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"Il dovere del dopo Monti", Alfredo Reichlin

Contro il rischio di disgregazione occorre un nuovo patto di cittadinanza Compito della politica non è il semplice risanamento, ma la ricostruzione. La situazione è difficile. Parlare chiaro alla gente e riconquistarne la fiducia è condizione essenziale per reggerla. È tempo di cancellare l’immagine che si cerca di dare del Pd: un partito ondivago e perennemente diviso. È chiaro che criticare gli atti e le scelte di questo partito è del tutto lecito. È la lotta politica, ed è il sale della democrazia. Però alla condizione che i termini dei dissensi e della lotta siano chiari.
Il Pd è un partito vero: forse, oggi, il solo in Italia. È fatto di donne e di uomini che si sono riuniti in buon numero sotto questa insegna in ragione di idee e di passioni. In più noi siamo un pezzo – direi perfino una condizione – della tenuta della struttura democratica e istituzionale del Paese. Siamo usciti vittoriosi dalla lotta contro la destra populista berlusconiana. I partiti non sono tutti uguali. Noi il governo Monti lo abbiamo voluto, altri l’hanno subito e non sanno dove andare.
Dunque, smettiamola di inventare problemi politici che non esistono. La famosa «foto di Vasto». Anche le primarie vinte a Milano da Pisapia erano una foto di Vasto? La politica non è riducibile a questi piccoli giochi. È (come si vide anche a Milano) nuove idee e bisogni di libertà, è spostamento di masse, è sommovimento sociale. È insomma ciò che riunì una folla felice di borghesi e di proletari in piazza del Duomo. È l’incontro del partito con la società civile e i movimenti.
Ciò che mi spinge a scrivere è questa preoccupazione: non che ci dividiamo, ma che ci dividiamo sul nulla. Che stiamo altrove rispetto a ciò che sconvolge la vita della gente, che non abbiamo il senso della grandezza e drammaticità dei problemi che sfidano un partito che si dice democratico e che si propone al Paese come il perno di una grande alleanza riformista. Questa alleanza non può ridursi a una alchimia politica (tanto di Vendola e tanto di Casini, e poi agitare prima dell’uso). Per funzionare richiede bel altro. È lo sforzo di organizzare una maggioranza di forze reali in funzione non di un qualche disegno di corrente ma della necessità di dare gambe a un progetto di ricostruzione del Paese. Perché di questo si tratta. Di una impresa molto grande e molto ardua: fermare la decadenza in atto ormai da anni del Paese. Ma è evidente che un simile disegno può riuscire a una sola condizione: che si avvii un risveglio e una mobilitazione, anche intellettuale e morale, delle nostre risorse più profonde, che si faccia leva sul lavoro, sull’ingegno e sulla creatività degli italiani.
Tutto ciò non è affatto in contraddizione con l’appoggio al governo Monti. Di ricostruzione oggi non potremmo nemmeno parlare se, grazie anche (non solo) all’opera di quello straordinario personaggio che è Monti, e senza l’intelligenza del Presidente della Repubblica, noi questo Paese non l’avessimo salvato da una catastrofe incombente. E se non l’avessimo riportato là dove si possono prendere le grandi decisioni, le sole che possono segnare una svolta: l’Europa e la sua possibile costruzione come soggetto politico globale, quindi come attore della lotta per imporre un nuovo ordine mondiale dopo i guasti e il fallimento di questa folle economia finanziaria.
C’è del vero nel dire che dopo Monti «nulla sarà come prima». Ma ciò nel senso che sono accadute cose tali in Italia e in Europa e nel mondo per cui è molto riduttivo pensare che con le elezioni si chiuderà una parentesi e torneranno sulla scena i vecchi partiti di prima.
Il Pd è però una cosa nuova e diversa, e così si deve presentare alla gente. Ha un disegno nazionale, un’etica politica e un patrimonio ideale. Ma la forza del Pd consiste anche nella necessità per la democrazia italiana (pena la perdita di ogni sua vitalità) che il sistema politico riacquisti autonomia e indipendenza rispetto al fenomeno grandioso dell’ultimo mezzo secolo. Questo fenomeno non è Monti. È l’avvento, alla testa della mondializzazione, di un potere di portata globale che si è eretto al di sopra di tutto secondo il vecchio aforisma «i mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in tv a farsi sbeffeggiare».
Perché ci stupiamo per l’avvento al potere in Italia di uno straordinario show-man come Berlusconi? Sottolineo questo “prima”. È il mondo reale che ci sfida. E qui sta la ragione per cui un partito che pone alla sua base la questione della democrazia ha il dovere di fare i conti con ciò che in questi anni ha colpito profondamente proprio la ragion d’essere della democrazia (il pensiero “unico” secondo cui di essa non c’è più bisogno, perché sono i mercati che governano perché si autoregolano e sono «razionali»). Dunque, diciamo tutto il male possibile dei partiti ma di essi non si può fare a meno perché – se riformati – sono essi lo strumento del pluralismo degli interessi e delle idee. La loro funzione è quella di “ascensori sociali”, cioè di luoghi dove si affermano i diritti di cittadinanza, quali che siano i soldi di ciascuno. Ma soprattutto dove possono fare politica e ascendere ai posti di comando anche i poveri e le classi subalterne. Il salotto di Vespa non è l’alternativa, e quando ci interroghiamo sul perché della decadenza dell’Italia dovremmo riflettere anche sul fatto che è diventato quasi impossibile mandare in Parlamento un operaio.
Monti non c’entra niente. Si tranquillizzi Repubblica. Non è lui che ci sfida. È il cambiamento del mondo. Il più grande dopo secoli. Non tornerò a descrivere le decisioni fatali della Thatcher e di Reagan in conseguenza delle quali si pose fine al patto democratico tra il capitalismo industriale e il mondo del lavoro e, di fatto, si rinunciò a costruire la società del benessere. Questo è accaduto. Ed è per me molto triste vedere gente che si dice di sinistra e che non osa nemmeno pensare che una società non regge se l’uno per cento di essa diventa sempre più ricco e il novantanove sempre più povero. E che il mondo diventa ingovernabile se la finanza viene trasformata da infrastruttura dell’economia reale a un enorme potere autonomo che batte moneta fittizia e fa soldi mangiandosi l’economia reale.
Torno così alla necessità per l’Italia non solo di un risanamento ma di una ricostruzione. Ci rendiamo conto di cosa significa? Non si va in Europa con una distanza tra Nord e Sud diventata ormai abissale (quasi due Paesi) o senza dare una nuova base sociale e un nuovo terreno etico-politico su cui poggiare un rinnovato patto di cittadinanza, vivendo noi in uno strano Paese dove lo strato dominante guadagna quasi il doppio dei suoi omologhi tedeschi o francesi mentre i salari e gli stipendi sono inferiori del 30 per cento.
Pensare alla necessità per il dopo Monti di un governo forte che tragga la sua forza da una maggioranza politica e parlamentare coesa, a me sembra un dovere politico e morale. Non parla in me l’esponente di quella cosa così disprezzabile che è un partito. La mia vera preoccupazione è un’altra. Se il Pd non svolge questo ruolo io non so se il Paese, travolto dalla crisi, tiene oppure si disgrega. I tecnici non basteranno.

L’Unità 14.03.12

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«È vero, dobbiamo guardare ai delusi della sinistra». Intervista a Pippo Civati di Maria Zegarelli

Il consigliere regionale del Pd lombardo: «Franceschini ha ragione, ma facciamo una fatica del diavolo a parlare con queste realtà». C’è una fetta di astensionismo, di elettori delusi, di persone che guardano al movimento Cinque stelle:è a loro che il Pd deve parlare». Pippo Civati, consigliere regionale in Lombardia, entra nel dibattito aperto da l’Unità sulle alleanze future per il post-Monti e critica anche la foto di Vasto: «Mi sembra statica, superata, andrebbe modernizzata». Quanto alla formula «alleanza tra progressisti e forze moderate», qualche dubbio ce l’ha. «Chi sono i moderati?», chiede provocatoriamente.
Civati, Franceschini sostiene che il Pd debba guardare a quel potenziale 25% che sta alla sua sinistra. Letta, Fioroni, per citarne due, sono più cauti. Lei? «Ha ragione Franceschini e quella prateria è composta da chi è deluso dalla politica, da chi vorrebbe astenersi, da chi guarda al movimento di Grillo e da una parte dei movimenti che durante il 2011 hanno riempito le piazze. Il problema è che il Pd fa una fatica del diavolo a parlare con queste realtà, l’ultimo episodio è stato la gestione della manifestazione della Fiom con quel “vado, non vado”».
È stato un errore non andare?
«È stato un errore non mandare una delegazione ad ascoltare quello che chiedeva quella piazza. Riformare il mercato del lavoro non vuol dire dimenticare i giusti temi del conflitto sociale delle fabbriche o le questioni di democrazia che la Fiom poneva». Lei dice che nel suo partito non si riesce a parlare a quella prateria. Perché? «Per poter entrare in contatto c’è un’anticamera che bisogna superare rappresentata dai costi della politica, dal sistema elettorale e dai meccanismi di partecipazione. Non è un caso che Bersani nel suo volantino del viaggio nel paese abbia messo proprio questi temi, gli stessi che io ripeto da parecchio tempo. Le questioni ambientali e i diritti sono gli argomenti di cui vogliono sentir parlare tutti coloro che oggi guardano altrove. C’è bisogno di parole chiare, nette e precise e purtroppo non ne sono venute».
Non dipenderà anche dal tasso di alta litigiosità interna?
«Dovremmo incominciare a mettere da parte la litigiosità e iniziare a praticare il pluralismo che significa prendere alcune posizioni, che non sono attualmente rappresentate, e dargli visibilità, anche quando non vengono dalla segreteria. Una volta Bersani mi disse che una minoranza può diventare maggioranza ma non se passa il tempo a stressare la maggioranza. C’è bisogno di proposte serie, precise, di qualità».
Lei con l’iniziativa di Bologna, “Il nostro tempo”, ha fatto delle proposte. Sono state accolte, oppure sono rimaste lettera morta?
«Devo dire che alcune nostre proposte sono state fatte proprie dal partito, anche se nessuno oggi dice da dove sono venute ed è un peccato perché sarebbe un modo per riconoscere il pluralismo. Una delle proposte che facemmo in quella sede riguardava le primarie per i parlamentari ed è stata affrontata anche dall’assemblea nazionale, come quella di un legge sulla corruzione, che recentemente abbiamo ripreso a Canossa con Stefano Rodotà». Franceschini ha ribadito quella che è anche la linea del segretario: una alleanza tra progressisti e forze moderate. La ritiene possibile una coalizione che va da Casini a Vendola? «Intanto bisognerebbe avere il coraggio di modernizzare la foto di Vasto, come dice lo stesso Vendola, perché mi sembra molto statica e legata alle sigle dei partiti. Dovrebbe essere aperta ai ceti produttivi, alle donne, alla società civile. Insomma, bisognerebbe metterci un po’ di elettori veri più che di leader. Poi, e arriviamo ai moderati, mi chiedo chi siano oggi le forze moderate».
Casini, Rutelli, il cosiddetto Terzo Polo. Di questo stiamo parlando.
«Io non sono affezionato a Vasto, ma vorrei capire se estendere l’alleanza ai moderati non si traduca in un corto circuito. Il Pd su che cosa vuole costruire l’alleanza? Quali sono i dieci punti su cui ha un progetto e un programma? Da qui si deve partire, da quello che abbiamo in mente di fare durante la prossima legislatura».
Lei non ha mai citato l’Idv. Perché?
«Se Di Pietro vuole stare in coalizione con noi deve prendersi degli impegni, la deve piantare di lavorare sulle nostre difficoltà. Ma devo dire che si fatica a trovare luoghi parlamentari o extraparlamentari per parlare di queste cose».
Civati, che ne pensa dell’eterna discussione sulla leadership?
«Ho sentito almeno quindici nomi diversi negli ultimi tempi. Mi sembra che ci siano grandi velleità al riguardo mentre sarebbe meglio deciderlo sulla base di un decalogo di priorità per un programma di governo».
Lei quali metterebbe nell’elenco?
«Credo che al primo posto ci debba essere, per una coalizione di centrosinistra, la riduzione delle diseguaglianze insieme alla possibilità di orientare il sistema produttivo, là dove serve. Se si lavora su questo la gente capisce cosa vuoi dire, se parli del rilancio selettivo dell’economia, nei settori strategici, dalla ricerca all’innovazione, gli elettori riconoscono quello che hai in testa di fare».

L’Unità 14.03.12