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“Roma capitale. Una bomba a orologeria”, di Luca Del Fra

L’iter di conversione in legge del Decreto su Roma capitale –ufficialmente da scrivere con ‘c’ minuscola–, alla Commissione bicamerale ha aspetti singolari e sta producendo una bomba a orologeria pronta a esplodere sul patrimonio artistico, archeologico, architettonico capitolino. Tanto che l’onorevole La Loggia, presidente della stessa bicamerale, convoca per un’audizione Roberto Cecchi, sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali.
Ambiguo in molte sue parti, il provvedimento presenta anche degli evidenti profili di incostituzionalità proprio riguardo ai beni culturali: il più eclatante è l’affidamento della loro tutela al Comune di Roma. Ma la Costituzione e la legge 42 del 2004 prevedono sia lo Stato a occuparsene. È un fatto assai grave, denunciato dai giornali a partire da l’Unità, ribadito in Commissione da Andrea Carandini, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, sottolineato perfino dalla Commissione affari costituzionali del Senato. Eppure, se si scorrono i verbali della Commissione Bicamerale, di fronte a tanta enormità si trova solo la riserva dell’onorevole Marco Causi (Pd), corelatore del disegno di legge, e un’alzata di sopracciglio della Lega. Così il decreto creerà molte occasioni di lavoro: almeno un decennio di ricorsi alla Corte Costituzionale. Pur avendo assistito ai lavori della Commissione senza mai intervenire sull’argomento, Cecchi stavolta ha l’occasione di smentire le pesanti critiche dei media nei confronti suoi e del ministro Ornaghi, se saprà dire una parola chiara e ineludibile, dimostrando che il nostro patrimonio culturale non è merce di scambio. Perché in fondo è questo l’attuale decreto su Roma capitale: a un Comune entrato nel panico per pochi centimetri di neve affida competenze di protezione civile, e ulteriori immobili–la Eur Spa– a una amministrazione in perpetuo affanno sulla presentazione del bilancio e soggetta a continui scandali clientelari, dall’Atac al demanio comunale. Per tacere del resto.

L’Unità 14.03.12

I sindacati: «Ora le nuove regole sul reclutamento», di Claudio Tucci

Il via libera del Tesoro, dopo quello di Palazzo Vidoni, farà partire entro giugno le prove preselettive per formare (probabilmente tra un anno) 20mila nuovi abilitati all’insegnamento a medie e superiori. Tutto questo mentre Viale Trastevere non ha ancora sciolto il nodo del reclutamento (concorso pubblico o chiamata diretta dei professori da parte delle scuole). E non ha ancora fornito il numero esatto dei pensionamenti (a settembre 2012) che – a organici bloccati dalle manovre economiche di quest’estate – dovranno essere rimpiazzati con le nuove assunzioni.

In questo quadro, ha sottolineato Domenico Pantaleo, numero uno della Flc Cgil, «l’avvio a tutti i costi dei Tfa rischia solo di aprire le porte a nuovo precariato e a una lotta tra persone per raggiungere il posto fisso, visto che i nuovi abilitandi si andranno necessariamente ad affiancare, come aspirazioni e anche diritti, agli oltre 200mila precari “storici” inseriti nelle graduatorie a esaurimento». Di qui l’urgenza di correre nel definire le nuove regole sul reclutamento «che dovranno necessariamente viaggiare di pari passo con i Tfa», ha aggiunto il segretario generale della Uil Scuola, Massimo Di Menna.

Allo stato attuale infatti i futuri abilitati tramite i tirocini annuali potranno sperare solo in una supplenza breve (conferita direttamente dalla scuola). E se il maxi-concorso annunciato da Francesco Profumo dovesse svolgersi (come più volte ripetuto dallo stesso ministro) entro il 2012 e quindi prima dell’abilitazione di questi 20mila aspiranti professori «il rischio, per tali soggetti, è anche quello di non poter partecipare alla selezione», ha detto Francesco Scrima, leader della Cisl Scuola. Una soluzione di buon senso, ha spiegato Marco Paolo Nigi, segretario generale dello Snals Confsal, potrebbe essere quella di «far slittare il maxi-concorso al 2013. E avere numeri certi sui posti disponibili da coprire». Mentre per quanto riguarda i costi per frequentare i Tfa (una volta vinta la preselezione) Nigi ha le idee chiare: «Dovranno essere simili (tra i 1.200-1.500 euro a seconda della materia) a quelli fatti pagare per le Ssis», chiuse nel 2008.

Il coordinatore nazionale della Gilda, Rino Di Meglio, è critico invece sull’organizzazione dei Tfa che, nell’attuale formulazione dei decreti attuativi, affida la formazione dei futuri professori prevalentemente alle università: «E senza coinvolgere gli insegnanti di scuola che potrebbero invece riservare utili consigli ai futuri colleghi».

Il Sole 24 Ore 14.03.12

"Soldi agli amici e spese eccessive addio alla Beni culturali spa", di Corrado Zunino

Il governo ha deciso: Arcus deve chiudere. Dai fondi per la sorella di Ghedini allo scambio di favori tra Lunardi e Propaganda fide. Secondo Passera la società ha perso credibilità con una serie di operazioni poco chiare. Il governo ha deciso: Arcus spa va chiuso. Il ministro Corrado Passera è pronto a portare la questione al prossimo Consiglio dei ministri. L´esperienza di una società per azioni in seno ai Beni culturali finanziata dal ministero delle Infrastrutture è da considerare conclusa.
I motivi sono tre. Per ragioni di risparmio e razionalizzazione, gli uffici di Passera hanno stilato un elenco di società pubbliche o a controllo pubblico da cancellare: hanno mostrato problemi strutturali di bilancio oppure hanno esaurito la loro missione. Arcus rientra in questa seconda casella. Il problema è che la società per lo sviluppo dell´arte, la cultura e lo spettacolo, che pure ha recentemente sostenuto campagne culturali altrimenti dimenticate (il restauro della Galleria sabauda di Torino, per esempio, la riapertura al pubblico della Galleria nazionale di arte moderna di Roma e il completamento del museo Maxxi, sempre a Roma), negli anni dei governi Berlusconi ha prodotto una serie di finanziamenti “marchetta” che ne ha compromesso la credibilità. Strettamente controllata da Gianni Letta, Arcus ha portato soldi alle cyber-opere, lirica e videogame, di Maurizio Squillante figlio del giudice Renato e ancora alla ricerca archeologica della sorella dell´avvocato Ghedini, lei insediata all´università di Padova, ateneo a sua volta al centro della generosità di Arcus. In questa necessità di compiacere i ministri controllanti – dal 2004 al 2012 la società ha sposato oltre 500 progetti culturali per una spesa di 600 milioni – i dirigenti di Arcus hanno compiuto l´errore di finanziare in due tranche da cinque milioni totali la ristrutturazione del palazzo borrominiano di Propaganda Fide, in piazza di Spagna, a Roma. Per quella vicenda, e dopo un´intervista di Repubblica con l´ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, si comprese che la spa pubblica era stata usata come luogo di scambio tra il cardinale Crescenzio Sepe e l´ex ministro, che, elargiti i 5 milioni, avrebbe poi ottenuto da Propaganda Fide un palazzo a tre piani nel centro di Roma. A prezzo scontato. Entrambi, monsignor Sepe e l´ex ministro Lunardi, sono a processo a Perugia mentre Arcus per quel finanziamento è in attesa del giudizio della Corte dei Conti (che ha mostrato forti perplessità sugli interi otto anni di attività della struttura).
Il ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, ha provato a difendere la spa. In Parlamento ha recentemente parlato di realtà da modificare, ma lo scorso venti febbraio ha ricevuto in ufficio la visita del collega Passera che, ancor prima di sedersi, gli ha detto: «Lorenzo, devo comunicarti due cose, sulle quali ti prego di non fare resistenza». Una delle due era la fine della società della cultura. Soltanto ieri, incalzato alla presentazione delle giornate del Fai, Ornaghi ha dovuto ammettere: «Il governo ha avviato una riflessione su Arcus, partita dal ministero delle Infrastrutture, e non esclude un eventuale intervento. Valuteremo se la società è ancora funzionale».
Il terzo e ultimo motivo che giustifica la chiusura di una realtà comunque in attivo è il rancore maturato dal suo fondatore, Mario Ciaccia. L´attuale viceministro di Passera è stato il primo presidente, per volontà di Giuliano Urbani, di Arcus spa, ne ha pensato lo statuto e stilato le finalità e mai ha accettato la defenestrazione voluta da Rocco Buttiglione. È stato Ciaccia, oggi, a spingere per la chiusura. Ora è importante capire quale sarà il destino dei quindici dipendenti e soprattutto che farà il ministero delle Infrastrutture dei 200 milioni che ogni anno girava ad Arcus. Il governo assicura che non saranno distolti dal campo culturale, solo meglio gestiti e utilizzati su poche e importanti opere. Di quei 200 milioni, però, solo trenta erano cash, il resto erano autorizzazioni ad accendere mutui. Cosa possibile per una struttura privata come Arcus spa e impossibile, per legge, per il ministero dei Beni culturali.

La Repubblica 14.03.12

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“NON SONO D’ACCORDO SULLA MORTE DI ARCUS” di Vittorio Emiliani

Pare che l’ultima «scoperta» del ministro per i Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, sia che le Soprintendenze riescono a spendere poco e che ci sono consistenti giacenze. Scoperta dell’acqua calda. Invece che dare più poteri ai Soprintendenti, il duo Berlusconi-Bondi pensò di risolvere il problema con tanti commissari svincolati dal rispetto di norme e procedure: i risultati sono noti, a cominciare da Pompei dove il commissario
ha speso velocemente, ma in cose futili o sbagliate. Cosa vorrà fare Ornaghi assistito dal sottosegretario Cecchi (che partecipò
ai fasti commissariali)? Egli tace: sulla degradazione continua di Roma, sulla morte degli archivi e del paesaggio, su tutto. Se pensa, smaltendo i residui passivi, di ridurre il flusso dei fondi ordinari verso i settori strategici, prepara al suo Ministero il funerale. A cui concorrerà la cancellazione di Arcus Spa voluta
dal ministro delle Infrastrutture Corrado Passera e dal suo vice Mario Ciaccia presidente non memorabile di Arcus stessa. Spariscono, è vero, i suoi impieghi clientelari, cioè perversi, dei milioni arrivati da una percentuale sugli appalti delle grandi opere, ma pure i suoi impieghi virtuosi in restauri, archivi, biblioteche, musei. Per intanto, col decreto legge n. 98/2011, il ministro Passera (silente il collega Ornaghi) ha tranciato di netto i fondi previsti dalla legge istitutiva: l’art. 32 assegna
ad Arcus fino al 3 % del solo Fondo per le infrastrutture ferroviarie e stradali, e poiché questo consta, al massimo, di 1 miliardo l’anno, Arcus potrà ricevere, al più, 30 milioni, contro gli 80, 100 e anche più di prima. A fine 2009 «risultavano già
deliberati, contrattualizzati e monitorati complessivamente 370 progetti per un valore di 260 milioni» (fra buoni e cattivi, s’intende).
Taglio colossale, dunque, e morte per asfissia di Arcus. A danno dei derelitti Beni culturali e paesaggistici. «Arcus? Se funziona, si tiene, se non funziona, si sopprime», ha detto in sostanza ieri Ornaghi al Fai riecheggiando il miglior Lapalisse.
Un anno fa il Consiglio Superiore dei Beni culturali aveva chiesto, con mozione, che i programmi annuali di Arcus, mai controllati da nessuno, passassero al suo vaglio e che, per parecchi anni, molti di quei fondi andassero alla ricostruzione (presso che ferma) dei centri storici aquilani. Fra l’altro c’è un «pregresso» Arcus sui 200 milioni. Ora però la ghigliottina delle Infrastrutture cala su quei denari preziosi e Ornaghi, invece di tenersi stretti i pochi baiocchi, canta le lodi dell’apertura ai privati: a questi finirà la «polpa» dei beni culturali redditizi, allo Stato e ai Comuni l’“osso” di quelli non redditizi, coi pochi spiccioli residui. Ma non era la proposta, esplicita almeno, di Giuliano Urbani una decina di anni fa?

L’Unità 14.03.12

“Soldi agli amici e spese eccessive addio alla Beni culturali spa”, di Corrado Zunino

Il governo ha deciso: Arcus deve chiudere. Dai fondi per la sorella di Ghedini allo scambio di favori tra Lunardi e Propaganda fide. Secondo Passera la società ha perso credibilità con una serie di operazioni poco chiare. Il governo ha deciso: Arcus spa va chiuso. Il ministro Corrado Passera è pronto a portare la questione al prossimo Consiglio dei ministri. L´esperienza di una società per azioni in seno ai Beni culturali finanziata dal ministero delle Infrastrutture è da considerare conclusa.
I motivi sono tre. Per ragioni di risparmio e razionalizzazione, gli uffici di Passera hanno stilato un elenco di società pubbliche o a controllo pubblico da cancellare: hanno mostrato problemi strutturali di bilancio oppure hanno esaurito la loro missione. Arcus rientra in questa seconda casella. Il problema è che la società per lo sviluppo dell´arte, la cultura e lo spettacolo, che pure ha recentemente sostenuto campagne culturali altrimenti dimenticate (il restauro della Galleria sabauda di Torino, per esempio, la riapertura al pubblico della Galleria nazionale di arte moderna di Roma e il completamento del museo Maxxi, sempre a Roma), negli anni dei governi Berlusconi ha prodotto una serie di finanziamenti “marchetta” che ne ha compromesso la credibilità. Strettamente controllata da Gianni Letta, Arcus ha portato soldi alle cyber-opere, lirica e videogame, di Maurizio Squillante figlio del giudice Renato e ancora alla ricerca archeologica della sorella dell´avvocato Ghedini, lei insediata all´università di Padova, ateneo a sua volta al centro della generosità di Arcus. In questa necessità di compiacere i ministri controllanti – dal 2004 al 2012 la società ha sposato oltre 500 progetti culturali per una spesa di 600 milioni – i dirigenti di Arcus hanno compiuto l´errore di finanziare in due tranche da cinque milioni totali la ristrutturazione del palazzo borrominiano di Propaganda Fide, in piazza di Spagna, a Roma. Per quella vicenda, e dopo un´intervista di Repubblica con l´ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, si comprese che la spa pubblica era stata usata come luogo di scambio tra il cardinale Crescenzio Sepe e l´ex ministro, che, elargiti i 5 milioni, avrebbe poi ottenuto da Propaganda Fide un palazzo a tre piani nel centro di Roma. A prezzo scontato. Entrambi, monsignor Sepe e l´ex ministro Lunardi, sono a processo a Perugia mentre Arcus per quel finanziamento è in attesa del giudizio della Corte dei Conti (che ha mostrato forti perplessità sugli interi otto anni di attività della struttura).
Il ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, ha provato a difendere la spa. In Parlamento ha recentemente parlato di realtà da modificare, ma lo scorso venti febbraio ha ricevuto in ufficio la visita del collega Passera che, ancor prima di sedersi, gli ha detto: «Lorenzo, devo comunicarti due cose, sulle quali ti prego di non fare resistenza». Una delle due era la fine della società della cultura. Soltanto ieri, incalzato alla presentazione delle giornate del Fai, Ornaghi ha dovuto ammettere: «Il governo ha avviato una riflessione su Arcus, partita dal ministero delle Infrastrutture, e non esclude un eventuale intervento. Valuteremo se la società è ancora funzionale».
Il terzo e ultimo motivo che giustifica la chiusura di una realtà comunque in attivo è il rancore maturato dal suo fondatore, Mario Ciaccia. L´attuale viceministro di Passera è stato il primo presidente, per volontà di Giuliano Urbani, di Arcus spa, ne ha pensato lo statuto e stilato le finalità e mai ha accettato la defenestrazione voluta da Rocco Buttiglione. È stato Ciaccia, oggi, a spingere per la chiusura. Ora è importante capire quale sarà il destino dei quindici dipendenti e soprattutto che farà il ministero delle Infrastrutture dei 200 milioni che ogni anno girava ad Arcus. Il governo assicura che non saranno distolti dal campo culturale, solo meglio gestiti e utilizzati su poche e importanti opere. Di quei 200 milioni, però, solo trenta erano cash, il resto erano autorizzazioni ad accendere mutui. Cosa possibile per una struttura privata come Arcus spa e impossibile, per legge, per il ministero dei Beni culturali.

La Repubblica 14.03.12

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“NON SONO D’ACCORDO SULLA MORTE DI ARCUS” di Vittorio Emiliani

Pare che l’ultima «scoperta» del ministro per i Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, sia che le Soprintendenze riescono a spendere poco e che ci sono consistenti giacenze. Scoperta dell’acqua calda. Invece che dare più poteri ai Soprintendenti, il duo Berlusconi-Bondi pensò di risolvere il problema con tanti commissari svincolati dal rispetto di norme e procedure: i risultati sono noti, a cominciare da Pompei dove il commissario
ha speso velocemente, ma in cose futili o sbagliate. Cosa vorrà fare Ornaghi assistito dal sottosegretario Cecchi (che partecipò
ai fasti commissariali)? Egli tace: sulla degradazione continua di Roma, sulla morte degli archivi e del paesaggio, su tutto. Se pensa, smaltendo i residui passivi, di ridurre il flusso dei fondi ordinari verso i settori strategici, prepara al suo Ministero il funerale. A cui concorrerà la cancellazione di Arcus Spa voluta
dal ministro delle Infrastrutture Corrado Passera e dal suo vice Mario Ciaccia presidente non memorabile di Arcus stessa. Spariscono, è vero, i suoi impieghi clientelari, cioè perversi, dei milioni arrivati da una percentuale sugli appalti delle grandi opere, ma pure i suoi impieghi virtuosi in restauri, archivi, biblioteche, musei. Per intanto, col decreto legge n. 98/2011, il ministro Passera (silente il collega Ornaghi) ha tranciato di netto i fondi previsti dalla legge istitutiva: l’art. 32 assegna
ad Arcus fino al 3 % del solo Fondo per le infrastrutture ferroviarie e stradali, e poiché questo consta, al massimo, di 1 miliardo l’anno, Arcus potrà ricevere, al più, 30 milioni, contro gli 80, 100 e anche più di prima. A fine 2009 «risultavano già
deliberati, contrattualizzati e monitorati complessivamente 370 progetti per un valore di 260 milioni» (fra buoni e cattivi, s’intende).
Taglio colossale, dunque, e morte per asfissia di Arcus. A danno dei derelitti Beni culturali e paesaggistici. «Arcus? Se funziona, si tiene, se non funziona, si sopprime», ha detto in sostanza ieri Ornaghi al Fai riecheggiando il miglior Lapalisse.
Un anno fa il Consiglio Superiore dei Beni culturali aveva chiesto, con mozione, che i programmi annuali di Arcus, mai controllati da nessuno, passassero al suo vaglio e che, per parecchi anni, molti di quei fondi andassero alla ricostruzione (presso che ferma) dei centri storici aquilani. Fra l’altro c’è un «pregresso» Arcus sui 200 milioni. Ora però la ghigliottina delle Infrastrutture cala su quei denari preziosi e Ornaghi, invece di tenersi stretti i pochi baiocchi, canta le lodi dell’apertura ai privati: a questi finirà la «polpa» dei beni culturali redditizi, allo Stato e ai Comuni l’“osso” di quelli non redditizi, coi pochi spiccioli residui. Ma non era la proposta, esplicita almeno, di Giuliano Urbani una decina di anni fa?

L’Unità 14.03.12

"Desperados del Pdl e il nodo della giustizia", di Franco Cordero

Stride d´impulsi rivoltosi la lettera 8 marzo, dove 46 senatori Pdl chiedono una mozione di sfiducia nel ministro colpevole d´avere detto, conversando privatamente, che una certa politica gl´ispira schifo (alludeva al vertice dei partiti, impedito dal segretario berlusconiano perché l´ex premier considera: tabù giustizia e Rai): piccola guerra intestina; i miracolati d´una lunga campagna piratesca rimpiangono la baldoria, sapendosi esclusi dal quadro politico appena normale, perciò insorgono contro l´establishment interno, compromesso nel sostegno al governo cosiddetto tecnico; e spiegano al vento bandiera nera, disgustati del padrone abulico.
In chiave d´opera buffa ricordano desperados fascisti nell´incipiente primavera 1945, quando i cautelosi cercavano vie d´uscita, con qualche importante differenza: Alessandro Pavolini, devoto alla «bella morte», aveva titoli intellettuali, inclusa un´opera narrativa quasi sperimentale, Scomparsa d´Angela, lodata dalla critica (inverno 1940). L´incidente è meno futile di quanto lascino intendere i gerarchi sicuri della sopravvivenza, male che vada. I due punti in questione toccano nervi scoperti: l´asta delle frequenze televisive non è materia ignorabile dal governo, impegnato a rompere i privilegi parassitari; e il Senato voterà sul canagliesco ddl con cui la Camera ha congegnato una responsabilità civile diretta dei magistrati, esponendoli a pressioni intimidatorie.
Qui va detto, l´Italia soffre ancora d´una giustizia diseguale. Che i politicamente protetti meritino riguardi, suona ovvio tra Otto e Novecento: caduto l´ancien régime, l´eguaglianza legale risulta lesa in pratica dal rapporto in cui le toghe stanno col potere esecutivo; dove la carriera dipenda dal ministro, solo gli eroi resistono ai suggerimenti. Ottantasei anni fa un orribile delitto diventa materia veniale nel processo Matteotti, tra Roma e Chieti, dov´è finito il dibattimento: Roberto Farinacci, segretario manigoldo del Pnf, difende il capo sgherro omicida; volano insulti al morto e minacce agli oppositori ormai muti. Il cordone ombelicale s´è rotto da poco più d´un mezzo secolo e lunga essendo la memoria nei corpi collettivi, era improbabile una metamorfosi fulminea. Tale fisiologico ritardo spiega come mai la criminalità in colletto bianco sotto ala politica fosse largamente impunita: non che mancassero inquirenti seri e perspicaci, laboriose istruzioni, scoperte importanti; vecchi riflessi mantenevano torpido l´apparato. Corre ancora una metafora: «porto delle nebbie»; così svanivano gravi casi penali surrettiziamente tolti alla sede competente. Nel collasso del regime consortile, vent´anni fa, erompono malaffari sommersi. Spesso sono i coinvolti a denunciarsi. Congiunture simili durano poco: è alle porte, finto uomo nuovo, chi s´ingrassava nel sistema, fondandosi l´impero mediatico; vengono puntuali le proposte d´uno scioglimento liquidatorio. Quanto sia organicamente viziata la macchina politica, consta dalla fine secolo: dopo un semestre berlusconiano e due anni d´interregno, ha vinto lo schieramento centrosinistro; il governo porta l´Italia in Europa ma l´alchimia parlamentare segue vie storte. Calamitosi lavori bicamerali riqualificano l´affarista sconfitto. Inter alia contemplano una riforma giudiziaria i cui teoremi aveva formulato Licio Gelli, fondatore della P2, e vi mette mano Cesare Previti, avvocato d´affari loschi dell´ex premier. Idee geniali: un pubblico ministero comandato dal governo; magistratura ricondotta all´antico costume, ossia riguardosa verso chi lo merita nelle mercuriali del potere.
Poi il vizio s´aggrava: era lassismo ambientale; le norme esistevano, blandamente applicate o eluse; l´invasore se le rifà su misura truccando l´arnese normativo. Vedi il falso in bilancio ora impunemente praticabile, ostacoli alle rogatorie, scudi immunitari, prescrizione ridotta d´una metà a beneficio del white collar´s crime, divieti probatori; ed era solo un preludio: poveri noi se non l´avessero costretto a dimettersi le borse mondiali, affondando i titoli dell´Italia che aveva condotto a due dita dalla bancarotta, lui, tra i più ricchi al mondo, e sappiamo solo qualcosa del come lo sia diventato. Aveva un arsenale in serbo, tra dibattimento elefantiaco e processo breve: l´impunità garantita a chiunque sia abbastanza ricco da condurre partite lunghe; privacy ermetica, sicché discorsi riservati non siano intercettabili, qualunque cosa i collocutori dicano. Poi sarebbe la volta dell´ordinamento giudiziario, riconfigurato nel modello piduista. Voleva e vorrebbe una repubblica dove lui regni quasi fosse Mediaset, senza molesti poteri concorrenti, egocraticamente. Quale concetto abbia d´uno Stato moderno, l´abbiamo visto nel dibattimento milanese sul caso Mills: i famigli minacciavano crisi di governo se il Tribunale avesse condannato; dal Capo dello Stato pretendeva interventi persuasivi su procure e organi giusdicenti.
Torniamo ai quarantasei protestanti. Li sconcertano le eclissi catalettiche del Dominus, sulle cui pulsioni contavano: non è più lui; che sia un sosia sostituito dai cortigiani all´autentico Olonese? Interessante caso psichiatrico, come nell´Enrico IV pirandelliano, trasmutato o simulatore. Non che abbia perso gli spiriti animali: ogni tanto, ad esempio, ripesca l´allegra idea d´insediarsi al Quirinale; né va a dire il rosario nelle dacie dell´amico trionfante Vladimir Putin o imita Carlo V d´Asburgo che, avendo abdicato, passava le giornate in messinscene liturgiche a sfondo funereo. Sembra avere capito che sarebbe la fine dell´impero affondare il governo. La roulette russa gli costa meno dell´andare alle urne. Pare dunque presumibile che misuri i passi nell´anno d´una interminabile vigilia elettorale, coltivando le couches fedeli: lo sappiamo oppositore d´ogni seria politica contro la corruzione; e il partito al quale sta cercando un nome, perché l´attuale non tocca abbastanza le viscere, funge da lobby naturale d´ogni groviglio parassitario.

La Repubblica 14.03.12

“Desperados del Pdl e il nodo della giustizia”, di Franco Cordero

Stride d´impulsi rivoltosi la lettera 8 marzo, dove 46 senatori Pdl chiedono una mozione di sfiducia nel ministro colpevole d´avere detto, conversando privatamente, che una certa politica gl´ispira schifo (alludeva al vertice dei partiti, impedito dal segretario berlusconiano perché l´ex premier considera: tabù giustizia e Rai): piccola guerra intestina; i miracolati d´una lunga campagna piratesca rimpiangono la baldoria, sapendosi esclusi dal quadro politico appena normale, perciò insorgono contro l´establishment interno, compromesso nel sostegno al governo cosiddetto tecnico; e spiegano al vento bandiera nera, disgustati del padrone abulico.
In chiave d´opera buffa ricordano desperados fascisti nell´incipiente primavera 1945, quando i cautelosi cercavano vie d´uscita, con qualche importante differenza: Alessandro Pavolini, devoto alla «bella morte», aveva titoli intellettuali, inclusa un´opera narrativa quasi sperimentale, Scomparsa d´Angela, lodata dalla critica (inverno 1940). L´incidente è meno futile di quanto lascino intendere i gerarchi sicuri della sopravvivenza, male che vada. I due punti in questione toccano nervi scoperti: l´asta delle frequenze televisive non è materia ignorabile dal governo, impegnato a rompere i privilegi parassitari; e il Senato voterà sul canagliesco ddl con cui la Camera ha congegnato una responsabilità civile diretta dei magistrati, esponendoli a pressioni intimidatorie.
Qui va detto, l´Italia soffre ancora d´una giustizia diseguale. Che i politicamente protetti meritino riguardi, suona ovvio tra Otto e Novecento: caduto l´ancien régime, l´eguaglianza legale risulta lesa in pratica dal rapporto in cui le toghe stanno col potere esecutivo; dove la carriera dipenda dal ministro, solo gli eroi resistono ai suggerimenti. Ottantasei anni fa un orribile delitto diventa materia veniale nel processo Matteotti, tra Roma e Chieti, dov´è finito il dibattimento: Roberto Farinacci, segretario manigoldo del Pnf, difende il capo sgherro omicida; volano insulti al morto e minacce agli oppositori ormai muti. Il cordone ombelicale s´è rotto da poco più d´un mezzo secolo e lunga essendo la memoria nei corpi collettivi, era improbabile una metamorfosi fulminea. Tale fisiologico ritardo spiega come mai la criminalità in colletto bianco sotto ala politica fosse largamente impunita: non che mancassero inquirenti seri e perspicaci, laboriose istruzioni, scoperte importanti; vecchi riflessi mantenevano torpido l´apparato. Corre ancora una metafora: «porto delle nebbie»; così svanivano gravi casi penali surrettiziamente tolti alla sede competente. Nel collasso del regime consortile, vent´anni fa, erompono malaffari sommersi. Spesso sono i coinvolti a denunciarsi. Congiunture simili durano poco: è alle porte, finto uomo nuovo, chi s´ingrassava nel sistema, fondandosi l´impero mediatico; vengono puntuali le proposte d´uno scioglimento liquidatorio. Quanto sia organicamente viziata la macchina politica, consta dalla fine secolo: dopo un semestre berlusconiano e due anni d´interregno, ha vinto lo schieramento centrosinistro; il governo porta l´Italia in Europa ma l´alchimia parlamentare segue vie storte. Calamitosi lavori bicamerali riqualificano l´affarista sconfitto. Inter alia contemplano una riforma giudiziaria i cui teoremi aveva formulato Licio Gelli, fondatore della P2, e vi mette mano Cesare Previti, avvocato d´affari loschi dell´ex premier. Idee geniali: un pubblico ministero comandato dal governo; magistratura ricondotta all´antico costume, ossia riguardosa verso chi lo merita nelle mercuriali del potere.
Poi il vizio s´aggrava: era lassismo ambientale; le norme esistevano, blandamente applicate o eluse; l´invasore se le rifà su misura truccando l´arnese normativo. Vedi il falso in bilancio ora impunemente praticabile, ostacoli alle rogatorie, scudi immunitari, prescrizione ridotta d´una metà a beneficio del white collar´s crime, divieti probatori; ed era solo un preludio: poveri noi se non l´avessero costretto a dimettersi le borse mondiali, affondando i titoli dell´Italia che aveva condotto a due dita dalla bancarotta, lui, tra i più ricchi al mondo, e sappiamo solo qualcosa del come lo sia diventato. Aveva un arsenale in serbo, tra dibattimento elefantiaco e processo breve: l´impunità garantita a chiunque sia abbastanza ricco da condurre partite lunghe; privacy ermetica, sicché discorsi riservati non siano intercettabili, qualunque cosa i collocutori dicano. Poi sarebbe la volta dell´ordinamento giudiziario, riconfigurato nel modello piduista. Voleva e vorrebbe una repubblica dove lui regni quasi fosse Mediaset, senza molesti poteri concorrenti, egocraticamente. Quale concetto abbia d´uno Stato moderno, l´abbiamo visto nel dibattimento milanese sul caso Mills: i famigli minacciavano crisi di governo se il Tribunale avesse condannato; dal Capo dello Stato pretendeva interventi persuasivi su procure e organi giusdicenti.
Torniamo ai quarantasei protestanti. Li sconcertano le eclissi catalettiche del Dominus, sulle cui pulsioni contavano: non è più lui; che sia un sosia sostituito dai cortigiani all´autentico Olonese? Interessante caso psichiatrico, come nell´Enrico IV pirandelliano, trasmutato o simulatore. Non che abbia perso gli spiriti animali: ogni tanto, ad esempio, ripesca l´allegra idea d´insediarsi al Quirinale; né va a dire il rosario nelle dacie dell´amico trionfante Vladimir Putin o imita Carlo V d´Asburgo che, avendo abdicato, passava le giornate in messinscene liturgiche a sfondo funereo. Sembra avere capito che sarebbe la fine dell´impero affondare il governo. La roulette russa gli costa meno dell´andare alle urne. Pare dunque presumibile che misuri i passi nell´anno d´una interminabile vigilia elettorale, coltivando le couches fedeli: lo sappiamo oppositore d´ogni seria politica contro la corruzione; e il partito al quale sta cercando un nome, perché l´attuale non tocca abbastanza le viscere, funge da lobby naturale d´ogni groviglio parassitario.

La Repubblica 14.03.12

“Desperados del Pdl e il nodo della giustizia”, di Franco Cordero

Stride d´impulsi rivoltosi la lettera 8 marzo, dove 46 senatori Pdl chiedono una mozione di sfiducia nel ministro colpevole d´avere detto, conversando privatamente, che una certa politica gl´ispira schifo (alludeva al vertice dei partiti, impedito dal segretario berlusconiano perché l´ex premier considera: tabù giustizia e Rai): piccola guerra intestina; i miracolati d´una lunga campagna piratesca rimpiangono la baldoria, sapendosi esclusi dal quadro politico appena normale, perciò insorgono contro l´establishment interno, compromesso nel sostegno al governo cosiddetto tecnico; e spiegano al vento bandiera nera, disgustati del padrone abulico.
In chiave d´opera buffa ricordano desperados fascisti nell´incipiente primavera 1945, quando i cautelosi cercavano vie d´uscita, con qualche importante differenza: Alessandro Pavolini, devoto alla «bella morte», aveva titoli intellettuali, inclusa un´opera narrativa quasi sperimentale, Scomparsa d´Angela, lodata dalla critica (inverno 1940). L´incidente è meno futile di quanto lascino intendere i gerarchi sicuri della sopravvivenza, male che vada. I due punti in questione toccano nervi scoperti: l´asta delle frequenze televisive non è materia ignorabile dal governo, impegnato a rompere i privilegi parassitari; e il Senato voterà sul canagliesco ddl con cui la Camera ha congegnato una responsabilità civile diretta dei magistrati, esponendoli a pressioni intimidatorie.
Qui va detto, l´Italia soffre ancora d´una giustizia diseguale. Che i politicamente protetti meritino riguardi, suona ovvio tra Otto e Novecento: caduto l´ancien régime, l´eguaglianza legale risulta lesa in pratica dal rapporto in cui le toghe stanno col potere esecutivo; dove la carriera dipenda dal ministro, solo gli eroi resistono ai suggerimenti. Ottantasei anni fa un orribile delitto diventa materia veniale nel processo Matteotti, tra Roma e Chieti, dov´è finito il dibattimento: Roberto Farinacci, segretario manigoldo del Pnf, difende il capo sgherro omicida; volano insulti al morto e minacce agli oppositori ormai muti. Il cordone ombelicale s´è rotto da poco più d´un mezzo secolo e lunga essendo la memoria nei corpi collettivi, era improbabile una metamorfosi fulminea. Tale fisiologico ritardo spiega come mai la criminalità in colletto bianco sotto ala politica fosse largamente impunita: non che mancassero inquirenti seri e perspicaci, laboriose istruzioni, scoperte importanti; vecchi riflessi mantenevano torpido l´apparato. Corre ancora una metafora: «porto delle nebbie»; così svanivano gravi casi penali surrettiziamente tolti alla sede competente. Nel collasso del regime consortile, vent´anni fa, erompono malaffari sommersi. Spesso sono i coinvolti a denunciarsi. Congiunture simili durano poco: è alle porte, finto uomo nuovo, chi s´ingrassava nel sistema, fondandosi l´impero mediatico; vengono puntuali le proposte d´uno scioglimento liquidatorio. Quanto sia organicamente viziata la macchina politica, consta dalla fine secolo: dopo un semestre berlusconiano e due anni d´interregno, ha vinto lo schieramento centrosinistro; il governo porta l´Italia in Europa ma l´alchimia parlamentare segue vie storte. Calamitosi lavori bicamerali riqualificano l´affarista sconfitto. Inter alia contemplano una riforma giudiziaria i cui teoremi aveva formulato Licio Gelli, fondatore della P2, e vi mette mano Cesare Previti, avvocato d´affari loschi dell´ex premier. Idee geniali: un pubblico ministero comandato dal governo; magistratura ricondotta all´antico costume, ossia riguardosa verso chi lo merita nelle mercuriali del potere.
Poi il vizio s´aggrava: era lassismo ambientale; le norme esistevano, blandamente applicate o eluse; l´invasore se le rifà su misura truccando l´arnese normativo. Vedi il falso in bilancio ora impunemente praticabile, ostacoli alle rogatorie, scudi immunitari, prescrizione ridotta d´una metà a beneficio del white collar´s crime, divieti probatori; ed era solo un preludio: poveri noi se non l´avessero costretto a dimettersi le borse mondiali, affondando i titoli dell´Italia che aveva condotto a due dita dalla bancarotta, lui, tra i più ricchi al mondo, e sappiamo solo qualcosa del come lo sia diventato. Aveva un arsenale in serbo, tra dibattimento elefantiaco e processo breve: l´impunità garantita a chiunque sia abbastanza ricco da condurre partite lunghe; privacy ermetica, sicché discorsi riservati non siano intercettabili, qualunque cosa i collocutori dicano. Poi sarebbe la volta dell´ordinamento giudiziario, riconfigurato nel modello piduista. Voleva e vorrebbe una repubblica dove lui regni quasi fosse Mediaset, senza molesti poteri concorrenti, egocraticamente. Quale concetto abbia d´uno Stato moderno, l´abbiamo visto nel dibattimento milanese sul caso Mills: i famigli minacciavano crisi di governo se il Tribunale avesse condannato; dal Capo dello Stato pretendeva interventi persuasivi su procure e organi giusdicenti.
Torniamo ai quarantasei protestanti. Li sconcertano le eclissi catalettiche del Dominus, sulle cui pulsioni contavano: non è più lui; che sia un sosia sostituito dai cortigiani all´autentico Olonese? Interessante caso psichiatrico, come nell´Enrico IV pirandelliano, trasmutato o simulatore. Non che abbia perso gli spiriti animali: ogni tanto, ad esempio, ripesca l´allegra idea d´insediarsi al Quirinale; né va a dire il rosario nelle dacie dell´amico trionfante Vladimir Putin o imita Carlo V d´Asburgo che, avendo abdicato, passava le giornate in messinscene liturgiche a sfondo funereo. Sembra avere capito che sarebbe la fine dell´impero affondare il governo. La roulette russa gli costa meno dell´andare alle urne. Pare dunque presumibile che misuri i passi nell´anno d´una interminabile vigilia elettorale, coltivando le couches fedeli: lo sappiamo oppositore d´ogni seria politica contro la corruzione; e il partito al quale sta cercando un nome, perché l´attuale non tocca abbastanza le viscere, funge da lobby naturale d´ogni groviglio parassitario.

La Repubblica 14.03.12