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"Desperados del Pdl e il nodo della giustizia", di Franco Cordero

Stride d´impulsi rivoltosi la lettera 8 marzo, dove 46 senatori Pdl chiedono una mozione di sfiducia nel ministro colpevole d´avere detto, conversando privatamente, che una certa politica gl´ispira schifo (alludeva al vertice dei partiti, impedito dal segretario berlusconiano perché l´ex premier considera: tabù giustizia e Rai): piccola guerra intestina; i miracolati d´una lunga campagna piratesca rimpiangono la baldoria, sapendosi esclusi dal quadro politico appena normale, perciò insorgono contro l´establishment interno, compromesso nel sostegno al governo cosiddetto tecnico; e spiegano al vento bandiera nera, disgustati del padrone abulico.
In chiave d´opera buffa ricordano desperados fascisti nell´incipiente primavera 1945, quando i cautelosi cercavano vie d´uscita, con qualche importante differenza: Alessandro Pavolini, devoto alla «bella morte», aveva titoli intellettuali, inclusa un´opera narrativa quasi sperimentale, Scomparsa d´Angela, lodata dalla critica (inverno 1940). L´incidente è meno futile di quanto lascino intendere i gerarchi sicuri della sopravvivenza, male che vada. I due punti in questione toccano nervi scoperti: l´asta delle frequenze televisive non è materia ignorabile dal governo, impegnato a rompere i privilegi parassitari; e il Senato voterà sul canagliesco ddl con cui la Camera ha congegnato una responsabilità civile diretta dei magistrati, esponendoli a pressioni intimidatorie.
Qui va detto, l´Italia soffre ancora d´una giustizia diseguale. Che i politicamente protetti meritino riguardi, suona ovvio tra Otto e Novecento: caduto l´ancien régime, l´eguaglianza legale risulta lesa in pratica dal rapporto in cui le toghe stanno col potere esecutivo; dove la carriera dipenda dal ministro, solo gli eroi resistono ai suggerimenti. Ottantasei anni fa un orribile delitto diventa materia veniale nel processo Matteotti, tra Roma e Chieti, dov´è finito il dibattimento: Roberto Farinacci, segretario manigoldo del Pnf, difende il capo sgherro omicida; volano insulti al morto e minacce agli oppositori ormai muti. Il cordone ombelicale s´è rotto da poco più d´un mezzo secolo e lunga essendo la memoria nei corpi collettivi, era improbabile una metamorfosi fulminea. Tale fisiologico ritardo spiega come mai la criminalità in colletto bianco sotto ala politica fosse largamente impunita: non che mancassero inquirenti seri e perspicaci, laboriose istruzioni, scoperte importanti; vecchi riflessi mantenevano torpido l´apparato. Corre ancora una metafora: «porto delle nebbie»; così svanivano gravi casi penali surrettiziamente tolti alla sede competente. Nel collasso del regime consortile, vent´anni fa, erompono malaffari sommersi. Spesso sono i coinvolti a denunciarsi. Congiunture simili durano poco: è alle porte, finto uomo nuovo, chi s´ingrassava nel sistema, fondandosi l´impero mediatico; vengono puntuali le proposte d´uno scioglimento liquidatorio. Quanto sia organicamente viziata la macchina politica, consta dalla fine secolo: dopo un semestre berlusconiano e due anni d´interregno, ha vinto lo schieramento centrosinistro; il governo porta l´Italia in Europa ma l´alchimia parlamentare segue vie storte. Calamitosi lavori bicamerali riqualificano l´affarista sconfitto. Inter alia contemplano una riforma giudiziaria i cui teoremi aveva formulato Licio Gelli, fondatore della P2, e vi mette mano Cesare Previti, avvocato d´affari loschi dell´ex premier. Idee geniali: un pubblico ministero comandato dal governo; magistratura ricondotta all´antico costume, ossia riguardosa verso chi lo merita nelle mercuriali del potere.
Poi il vizio s´aggrava: era lassismo ambientale; le norme esistevano, blandamente applicate o eluse; l´invasore se le rifà su misura truccando l´arnese normativo. Vedi il falso in bilancio ora impunemente praticabile, ostacoli alle rogatorie, scudi immunitari, prescrizione ridotta d´una metà a beneficio del white collar´s crime, divieti probatori; ed era solo un preludio: poveri noi se non l´avessero costretto a dimettersi le borse mondiali, affondando i titoli dell´Italia che aveva condotto a due dita dalla bancarotta, lui, tra i più ricchi al mondo, e sappiamo solo qualcosa del come lo sia diventato. Aveva un arsenale in serbo, tra dibattimento elefantiaco e processo breve: l´impunità garantita a chiunque sia abbastanza ricco da condurre partite lunghe; privacy ermetica, sicché discorsi riservati non siano intercettabili, qualunque cosa i collocutori dicano. Poi sarebbe la volta dell´ordinamento giudiziario, riconfigurato nel modello piduista. Voleva e vorrebbe una repubblica dove lui regni quasi fosse Mediaset, senza molesti poteri concorrenti, egocraticamente. Quale concetto abbia d´uno Stato moderno, l´abbiamo visto nel dibattimento milanese sul caso Mills: i famigli minacciavano crisi di governo se il Tribunale avesse condannato; dal Capo dello Stato pretendeva interventi persuasivi su procure e organi giusdicenti.
Torniamo ai quarantasei protestanti. Li sconcertano le eclissi catalettiche del Dominus, sulle cui pulsioni contavano: non è più lui; che sia un sosia sostituito dai cortigiani all´autentico Olonese? Interessante caso psichiatrico, come nell´Enrico IV pirandelliano, trasmutato o simulatore. Non che abbia perso gli spiriti animali: ogni tanto, ad esempio, ripesca l´allegra idea d´insediarsi al Quirinale; né va a dire il rosario nelle dacie dell´amico trionfante Vladimir Putin o imita Carlo V d´Asburgo che, avendo abdicato, passava le giornate in messinscene liturgiche a sfondo funereo. Sembra avere capito che sarebbe la fine dell´impero affondare il governo. La roulette russa gli costa meno dell´andare alle urne. Pare dunque presumibile che misuri i passi nell´anno d´una interminabile vigilia elettorale, coltivando le couches fedeli: lo sappiamo oppositore d´ogni seria politica contro la corruzione; e il partito al quale sta cercando un nome, perché l´attuale non tocca abbastanza le viscere, funge da lobby naturale d´ogni groviglio parassitario.

La Repubblica 14.03.12

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