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“Quel litro di benzina misura il malumore”, di Gianni Riotta

Oggi la benzina è rincarata. È l’estate del quarantasei. Un litro vale un chilo d’insalata…» canta Paolo Conte nella sua vecchia ballata dedicata alla Topolino amaranto. E da allora il prezzo della benzina è per gli italiani l’indicatore economico primo. Rozzo, simbolico, casalingo, quel che volete, ma prima che tutti ci avvezzassimo allo spread BundBtp, quando Standard&Poor’s erano meno familiari dei grandi magazzini Standa, ora Billa, e quando nulla sapevamo del trading online, bene, che un litro di super valesse un chilo di insalata, o giù di lì, lo sapevano tutti. Non siamo i soli a ragionare così, per generazioni di americani il biglietto, prima ancora il gettone, della metropolitana di New York doveva avere lo stesso costo della fetta di pizza e il «New York Times» calcolava il costo della vita comparando subway e Napoletana.

Ancora oggi, del resto, il raffinato settimanale d’affari «The Economist» pubblica un indice McDonald’s stimando le metropoli più esose con un borsino che confronta il prezzo locale del Big Mac. Non c’è dunque da stupirsi se, appena lenite le ansie per la crisi europea del debito, dalla Grecia all’Italia, la gente si fissi sulla benzina come totem delle paure. Una scuola di economisti Usa già definisce i nostri giorni «era dell’ansietà» e se uno studio di Banca Intesa-Sanpaolo conferma che la famiglia media italiana spende ormai al mese 470 euro per benzina e carburanti contro 467 euro per il cibo, la realtà è chiara. I consumi alimentari sono tornati al livello del 1980, quando la Nazionale di Enzo Bearzot si apprestava a diventare invincibile e Urss, Dc, Psi e Pci sembravano eterni.

La benzina rincarata frena gli altri consumi, e sul bidone di petrolio greggio Brent la nostra fobia del futuro si appalesa come sul lettino psicoanalitico del dottor Freud. A un seminario di «The Ruling Companies», lunedì, l’amministatore delegato Eni Paolo Scaroni ha calcolato che sui 125 dollari del prezzo del greggio oggi, la paura di una guerra con l’Iran pesa per ben 20 dollari. Se Obama, Israele e gli ayatollah si rappacificassero oggi stesso il greggio scenderebbe di botto a 100 dollari. L’irrazionalità dei mercati globali pesa in casa nostra con la paranoia sul riscaldamento, il pieno per la gita fuori porta, il motorino dei figli: benzina che rincara e noi a scegliere, come Paolo Conte, tra super senza piombo e insalata.

Il presidente americano Barack Obama ha colto questo clima teso, perché nel paese che era abituato a pagare un dollaro per un gallone, quattro litri, di benzina vedere oggi al distributore prezzi «europei» rischia di essere un handicap verso la Casa Bianca. Se Obama lancia un caso internazionale contro la Cina sulle Terre Rare, preziosi minerali indispensabili allo sviluppo, lo fa solo per dire agli operai e al ceto medio furioso per la benzina: vedete? Alzo la voce con Pechino! Tutti noi, quando i numerini girano come un flipper al distributore, dobbiamo ricordarci del mondo che, come nel Quarantasei, ci impone i suoi prezzi. Nella stessa conferenza Scaroni ricordava che, al netto dei profitti Eni e delle imposte, il prezzo del gas e i suoi rincari vengono decisi in poche, e lontane, capitali. Ma il governo dei tecnici di Mario Monti, che ha evitato la crisi peggiore con le scelte d’inverno, non deve sottovalutare il cattivo umore popolare sulla benzina di chi non legge il «Wall Street Journal» e non ha mai aperto Forbes.

Il rigore senza consenso costante può innescare populismo e le scelte migliori possono essere male interpretate da chi deve arrivare a fine mese. Raghuram Rajan, il grande economista, ci indica nel suo saggio appena tradotto da Einaudi come il ceto medio stenti molto dopo la crisi 2008, pressato dalla nuova economia del lavoro sempre precario. Allora occhio alla benzina e occhio alla paura e al malumore che si possono diffondere. Non bacchettiamo mai nessuno, spieghiamo ogni scelta, proviamo a non bloccare neppure i consumi più elementari. Non è solo un gran bene per la nostra economia, è un gran bene per la nostra politica, società e democrazia, oggi come nel Quarantasei.

La Stampa 14.03.12

Dichiarazione di voto dell’on. Gianclaudio Bressa del Pd su Disegno di legge di conversione del DL n.5 del 2012: Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e sviluppo

Signor Presidente, signor Ministro, colleghe e colleghi, il Partito Democratico vota a favore del decreto sulla semplificazione e lo sviluppo, vota «sì» con convinzione. Con l’approvazione di molte nostre proposte emendative, questo decreto-legge sulla semplificazione e lo sviluppo renderà davvero più facile la vita dei cittadini, imprenditori e consumatori e il loro rapporto con la pubblica amministrazione. Ad esempio, nei rapporti tra cittadino ed uffici pubblici sarà possibile il cambio di residenza in tempo reale. Mi dispiace che il collega Torazzi non abbia mai avuto a che fare con i problemi di chi deve cambiare residenza ma 1.400 persone all’anno fanno a pugni con la burocrazia per una cosa che nel resto d’Europa è normale e che da domani sarà normale anche nel nostro Paese. Sarà facile avere procedure anagrafiche di stato civile veloci e solo per via telematica, sarà possibile finalmente disporre della marca da bollo tematica e poter pagare le multe on line. Nei rapporti tra cittadini e sanità ci sarà l’esenzione prolungata nel tempo del pagamento delle prestazioni sanitarie per i malati cronici, le cartelle cliniche elettroniche e i sistemi di prenotazione elettronici saranno finalmente realtà, i permessi di parcheggio per gli invalidi varranno su tutto il territorio nazionale. Nei rapporti tra le imprese e la pubblica amministrazione ci sarà l’acquisizione d’ufficio da parte della pubblica amministrazione delle certificazioni antimafia e della documentazione unica di regolarità contributiva. Saranno previste misure preferenziali e premiali per le piccole e medie imprese per progetti di ricerca. La semplificazione in materia di controlli sarà realtà, con l’esclusione di salute e sicurezza sul lavoro, perché la situazione nel nostro Paese questo ancora oggi chiede. E altro ancora, come l’autocertificazione per gli immigrati regolarmente residenti o l’affidamento a titolo gratuito ad enti o associazioni di beni di interesse turistico sequestrati alla mafia. Tutti questi sono miglioramenti che hanno nome e cognome, sono emendamenti che il Partito Democratico ha apportato a questo decreto-legge. Si tratta di un «sì» convinto, perché questo decreto-legge ci consegna uno Stato più forte ma meno grosso, meno ingombrante. È un «sì» politico perché il Governo Monti non è figlio di una nostalgia politica che ci riporta ai primordi dello Statuto albertino, cioè ai governi senza partito, ma è un Governo che si regge su una maggioranza parlamentare. Il Governo Monti vive per una scelta politica e compie quotidianamente scelte politiche. La riconquista del potere di scelta da parte della politica è la vera battaglia. Prima di poter tornare a distinguere la differenza tra destra e sinistra dobbiamo vincere la guerra tra politica e antipolitica.
E quello che stiamo facendo anche con il nostro voto di oggi, è una scelta libera e politica che dimostra che il Parlamento non solo è pienamente legittimo ma è necessario per fare le riforme e il Governo Monti senza questo Parlamento nulla sarebbe (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). E il Partito
Democratico rivendica per sé un ruolo centrale di partito nazionale che è decisivo per fare decisive riforme ora, senza rimandarle ad un più luminoso avvenire. Ma proprio per questo, perché il nostro è un «sì» politico convinto, ci possiamo permettere di dire anche che cosa non ci piace di questo decreto-legge.
Non ci piace il capitolo sulla scuola. Noi abbiamo posto il problema con un emendamento votato in sede di Commissioni, ma ritenuto non finanziato dal Governo. Il nostro emendamento conteneva un messaggio molto semplice: più soldi alla scuola, per restituire la possibilità di fare il tempo pieno, il tempo prolungato e progetti per combattere la dispersione scolastica e per l’integrazione dei ragazzi con disabilità, per restituire qualità alla scuola, non per una scelta corporativa a difesa degli insegnanti, ma per restituire quella qualità che la politica del Governo Berlusconi con i suoi tagli aveva negato (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). Lo abbiamo fatto perché la scuola italiana è indietro, perché l’Italia investe per l’educazione il 4,8 per cento del proprio PIL quando la media OCSE è del 5,7 per cento e noi siamo dietro anche all’Estonia.
L’Europa ci chiede di triplicare entro il 2020 il numero dei laureati, e invece calano di anno in anno; ci chiede di dimezzare il tasso di dispersione scolastica, e oggi il 20 per cento (cioè un ragazzo su cinque) non finisce l’obbligo scolastico. E il testo, così come risulta nel decreto, anche se contiene l’importante novità – che abbiamo voluto noi – di destinare per il futuro, come per i beni culturali, risorse ricavate dai giochi, non basta. Per noi la scuola, l’educazione, sono priorità. Vedete, la politica è un’arte nobile che si occupa di grandi scelte tanto più se le risorse sono scarse. Tutto sta nello stabilire le priorità giuste, indirizzando le spese pubbliche dove servono davvero. Pagare meglio chi istruisce i nostri figli è anche un segnale per cambiare la gerarchia dei valori di una società. Tra un operatore finanziario e chi deve formare le nuove generazioni, chi dei due crea più valore per la società? La domanda è semplice, che ha bisogno però di una risposta che sia una scelta politica, e noi questa scelta politica la facciamo, e scegliamo la scuola. Vedete, ridurre il peso del debito che passiamo ai nostri ragazzi, è vero patriottismo, ma il vero patriottismo è anche costruire una economia e una società adatta a farci vivere e lavorare i nostri figli.
Presidente Monti, Ministro Patroni Griffi, un consiglio: il rispetto dei conti fine a se stesso è ragioneria, il rispetto dei conti per lo sviluppo è politica e per il futuro sarà meglio appassionarsi un po’ di più alla politica e un po’ di meno alla ragioneria (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico), perché solo così si potrà parlare di sacrifici ed essere capiti.
Perché fare sacrifici? Il linguaggio dei sacrifici si applica a ogni aspetto della nostra vita. Sappiamo che dovremo lavorare più a lungo, andare in pensione più tardi, ma sappiamo anche che bisogna investire oggi, subito, per costruire tra dieci anni una scuola migliore, tra venti anni un sistema di produzione di energia
pulita. Ma questo genere di sacrifici immediati richiede una grande fiducia reciproca, un patto sociale
credibile; una democrazia che funziona, richiede la forza e la credibilità della politica. Questo è e continuerà ad essere l’impegno del Partito Democratico, l’impegno di un grande partito nazionale, capace di responsabilità, di patriottismo civile. L’Italia per noi viene prima. Per questo il PD è ottimista, ottimista sul nostro Paese, ottimista sul potere della politica. Siamo ottimisti e per questo saremo capaci di cambiare l’Italia, oggi con Monti, domani come Partito Democratico (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico – Congratulazioni).

www.partitodemocratico.it

"Il dovere del dopo Monti", Alfredo Reichlin

Contro il rischio di disgregazione occorre un nuovo patto di cittadinanza Compito della politica non è il semplice risanamento, ma la ricostruzione. La situazione è difficile. Parlare chiaro alla gente e riconquistarne la fiducia è condizione essenziale per reggerla. È tempo di cancellare l’immagine che si cerca di dare del Pd: un partito ondivago e perennemente diviso. È chiaro che criticare gli atti e le scelte di questo partito è del tutto lecito. È la lotta politica, ed è il sale della democrazia. Però alla condizione che i termini dei dissensi e della lotta siano chiari.
Il Pd è un partito vero: forse, oggi, il solo in Italia. È fatto di donne e di uomini che si sono riuniti in buon numero sotto questa insegna in ragione di idee e di passioni. In più noi siamo un pezzo – direi perfino una condizione – della tenuta della struttura democratica e istituzionale del Paese. Siamo usciti vittoriosi dalla lotta contro la destra populista berlusconiana. I partiti non sono tutti uguali. Noi il governo Monti lo abbiamo voluto, altri l’hanno subito e non sanno dove andare.
Dunque, smettiamola di inventare problemi politici che non esistono. La famosa «foto di Vasto». Anche le primarie vinte a Milano da Pisapia erano una foto di Vasto? La politica non è riducibile a questi piccoli giochi. È (come si vide anche a Milano) nuove idee e bisogni di libertà, è spostamento di masse, è sommovimento sociale. È insomma ciò che riunì una folla felice di borghesi e di proletari in piazza del Duomo. È l’incontro del partito con la società civile e i movimenti.
Ciò che mi spinge a scrivere è questa preoccupazione: non che ci dividiamo, ma che ci dividiamo sul nulla. Che stiamo altrove rispetto a ciò che sconvolge la vita della gente, che non abbiamo il senso della grandezza e drammaticità dei problemi che sfidano un partito che si dice democratico e che si propone al Paese come il perno di una grande alleanza riformista. Questa alleanza non può ridursi a una alchimia politica (tanto di Vendola e tanto di Casini, e poi agitare prima dell’uso). Per funzionare richiede bel altro. È lo sforzo di organizzare una maggioranza di forze reali in funzione non di un qualche disegno di corrente ma della necessità di dare gambe a un progetto di ricostruzione del Paese. Perché di questo si tratta. Di una impresa molto grande e molto ardua: fermare la decadenza in atto ormai da anni del Paese. Ma è evidente che un simile disegno può riuscire a una sola condizione: che si avvii un risveglio e una mobilitazione, anche intellettuale e morale, delle nostre risorse più profonde, che si faccia leva sul lavoro, sull’ingegno e sulla creatività degli italiani.
Tutto ciò non è affatto in contraddizione con l’appoggio al governo Monti. Di ricostruzione oggi non potremmo nemmeno parlare se, grazie anche (non solo) all’opera di quello straordinario personaggio che è Monti, e senza l’intelligenza del Presidente della Repubblica, noi questo Paese non l’avessimo salvato da una catastrofe incombente. E se non l’avessimo riportato là dove si possono prendere le grandi decisioni, le sole che possono segnare una svolta: l’Europa e la sua possibile costruzione come soggetto politico globale, quindi come attore della lotta per imporre un nuovo ordine mondiale dopo i guasti e il fallimento di questa folle economia finanziaria.
C’è del vero nel dire che dopo Monti «nulla sarà come prima». Ma ciò nel senso che sono accadute cose tali in Italia e in Europa e nel mondo per cui è molto riduttivo pensare che con le elezioni si chiuderà una parentesi e torneranno sulla scena i vecchi partiti di prima.
Il Pd è però una cosa nuova e diversa, e così si deve presentare alla gente. Ha un disegno nazionale, un’etica politica e un patrimonio ideale. Ma la forza del Pd consiste anche nella necessità per la democrazia italiana (pena la perdita di ogni sua vitalità) che il sistema politico riacquisti autonomia e indipendenza rispetto al fenomeno grandioso dell’ultimo mezzo secolo. Questo fenomeno non è Monti. È l’avvento, alla testa della mondializzazione, di un potere di portata globale che si è eretto al di sopra di tutto secondo il vecchio aforisma «i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in tv a farsi sbeffeggiare».
Perché ci stupiamo per l’avvento al potere in Italia di uno straordinario show-man come Berlusconi? Sottolineo questo “prima”. È il mondo reale che ci sfida. E qui sta la ragione per cui un partito che pone alla sua base la questione della democrazia ha il dovere di fare i conti con ciò che in questi anni ha colpito profondamente proprio la ragion d’essere della democrazia (il pensiero “unico” secondo cui di essa non c’è più bisogno, perché sono i mercati che governano perché si autoregolano e sono «razionali»). Dunque, diciamo tutto il male possibile dei partiti ma di essi non si può fare a meno perché – se riformati – sono essi lo strumento del pluralismo degli interessi e delle idee. La loro funzione è quella di “ascensori sociali”, cioè di luoghi dove si affermano i diritti di cittadinanza, quali che siano i soldi di ciascuno. Ma soprattutto dove possono fare politica e ascendere ai posti di comando anche i poveri e le classi subalterne. Il salotto di Vespa non è l’alternativa, e quando ci interroghiamo sul perché della decadenza dell’Italia dovremmo riflettere anche sul fatto che è diventato quasi impossibile mandare in Parlamento un operaio.
Monti non c’entra niente. Si tranquillizzi Repubblica. Non è lui che ci sfida. È il cambiamento del mondo. Il più grande dopo secoli. Non tornerò a descrivere le decisioni fatali della Thatcher e di Reagan in conseguenza delle quali si pose fine al patto democratico tra il capitalismo industriale e il mondo del lavoro e, di fatto, si rinunciò a costruire la società del benessere. Questo è accaduto. Ed è per me molto triste vedere gente che si dice di sinistra e che non osa nemmeno pensare che una società non regge se l’uno per cento di essa diventa sempre più ricco e il novantanove sempre più povero. E che il mondo diventa ingovernabile se la finanza viene trasformata da infrastruttura dell’economia reale a un enorme potere autonomo che batte moneta fittizia e fa soldi mangiandosi l’economia reale.
Torno così alla necessità per l’Italia non solo di un risanamento ma di una ricostruzione. Ci rendiamo conto di cosa significa? Non si va in Europa con una distanza tra Nord e Sud diventata ormai abissale (quasi due Paesi) o senza dare una nuova base sociale e un nuovo terreno etico-politico su cui poggiare un rinnovato patto di cittadinanza, vivendo noi in uno strano Paese dove lo strato dominante guadagna quasi il doppio dei suoi omologhi tedeschi o francesi mentre i salari e gli stipendi sono inferiori del 30 per cento.
Pensare alla necessità per il dopo Monti di un governo forte che tragga la sua forza da una maggioranza politica e parlamentare coesa, a me sembra un dovere politico e morale. Non parla in me l’esponente di quella cosa così disprezzabile che è un partito. La mia vera preoccupazione è un’altra. Se il Pd non svolge questo ruolo io non so se il Paese, travolto dalla crisi, tiene oppure si disgrega. I tecnici non basteranno.

L’Unità 14.03.12

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«È vero, dobbiamo guardare ai delusi della sinistra». Intervista a Pippo Civati di Maria Zegarelli

Il consigliere regionale del Pd lombardo: «Franceschini ha ragione, ma facciamo una fatica del diavolo a parlare con queste realtà». C’è una fetta di astensionismo, di elettori delusi, di persone che guardano al movimento Cinque stelle:è a loro che il Pd deve parlare». Pippo Civati, consigliere regionale in Lombardia, entra nel dibattito aperto da l’Unità sulle alleanze future per il post-Monti e critica anche la foto di Vasto: «Mi sembra statica, superata, andrebbe modernizzata». Quanto alla formula «alleanza tra progressisti e forze moderate», qualche dubbio ce l’ha. «Chi sono i moderati?», chiede provocatoriamente.
Civati, Franceschini sostiene che il Pd debba guardare a quel potenziale 25% che sta alla sua sinistra. Letta, Fioroni, per citarne due, sono più cauti. Lei? «Ha ragione Franceschini e quella prateria è composta da chi è deluso dalla politica, da chi vorrebbe astenersi, da chi guarda al movimento di Grillo e da una parte dei movimenti che durante il 2011 hanno riempito le piazze. Il problema è che il Pd fa una fatica del diavolo a parlare con queste realtà, l’ultimo episodio è stato la gestione della manifestazione della Fiom con quel “vado, non vado”».
È stato un errore non andare?
«È stato un errore non mandare una delegazione ad ascoltare quello che chiedeva quella piazza. Riformare il mercato del lavoro non vuol dire dimenticare i giusti temi del conflitto sociale delle fabbriche o le questioni di democrazia che la Fiom poneva». Lei dice che nel suo partito non si riesce a parlare a quella prateria. Perché? «Per poter entrare in contatto c’è un’anticamera che bisogna superare rappresentata dai costi della politica, dal sistema elettorale e dai meccanismi di partecipazione. Non è un caso che Bersani nel suo volantino del viaggio nel paese abbia messo proprio questi temi, gli stessi che io ripeto da parecchio tempo. Le questioni ambientali e i diritti sono gli argomenti di cui vogliono sentir parlare tutti coloro che oggi guardano altrove. C’è bisogno di parole chiare, nette e precise e purtroppo non ne sono venute».
Non dipenderà anche dal tasso di alta litigiosità interna?
«Dovremmo incominciare a mettere da parte la litigiosità e iniziare a praticare il pluralismo che significa prendere alcune posizioni, che non sono attualmente rappresentate, e dargli visibilità, anche quando non vengono dalla segreteria. Una volta Bersani mi disse che una minoranza può diventare maggioranza ma non se passa il tempo a stressare la maggioranza. C’è bisogno di proposte serie, precise, di qualità».
Lei con l’iniziativa di Bologna, “Il nostro tempo”, ha fatto delle proposte. Sono state accolte, oppure sono rimaste lettera morta?
«Devo dire che alcune nostre proposte sono state fatte proprie dal partito, anche se nessuno oggi dice da dove sono venute ed è un peccato perché sarebbe un modo per riconoscere il pluralismo. Una delle proposte che facemmo in quella sede riguardava le primarie per i parlamentari ed è stata affrontata anche dall’assemblea nazionale, come quella di un legge sulla corruzione, che recentemente abbiamo ripreso a Canossa con Stefano Rodotà». Franceschini ha ribadito quella che è anche la linea del segretario: una alleanza tra progressisti e forze moderate. La ritiene possibile una coalizione che va da Casini a Vendola? «Intanto bisognerebbe avere il coraggio di modernizzare la foto di Vasto, come dice lo stesso Vendola, perché mi sembra molto statica e legata alle sigle dei partiti. Dovrebbe essere aperta ai ceti produttivi, alle donne, alla società civile. Insomma, bisognerebbe metterci un po’ di elettori veri più che di leader. Poi, e arriviamo ai moderati, mi chiedo chi siano oggi le forze moderate».
Casini, Rutelli, il cosiddetto Terzo Polo. Di questo stiamo parlando.
«Io non sono affezionato a Vasto, ma vorrei capire se estendere l’alleanza ai moderati non si traduca in un corto circuito. Il Pd su che cosa vuole costruire l’alleanza? Quali sono i dieci punti su cui ha un progetto e un programma? Da qui si deve partire, da quello che abbiamo in mente di fare durante la prossima legislatura».
Lei non ha mai citato l’Idv. Perché?
«Se Di Pietro vuole stare in coalizione con noi deve prendersi degli impegni, la deve piantare di lavorare sulle nostre difficoltà. Ma devo dire che si fatica a trovare luoghi parlamentari o extraparlamentari per parlare di queste cose».
Civati, che ne pensa dell’eterna discussione sulla leadership?
«Ho sentito almeno quindici nomi diversi negli ultimi tempi. Mi sembra che ci siano grandi velleità al riguardo mentre sarebbe meglio deciderlo sulla base di un decalogo di priorità per un programma di governo».
Lei quali metterebbe nell’elenco?
«Credo che al primo posto ci debba essere, per una coalizione di centrosinistra, la riduzione delle diseguaglianze insieme alla possibilità di orientare il sistema produttivo, là dove serve. Se si lavora su questo la gente capisce cosa vuoi dire, se parli del rilancio selettivo dell’economia, nei settori strategici, dalla ricerca all’innovazione, gli elettori riconoscono quello che hai in testa di fare».

L’Unità 14.03.12

“Il dovere del dopo Monti”, Alfredo Reichlin

Contro il rischio di disgregazione occorre un nuovo patto di cittadinanza Compito della politica non è il semplice risanamento, ma la ricostruzione. La situazione è difficile. Parlare chiaro alla gente e riconquistarne la fiducia è condizione essenziale per reggerla. È tempo di cancellare l’immagine che si cerca di dare del Pd: un partito ondivago e perennemente diviso. È chiaro che criticare gli atti e le scelte di questo partito è del tutto lecito. È la lotta politica, ed è il sale della democrazia. Però alla condizione che i termini dei dissensi e della lotta siano chiari.
Il Pd è un partito vero: forse, oggi, il solo in Italia. È fatto di donne e di uomini che si sono riuniti in buon numero sotto questa insegna in ragione di idee e di passioni. In più noi siamo un pezzo – direi perfino una condizione – della tenuta della struttura democratica e istituzionale del Paese. Siamo usciti vittoriosi dalla lotta contro la destra populista berlusconiana. I partiti non sono tutti uguali. Noi il governo Monti lo abbiamo voluto, altri l’hanno subito e non sanno dove andare.
Dunque, smettiamola di inventare problemi politici che non esistono. La famosa «foto di Vasto». Anche le primarie vinte a Milano da Pisapia erano una foto di Vasto? La politica non è riducibile a questi piccoli giochi. È (come si vide anche a Milano) nuove idee e bisogni di libertà, è spostamento di masse, è sommovimento sociale. È insomma ciò che riunì una folla felice di borghesi e di proletari in piazza del Duomo. È l’incontro del partito con la società civile e i movimenti.
Ciò che mi spinge a scrivere è questa preoccupazione: non che ci dividiamo, ma che ci dividiamo sul nulla. Che stiamo altrove rispetto a ciò che sconvolge la vita della gente, che non abbiamo il senso della grandezza e drammaticità dei problemi che sfidano un partito che si dice democratico e che si propone al Paese come il perno di una grande alleanza riformista. Questa alleanza non può ridursi a una alchimia politica (tanto di Vendola e tanto di Casini, e poi agitare prima dell’uso). Per funzionare richiede bel altro. È lo sforzo di organizzare una maggioranza di forze reali in funzione non di un qualche disegno di corrente ma della necessità di dare gambe a un progetto di ricostruzione del Paese. Perché di questo si tratta. Di una impresa molto grande e molto ardua: fermare la decadenza in atto ormai da anni del Paese. Ma è evidente che un simile disegno può riuscire a una sola condizione: che si avvii un risveglio e una mobilitazione, anche intellettuale e morale, delle nostre risorse più profonde, che si faccia leva sul lavoro, sull’ingegno e sulla creatività degli italiani.
Tutto ciò non è affatto in contraddizione con l’appoggio al governo Monti. Di ricostruzione oggi non potremmo nemmeno parlare se, grazie anche (non solo) all’opera di quello straordinario personaggio che è Monti, e senza l’intelligenza del Presidente della Repubblica, noi questo Paese non l’avessimo salvato da una catastrofe incombente. E se non l’avessimo riportato là dove si possono prendere le grandi decisioni, le sole che possono segnare una svolta: l’Europa e la sua possibile costruzione come soggetto politico globale, quindi come attore della lotta per imporre un nuovo ordine mondiale dopo i guasti e il fallimento di questa folle economia finanziaria.
C’è del vero nel dire che dopo Monti «nulla sarà come prima». Ma ciò nel senso che sono accadute cose tali in Italia e in Europa e nel mondo per cui è molto riduttivo pensare che con le elezioni si chiuderà una parentesi e torneranno sulla scena i vecchi partiti di prima.
Il Pd è però una cosa nuova e diversa, e così si deve presentare alla gente. Ha un disegno nazionale, un’etica politica e un patrimonio ideale. Ma la forza del Pd consiste anche nella necessità per la democrazia italiana (pena la perdita di ogni sua vitalità) che il sistema politico riacquisti autonomia e indipendenza rispetto al fenomeno grandioso dell’ultimo mezzo secolo. Questo fenomeno non è Monti. È l’avvento, alla testa della mondializzazione, di un potere di portata globale che si è eretto al di sopra di tutto secondo il vecchio aforisma «i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in tv a farsi sbeffeggiare».
Perché ci stupiamo per l’avvento al potere in Italia di uno straordinario show-man come Berlusconi? Sottolineo questo “prima”. È il mondo reale che ci sfida. E qui sta la ragione per cui un partito che pone alla sua base la questione della democrazia ha il dovere di fare i conti con ciò che in questi anni ha colpito profondamente proprio la ragion d’essere della democrazia (il pensiero “unico” secondo cui di essa non c’è più bisogno, perché sono i mercati che governano perché si autoregolano e sono «razionali»). Dunque, diciamo tutto il male possibile dei partiti ma di essi non si può fare a meno perché – se riformati – sono essi lo strumento del pluralismo degli interessi e delle idee. La loro funzione è quella di “ascensori sociali”, cioè di luoghi dove si affermano i diritti di cittadinanza, quali che siano i soldi di ciascuno. Ma soprattutto dove possono fare politica e ascendere ai posti di comando anche i poveri e le classi subalterne. Il salotto di Vespa non è l’alternativa, e quando ci interroghiamo sul perché della decadenza dell’Italia dovremmo riflettere anche sul fatto che è diventato quasi impossibile mandare in Parlamento un operaio.
Monti non c’entra niente. Si tranquillizzi Repubblica. Non è lui che ci sfida. È il cambiamento del mondo. Il più grande dopo secoli. Non tornerò a descrivere le decisioni fatali della Thatcher e di Reagan in conseguenza delle quali si pose fine al patto democratico tra il capitalismo industriale e il mondo del lavoro e, di fatto, si rinunciò a costruire la società del benessere. Questo è accaduto. Ed è per me molto triste vedere gente che si dice di sinistra e che non osa nemmeno pensare che una società non regge se l’uno per cento di essa diventa sempre più ricco e il novantanove sempre più povero. E che il mondo diventa ingovernabile se la finanza viene trasformata da infrastruttura dell’economia reale a un enorme potere autonomo che batte moneta fittizia e fa soldi mangiandosi l’economia reale.
Torno così alla necessità per l’Italia non solo di un risanamento ma di una ricostruzione. Ci rendiamo conto di cosa significa? Non si va in Europa con una distanza tra Nord e Sud diventata ormai abissale (quasi due Paesi) o senza dare una nuova base sociale e un nuovo terreno etico-politico su cui poggiare un rinnovato patto di cittadinanza, vivendo noi in uno strano Paese dove lo strato dominante guadagna quasi il doppio dei suoi omologhi tedeschi o francesi mentre i salari e gli stipendi sono inferiori del 30 per cento.
Pensare alla necessità per il dopo Monti di un governo forte che tragga la sua forza da una maggioranza politica e parlamentare coesa, a me sembra un dovere politico e morale. Non parla in me l’esponente di quella cosa così disprezzabile che è un partito. La mia vera preoccupazione è un’altra. Se il Pd non svolge questo ruolo io non so se il Paese, travolto dalla crisi, tiene oppure si disgrega. I tecnici non basteranno.

L’Unità 14.03.12

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«È vero, dobbiamo guardare ai delusi della sinistra». Intervista a Pippo Civati di Maria Zegarelli

Il consigliere regionale del Pd lombardo: «Franceschini ha ragione, ma facciamo una fatica del diavolo a parlare con queste realtà». C’è una fetta di astensionismo, di elettori delusi, di persone che guardano al movimento Cinque stelle:è a loro che il Pd deve parlare». Pippo Civati, consigliere regionale in Lombardia, entra nel dibattito aperto da l’Unità sulle alleanze future per il post-Monti e critica anche la foto di Vasto: «Mi sembra statica, superata, andrebbe modernizzata». Quanto alla formula «alleanza tra progressisti e forze moderate», qualche dubbio ce l’ha. «Chi sono i moderati?», chiede provocatoriamente.
Civati, Franceschini sostiene che il Pd debba guardare a quel potenziale 25% che sta alla sua sinistra. Letta, Fioroni, per citarne due, sono più cauti. Lei? «Ha ragione Franceschini e quella prateria è composta da chi è deluso dalla politica, da chi vorrebbe astenersi, da chi guarda al movimento di Grillo e da una parte dei movimenti che durante il 2011 hanno riempito le piazze. Il problema è che il Pd fa una fatica del diavolo a parlare con queste realtà, l’ultimo episodio è stato la gestione della manifestazione della Fiom con quel “vado, non vado”».
È stato un errore non andare?
«È stato un errore non mandare una delegazione ad ascoltare quello che chiedeva quella piazza. Riformare il mercato del lavoro non vuol dire dimenticare i giusti temi del conflitto sociale delle fabbriche o le questioni di democrazia che la Fiom poneva». Lei dice che nel suo partito non si riesce a parlare a quella prateria. Perché? «Per poter entrare in contatto c’è un’anticamera che bisogna superare rappresentata dai costi della politica, dal sistema elettorale e dai meccanismi di partecipazione. Non è un caso che Bersani nel suo volantino del viaggio nel paese abbia messo proprio questi temi, gli stessi che io ripeto da parecchio tempo. Le questioni ambientali e i diritti sono gli argomenti di cui vogliono sentir parlare tutti coloro che oggi guardano altrove. C’è bisogno di parole chiare, nette e precise e purtroppo non ne sono venute».
Non dipenderà anche dal tasso di alta litigiosità interna?
«Dovremmo incominciare a mettere da parte la litigiosità e iniziare a praticare il pluralismo che significa prendere alcune posizioni, che non sono attualmente rappresentate, e dargli visibilità, anche quando non vengono dalla segreteria. Una volta Bersani mi disse che una minoranza può diventare maggioranza ma non se passa il tempo a stressare la maggioranza. C’è bisogno di proposte serie, precise, di qualità».
Lei con l’iniziativa di Bologna, “Il nostro tempo”, ha fatto delle proposte. Sono state accolte, oppure sono rimaste lettera morta?
«Devo dire che alcune nostre proposte sono state fatte proprie dal partito, anche se nessuno oggi dice da dove sono venute ed è un peccato perché sarebbe un modo per riconoscere il pluralismo. Una delle proposte che facemmo in quella sede riguardava le primarie per i parlamentari ed è stata affrontata anche dall’assemblea nazionale, come quella di un legge sulla corruzione, che recentemente abbiamo ripreso a Canossa con Stefano Rodotà». Franceschini ha ribadito quella che è anche la linea del segretario: una alleanza tra progressisti e forze moderate. La ritiene possibile una coalizione che va da Casini a Vendola? «Intanto bisognerebbe avere il coraggio di modernizzare la foto di Vasto, come dice lo stesso Vendola, perché mi sembra molto statica e legata alle sigle dei partiti. Dovrebbe essere aperta ai ceti produttivi, alle donne, alla società civile. Insomma, bisognerebbe metterci un po’ di elettori veri più che di leader. Poi, e arriviamo ai moderati, mi chiedo chi siano oggi le forze moderate».
Casini, Rutelli, il cosiddetto Terzo Polo. Di questo stiamo parlando.
«Io non sono affezionato a Vasto, ma vorrei capire se estendere l’alleanza ai moderati non si traduca in un corto circuito. Il Pd su che cosa vuole costruire l’alleanza? Quali sono i dieci punti su cui ha un progetto e un programma? Da qui si deve partire, da quello che abbiamo in mente di fare durante la prossima legislatura».
Lei non ha mai citato l’Idv. Perché?
«Se Di Pietro vuole stare in coalizione con noi deve prendersi degli impegni, la deve piantare di lavorare sulle nostre difficoltà. Ma devo dire che si fatica a trovare luoghi parlamentari o extraparlamentari per parlare di queste cose».
Civati, che ne pensa dell’eterna discussione sulla leadership?
«Ho sentito almeno quindici nomi diversi negli ultimi tempi. Mi sembra che ci siano grandi velleità al riguardo mentre sarebbe meglio deciderlo sulla base di un decalogo di priorità per un programma di governo».
Lei quali metterebbe nell’elenco?
«Credo che al primo posto ci debba essere, per una coalizione di centrosinistra, la riduzione delle diseguaglianze insieme alla possibilità di orientare il sistema produttivo, là dove serve. Se si lavora su questo la gente capisce cosa vuoi dire, se parli del rilancio selettivo dell’economia, nei settori strategici, dalla ricerca all’innovazione, gli elettori riconoscono quello che hai in testa di fare».

L’Unità 14.03.12

“Il dovere del dopo Monti”, Alfredo Reichlin

Contro il rischio di disgregazione occorre un nuovo patto di cittadinanza Compito della politica non è il semplice risanamento, ma la ricostruzione. La situazione è difficile. Parlare chiaro alla gente e riconquistarne la fiducia è condizione essenziale per reggerla. È tempo di cancellare l’immagine che si cerca di dare del Pd: un partito ondivago e perennemente diviso. È chiaro che criticare gli atti e le scelte di questo partito è del tutto lecito. È la lotta politica, ed è il sale della democrazia. Però alla condizione che i termini dei dissensi e della lotta siano chiari.
Il Pd è un partito vero: forse, oggi, il solo in Italia. È fatto di donne e di uomini che si sono riuniti in buon numero sotto questa insegna in ragione di idee e di passioni. In più noi siamo un pezzo – direi perfino una condizione – della tenuta della struttura democratica e istituzionale del Paese. Siamo usciti vittoriosi dalla lotta contro la destra populista berlusconiana. I partiti non sono tutti uguali. Noi il governo Monti lo abbiamo voluto, altri l’hanno subito e non sanno dove andare.
Dunque, smettiamola di inventare problemi politici che non esistono. La famosa «foto di Vasto». Anche le primarie vinte a Milano da Pisapia erano una foto di Vasto? La politica non è riducibile a questi piccoli giochi. È (come si vide anche a Milano) nuove idee e bisogni di libertà, è spostamento di masse, è sommovimento sociale. È insomma ciò che riunì una folla felice di borghesi e di proletari in piazza del Duomo. È l’incontro del partito con la società civile e i movimenti.
Ciò che mi spinge a scrivere è questa preoccupazione: non che ci dividiamo, ma che ci dividiamo sul nulla. Che stiamo altrove rispetto a ciò che sconvolge la vita della gente, che non abbiamo il senso della grandezza e drammaticità dei problemi che sfidano un partito che si dice democratico e che si propone al Paese come il perno di una grande alleanza riformista. Questa alleanza non può ridursi a una alchimia politica (tanto di Vendola e tanto di Casini, e poi agitare prima dell’uso). Per funzionare richiede bel altro. È lo sforzo di organizzare una maggioranza di forze reali in funzione non di un qualche disegno di corrente ma della necessità di dare gambe a un progetto di ricostruzione del Paese. Perché di questo si tratta. Di una impresa molto grande e molto ardua: fermare la decadenza in atto ormai da anni del Paese. Ma è evidente che un simile disegno può riuscire a una sola condizione: che si avvii un risveglio e una mobilitazione, anche intellettuale e morale, delle nostre risorse più profonde, che si faccia leva sul lavoro, sull’ingegno e sulla creatività degli italiani.
Tutto ciò non è affatto in contraddizione con l’appoggio al governo Monti. Di ricostruzione oggi non potremmo nemmeno parlare se, grazie anche (non solo) all’opera di quello straordinario personaggio che è Monti, e senza l’intelligenza del Presidente della Repubblica, noi questo Paese non l’avessimo salvato da una catastrofe incombente. E se non l’avessimo riportato là dove si possono prendere le grandi decisioni, le sole che possono segnare una svolta: l’Europa e la sua possibile costruzione come soggetto politico globale, quindi come attore della lotta per imporre un nuovo ordine mondiale dopo i guasti e il fallimento di questa folle economia finanziaria.
C’è del vero nel dire che dopo Monti «nulla sarà come prima». Ma ciò nel senso che sono accadute cose tali in Italia e in Europa e nel mondo per cui è molto riduttivo pensare che con le elezioni si chiuderà una parentesi e torneranno sulla scena i vecchi partiti di prima.
Il Pd è però una cosa nuova e diversa, e così si deve presentare alla gente. Ha un disegno nazionale, un’etica politica e un patrimonio ideale. Ma la forza del Pd consiste anche nella necessità per la democrazia italiana (pena la perdita di ogni sua vitalità) che il sistema politico riacquisti autonomia e indipendenza rispetto al fenomeno grandioso dell’ultimo mezzo secolo. Questo fenomeno non è Monti. È l’avvento, alla testa della mondializzazione, di un potere di portata globale che si è eretto al di sopra di tutto secondo il vecchio aforisma «i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in tv a farsi sbeffeggiare».
Perché ci stupiamo per l’avvento al potere in Italia di uno straordinario show-man come Berlusconi? Sottolineo questo “prima”. È il mondo reale che ci sfida. E qui sta la ragione per cui un partito che pone alla sua base la questione della democrazia ha il dovere di fare i conti con ciò che in questi anni ha colpito profondamente proprio la ragion d’essere della democrazia (il pensiero “unico” secondo cui di essa non c’è più bisogno, perché sono i mercati che governano perché si autoregolano e sono «razionali»). Dunque, diciamo tutto il male possibile dei partiti ma di essi non si può fare a meno perché – se riformati – sono essi lo strumento del pluralismo degli interessi e delle idee. La loro funzione è quella di “ascensori sociali”, cioè di luoghi dove si affermano i diritti di cittadinanza, quali che siano i soldi di ciascuno. Ma soprattutto dove possono fare politica e ascendere ai posti di comando anche i poveri e le classi subalterne. Il salotto di Vespa non è l’alternativa, e quando ci interroghiamo sul perché della decadenza dell’Italia dovremmo riflettere anche sul fatto che è diventato quasi impossibile mandare in Parlamento un operaio.
Monti non c’entra niente. Si tranquillizzi Repubblica. Non è lui che ci sfida. È il cambiamento del mondo. Il più grande dopo secoli. Non tornerò a descrivere le decisioni fatali della Thatcher e di Reagan in conseguenza delle quali si pose fine al patto democratico tra il capitalismo industriale e il mondo del lavoro e, di fatto, si rinunciò a costruire la società del benessere. Questo è accaduto. Ed è per me molto triste vedere gente che si dice di sinistra e che non osa nemmeno pensare che una società non regge se l’uno per cento di essa diventa sempre più ricco e il novantanove sempre più povero. E che il mondo diventa ingovernabile se la finanza viene trasformata da infrastruttura dell’economia reale a un enorme potere autonomo che batte moneta fittizia e fa soldi mangiandosi l’economia reale.
Torno così alla necessità per l’Italia non solo di un risanamento ma di una ricostruzione. Ci rendiamo conto di cosa significa? Non si va in Europa con una distanza tra Nord e Sud diventata ormai abissale (quasi due Paesi) o senza dare una nuova base sociale e un nuovo terreno etico-politico su cui poggiare un rinnovato patto di cittadinanza, vivendo noi in uno strano Paese dove lo strato dominante guadagna quasi il doppio dei suoi omologhi tedeschi o francesi mentre i salari e gli stipendi sono inferiori del 30 per cento.
Pensare alla necessità per il dopo Monti di un governo forte che tragga la sua forza da una maggioranza politica e parlamentare coesa, a me sembra un dovere politico e morale. Non parla in me l’esponente di quella cosa così disprezzabile che è un partito. La mia vera preoccupazione è un’altra. Se il Pd non svolge questo ruolo io non so se il Paese, travolto dalla crisi, tiene oppure si disgrega. I tecnici non basteranno.

L’Unità 14.03.12

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«È vero, dobbiamo guardare ai delusi della sinistra». Intervista a Pippo Civati di Maria Zegarelli

Il consigliere regionale del Pd lombardo: «Franceschini ha ragione, ma facciamo una fatica del diavolo a parlare con queste realtà». C’è una fetta di astensionismo, di elettori delusi, di persone che guardano al movimento Cinque stelle:è a loro che il Pd deve parlare». Pippo Civati, consigliere regionale in Lombardia, entra nel dibattito aperto da l’Unità sulle alleanze future per il post-Monti e critica anche la foto di Vasto: «Mi sembra statica, superata, andrebbe modernizzata». Quanto alla formula «alleanza tra progressisti e forze moderate», qualche dubbio ce l’ha. «Chi sono i moderati?», chiede provocatoriamente.
Civati, Franceschini sostiene che il Pd debba guardare a quel potenziale 25% che sta alla sua sinistra. Letta, Fioroni, per citarne due, sono più cauti. Lei? «Ha ragione Franceschini e quella prateria è composta da chi è deluso dalla politica, da chi vorrebbe astenersi, da chi guarda al movimento di Grillo e da una parte dei movimenti che durante il 2011 hanno riempito le piazze. Il problema è che il Pd fa una fatica del diavolo a parlare con queste realtà, l’ultimo episodio è stato la gestione della manifestazione della Fiom con quel “vado, non vado”».
È stato un errore non andare?
«È stato un errore non mandare una delegazione ad ascoltare quello che chiedeva quella piazza. Riformare il mercato del lavoro non vuol dire dimenticare i giusti temi del conflitto sociale delle fabbriche o le questioni di democrazia che la Fiom poneva». Lei dice che nel suo partito non si riesce a parlare a quella prateria. Perché? «Per poter entrare in contatto c’è un’anticamera che bisogna superare rappresentata dai costi della politica, dal sistema elettorale e dai meccanismi di partecipazione. Non è un caso che Bersani nel suo volantino del viaggio nel paese abbia messo proprio questi temi, gli stessi che io ripeto da parecchio tempo. Le questioni ambientali e i diritti sono gli argomenti di cui vogliono sentir parlare tutti coloro che oggi guardano altrove. C’è bisogno di parole chiare, nette e precise e purtroppo non ne sono venute».
Non dipenderà anche dal tasso di alta litigiosità interna?
«Dovremmo incominciare a mettere da parte la litigiosità e iniziare a praticare il pluralismo che significa prendere alcune posizioni, che non sono attualmente rappresentate, e dargli visibilità, anche quando non vengono dalla segreteria. Una volta Bersani mi disse che una minoranza può diventare maggioranza ma non se passa il tempo a stressare la maggioranza. C’è bisogno di proposte serie, precise, di qualità».
Lei con l’iniziativa di Bologna, “Il nostro tempo”, ha fatto delle proposte. Sono state accolte, oppure sono rimaste lettera morta?
«Devo dire che alcune nostre proposte sono state fatte proprie dal partito, anche se nessuno oggi dice da dove sono venute ed è un peccato perché sarebbe un modo per riconoscere il pluralismo. Una delle proposte che facemmo in quella sede riguardava le primarie per i parlamentari ed è stata affrontata anche dall’assemblea nazionale, come quella di un legge sulla corruzione, che recentemente abbiamo ripreso a Canossa con Stefano Rodotà». Franceschini ha ribadito quella che è anche la linea del segretario: una alleanza tra progressisti e forze moderate. La ritiene possibile una coalizione che va da Casini a Vendola? «Intanto bisognerebbe avere il coraggio di modernizzare la foto di Vasto, come dice lo stesso Vendola, perché mi sembra molto statica e legata alle sigle dei partiti. Dovrebbe essere aperta ai ceti produttivi, alle donne, alla società civile. Insomma, bisognerebbe metterci un po’ di elettori veri più che di leader. Poi, e arriviamo ai moderati, mi chiedo chi siano oggi le forze moderate».
Casini, Rutelli, il cosiddetto Terzo Polo. Di questo stiamo parlando.
«Io non sono affezionato a Vasto, ma vorrei capire se estendere l’alleanza ai moderati non si traduca in un corto circuito. Il Pd su che cosa vuole costruire l’alleanza? Quali sono i dieci punti su cui ha un progetto e un programma? Da qui si deve partire, da quello che abbiamo in mente di fare durante la prossima legislatura».
Lei non ha mai citato l’Idv. Perché?
«Se Di Pietro vuole stare in coalizione con noi deve prendersi degli impegni, la deve piantare di lavorare sulle nostre difficoltà. Ma devo dire che si fatica a trovare luoghi parlamentari o extraparlamentari per parlare di queste cose».
Civati, che ne pensa dell’eterna discussione sulla leadership?
«Ho sentito almeno quindici nomi diversi negli ultimi tempi. Mi sembra che ci siano grandi velleità al riguardo mentre sarebbe meglio deciderlo sulla base di un decalogo di priorità per un programma di governo».
Lei quali metterebbe nell’elenco?
«Credo che al primo posto ci debba essere, per una coalizione di centrosinistra, la riduzione delle diseguaglianze insieme alla possibilità di orientare il sistema produttivo, là dove serve. Se si lavora su questo la gente capisce cosa vuoi dire, se parli del rilancio selettivo dell’economia, nei settori strategici, dalla ricerca all’innovazione, gli elettori riconoscono quello che hai in testa di fare».

L’Unità 14.03.12

"Roma capitale. Una bomba a orologeria", di Luca Del Fra

L’iter di conversione in legge del Decreto su Roma capitale –ufficialmente da scrivere con ‘c’ minuscola–, alla Commissione bicamerale ha aspetti singolari e sta producendo una bomba a orologeria pronta a esplodere sul patrimonio artistico, archeologico, architettonico capitolino. Tanto che l’onorevole La Loggia, presidente della stessa bicamerale, convoca per un’audizione Roberto Cecchi, sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali.
Ambiguo in molte sue parti, il provvedimento presenta anche degli evidenti profili di incostituzionalità proprio riguardo ai beni culturali: il più eclatante è l’affidamento della loro tutela al Comune di Roma. Ma la Costituzione e la legge 42 del 2004 prevedono sia lo Stato a occuparsene. È un fatto assai grave, denunciato dai giornali a partire da l’Unità, ribadito in Commissione da Andrea Carandini, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, sottolineato perfino dalla Commissione affari costituzionali del Senato. Eppure, se si scorrono i verbali della Commissione Bicamerale, di fronte a tanta enormità si trova solo la riserva dell’onorevole Marco Causi (Pd), corelatore del disegno di legge, e un’alzata di sopracciglio della Lega. Così il decreto creerà molte occasioni di lavoro: almeno un decennio di ricorsi alla Corte Costituzionale. Pur avendo assistito ai lavori della Commissione senza mai intervenire sull’argomento, Cecchi stavolta ha l’occasione di smentire le pesanti critiche dei media nei confronti suoi e del ministro Ornaghi, se saprà dire una parola chiara e ineludibile, dimostrando che il nostro patrimonio culturale non è merce di scambio. Perché in fondo è questo l’attuale decreto su Roma capitale: a un Comune entrato nel panico per pochi centimetri di neve affida competenze di protezione civile, e ulteriori immobili–la Eur Spa– a una amministrazione in perpetuo affanno sulla presentazione del bilancio e soggetta a continui scandali clientelari, dall’Atac al demanio comunale. Per tacere del resto.

L’Unità 14.03.12

“Roma capitale. Una bomba a orologeria”, di Luca Del Fra

L’iter di conversione in legge del Decreto su Roma capitale –ufficialmente da scrivere con ‘c’ minuscola–, alla Commissione bicamerale ha aspetti singolari e sta producendo una bomba a orologeria pronta a esplodere sul patrimonio artistico, archeologico, architettonico capitolino. Tanto che l’onorevole La Loggia, presidente della stessa bicamerale, convoca per un’audizione Roberto Cecchi, sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali.
Ambiguo in molte sue parti, il provvedimento presenta anche degli evidenti profili di incostituzionalità proprio riguardo ai beni culturali: il più eclatante è l’affidamento della loro tutela al Comune di Roma. Ma la Costituzione e la legge 42 del 2004 prevedono sia lo Stato a occuparsene. È un fatto assai grave, denunciato dai giornali a partire da l’Unità, ribadito in Commissione da Andrea Carandini, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, sottolineato perfino dalla Commissione affari costituzionali del Senato. Eppure, se si scorrono i verbali della Commissione Bicamerale, di fronte a tanta enormità si trova solo la riserva dell’onorevole Marco Causi (Pd), corelatore del disegno di legge, e un’alzata di sopracciglio della Lega. Così il decreto creerà molte occasioni di lavoro: almeno un decennio di ricorsi alla Corte Costituzionale. Pur avendo assistito ai lavori della Commissione senza mai intervenire sull’argomento, Cecchi stavolta ha l’occasione di smentire le pesanti critiche dei media nei confronti suoi e del ministro Ornaghi, se saprà dire una parola chiara e ineludibile, dimostrando che il nostro patrimonio culturale non è merce di scambio. Perché in fondo è questo l’attuale decreto su Roma capitale: a un Comune entrato nel panico per pochi centimetri di neve affida competenze di protezione civile, e ulteriori immobili–la Eur Spa– a una amministrazione in perpetuo affanno sulla presentazione del bilancio e soggetta a continui scandali clientelari, dall’Atac al demanio comunale. Per tacere del resto.

L’Unità 14.03.12