attualità, lavoro

“Il dolore che non si può sopportare”, di Ferdinando Camon

Non ci sono gradazioni alla disperazione, perché la disperazione è lo stadio estremo del dolore. Ma se ci fosse una gradazione, questo sarebbe il vertice: un’ecatombe di bambini sui 12 anni, vitali e festosi, che rientrano a casa dopo una settimana bianca, in pullman, e vengono falciati in un incidente assurdo. Ventidue muoiono sul colpo, altri vanno in coma, altri ancora sono feriti gravi. È una di quelle scene che non hanno risposte sulla Terra, e ti fanno alzare gli occhi al cielo. L’uomo non è fatto per sopravvivere alla morte di un figlio, la morte di un figlio è un capovolgimento della natura. E qui è avvenuto un capovolgimento innaturale della vita di decine di famiglie, e delle famiglie a loro collegate. Non è umanamente possibile reggere questa piena di dolore. Nessuna delle esistenze toccate da questa tragedia potrà continuare come prima. Tutte le vite subiranno una deviazione, una stortura. Compiendosi in un attimo, la tragedia avrà conseguenze per sempre.

Quando si dice «figlio» non si dice tutto, perché un figlio cambia di significato per i genitori lungo le fasi della vita: se c’è una fase in cui è «più figlio» è questa, sui 12 anni. A quell’età i figli hanno ancora qualcosa di quand’erano bambini e fanno già vedere qualcosa di quando saranno uomini o, le bambine, donne. E noi padri, amandoli a quell’età, li amiamo per quel che sono, quel che erano e quel che saranno. Riempiamo la loro vita, e questo riempimento fa la nostra felicità. Loro lo sentono, e ci fan vedere che la loro vita è piena apposta per farci felici. Questi bambini tenevano un blog in cui annotavano le loro emozioni, e in questa settimana bianca scrivevano: «Papà, mamma, siamo felici ma ci mancate». È amore filiale allo stato puro, senza quelle ambiguità (rivalità, proteste, autonomia) che inveleniscono il rapporto 5-6 anni dopo. Dategli ancora 5-6 anni, a questi figli, e quelle parole non le scriveranno più. Ma adesso le scrivono. Il rapporto genitori-figli a quell’età è gioia pura, da conservare nel ricordo. Qui la gioia pura si è rovesciata nel dolore irrimediabile, che ti fa perdere la ragione. È questo il momento terribile, nella cronaca di questa disgrazia: quando i genitori vedono i figli. Mentre scrivo, i genitori sono in volo dalle Fiandre verso la Svizzera. Le cronache non lo dicono, ma in ciascuno di quei genitori si agita la speranza che suo figlio non sia tra le vittime, che fra poco avverrà il grande abbraccio che ridarà un figlio al padre e alla vita. Il bambino non sa ancora di essere mortale, lo imparerà più tardi, molto più tardi, nella terza età. In giovinezza si crede eterno. E anche i suoi genitori lo credono così. A questo livello, la disgrazia non squassa il cuore soltanto, e i nervi, ma la ragione, la fa vacillare o crollare. E non occorre essere il padre o la madre di uno di quei bambini. Basta soltanto essere un uomo o una donna che passa di lì. C’è una donna che ha visto il pullman sfracellato mentre dai suoi finestrini svolazzavano dei fogli, dunque a urto appena avvenuto, e descrive la scena come farebbe un automa: pullman sventrato, sedili tranciati, sangue dappertutto, bambini che la fissano con occhi spalancati, «non sa se vivi o morti». A quest’ora i genitori saranno arrivati, tutti. E sapranno. Le analisi per l’identificazione saranno finite o finiranno presto. I figli torneranno ai padri nell’unico modo possibile. Non ci sarà spiegazione. Sulla morte di un figlio di questa età il regista Malick ha costruito un film che ha ottenuto la Palma d’Oro nel 2011. Nel film la madre di un figlio morto in un incidente alza gli occhi e chiede: «Cosa siamo noi per te?», dall’alto scende una risposta che la gela: «Dov’eri tu quand’io creavo le galassie e gli abissi?». Mi torna sempre in mente questa botta-risposta, quando penso al problema. È nella Bibbia, Giobbe. Posto così, il problema è un rapporto di potere: noi non abbiamo alcun ruolo se non quello di sopportare l’insopportabile.

La Stampa 15.03.12