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Consumi famiglie, l’Italia torna indietro. “Tornati alla situazione di 30 anni fa”

La crisi pesa direttamente sui consumi: prodotti alimentari, bevande e tabacco hanno mostrato un calo dell’1,5% a prezzi costanti. Lo segnala un rapporto Intesa San Paolo. Famiglie italiane in difficoltà con il carrello della spesa: sul mercato nazionale i consumi di prodotti alimentari, bevande e tabacco hanno mostrato un calo dell’1,5% a prezzi costanti. Lo segnala un rapporto Intesa Sanpaolo, affermando che in termini di spesa pro capite il dato 2011 riporta i livelli indietro di quasi 30 anni. Nel rapporto, si legge infatti che “si deve tornare ai primi anni ’80 per scendere al di sotto dei 2.400 euro annui destinati al comparto agro-alimentare.

In particolare, si legge nel rapporto, “si tratta in parte di un trend strutturale legato al minore consumo di alcune voci, come il tabacco, ma che segnala anche le evidenti difficoltà del consumatore italiano che, a fronte delle tensioni sul mercato del lavoro e sul reddito disponibile, riduce ulteriormente gli sprechi e modera gli acquisti anche in un comparto dei bisogni poco comprimibili come l’agroalimentare”.

Nel rapporto, si evidenzia inoltre che “l’incremento della disoccupazione unito agli effetti delle manovre di correzione dei conti pubblici sulle famiglie fanno prevedere una nuova riduzione dei consumi”. Consumi che “continueranno ad essere molto prudenti a fronte di risorse reddituali sempre più scarse”.

DA repubblica.it

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Crisi, Fassina: “Necessario sostegno alla crescita”

“I dati di oggi sulla spesa delle famiglie nel 2011 e sulle retribuzioni, come i dati sulla disoccupazione dei giorni scorsi, non sorprendono. Sono, purtroppo, la conseguenza inevitabile di una linea di politica economica sbagliata che i conservatori tedeschi impongono da tre anni all’area euro”, ha dichiarato Stefano Fassina, responsabile Economia e Lavoro della Segreteria del Partito Democratico.

“Non è in discussione la “cultura della stabilità” e la riduzione del debito pubblico. E’ in discussione il percorso per raggiungerli. L’area euro e l’Italia sono in un circolo vizioso: economie in recessione, aumento della disoccupazione e continuo aumento dei debiti pubblici. In tale contesto di finanza pubblica – ha concluso l’esponente democratico – è illusorio sperare nelle liberalizzazioni e nell’approfondimento del mercato unico come fattori di sviluppo. E’ come mettere benzina in un motore ingrippato. E’ necessaria un’inversione di rotta nell’area euro da attuare attraverso il sostegno alla spesa per investimenti, misure di correzione delle insostenibili disuguaglianze e l’aumento della domanda interna nei Paesi in attivo di bilancia commerciale. Sono i punti di un’agenda progressista di cui l’Unione europea ha urgente bisogno”.

www.partitodemocratico.it

Nel 2011 in un giorno oltre 56 mila le donne in fuga dalla violenza. Con loro più di 39 mila minori

Terzo censimento del Global network of women’s shelters. Non sempre i centri antiviolenza riescono a rispondere alle richieste: a più di 7 mila donne non si è potuto dare aiuto. A Bologna nel 2011 la Casa delle Donne ha dato rifugio a 20 donne e 9 minori. “Se non fossi arrivata qui, probabilmente sarei morta”. Sono le parole di una donna estone accolta in uno dei centri antiviolenza gestiti da donne. Le sue parole sono riportate nel 2011 Global data count, il censimento realizzato dal Global network of women’s shelters (rete che riunisce le case rifugio nel mondo). Dai dati emerge un aumento delle richieste di aiuto da parte di donne e minori in fuga dalla violenza domestica. E, purtroppo, le difficoltà di rispondere a tutte. Nel 2011 in un solo giorno oltre 56 mila donne hanno chiesto aiuto a una casa rifugio, con loro c’erano più di 39 mila minori. Ma a 12 mila di loro (7.608 donne e 4.734 bambini) non si è potuto dare aiuto. A Bologna la Casa delle donne per non subire violenza nel 2011 ha accolto nelle sue case rifugio 20 donne e 9 minori.
Il censimento presentato dal Global network of women’s shelters raccoglie dati provenienti da 2.636 centri antiviolenza e 25 network di 36 Paesi che hanno collaborato per raccogliere le storie delle donne che hanno cercato rifugio per sfuggire alla violenza domestica e hanno ottenuto aiuto in un solo giorno del 2011. Tra i Paesi che hanno accolto il maggior numero di donne ci sono gli Stati Uniti con 39.773 donne accolte e 25.871 minori. Ma gli Stati Uniti sono anche il Paese che non è riuscito ad aiutare il maggior numero di persone: 6.518 donne e 3.819 minori. Nel Regno Unito in un giorno sono arrivate 6.386 richieste di aiuto da parte di donne (215 erano in gravidanza) e 6.952 minori, quelle respinte per mancanza di risorse sono state 320 (370 i minori). In Canada sono state 2.975 le richieste di aiuto da parte di donne (146 quelle in gravidanza) e 1.614 da minori (345 donne e 219 minori sono stati respinti). In Olanda 1.698 donne e 1.349 minori si sono rivolti ai centri (ma 127 donne e 104 minori sono stati purtroppo respinti). In Estonia sono state 9 le donne che hanno chiesto aiuto, con loro c’erano 3 minori. Per quanto riguarda l’Italia il numero di donne che ha chiesto aiuto in un solo giorno è di 283 (di cui 6 in gravidanza) e con 110 minori. Solo 4 quelle a cui non si è potuto dare un aiuto.
La crisi ha messo in difficoltà i centri antiviolenza. Il rapporto rivela che in 11 Paesi le case rifugio sono state chiuse a causa della mancanza di fondi (8), di un cambiamento nelle politiche (4). In un caso (Danimarca) la causa della chiusura era lo scarso utilizzo del centro. Senza fondi adeguati, tra l’altro, i centri antiviolenza devono lottare per attrarre personale professionale e per mantenere tutti i servizi offerti alle donne accolte. Le case rifugio, infatti, non solo soltanto un letto dove dormire. Nei centri lavora personale specializzato (assistenti sociali, psicologi,ecc.) che aiutano le donne a ritrovare la fiducia in se stesse e a ricostruire la propria vita. Alle donne viene dato anche supporto legale e psicologico. Come si legge nel censimento: “Le case rifugio sono luoghi in cui le donne ha la possibilità di essere ascoltate, accettate e rispettate davvero”. Anche in Italia i centri antiviolenza stanno vivendo un momento difficile a causa della crisi e dei tagli sui bilanci degli enti locali. Nei giorni scorsi il Coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia-Romagna aveva sottolineato le difficoltà di alcuni centri vista la scarsità delle risorse, mentre le donne dello Spi-Cgil Emilia-Romagna, oltre a chiedere nuovi fondi per i centri, avevano sollecitato la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione del Consiglio d’Europa contro le discriminazioni di genere.

da REDATTORE SOCIALE

«Grandi spazi a sinistra. Il PD deve parlare a quegli elettori», intervista a Dario Franceschini di Simone Collini

«Trovo abbastanza inutile e anche un po’ stucchevole i dibattito sul governo,con addirittura il tentativo di dividere il Pd tra chi vuole sostenere convintamente Monti e Ichino». E per argomentare il suo giudizio Dario Franceschini parte da una«semplice considerazione»: «Il governo Monti noi lo abbiamo voluto, è la destra che lo ha subìto». Per il capogruppo del Pd alla Camera va quindi sgombrato il campo da discussioni sterili, mentre va utilizzato il tempo che separa dalle prossime elezioni per «far capire che tipo di Italia vogliamo costruire noi». Avendo in particolare un obiettivo: «Recuperare a sinistra».

Partiamo dal governo Monti: si discute sul tasso di convinzione con cui il Pd lo sostiene…
«Discussione inutile e stucchevole. Il nostro sostegno deve essere convinto perché sta lavorando sulla base della missione che gli è stata affidata, che è quella di affrontare l’emergenza del Paese».

A prescindere da come realizzi questa missione?
«Sapevamo dall’inizio che essendo sostenuto da una maggioranza composta da avversari politici, che torneranno ad affrontarsi alle prossime elezioni, ogni scelta del governo sarebbe stata necessariamente frutto di mediazioni. Alcune misure potranno soddisfarci di più, altre di meno, ma non mancherà mai il nostro sostegno».

Alfano ha fatto saltare il vertice Monti-leader perché si sarebbe parlato anche di Rai e legge anticorruzione: è pensabile che il governo non affronti simili temi?
«Non si può sostenere che il governo si debba occupare solo di economia e il Parlamento delle altre questioni, è una divisione forzosa. Anche perché ogni provvedimento che il governo adotta deve avere il consenso del Parlamento. C’è una vocazione principale riguardante i temi finanziari ed economici, ma è difficile togliere il resto delle questioni dal tavolo. Anche perché tutti gli studi dimostrano che una delle condizioni dell’Italia per uscire dal la crisi è la lotta alla corruzione, che pesa quasi quanto l’evasione, che il malfunzionamento della giustizia ha un peso economico che ricade sulle imprese e sulla credibilità del Paese. Non si può tagliare con l’accetta. Nell’azione del governo deve esserci tutto, anche i temi che possono essere più spinosi».

Il PD passerà il prossimo anno a spiegare come dovrebbero essere le misure adottate da Monti?
«Non dovrebbe, sarebbe limitante caratterizzarci fino alle prossime elezioni soltanto per le nostre posizioni sui provvedimenti del governo. Questo anno deve essere utilizzato in un altro modo. Accanto al piano del nostro sostegno convinto all’esecutivo ce ne deve essere un altro. Dobbiamo portare avanti un lavoro parallelo per trasmettere agli italiani l’idea di Paese che abbiamo in mente per il futuro, far emergere le differenze rispetto alla destra, far capire che tipo di Italia vogliamo costruire noi con una coalizione costruita attorno al PD per vincere le elezioni e governare seguendo una precisa agenda».

Si direbbe che per lei nel 2013 non dovrebbe esserci né una grande coalizione né un Monti bis a capo di uno schieramento politico.
«È così infatti. Il governo è nato per affrontare l’emergenza e ha un termine, che sono le prossime elezioni. Tutti conosciamo bene le qualità di Monti ma è inutile tirarlo per la giacca. Dopo aver guidato un esecutivo di larghe intese, dopo aver governato con il sostegno di due partiti alternativi, non potrà guidare una delle due parti. Nel 2013 si torna alla fisiologia democratica, progressisti contro conservatori, sinistra contro destra».

Parla di sinistra? Ma il PD non vuole aprire ai moderati?
«Ma proprio perché abbiamo in mente un’alleanza tra progressisti e moderati non dobbiamo limitarci al nostro campo tradizionale».

Cosa intende dire?
«Nella prossima legislatura andranno realizzate riforme profonde e questo non si potrà fare, sia per ragioni elettorali che per ragioni più sostanziali, con un campo limitato numericamente e socialmente. Servirà un’alleanza aperta a pezzi di centro. Ma questo non è in alternativa e anzi è complementare alla necessità di non lasciare incustodita o nelle mani di altri una vera e propria prateria alla nostra sinistra. Dai sondaggi risulta che Sel e Idv insieme arrivano al 15%. Se si aggiungono altre sigle, il fenomeno Grillo e l’astensionismo per scelta si arriva attorno al 20-25%. Non ha senso immaginare che un grande partito progressista possa avere alla sua sinistra uno spazio così grande».

Dice che il PD può parlare a quegli elettori?
«Dico che il PD deve parlare a quegli elettori. Conosco tutto il peso che in Italia deriva da un’eredità della storia. Ma non si può immaginare che un grande partito come il nostro, partendo dai valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale, non cerchi di occupare uno spazio a sinistra e portare una parte di quegli elettori che sono su posizioni di pura protesta, di conservazione, sulle posizioni di una sinistra moderna, di governo».

Parlare a quell’elettorato, dice, e però il PD non ha partecipato alla manifestazione della Fiom…
«Primo, quella manifestazione era contro il governo che noi abbiamo voluto e sosteniamo. Secondo, una sinistra moderna è quella che non ha paura delle sfide del cambiamento. In Italia c’è un pezzo di sinistra che è contro ogni innovazione, che ha paura della Tav, di una riforma del mercato del lavoro. Sta a noi recuperare a sinistra, tenendo fermi i valori dell’uguaglianza, della giustizia sociale e affrontando le sfide della modernità».

I partiti stanno discutendo un modello elettorale proporzionale che, dice tra gli altri Bindi, può portare a un sistema “multipolare”. Timori fondati?
«Dobbiamo chiarirci le idee: non si può essere contemporaneamente contro la vocazione maggioritaria, contro l’alleanza con l’Udc e contro la foto di Vasto, perché altrimenti non ci presentiamo alle elezioni. L’Italia deve restare bipolare, su questo siamo tutti d’accordo. E il bipolarismo è garantito, indipendentemente dalla legge elettorale, dall’alternatività tra PD e PdL. Siccome né il PD né il PdL sono autosufficienti, attorno a loro si costruiranno delle alleanze. Però serve una legge elettorale che non obblighi ad alleanze forzose, eterogenee. Ci si deve poter alleare sulla base di una condivisione programmatica, non per prendere un voto in più. Il sistema proporzionale non significa la fine del bipolarismo ma l’uscita dallo schema delle alleanze coatte che abbiamo visto quanti danni ha provocato negli ultimi anni sia nel nostro campo che in quello avverso».

Per il vostro campo sarà Bersani il candidato premier?
«Se si va verso un sistema più proporzionale, nel quale scompaiono le coalizioni, è naturale che ogni partito candidi il proprio leader».

E se invece prevalesse ancora il modello basato sulle alleanze?
«È altrettanto logico che il partito più grande esprima la premiership. Ci possono essere delle eccezioni, ma la norma resta questa».

Sabato Bersani firmerà a Parigi insieme a Hollande e Gabriel una piattaforma programmatica comune: lei è tra quanti temono che passando per l’Europa si punti a fare del PD un partito socialdemocratico?
«Guardi, il nodo in Europa è già stato chiarito con la nascita del gruppo dei Socialisti e dei Democratici. È stato detto che non basta il campo socialista, che ci vuole un campo più ampio, progressista, con i socialisti dentro. L’iniziativa di Bersani va in questa direzione. E dirò di più, ad aprile faremo un seminario con molti dei gruppi parlamentari progressisti europei e di altre parti del mondo. Lì si capirà con chiarezza che se si esce dalla paura per le sigle stiamo tutti, socialisti e non socialisti, nello stesso fronte».

da L’Unità

«In volo sui tesori di Villa Adriana minacciati da una discarica», di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Lo stoccaggio dei rifiuti previsto a 800 metri dal sito

Non bastasse il pattume cementizio che l’assedia, Villa Adriana sarà investita dal puzzo fetido di una discarica? Guai a voi, ha mandato a dire l’Unesco. Paventando addirittura la revoca del prezioso sigillo di «patrimonio mondiale dell’umanità».
Ma come hanno avuto un’idea così scellerata? Questo ti chiedi, dall’alto di un piccolo aereo ultraleggero che sbanda nel vento, vedendo i pochi metri che separano la discarica dalla dimora dell’imperatore Adriano. «Ottocento metri o anche meno — accusa il professor Cairoli Fulvio Giuliani, che è ordinario di Topografia antica e proprio a Tivoli vive —. Non conosciamo neppure i perimetri esatti della villa».
Poche centinaia di metri sottovento. Avete presente il Ponentino, quel «venterello» cantato tra gli altri da Cesare Pascarella, che porta «quer freschetto fino fino»? Adriano la volle lì, la sua villa, proprio perché anche nelle più afose canicole estive arrivava dal mare quel refolo rinfrescante. Bene: se la fanno (Dio ci scampi), la discarica sarà proprio lì, sul tragitto della brezza. La quale, dopo un paio di millenni di fragranze di pini marittimi e fiori e rosmarino che segnavano l’agro romano cantato dai viaggiatori del Gran Tour, porterà tra le Grandi Terme e i Portici, il Teatro Marittimo e il Ninfeo, folate di fetore. Col risultato, potete scommetterci, di ridurre ancor più le presenze dei visitatori paganti. Erano 187 mila l’anno, nel 2000: sono precipitati nel 2010, con un crollo del 42%, a 108 mila. Un ventesimo di quelli che ogni anno visitano Efeso, in Turchia.
Uno spreco pazzesco, per quella che è considerata una delle meraviglie archeologiche mondiali. Sottoposta per secoli ad un tale saccheggio che un po’ tutti i grandi musei del pianeta sono pieni di statue e mosaici e reperti rubati lì, a Villa Adriana. Stuprata prima da nobili e cardinali ingordi di marmi e sculture, poi da un’assatanata espansione edilizia che ha ridotto la bucolica campagna attraversata dalla via Tiburtina a un informe impasto di cave e capannoni, villette e condomini, sottopassi e sovrappassi, baracche e ipermercati.
Un orrore. Solcato a passo d’uomo da un traffico infernale che ingombra in un caos di clacson l’antica via consolare. Un’ora e un quarto ci vuole, se va bene, in treno o in autobus per fare poco più di 25 chilometri in linea d’aria dal Colosseo. Più la fatica di orientarsi fra indicazioni stradali che se ne fottono di informare. Tutti ostacoli che, indegni di un paese turistico, impongono ai turisti un certo spirito d’adattamento. Se non proprio d’avventura.
E’ proprio lì, a Corcolle, ai confini tra il Comune di Roma e quello di Tivoli, che l’esondazione cementizia tracimata dalla capitale pare finalmente fermarsi. È lì che ancora ritrovi, miracolosamente, quella campagna che scavalla su per i colli verso i Monti Tiburtini. La campagna descritta in estasi ad esempio da Charles Coleman, «il bardo errante dell’Agro». Le pecore al pascolo. La fattoria «Ena» dove ancora fanno le caciotte profumate come secoli fa. Il laghetto. L’antica Porta ricolma di vegetazione. I resti dei quattro acquedotti che portavano nella città dei cesari le acque appenniniche. Castelli e castelletti. Come quello duecentesco che domina la grande cava che dovrebbe accogliere la discarica.
Come potrebbero quelli dell’Unesco non preoccuparsi? Messi al corrente del rischio, vogliono vederci chiaro. Lo ha scritto a Carlo Ripa di Meana la signora Petya Totcharova, capo area del World Heritage center: «Riguardo il progetto di discarica nei pressi di questo Patrimonio dell’Umanità, si fa presente che è stata già espressa preoccupazione allo Stato membro e si è in attesa di una relazione». Ne discuteranno a San Pietroburgo il 24 giugno. Auguri. Una revoca del prezioso «bollino Unesco», Dio non voglia, è possibile. E sarebbe, per la nostra immagine mondiale, un disastro. E la riprova che non basta possedere un tesoro come questa villa e accogliere i visitatori con la statua della scrittrice Marguerite Yourcenair, che qui scrisse «Memorie di Adriano»: ci vuole cura, decoro, amore. Sentimenti che non possono fermarsi, come mille volte ha scritto Salvatore Settis, «un millimetro più in là del perimetro dei siti archeologici, oltre il quale può esserci l’inferno».
Ma se anche non ci fosse la Villa, dicono gli oppositori, ci sono aspetti che sconsiglierebbero comunque una discarica qui. E l’hanno scritto in una memoria alla base del ricorso al Tar e di una denuncia penale da cui è nata un’inchiesta. Memoria che contesta il rapporto dei tecnici che il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, nominato mesi fa commissario ai rifiuti, aveva incaricato di esaminare i pro e i contro di sette possibili siti individuati dalla Regione dopo che era apparso chiaro che la storica discarica di Malagrotta, dopo avere accolto 36 milioni di tonnellate di spazzatura e dopo una litania di rinvii, sarebbe stata stavolta davvero chiusa.
Ricordano dunque gli abitanti del posto che a pochi metri dalla zona individuata per lo sversamento dei rifiuti passa la condotta che porta l’acqua potabile a tutta la zona est di Roma. Di più, i tecnici incaricati di alcuni accertamenti (tecnici elogiati per «il buon lavoro» dalla governatrice Renata Polverini in un dispaccio Ansa del novembre scorso) non si sarebbero accorti, stando ai rilievi, che l’area scelta confina con un fiumiciattolo che i vecchi del posto ricordano per rare ma devastanti piene torrentizie. Per non parlare delle falde acquifere che buttano, in un’area altamente permeabile, appena pochi metri sotto la superficie: «Che succederebbe dell’acqua potabile di Roma se venisse contaminata dai liquami?»
Tutte cose che dovrebbero pesare. Se non ci fosse una misteriosa volontà di portare avanti il progetto a tutti i costi. Volontà tradita da un dettaglio che dice tutto. Sapete come viene definito nella relazione degli esperti prefettizi il maniero medievale che domina svetta sulla discarica? «Manufatto edilizio denominato Castello di Corcolle». Sic… Una definizione così furbetta da mettere in allarme il ministero dei Beni culturali: parere negativo.
Per capire cosa è successo bisogna partire da qui. Dal Castello del XII secolo riadattato in villa settecentesca al centro di un’azienda agricola con agriturismo. Il suo proprietario si chiama Giuseppe Piccioni ed è anche il socio al 50% della «Ecologia Corcolle», che si era candidata a gestire la discarica. Uno che vuol prendersi i rifiuti di Roma sotto casa non può essere che matto, penserete. Ma è ancora più curioso il seguito: dopo aver fatto la società per gestire i rifiuti nel suo giardino, ha fatto ricorso al Tar contro l’immondezzaio.
Come mai? Gli atti della commissione d’inchiesta sulle ecomafie presieduta dal pidiellino Gaetano Pecorella sono illuminanti. Tutto comincia quando iniziano a circolare le voci che a Corcolle si farà una discarica. Alla commissione Piccioni spiega di essersi spaventato, ma di aver poi realizzato che essendo la cosa inevitabile, tanto valeva gestirla. Di qui l’idea di una società, la Ecologia Corcolle, fifty-fifty con i due figli di Claudio Botticelli, un signore che già gestisce una discarica a Lanuvio e che per i rifiuti ha avuto qualche grana giudiziaria. Dice anzi che fu Botticelli a proporgli l’affare. Quando però il presidente della Commissione gli chiede di spiegare perché ha fatto ricorso al Tar, si impappina.
Dice che è sempre stato convinto che si dovesse trattare di una discarica di materiali inerti e non pericolosi… Pecorella gli fa notare l’«oggetto sociale della società». Dov’è previsto il trattamento di «rifiuti solidi urbani di qualunque oggetto considerato rifiuto, sia classificato speciale non pericoloso, sia speciale e pericoloso, compresi i rifiuti ospedalieri». «Lei capisce che siamo un po’ perplessi… », incalza la commissione. E Piccioni: «Non pensavo fosse una cosa così grande… Io non volevo questa discarica… Mia moglie non vuole venire più in campagna, a causa di questa discarica!»
Il resto, le contraddizioni, le ambiguità, le società dai profili oscuri con sede nei Grigioni, le strane alleanze e gli scontri politici, il ruolo sullo sfondo di Manlio Cerroni, l’anziano «Re della monnezza» padrone di Malagrotta e deciso a quanto pare a non uscire dal giro della spazzatura (dal quale avrebbe ricavato somme enormi) ve lo risparmiamo. La sintesi di tutto è nella risposta che Vespasiano avrebbe dato a chi gli rinfacciava di aver messo una tassa sulle latrine gestite dai privati: «Pecunia non olet». Il denaro non puzza.
Tranne, si capisce, per quelli che, se dovesse passare la discarica di Corcolle (della quale proprio oggi si occuperà il ministro dell’ambiente Corrado Clini) si sentiranno soffiare addosso il fetore portato da un Ponentino non più amico…

dal Corriere della Sera 12.3.12

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«Fra liti, sprechi e degrado Ravello lascia morire l’Auditorium di Niemeyer», di Giovanni Valentini
Dall’inaugurazione, due anni fa, è praticamente chiuso

QUESTA è una storia – al limite dell’inverosimile – di straordinario malcostume meridionale. Di sprechi finanziari a carico dell’Unione europea. Di degrado culturale e ambientale, a danno di una comunità locale e dell’intera economia nazionale. Un paradigma, insomma, di quell’Italia dissoluta che – in particolare al Sud – non funziona e fa di tutto per non funzionare. Parliamo dell’Auditorium di Ravello, la “perla” della Costiera amalfitana, città della musica e sede di un Festival internazionale che d’estate richiama turisti e appassionati da tutto il mondo. Un’opera architettonica spettacolare, realizzata su progetto del celebre architetto brasiliano Oscar Niemeyer che volle donarlo al Comune, in virtù dell’amicizia personale con il sociologo Domenico De Masi, da lui stesso delegato a supervisionare e controllare il complesso come tutore morale del suo “stato di manutenzione e di estetica”. Destinato nelle intenzioni a prolungare la stagione musicale e turistica oltre i mesi estivi; inaugurato ufficialmente il 29 gennaio 2010, con un concerto dell’orchestra e del coro del Teatro San Carlo di Napoli, da allora però l’Auditorium è rimasto praticamente chiuso. Ormai è ridotto a ospitare sporadicamente concerti bandistici, spettacoli di modesta qualità e nel fine settimana addirittura un cinematografo. Il suo stato di abbandono e degrado è visibile anche dall’esterno. E per sovrappiù, intorno all’opera infuria adesso una nuova faida: la Fondazione presieduta dall’ex ministro Renato Brunetta, che qui ha una casa di vacanze e qui s’è sposato nel luglio scorso, pretenderebbe di acquisire la strutturaa titolo gratuito – e quindi illegalmente – dal Comune di Ravello che ne ha la proprietà e per legge non può alienarla. La costruzione dell’Auditorium, finanziata dalla Regione Campania con fondi europei pari a 18,5 milioni di euro. I lavori cominciarono con sei anni di ritardo, in seguito a una serie di ricorsi al Tar – orchestrati dall’opposizione politica locale – che spaccarono perfino il fronte ambientalista: a favore Legambiente, Wwf, Fai e Verdi; contro Italia Nostra. Superati tutti gli intoppi giuridici e burocratici, finalmente i lavori iniziarono nell’ottobre 2006 per terminarea tempo di record, dopo circa tre anni.
Nel 2002, anche per gestire l’intero complesso architettonico e gli eventi culturali, la Regione, la Provincia, il Comune e il Monte dei Paschi di Siena costituirono la Fondazione, sotto la presidenza del professor De Masi. E fu proprio questa, in attesa di aprire le porte dell’Auditorium, a rilanciare il Festival estivo a livello internazionale, a vigilare sulla realizzazione del progetto, a creare una Scuola di management culturale per preparare un gruppo di giovani neolaureati: gli allievi, arrivati da tutta la Campania e anche dall’estero, sono stati più di cento.
Ma, come spesso avviene in Italia, purtroppo la politica – o meglio, la bassa politica – s’è messa di mezzo. La Regione e la Provincia sono passate da un governo di sinistra (Bassolino a Napoli e Andria a Salerno) a uno di destra (rispettivamente, Caldoro e Cirielli). A Ravello, nel 2006 l’ex opposizione conquistò la maggioranza trovandosi così a gestire proprio quel capolavoro che aveva sempre osteggiato. E contemporaneamente, nel segno del peggiore trasformismo meridionale, l’ex sindaco Secondo Amalfitano – già leader locale della Margherita e aderente al Pd – s’è trasferito armi e bagagli nel Pdl, sotto l’ala protettrice di Brunetta che l’ha ricambiato generosamente con la nomina a presidente del Formez.
Di fronte a un tale terremoto, e al tentativo palese di politicizzare la Fondazione, il 6 maggio 2010 De Masi comunicava perciò ai Soci l’intenzione di lasciare la presidenza. E il 19 luglio di quello stesso anno, anche il Monte dei Paschi di Siena usciva dalla Fondazione Ravello. Poi la Regione e la Provincia, con l’astensione del Comune, hanno conferito la presidenza a Brunetta che di fatto la esercita attraverso il suo “factotum” Amalfitano, il quale gode anche di un secondo stipendio in qualità di dipendente della Fondazione medesima. Con la delega “morale” di Niemeyer in mano, De Masi ha provato più voltea denunciare al Comune lo stato di abbandono dell’Auditorium che nel frattempo si sta progressivamente degradando per scarsa manutenzione. E lui stesso aggiunge: «Ho chiesto almeno che facesse rispettare i divieti di sosta, punendo i parcheggiatori abusivi che scempiano con le loro auto la bellezza del capolavoro. Non ho mai ottenuto nulla. Ora penso di creare un comitato internazionale di grandi intellettuali e architetti, che rafforzino con il loro prestigio le mie proteste».
L’Auditorium di Ravello, come occupazione diretta, potrebbe offrire un lavoro stabile a una quindicina di persone. Ma ipotizzando l’arrivo di 500 turisti a settimana per concerti e convegni, con una spesa di circa 250 euro a testa, si può calcolare che agli introiti del Festival estivo si aggiungerebbero almeno quattro milioni di euro all’anno. Con buona pace di un ex collega dell’ex ministro Brunetta, dunque, a volte anche la cultura si mangia.

da Repubblica 12.3.12

«Senza "concorso" Mafia più forte», di Carlo Federico Grosso

L’ annullamento della sentenza Dell’Utri e le parole del Procuratore Generale («nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»), hanno riacceso l’attenzione su tale discusso istituto giuridico.
Ieri, in una bella intervista su questo giornale, Violante ha cercato di fare il punto. Il concorso esterno, ha osservato, esiste, ed è stato utile alla magistratura per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia. Esso pecca tuttavia d’indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che devono essere considerati reato; occorre pertanto che il Parlamento intervenga, tipizzando le condotte che si intende incriminare.

La questione è stata individuata in termini corretti. Permane, si è detto, l’esigenza di disporre di strumenti giuridici adeguati per colpire i colletti bianchi che aiutano la mafia. Il problema, tuttavia, è configurare un intervento repressivo che consenta, nel contempo, alla magistratura di essere incisiva ed ai cittadini di essere sufficientemente garantiti sul terreno della certezza del diritto.

Davvero, tuttavia, per ottenere questo risultato sarebbe necessario rivedere l’istituto del concorso esterno, sostituendo alla sua attuale configurazione «generale» la tipizzazione legislativa delle singole condotte punibili? E non potrebbe essere invece, questa tipizzazione, lo strumento per indebolire l’attività di contrasto del fenomeno mafioso?

Domandiamoci, innanzitutto, se veramente l’applicazione del concorso esterno sia, oggi, priva di regole in grado d’assicurare un livello sufficiente di certezza giuridica. È vero che anni fa, quando la magistratura ha iniziato a far uso di tale istituto, vi sono state divergenze interpretative e, pertanto, decisioni giudiziali di segno diverso. La Cassazione ha tuttavia provveduto ad armonizzare l’interpretazione, enunciando i criteri sulla base dei quali è possibile stabilire se il contatto con la mafia costituisca concorso esterno punibile o fatto penalmente irrilevante.

In questa prospettiva ha stabilito che non qualsiasi rapporto con l’organizzazione criminale o con singoli mafiosi può essere considerato reato, ma che può essere ritenuto tale soltanto il contatto «che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quantomeno alla conservazione della sua forza». La condotta punibile, si è soggiunto, dev’essere specificamente individuata e dimostrata, e dev’essere altresì provato che essa ha contribuito al menzionato mantenimento dell’efficienza dell’associazione o al suo rafforzamento. Su questa base, la tipizzazione della fattispecie penale sembra, in larga misura, soddisfatta. Saranno sicuramente esclusi dall’ambito dell’incriminazione, ad esempio, i contatti sporadici, i contributi marginali, le prestazioni che non forniscano alla mafia strumenti per raggiungere i suoi obiettivi, gli apporti che rientrino nella fisiologia delle prestazioni professionali. Perché un politico possa essere incriminato, non sarà d’altronde sufficiente che si accerti che ha accettato i voti mafiosi, ma sarà necessario stabilire che è stato stipulato un patto e quale è stata la controprestazione promessa.

Se si tipizzassero i singoli comportamenti punibili a titolo di concorso esterno, la tassatività delle fattispecie penali diventerebbe indubbiamente più stringente. Ma non potrebbero emergere, a questo punto, specifiche controindicazioni? Non potrebbe accadere, ad esempio, che, nell’ansia di tipizzare questo o quel comportamento, si rischi di tagliare fuori situazioni che, nella concretezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria, potrebbero rivelare una sicura caratura criminale? Non potrebbe allora, in questa prospettiva, la proposta tipizzazione, da riforma diretta a garantire la certezza del diritto, trasformarsi in riforma funzionale agli obiettivi di chi vorrebbe, impropriamente, allentare l’attenzione sui rapporti illeciti tra la mafia, la politica e le articolazioni della società civile?

La discussione è, e rimane, aperta. È comunque un fatto che esiste oggi un’interpretazione garantista del concorso esterno, avallata dalla cassazione, in grado d’assicurare un’applicazione omogenea e rigorosa dell’istituto. Che bisogno c’è, dunque, di procedere a innovazioni che potrebbero indebolire la repressione del fenomeno mafioso?

Tanto più che, alla luce della menzionata interpretazione rigoristica, sembrano ormai pressoché abbandonate prospettive (abnormi) quali quelle che pretendevano d’individuare la prova del concorso esterno in fatti e/o accadimenti fisiologici nella vita sociale di una regione ad alta densità mafiosa, come la semplice partecipazione ad un battesimo o ad un matrimonio, la presenza ad una cena, la frequentazione dello stesso circolo, l’amicizia giovanile, e via dicendo. Analogamente, sembra esservi maggiore prudenza nel valutare la condotta dell’imprenditore che, vittima di estorsione, per attenuare il pizzo cerca d’interloquire con la mafia finendo così per contraccambiare in qualche modo (assumendo personale, mettendo a disposizione i propri mezzi di movimento terra, acquistando materiale da determinate imprese, ecc.).

Non vorrei, per altro verso, che l’abbandono dell’istituto generale del concorso in reato associativo suonasse, nei fatti e nell’immaginario collettivo, come un’inversione di rotta rispetto alla grande intuizione di Falcone e Borsellino sulla necessità di colpire con incisività i rapporti impropri fra mafia e istituzioni, mafia e politica, mafia e imprenditoria. Anche soltanto sul terreno dell’immagine sarebbe un segnale molto grave.

da La Stampa

******

“Intervista a Felice Casson: «Strumento prezioso, ma va riformato»”, di Andrea Carugati
L’ex giudice, senatore Pd: «Da anni c’è una nostra proposta per rendere più efficace il “concorso esterno”, ma il centrodestra ha sempre fatto muro»

Il Pdl sta reagendo alla sentenza Dell’Utri in modo schizofrenico e violento, come sempre quando si tratta dei processi a Berlusconi e ai suoi accoliti», spiega Felice Casson, ex magistrato, vice capogruppo Pd al Senato. «Sento dei toni trionfalistici, anche dall’ex premier, e mi chiedo: di cosa parlano? Il processo non è ancora finito, le sentenze si possono sempre commentare, ma almeno bisogna sapere di cosa si sta parlando». Senatore, alcuni suoi ex colleghi magistrati, come Caselli e Ingroia, hanno duramente criticato il pg della Cassazione Iacoviello, che nella sua requisitoria su Dell’Utri ha detto che al reato di concorso esterno in associazione mafiosa «non crede più nessuno». «Non condivido affatto le parole di Iacoviello, non erano necessarie, soprattutto in quella sede. E tuttavia quelle opinioni giuridiche non sono una novità: si inseriscono in una discussione antica sulla configurazione di quel reato. Si tratta di una situazione a margine, di una zona grigia del diritto che può creare scompensi. Non a caso, nella scorsa legislatura, in Commissione Antimafia si era prospettato un intervento legislativo in questa materia, che si è tradotto in una proposta di legge di cui sono primo firmatario in Senato, cui ha collaborato anche l’ex senatore del Prc ed ex componente del pool di Falcone Peppino Di Lello. In quel testo, approvato da tutto il gruppo Pd, precisiamo la fattispecie e cerchiamo di concretizzare quel tipo di reato, proprio per evitare ambiguità interpretative».
Che fine ha fatto?
«Come per qualsiasi altra nostra proposta in tema di giustizia presentata durante il governo Berlusconi, ci è stato opposto un muro. Per partito preso».
Che senso ha dire che a quel reato non crede più nessuno?
«Si vede che negli ambienti che frequenta Iacoviello non ci crede nessuno. In altri ambienti ci si crede eccome. Io dico che è stato uno strumento prezioso di lotta alle mafie, ma ora va regolamentato».
Il procuratore Giancarlo Caselli ipotizza un intervento del Csm contro Iacoviello.
«Mi pare inopportuno chiedere un intervento del Csm».
Alcuni pm siciliani sostengono che le parole del pg delegittimano i processi già conclusi e le indagini in corso. «Non sono d’accordo. Tutto il lavoro fatto resta in piedi, così come le sentenze passate in giudicato. Ogni processo è autonomo, è una storia a sé».
Il Pm di Matteo sostiene che si rischia di delegittimare anche le indagini in corso.
«Da un punto di vista giuridico non è così. Di fronte alle parole di un sostituto procuratore di Cassazione non bisogna fasciarsi la testa e ritenere tutto distrutto: quelle parole si possono combattere da un punto di vista di fatto e di diritto, continuando a lavorare sulla lotta alla mafia e a ricercare le prove in modo efficiente. Se si vuole continuare a utilizzare questo strumento del concorso esterno si può fare tranquillamente, però si sa benissimo che le interpretazioni possono essere diversificate. In passato ci sono state valutazioni diversificate anche tra i magistrati siciliani, con scelte di un certo tipo da parte del procuratore Antimafia Grasso, che ha ritenuto di ancorare l’accusa a ipotesi di reato più precise e maggiormente dimostrabili».
In questi giorni si è registrato un certo silenzio del Pd sulla vicenda Dell’Utri. La nascita del governo tecnico vi ha spinto ad abbassare i toni sulla giustizia? C’è chi parla addirittura di un salvaconcotto per Berlusconi, da Mills a Dell’Utri.
«Quella del salvacondotto è una balla, che non sta nè in cielo né in terra. Le valutazioni della Cassazione hanno la loro autonomia, i partiti non c’entrano. Non condivido l’idea di un Pd che si è estraniato. Non vedo neppure la necessità, se non richiesti, di commentare situazioni processuali. Se richiesti, non ci tiriamo indietro. Violante è intervenuto senza problemi, così sto facendo io».
Nessun salvacondotto, dunque?
«Stiamo ai fatti. La sentenza su Dell’Utri non è una sorpresa, era una delle possibilità di cui si parlava da anni. Ribadisco: io non condivido l’intervento di Iacoviello, ma non ha detto nulla di inedito. Quanto a Mills, il tribunale ha calcolato correttamente i tempi della prescrizione. Per anni Berlusconi ha perseguito l’obiettivo della prescrizione, costringendo il Parlamento a occuparsi dei suoi processi, e alla fine ci è riuscito».
Ritiene che ora ci sia il clima per arrivare a una modifica del concorso esterno?
«Il clima è rovente, ed è pericoloso muoversi sull’onda emotiva. E tuttavia il centrodestra, invece che lanciare inutili peana per Dell’Utri, potrebbe iniziare a lavorare seriamente in Parlamento sui temi della giustizia, a partire dalla corruzione. Sul concorso esterno li sfido. Vogliono cambiare? Votino la nostra proposta».

da l’Unità 12.3.12

«Senza “concorso” Mafia più forte», di Carlo Federico Grosso

L’ annullamento della sentenza Dell’Utri e le parole del Procuratore Generale («nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»), hanno riacceso l’attenzione su tale discusso istituto giuridico.
Ieri, in una bella intervista su questo giornale, Violante ha cercato di fare il punto. Il concorso esterno, ha osservato, esiste, ed è stato utile alla magistratura per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia. Esso pecca tuttavia d’indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che devono essere considerati reato; occorre pertanto che il Parlamento intervenga, tipizzando le condotte che si intende incriminare.

La questione è stata individuata in termini corretti. Permane, si è detto, l’esigenza di disporre di strumenti giuridici adeguati per colpire i colletti bianchi che aiutano la mafia. Il problema, tuttavia, è configurare un intervento repressivo che consenta, nel contempo, alla magistratura di essere incisiva ed ai cittadini di essere sufficientemente garantiti sul terreno della certezza del diritto.

Davvero, tuttavia, per ottenere questo risultato sarebbe necessario rivedere l’istituto del concorso esterno, sostituendo alla sua attuale configurazione «generale» la tipizzazione legislativa delle singole condotte punibili? E non potrebbe essere invece, questa tipizzazione, lo strumento per indebolire l’attività di contrasto del fenomeno mafioso?

Domandiamoci, innanzitutto, se veramente l’applicazione del concorso esterno sia, oggi, priva di regole in grado d’assicurare un livello sufficiente di certezza giuridica. È vero che anni fa, quando la magistratura ha iniziato a far uso di tale istituto, vi sono state divergenze interpretative e, pertanto, decisioni giudiziali di segno diverso. La Cassazione ha tuttavia provveduto ad armonizzare l’interpretazione, enunciando i criteri sulla base dei quali è possibile stabilire se il contatto con la mafia costituisca concorso esterno punibile o fatto penalmente irrilevante.

In questa prospettiva ha stabilito che non qualsiasi rapporto con l’organizzazione criminale o con singoli mafiosi può essere considerato reato, ma che può essere ritenuto tale soltanto il contatto «che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quantomeno alla conservazione della sua forza». La condotta punibile, si è soggiunto, dev’essere specificamente individuata e dimostrata, e dev’essere altresì provato che essa ha contribuito al menzionato mantenimento dell’efficienza dell’associazione o al suo rafforzamento. Su questa base, la tipizzazione della fattispecie penale sembra, in larga misura, soddisfatta. Saranno sicuramente esclusi dall’ambito dell’incriminazione, ad esempio, i contatti sporadici, i contributi marginali, le prestazioni che non forniscano alla mafia strumenti per raggiungere i suoi obiettivi, gli apporti che rientrino nella fisiologia delle prestazioni professionali. Perché un politico possa essere incriminato, non sarà d’altronde sufficiente che si accerti che ha accettato i voti mafiosi, ma sarà necessario stabilire che è stato stipulato un patto e quale è stata la controprestazione promessa.

Se si tipizzassero i singoli comportamenti punibili a titolo di concorso esterno, la tassatività delle fattispecie penali diventerebbe indubbiamente più stringente. Ma non potrebbero emergere, a questo punto, specifiche controindicazioni? Non potrebbe accadere, ad esempio, che, nell’ansia di tipizzare questo o quel comportamento, si rischi di tagliare fuori situazioni che, nella concretezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria, potrebbero rivelare una sicura caratura criminale? Non potrebbe allora, in questa prospettiva, la proposta tipizzazione, da riforma diretta a garantire la certezza del diritto, trasformarsi in riforma funzionale agli obiettivi di chi vorrebbe, impropriamente, allentare l’attenzione sui rapporti illeciti tra la mafia, la politica e le articolazioni della società civile?

La discussione è, e rimane, aperta. È comunque un fatto che esiste oggi un’interpretazione garantista del concorso esterno, avallata dalla cassazione, in grado d’assicurare un’applicazione omogenea e rigorosa dell’istituto. Che bisogno c’è, dunque, di procedere a innovazioni che potrebbero indebolire la repressione del fenomeno mafioso?

Tanto più che, alla luce della menzionata interpretazione rigoristica, sembrano ormai pressoché abbandonate prospettive (abnormi) quali quelle che pretendevano d’individuare la prova del concorso esterno in fatti e/o accadimenti fisiologici nella vita sociale di una regione ad alta densità mafiosa, come la semplice partecipazione ad un battesimo o ad un matrimonio, la presenza ad una cena, la frequentazione dello stesso circolo, l’amicizia giovanile, e via dicendo. Analogamente, sembra esservi maggiore prudenza nel valutare la condotta dell’imprenditore che, vittima di estorsione, per attenuare il pizzo cerca d’interloquire con la mafia finendo così per contraccambiare in qualche modo (assumendo personale, mettendo a disposizione i propri mezzi di movimento terra, acquistando materiale da determinate imprese, ecc.).

Non vorrei, per altro verso, che l’abbandono dell’istituto generale del concorso in reato associativo suonasse, nei fatti e nell’immaginario collettivo, come un’inversione di rotta rispetto alla grande intuizione di Falcone e Borsellino sulla necessità di colpire con incisività i rapporti impropri fra mafia e istituzioni, mafia e politica, mafia e imprenditoria. Anche soltanto sul terreno dell’immagine sarebbe un segnale molto grave.

da La Stampa

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“Intervista a Felice Casson: «Strumento prezioso, ma va riformato»”, di Andrea Carugati
L’ex giudice, senatore Pd: «Da anni c’è una nostra proposta per rendere più efficace il “concorso esterno”, ma il centrodestra ha sempre fatto muro»

Il Pdl sta reagendo alla sentenza Dell’Utri in modo schizofrenico e violento, come sempre quando si tratta dei processi a Berlusconi e ai suoi accoliti», spiega Felice Casson, ex magistrato, vice capogruppo Pd al Senato. «Sento dei toni trionfalistici, anche dall’ex premier, e mi chiedo: di cosa parlano? Il processo non è ancora finito, le sentenze si possono sempre commentare, ma almeno bisogna sapere di cosa si sta parlando». Senatore, alcuni suoi ex colleghi magistrati, come Caselli e Ingroia, hanno duramente criticato il pg della Cassazione Iacoviello, che nella sua requisitoria su Dell’Utri ha detto che al reato di concorso esterno in associazione mafiosa «non crede più nessuno». «Non condivido affatto le parole di Iacoviello, non erano necessarie, soprattutto in quella sede. E tuttavia quelle opinioni giuridiche non sono una novità: si inseriscono in una discussione antica sulla configurazione di quel reato. Si tratta di una situazione a margine, di una zona grigia del diritto che può creare scompensi. Non a caso, nella scorsa legislatura, in Commissione Antimafia si era prospettato un intervento legislativo in questa materia, che si è tradotto in una proposta di legge di cui sono primo firmatario in Senato, cui ha collaborato anche l’ex senatore del Prc ed ex componente del pool di Falcone Peppino Di Lello. In quel testo, approvato da tutto il gruppo Pd, precisiamo la fattispecie e cerchiamo di concretizzare quel tipo di reato, proprio per evitare ambiguità interpretative».
Che fine ha fatto?
«Come per qualsiasi altra nostra proposta in tema di giustizia presentata durante il governo Berlusconi, ci è stato opposto un muro. Per partito preso».
Che senso ha dire che a quel reato non crede più nessuno?
«Si vede che negli ambienti che frequenta Iacoviello non ci crede nessuno. In altri ambienti ci si crede eccome. Io dico che è stato uno strumento prezioso di lotta alle mafie, ma ora va regolamentato».
Il procuratore Giancarlo Caselli ipotizza un intervento del Csm contro Iacoviello.
«Mi pare inopportuno chiedere un intervento del Csm».
Alcuni pm siciliani sostengono che le parole del pg delegittimano i processi già conclusi e le indagini in corso. «Non sono d’accordo. Tutto il lavoro fatto resta in piedi, così come le sentenze passate in giudicato. Ogni processo è autonomo, è una storia a sé».
Il Pm di Matteo sostiene che si rischia di delegittimare anche le indagini in corso.
«Da un punto di vista giuridico non è così. Di fronte alle parole di un sostituto procuratore di Cassazione non bisogna fasciarsi la testa e ritenere tutto distrutto: quelle parole si possono combattere da un punto di vista di fatto e di diritto, continuando a lavorare sulla lotta alla mafia e a ricercare le prove in modo efficiente. Se si vuole continuare a utilizzare questo strumento del concorso esterno si può fare tranquillamente, però si sa benissimo che le interpretazioni possono essere diversificate. In passato ci sono state valutazioni diversificate anche tra i magistrati siciliani, con scelte di un certo tipo da parte del procuratore Antimafia Grasso, che ha ritenuto di ancorare l’accusa a ipotesi di reato più precise e maggiormente dimostrabili».
In questi giorni si è registrato un certo silenzio del Pd sulla vicenda Dell’Utri. La nascita del governo tecnico vi ha spinto ad abbassare i toni sulla giustizia? C’è chi parla addirittura di un salvaconcotto per Berlusconi, da Mills a Dell’Utri.
«Quella del salvacondotto è una balla, che non sta nè in cielo né in terra. Le valutazioni della Cassazione hanno la loro autonomia, i partiti non c’entrano. Non condivido l’idea di un Pd che si è estraniato. Non vedo neppure la necessità, se non richiesti, di commentare situazioni processuali. Se richiesti, non ci tiriamo indietro. Violante è intervenuto senza problemi, così sto facendo io».
Nessun salvacondotto, dunque?
«Stiamo ai fatti. La sentenza su Dell’Utri non è una sorpresa, era una delle possibilità di cui si parlava da anni. Ribadisco: io non condivido l’intervento di Iacoviello, ma non ha detto nulla di inedito. Quanto a Mills, il tribunale ha calcolato correttamente i tempi della prescrizione. Per anni Berlusconi ha perseguito l’obiettivo della prescrizione, costringendo il Parlamento a occuparsi dei suoi processi, e alla fine ci è riuscito».
Ritiene che ora ci sia il clima per arrivare a una modifica del concorso esterno?
«Il clima è rovente, ed è pericoloso muoversi sull’onda emotiva. E tuttavia il centrodestra, invece che lanciare inutili peana per Dell’Utri, potrebbe iniziare a lavorare seriamente in Parlamento sui temi della giustizia, a partire dalla corruzione. Sul concorso esterno li sfido. Vogliono cambiare? Votino la nostra proposta».

da l’Unità 12.3.12

«Senza “concorso” Mafia più forte», di Carlo Federico Grosso

L’ annullamento della sentenza Dell’Utri e le parole del Procuratore Generale («nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»), hanno riacceso l’attenzione su tale discusso istituto giuridico.
Ieri, in una bella intervista su questo giornale, Violante ha cercato di fare il punto. Il concorso esterno, ha osservato, esiste, ed è stato utile alla magistratura per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia. Esso pecca tuttavia d’indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che devono essere considerati reato; occorre pertanto che il Parlamento intervenga, tipizzando le condotte che si intende incriminare.

La questione è stata individuata in termini corretti. Permane, si è detto, l’esigenza di disporre di strumenti giuridici adeguati per colpire i colletti bianchi che aiutano la mafia. Il problema, tuttavia, è configurare un intervento repressivo che consenta, nel contempo, alla magistratura di essere incisiva ed ai cittadini di essere sufficientemente garantiti sul terreno della certezza del diritto.

Davvero, tuttavia, per ottenere questo risultato sarebbe necessario rivedere l’istituto del concorso esterno, sostituendo alla sua attuale configurazione «generale» la tipizzazione legislativa delle singole condotte punibili? E non potrebbe essere invece, questa tipizzazione, lo strumento per indebolire l’attività di contrasto del fenomeno mafioso?

Domandiamoci, innanzitutto, se veramente l’applicazione del concorso esterno sia, oggi, priva di regole in grado d’assicurare un livello sufficiente di certezza giuridica. È vero che anni fa, quando la magistratura ha iniziato a far uso di tale istituto, vi sono state divergenze interpretative e, pertanto, decisioni giudiziali di segno diverso. La Cassazione ha tuttavia provveduto ad armonizzare l’interpretazione, enunciando i criteri sulla base dei quali è possibile stabilire se il contatto con la mafia costituisca concorso esterno punibile o fatto penalmente irrilevante.

In questa prospettiva ha stabilito che non qualsiasi rapporto con l’organizzazione criminale o con singoli mafiosi può essere considerato reato, ma che può essere ritenuto tale soltanto il contatto «che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quantomeno alla conservazione della sua forza». La condotta punibile, si è soggiunto, dev’essere specificamente individuata e dimostrata, e dev’essere altresì provato che essa ha contribuito al menzionato mantenimento dell’efficienza dell’associazione o al suo rafforzamento. Su questa base, la tipizzazione della fattispecie penale sembra, in larga misura, soddisfatta. Saranno sicuramente esclusi dall’ambito dell’incriminazione, ad esempio, i contatti sporadici, i contributi marginali, le prestazioni che non forniscano alla mafia strumenti per raggiungere i suoi obiettivi, gli apporti che rientrino nella fisiologia delle prestazioni professionali. Perché un politico possa essere incriminato, non sarà d’altronde sufficiente che si accerti che ha accettato i voti mafiosi, ma sarà necessario stabilire che è stato stipulato un patto e quale è stata la controprestazione promessa.

Se si tipizzassero i singoli comportamenti punibili a titolo di concorso esterno, la tassatività delle fattispecie penali diventerebbe indubbiamente più stringente. Ma non potrebbero emergere, a questo punto, specifiche controindicazioni? Non potrebbe accadere, ad esempio, che, nell’ansia di tipizzare questo o quel comportamento, si rischi di tagliare fuori situazioni che, nella concretezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria, potrebbero rivelare una sicura caratura criminale? Non potrebbe allora, in questa prospettiva, la proposta tipizzazione, da riforma diretta a garantire la certezza del diritto, trasformarsi in riforma funzionale agli obiettivi di chi vorrebbe, impropriamente, allentare l’attenzione sui rapporti illeciti tra la mafia, la politica e le articolazioni della società civile?

La discussione è, e rimane, aperta. È comunque un fatto che esiste oggi un’interpretazione garantista del concorso esterno, avallata dalla cassazione, in grado d’assicurare un’applicazione omogenea e rigorosa dell’istituto. Che bisogno c’è, dunque, di procedere a innovazioni che potrebbero indebolire la repressione del fenomeno mafioso?

Tanto più che, alla luce della menzionata interpretazione rigoristica, sembrano ormai pressoché abbandonate prospettive (abnormi) quali quelle che pretendevano d’individuare la prova del concorso esterno in fatti e/o accadimenti fisiologici nella vita sociale di una regione ad alta densità mafiosa, come la semplice partecipazione ad un battesimo o ad un matrimonio, la presenza ad una cena, la frequentazione dello stesso circolo, l’amicizia giovanile, e via dicendo. Analogamente, sembra esservi maggiore prudenza nel valutare la condotta dell’imprenditore che, vittima di estorsione, per attenuare il pizzo cerca d’interloquire con la mafia finendo così per contraccambiare in qualche modo (assumendo personale, mettendo a disposizione i propri mezzi di movimento terra, acquistando materiale da determinate imprese, ecc.).

Non vorrei, per altro verso, che l’abbandono dell’istituto generale del concorso in reato associativo suonasse, nei fatti e nell’immaginario collettivo, come un’inversione di rotta rispetto alla grande intuizione di Falcone e Borsellino sulla necessità di colpire con incisività i rapporti impropri fra mafia e istituzioni, mafia e politica, mafia e imprenditoria. Anche soltanto sul terreno dell’immagine sarebbe un segnale molto grave.

da La Stampa

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“Intervista a Felice Casson: «Strumento prezioso, ma va riformato»”, di Andrea Carugati
L’ex giudice, senatore Pd: «Da anni c’è una nostra proposta per rendere più efficace il “concorso esterno”, ma il centrodestra ha sempre fatto muro»

Il Pdl sta reagendo alla sentenza Dell’Utri in modo schizofrenico e violento, come sempre quando si tratta dei processi a Berlusconi e ai suoi accoliti», spiega Felice Casson, ex magistrato, vice capogruppo Pd al Senato. «Sento dei toni trionfalistici, anche dall’ex premier, e mi chiedo: di cosa parlano? Il processo non è ancora finito, le sentenze si possono sempre commentare, ma almeno bisogna sapere di cosa si sta parlando». Senatore, alcuni suoi ex colleghi magistrati, come Caselli e Ingroia, hanno duramente criticato il pg della Cassazione Iacoviello, che nella sua requisitoria su Dell’Utri ha detto che al reato di concorso esterno in associazione mafiosa «non crede più nessuno». «Non condivido affatto le parole di Iacoviello, non erano necessarie, soprattutto in quella sede. E tuttavia quelle opinioni giuridiche non sono una novità: si inseriscono in una discussione antica sulla configurazione di quel reato. Si tratta di una situazione a margine, di una zona grigia del diritto che può creare scompensi. Non a caso, nella scorsa legislatura, in Commissione Antimafia si era prospettato un intervento legislativo in questa materia, che si è tradotto in una proposta di legge di cui sono primo firmatario in Senato, cui ha collaborato anche l’ex senatore del Prc ed ex componente del pool di Falcone Peppino Di Lello. In quel testo, approvato da tutto il gruppo Pd, precisiamo la fattispecie e cerchiamo di concretizzare quel tipo di reato, proprio per evitare ambiguità interpretative».
Che fine ha fatto?
«Come per qualsiasi altra nostra proposta in tema di giustizia presentata durante il governo Berlusconi, ci è stato opposto un muro. Per partito preso».
Che senso ha dire che a quel reato non crede più nessuno?
«Si vede che negli ambienti che frequenta Iacoviello non ci crede nessuno. In altri ambienti ci si crede eccome. Io dico che è stato uno strumento prezioso di lotta alle mafie, ma ora va regolamentato».
Il procuratore Giancarlo Caselli ipotizza un intervento del Csm contro Iacoviello.
«Mi pare inopportuno chiedere un intervento del Csm».
Alcuni pm siciliani sostengono che le parole del pg delegittimano i processi già conclusi e le indagini in corso. «Non sono d’accordo. Tutto il lavoro fatto resta in piedi, così come le sentenze passate in giudicato. Ogni processo è autonomo, è una storia a sé».
Il Pm di Matteo sostiene che si rischia di delegittimare anche le indagini in corso.
«Da un punto di vista giuridico non è così. Di fronte alle parole di un sostituto procuratore di Cassazione non bisogna fasciarsi la testa e ritenere tutto distrutto: quelle parole si possono combattere da un punto di vista di fatto e di diritto, continuando a lavorare sulla lotta alla mafia e a ricercare le prove in modo efficiente. Se si vuole continuare a utilizzare questo strumento del concorso esterno si può fare tranquillamente, però si sa benissimo che le interpretazioni possono essere diversificate. In passato ci sono state valutazioni diversificate anche tra i magistrati siciliani, con scelte di un certo tipo da parte del procuratore Antimafia Grasso, che ha ritenuto di ancorare l’accusa a ipotesi di reato più precise e maggiormente dimostrabili».
In questi giorni si è registrato un certo silenzio del Pd sulla vicenda Dell’Utri. La nascita del governo tecnico vi ha spinto ad abbassare i toni sulla giustizia? C’è chi parla addirittura di un salvaconcotto per Berlusconi, da Mills a Dell’Utri.
«Quella del salvacondotto è una balla, che non sta nè in cielo né in terra. Le valutazioni della Cassazione hanno la loro autonomia, i partiti non c’entrano. Non condivido l’idea di un Pd che si è estraniato. Non vedo neppure la necessità, se non richiesti, di commentare situazioni processuali. Se richiesti, non ci tiriamo indietro. Violante è intervenuto senza problemi, così sto facendo io».
Nessun salvacondotto, dunque?
«Stiamo ai fatti. La sentenza su Dell’Utri non è una sorpresa, era una delle possibilità di cui si parlava da anni. Ribadisco: io non condivido l’intervento di Iacoviello, ma non ha detto nulla di inedito. Quanto a Mills, il tribunale ha calcolato correttamente i tempi della prescrizione. Per anni Berlusconi ha perseguito l’obiettivo della prescrizione, costringendo il Parlamento a occuparsi dei suoi processi, e alla fine ci è riuscito».
Ritiene che ora ci sia il clima per arrivare a una modifica del concorso esterno?
«Il clima è rovente, ed è pericoloso muoversi sull’onda emotiva. E tuttavia il centrodestra, invece che lanciare inutili peana per Dell’Utri, potrebbe iniziare a lavorare seriamente in Parlamento sui temi della giustizia, a partire dalla corruzione. Sul concorso esterno li sfido. Vogliono cambiare? Votino la nostra proposta».

da l’Unità 12.3.12