rendeva bene lo stato delle cose. Per garantire una riforma graduale (e più onerosa del previsto) della riforma degli ammortizzatori, il ministro chiedeva ai sindacati altrettante garanzie sul punto più controverso: il sì ad una modifica dell’articolo 18 e delle norme sui licenziamenti. Ci sono ancora tasselli da sistemare, ma in buona sostanza lo scambio è pronto: il governo allunga l’entrata in vigore della riforma, i sindacati dicono sì ai licenziamenti per motivi economici e disciplinari e alla fine del reintegro obbligatorio.

L’incontro va così bene che nel pomeriggio, durante la registrazione di una intervista a «La Storia siamo noi» con Giovanni Minoli, la (solitamente) cauta leader della Cgil Susanna Camusso si spinge a dire che «stanno maturando cose positive». Poco dopo, uscendo dall’ufficio di Raffaele Bonanni alla Cisl, il leader Pd Pierluigi Bersani conferma il clima: «Domani chiederemo al premier di cercare l’accordo». C’è chi pronostica che da lunedì, il giorno in cui le parti si incontreranno a Palazzo Chigi, ogni momento è buono per la firma. Un accordo che – se ne discute in queste ore fra i leader della maggioranza – potrebbe essere blindato con decreto: l’unica strada per evitare che in Parlamento il testo possa subire gli sgambetti della Lega o di quella parte del Pd che non vorrebbe alcuna modifica all’articolo 18. Sintetizza uno degli esponenti impegnati in prima persona nella trattativa: «Se il governo non procede per decreto, rischiano lui e il delicato equilibrio che abbiamo trovato».

Ma cosa è accaduto? Come è stato possibile passare in tre giorni dal rischio di accordo separato alla possibilità di chiudere con il sì della Cgil? I sindacati, sostenuti da Confindustria e dai piccoli di Rete Imprese, chiedevano di allontanare l’entrata a regime del nuovo sistema di ammortizzatori. I primi temono le conseguenze sul consenso nelle fabbriche, perché la sostituzione della «indennità di mobilità» (fino a due anni) con un più breve assegno di licenziamento si potrebbe ripercuotere sugli ultracinquantenni. Le imprese ne temono i costi: o per l’uscita dal lavoro di quegli stessi dipendenti, o nel caso dei piccoli, per i maggiori costi derivanti dalla fine della cassa in deroga, nata nel 2008 e oggi tutta a carico dello Stato. Fornero è pronta a rinviare l’entrata a regime del nuovo sistema al 2017, anche se non è chiaro se e quando scatterebbe la fine della cassa in deroga, che oggi costa quasi due miliardi l’anno. Il pressing del Pd perché si venga incontro alle piccole imprese è forte.

Se si troverà l’accordo su questi dettagli, ci sarà il sì dei sindacati alla riforma dell’articolo 18. La soluzione ipotizzata somiglia a grandi linee al modello tedesco: il lavoratore può essere licenziato per motivi economici o disciplinari, non per ragioni discriminatorie. Lo stesso lavoratore può comunque ricorrere al giudice, il quale, se ne ravvisa i motivi, dispone il reintegro. La differenza con le attuali regole sarebbe tutta qui: il giudice non deve più reintegrare obbligatoriamente, ma può disporlo, oppure decidere per un congruo risarcimento.

La Stampa 15.03.12

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“Lavoro, intesa vicina Fornero: si può già fare la prossima settimana”, Roberto Bagnoli

La partita si è sbloccata e la riforma si può fare. Tutti hanno fatto un passo indietro e il grande accordo sul nuovo mercato del lavoro va avanti. In particolare l’andata a regime del nuovo sistema di ammortizzatori sociali torna al 2017, si allungano i tempi per la mobilità degli «esodati» anziani e sull’articolo 18 nessuna abolizione ma «ristrutturazione» in salsa tedesca. Oggi il premier Mario Monti vedrà i tre segretari dei partiti di maggioranza per un’ultima verifica, poi weekend a Milano con intervento al convegno di Confindustria e martedì gran finale a Palazzo Chigi con tutte le forze sociali. L’obiettivo è partire per l’Asia con la riforma in tasca. Il ministro del Lavoro Elsa Fornero ora vede rosa dopo il frontale dell’altro giorno con le parti sociali: «A me sembra realizzabile un’intesa che potremmo già raggiungere entro settimana prossima». Così ha detto il ministro nel corso di un’audizione in Senato sintetizzando l’esito di un vertice durato cinque ore con i quattro leader sindacali. Parole di grande apertura anche da parte del segretario generale della Cgil Susanna Camusso: «Cose positive, il ministro è tenace, anche se a volte arrogante». E dal leader Cisl Raffaele Bonanni la conferma che «la situazione si sta ammorbidendo, posso dire che va meglio dell’altro ieri». Per il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia occorre che ora «il governo fissi dei punti fermi e indichi le cifre».
Tutti si sono impegnati al silenzio stampa ma le indiscrezioni indicano che lo «scambio» per arrivare a un punto di convergenza sia sui tempi dell’operazione sia sull’articolo 18. La fase di transizione sugli ammortizzatori non finirà più nel 2015 come voleva Fornero ma nel 2016 o 2017. Ci sarà così più tempo per gestire gli oltre 200 tavoli di crisi industriale con gli strumenti attuali. E, come chiedevano i sindacati, ci sarà un ampio margine di manovra per trovare le risorse per finanziare l’indennità «universale». I sindacati saranno accontentati anche sulla indennità di mobilità: continuerà a vivere per consentire agli «esodati» anziani di 55-58 anni, una volta finita l’Aspi, la nuova indennità di disoccupazione, di approdare alla pensione. In cambio la Fornero ha ottenuto un sostanziale benestare sull’impianto complessivo della sua proposta e la disponibilità a «ristrutturare» — parole di Bonanni — l’articolo 18 con una apertura almeno sulle procedure anche dalla Camusso. Alla fine probabilmente sull’articolo 18 si farà un po’ di manutenzione, forse con una più specifica definizione della giusta causa e dei motivi disciplinari, dando maggiori poteri al giudice che potrà decidere (ma entro sei mesi come in Germania) se il lavoratore licenziato ha diritto al reintegro o all’indennizzo economico.
Nel lungo incontro di ieri mattina al ministero del Lavoro, al quale ha partecipato anche il leader dell’Ugl Giovanni Centrella, Fornero a un certo punto si è assentata per convincere i grandi scontenti di questa trattativa, cioè i «piccoli» di Rete Imprese Italia che lamentano un aggravio dei costi del lavoro di 1,2 miliardi. «Se è così noi non potremo firmare» hanno affermato in una nota auspicando «che il ministro comprenda la situazione».
Che la trattativa si avvii verso uno sbocco positivo, dopo quasi tre mesi di discussione, lo dimostra anche l’attivismo del segretario del Pd Pier Luigi Bersani che ieri ha incontrato tutti i rappresentati delle parti sociali per arrivare oggi da Monti con un quadro preciso.

Il Corriere della Sera 15.03.12

“Accordo vicino Ipotesi decreto per un testo blindato”, di Alessandro Barbera

«Mai stata poco fiduciosa, l’accordo è realizzabile entro la prossima settimana». Per far cambiare direzione alla trattativa sulla riforma del mercato del lavoro sono bastate 24 ore e un incontro a quattr’occhi. Attorno al tavolo della sala riunioni del ministero del Welfare si sono incontrati Elsa Fornero e i leader dei principali sindacati. La battuta di martedì del ministro – «non metteremo a disposizione una paccata di miliardi senza il sì delle sigle» – aveva creato tensioni, ma rendeva bene lo stato delle cose. Per garantire una riforma graduale (e più onerosa del previsto) della riforma degli ammortizzatori, il ministro chiedeva ai sindacati altrettante garanzie sul punto più controverso: il sì ad una modifica dell’articolo 18 e delle norme sui licenziamenti. Ci sono ancora tasselli da sistemare, ma in buona sostanza lo scambio è pronto: il governo allunga l’entrata in vigore della riforma, i sindacati dicono sì ai licenziamenti per motivi economici e disciplinari e alla fine del reintegro obbligatorio.

L’incontro va così bene che nel pomeriggio, durante la registrazione di una intervista a «La Storia siamo noi» con Giovanni Minoli, la (solitamente) cauta leader della Cgil Susanna Camusso si spinge a dire che «stanno maturando cose positive». Poco dopo, uscendo dall’ufficio di Raffaele Bonanni alla Cisl, il leader Pd Pierluigi Bersani conferma il clima: «Domani chiederemo al premier di cercare l’accordo». C’è chi pronostica che da lunedì, il giorno in cui le parti si incontreranno a Palazzo Chigi, ogni momento è buono per la firma. Un accordo che – se ne discute in queste ore fra i leader della maggioranza – potrebbe essere blindato con decreto: l’unica strada per evitare che in Parlamento il testo possa subire gli sgambetti della Lega o di quella parte del Pd che non vorrebbe alcuna modifica all’articolo 18. Sintetizza uno degli esponenti impegnati in prima persona nella trattativa: «Se il governo non procede per decreto, rischiano lui e il delicato equilibrio che abbiamo trovato».

Ma cosa è accaduto? Come è stato possibile passare in tre giorni dal rischio di accordo separato alla possibilità di chiudere con il sì della Cgil? I sindacati, sostenuti da Confindustria e dai piccoli di Rete Imprese, chiedevano di allontanare l’entrata a regime del nuovo sistema di ammortizzatori. I primi temono le conseguenze sul consenso nelle fabbriche, perché la sostituzione della «indennità di mobilità» (fino a due anni) con un più breve assegno di licenziamento si potrebbe ripercuotere sugli ultracinquantenni. Le imprese ne temono i costi: o per l’uscita dal lavoro di quegli stessi dipendenti, o nel caso dei piccoli, per i maggiori costi derivanti dalla fine della cassa in deroga, nata nel 2008 e oggi tutta a carico dello Stato. Fornero è pronta a rinviare l’entrata a regime del nuovo sistema al 2017, anche se non è chiaro se e quando scatterebbe la fine della cassa in deroga, che oggi costa quasi due miliardi l’anno. Il pressing del Pd perché si venga incontro alle piccole imprese è forte.

Se si troverà l’accordo su questi dettagli, ci sarà il sì dei sindacati alla riforma dell’articolo 18. La soluzione ipotizzata somiglia a grandi linee al modello tedesco: il lavoratore può essere licenziato per motivi economici o disciplinari, non per ragioni discriminatorie. Lo stesso lavoratore può comunque ricorrere al giudice, il quale, se ne ravvisa i motivi, dispone il reintegro. La differenza con le attuali regole sarebbe tutta qui: il giudice non deve più reintegrare obbligatoriamente, ma può disporlo, oppure decidere per un congruo risarcimento.

La Stampa 15.03.12

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“Lavoro, intesa vicina Fornero: si può già fare la prossima settimana”, Roberto Bagnoli

La partita si è sbloccata e la riforma si può fare. Tutti hanno fatto un passo indietro e il grande accordo sul nuovo mercato del lavoro va avanti. In particolare l’andata a regime del nuovo sistema di ammortizzatori sociali torna al 2017, si allungano i tempi per la mobilità degli «esodati» anziani e sull’articolo 18 nessuna abolizione ma «ristrutturazione» in salsa tedesca. Oggi il premier Mario Monti vedrà i tre segretari dei partiti di maggioranza per un’ultima verifica, poi weekend a Milano con intervento al convegno di Confindustria e martedì gran finale a Palazzo Chigi con tutte le forze sociali. L’obiettivo è partire per l’Asia con la riforma in tasca. Il ministro del Lavoro Elsa Fornero ora vede rosa dopo il frontale dell’altro giorno con le parti sociali: «A me sembra realizzabile un’intesa che potremmo già raggiungere entro settimana prossima». Così ha detto il ministro nel corso di un’audizione in Senato sintetizzando l’esito di un vertice durato cinque ore con i quattro leader sindacali. Parole di grande apertura anche da parte del segretario generale della Cgil Susanna Camusso: «Cose positive, il ministro è tenace, anche se a volte arrogante». E dal leader Cisl Raffaele Bonanni la conferma che «la situazione si sta ammorbidendo, posso dire che va meglio dell’altro ieri». Per il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia occorre che ora «il governo fissi dei punti fermi e indichi le cifre».
Tutti si sono impegnati al silenzio stampa ma le indiscrezioni indicano che lo «scambio» per arrivare a un punto di convergenza sia sui tempi dell’operazione sia sull’articolo 18. La fase di transizione sugli ammortizzatori non finirà più nel 2015 come voleva Fornero ma nel 2016 o 2017. Ci sarà così più tempo per gestire gli oltre 200 tavoli di crisi industriale con gli strumenti attuali. E, come chiedevano i sindacati, ci sarà un ampio margine di manovra per trovare le risorse per finanziare l’indennità «universale». I sindacati saranno accontentati anche sulla indennità di mobilità: continuerà a vivere per consentire agli «esodati» anziani di 55-58 anni, una volta finita l’Aspi, la nuova indennità di disoccupazione, di approdare alla pensione. In cambio la Fornero ha ottenuto un sostanziale benestare sull’impianto complessivo della sua proposta e la disponibilità a «ristrutturare» — parole di Bonanni — l’articolo 18 con una apertura almeno sulle procedure anche dalla Camusso. Alla fine probabilmente sull’articolo 18 si farà un po’ di manutenzione, forse con una più specifica definizione della giusta causa e dei motivi disciplinari, dando maggiori poteri al giudice che potrà decidere (ma entro sei mesi come in Germania) se il lavoratore licenziato ha diritto al reintegro o all’indennizzo economico.
Nel lungo incontro di ieri mattina al ministero del Lavoro, al quale ha partecipato anche il leader dell’Ugl Giovanni Centrella, Fornero a un certo punto si è assentata per convincere i grandi scontenti di questa trattativa, cioè i «piccoli» di Rete Imprese Italia che lamentano un aggravio dei costi del lavoro di 1,2 miliardi. «Se è così noi non potremo firmare» hanno affermato in una nota auspicando «che il ministro comprenda la situazione».
Che la trattativa si avvii verso uno sbocco positivo, dopo quasi tre mesi di discussione, lo dimostra anche l’attivismo del segretario del Pd Pier Luigi Bersani che ieri ha incontrato tutti i rappresentati delle parti sociali per arrivare oggi da Monti con un quadro preciso.

Il Corriere della Sera 15.03.12

"Profumo nella palude dell'università", di Tito Boeri

Un tecnico al governo diventa inevitabilmente un politico. Ma dovrebbe essere un politico che non ha l´ansia di essere rieletto, che perciò guarda molto più in là delle prossime elezioni, preoccupandosi di lasciare in eredità al Paese riforme che daranno i loro frutti fra cinque, dieci, anche vent´anni. Ci auguriamo tutti, in Italia e fuori (l´editoriale del Financial Times di ieri era dedicato proprio all´ Italian Job) che la riforma del lavoro abbia queste caratteristiche. Speriamo che pensi davvero anche a chi non è oggi rappresentato al tavolo della trattativa, a partire dai giovani del cosiddetto parasubordinato. L´unico modo per proteggerli e valorizzare al contempo il loro capitale umano è trasformare i loro contratti in rapporti di lavoro subordinato non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Solo così saranno coperti contro il rischio di licenziamento, quale che sia la riforma degli ammortizzatori, e potranno ricevere la formazione che normalmente viene fornita ai giovani sul posto di lavoro.
Ma c´è anche un altro terreno su cui è fondamentale allungare gli orizzonti dell´azione di governo e pensare ai giovani. È quello degli investimenti nella scuola e nell´università. Anche su questo piano è fondamentale imprimere una svolta decisa rispetto alla miopia della classe politica e alle scelte suicide del governo precedente, che hanno sistematicamente disinvestito nel capitale umano. Purtroppo sin qui di questa svolta non c´è traccia.
Il governo precedente ha ridotto l´obbligo scolastico da 16 a 15 anni. La prima cosa che ci si sarebbe aspettata da un governo che, a partire dal discorso programmatico di Monti al Senato, ha posto al centro della sua azione il problema giovanile e l´innalzamento del livello di istruzione della forza lavoro, è la riconsiderazione di questa scelta dissennata, che va in senso diametralmente opposto a quanto avviene nel resto del mondo. Come mostrato da Daniele Checchi, c´è un picco negli abbandoni in Italia appena espletato l´obbligo scolastico: le famiglie si adattano immediatamente a questi cambiamenti normativi, pianificando diversamente il percorso di studi. Quindi ridurre l´obbligo scolastico significa ridurre programmaticamente il livello di istruzione della nostra forza lavoro, il contrario di quanto il nuovo governo dichiara di volere fare. Come minimo, avremmo perciò pensato di vedere nei primi 100 giorni del nuovo esecutivo il ripristino dell´obbligo scolastico a 16 anni. Come massimo, avremmo voluto sentire proporre il suo graduale innalzamento fino a 18 anni. Questo contribuisce grandemente alla crescita di un paese, man mano che le generazioni più istruite escono dalla scuola. Di quanto? Secondo le stime più recenti basate sull´esperienza internazionale, l´allungamento di tre anni dell´istruzione media della forza lavoro è associata a un incremento del tasso di crescita di un paese di circa l´1 per cento ogni anno. Significa essere di quasi un quarto più ricchi nel corso di venti anni. Non poco per un´economia come la nostra rimasta al palo del 1999 e che, ai tassi di crescita attuali tornerà solo nel 2020 ai livelli di reddito precedenti la Grande Recessione.
Non c´è traccia di questa lungimiranza neanche quando il governo parla di infrastrutture. Dimentica sistematicamente che la prima infrastruttura da modernizzare è l´edilizia scolastica. Da anni ci è stata promessa l´anagrafe degli edifici in cui i nostri figli vanno a scuola. Secondo i dati sin qui disponibili, due edifici su tre hanno più di 30 anni. Di questi solo il 22 per cento è stato ristrutturato. Mille scuole sono state costruite prima dell´Ottocento e più di tremila tra il 1800 e il 1920. Di quasi 7mila edifici non si sa neanche la data di costruzione. Fatichiamo a vedere infrastruttura più urgente e più importante al tempo stesso di un´edilizia scolastica che garantisca sicurezza e aule adeguate per l´insegnamento ai nostri figli.
Il ministro Profumo conosce a fondo l´università. Potrebbe davvero imprimerle una svolta. Invece sin qui si è limitato ad assecondare la paralisi impostaci dal suo predecessore. L´Università italiana rimarrà bloccata, nella migliore delle ipotesi, per altri tre anni, nella peggiore per altri cinque anni. Questo perché la cosiddetta riforma Gelmini (non bisognerebbe mai chiamare riforme provvedimenti che al 90 per cento sono indefiniti) richiede qualcosa come 45 tra decreti legislativi, decreti ministeriali, regolamenti e decreti di natura non regolamentari e almeno 14 atti regolamentari da parte di ciascuna università. Prima di allora tutto rimarrà bloccato. Peggio ancora, è sempre più forte il rischio che nella transizione entri ancora di più la politica nelle università. Ieri abbiamo saputo che sono stati prorogati di un altro anno i Rettori degli atenei che hanno sin qui approvato gli statuti in seconda lettura. È la seconda proroga dopo quella già decisa l´anno scorso. Questo significa che persone che hanno orizzonti molto brevi e che in non pochi casi hanno un´agenda politica, potranno nominare i componenti dei consigli d´amministrazione delle Università. Il ministro Profumo dovrebbe chiedere a questi Rettori di dimettersi. Certo, avrebbe dovuto dare fin dall´inizio il buon esempio dimettendosi lui stesso dalla presidenza del Cnr, non appena ricevuta la nomina di ministro.

La Repubblica 15.03.12