politica italiana

«Senza “concorso” Mafia più forte», di Carlo Federico Grosso

L’ annullamento della sentenza Dell’Utri e le parole del Procuratore Generale («nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»), hanno riacceso l’attenzione su tale discusso istituto giuridico.
Ieri, in una bella intervista su questo giornale, Violante ha cercato di fare il punto. Il concorso esterno, ha osservato, esiste, ed è stato utile alla magistratura per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia. Esso pecca tuttavia d’indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che devono essere considerati reato; occorre pertanto che il Parlamento intervenga, tipizzando le condotte che si intende incriminare.

La questione è stata individuata in termini corretti. Permane, si è detto, l’esigenza di disporre di strumenti giuridici adeguati per colpire i colletti bianchi che aiutano la mafia. Il problema, tuttavia, è configurare un intervento repressivo che consenta, nel contempo, alla magistratura di essere incisiva ed ai cittadini di essere sufficientemente garantiti sul terreno della certezza del diritto.

Davvero, tuttavia, per ottenere questo risultato sarebbe necessario rivedere l’istituto del concorso esterno, sostituendo alla sua attuale configurazione «generale» la tipizzazione legislativa delle singole condotte punibili? E non potrebbe essere invece, questa tipizzazione, lo strumento per indebolire l’attività di contrasto del fenomeno mafioso?

Domandiamoci, innanzitutto, se veramente l’applicazione del concorso esterno sia, oggi, priva di regole in grado d’assicurare un livello sufficiente di certezza giuridica. È vero che anni fa, quando la magistratura ha iniziato a far uso di tale istituto, vi sono state divergenze interpretative e, pertanto, decisioni giudiziali di segno diverso. La Cassazione ha tuttavia provveduto ad armonizzare l’interpretazione, enunciando i criteri sulla base dei quali è possibile stabilire se il contatto con la mafia costituisca concorso esterno punibile o fatto penalmente irrilevante.

In questa prospettiva ha stabilito che non qualsiasi rapporto con l’organizzazione criminale o con singoli mafiosi può essere considerato reato, ma che può essere ritenuto tale soltanto il contatto «che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quantomeno alla conservazione della sua forza». La condotta punibile, si è soggiunto, dev’essere specificamente individuata e dimostrata, e dev’essere altresì provato che essa ha contribuito al menzionato mantenimento dell’efficienza dell’associazione o al suo rafforzamento. Su questa base, la tipizzazione della fattispecie penale sembra, in larga misura, soddisfatta. Saranno sicuramente esclusi dall’ambito dell’incriminazione, ad esempio, i contatti sporadici, i contributi marginali, le prestazioni che non forniscano alla mafia strumenti per raggiungere i suoi obiettivi, gli apporti che rientrino nella fisiologia delle prestazioni professionali. Perché un politico possa essere incriminato, non sarà d’altronde sufficiente che si accerti che ha accettato i voti mafiosi, ma sarà necessario stabilire che è stato stipulato un patto e quale è stata la controprestazione promessa.

Se si tipizzassero i singoli comportamenti punibili a titolo di concorso esterno, la tassatività delle fattispecie penali diventerebbe indubbiamente più stringente. Ma non potrebbero emergere, a questo punto, specifiche controindicazioni? Non potrebbe accadere, ad esempio, che, nell’ansia di tipizzare questo o quel comportamento, si rischi di tagliare fuori situazioni che, nella concretezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria, potrebbero rivelare una sicura caratura criminale? Non potrebbe allora, in questa prospettiva, la proposta tipizzazione, da riforma diretta a garantire la certezza del diritto, trasformarsi in riforma funzionale agli obiettivi di chi vorrebbe, impropriamente, allentare l’attenzione sui rapporti illeciti tra la mafia, la politica e le articolazioni della società civile?

La discussione è, e rimane, aperta. È comunque un fatto che esiste oggi un’interpretazione garantista del concorso esterno, avallata dalla cassazione, in grado d’assicurare un’applicazione omogenea e rigorosa dell’istituto. Che bisogno c’è, dunque, di procedere a innovazioni che potrebbero indebolire la repressione del fenomeno mafioso?

Tanto più che, alla luce della menzionata interpretazione rigoristica, sembrano ormai pressoché abbandonate prospettive (abnormi) quali quelle che pretendevano d’individuare la prova del concorso esterno in fatti e/o accadimenti fisiologici nella vita sociale di una regione ad alta densità mafiosa, come la semplice partecipazione ad un battesimo o ad un matrimonio, la presenza ad una cena, la frequentazione dello stesso circolo, l’amicizia giovanile, e via dicendo. Analogamente, sembra esservi maggiore prudenza nel valutare la condotta dell’imprenditore che, vittima di estorsione, per attenuare il pizzo cerca d’interloquire con la mafia finendo così per contraccambiare in qualche modo (assumendo personale, mettendo a disposizione i propri mezzi di movimento terra, acquistando materiale da determinate imprese, ecc.).

Non vorrei, per altro verso, che l’abbandono dell’istituto generale del concorso in reato associativo suonasse, nei fatti e nell’immaginario collettivo, come un’inversione di rotta rispetto alla grande intuizione di Falcone e Borsellino sulla necessità di colpire con incisività i rapporti impropri fra mafia e istituzioni, mafia e politica, mafia e imprenditoria. Anche soltanto sul terreno dell’immagine sarebbe un segnale molto grave.

da La Stampa

******

“Intervista a Felice Casson: «Strumento prezioso, ma va riformato»”, di Andrea Carugati
L’ex giudice, senatore Pd: «Da anni c’è una nostra proposta per rendere più efficace il “concorso esterno”, ma il centrodestra ha sempre fatto muro»

Il Pdl sta reagendo alla sentenza Dell’Utri in modo schizofrenico e violento, come sempre quando si tratta dei processi a Berlusconi e ai suoi accoliti», spiega Felice Casson, ex magistrato, vice capogruppo Pd al Senato. «Sento dei toni trionfalistici, anche dall’ex premier, e mi chiedo: di cosa parlano? Il processo non è ancora finito, le sentenze si possono sempre commentare, ma almeno bisogna sapere di cosa si sta parlando». Senatore, alcuni suoi ex colleghi magistrati, come Caselli e Ingroia, hanno duramente criticato il pg della Cassazione Iacoviello, che nella sua requisitoria su Dell’Utri ha detto che al reato di concorso esterno in associazione mafiosa «non crede più nessuno». «Non condivido affatto le parole di Iacoviello, non erano necessarie, soprattutto in quella sede. E tuttavia quelle opinioni giuridiche non sono una novità: si inseriscono in una discussione antica sulla configurazione di quel reato. Si tratta di una situazione a margine, di una zona grigia del diritto che può creare scompensi. Non a caso, nella scorsa legislatura, in Commissione Antimafia si era prospettato un intervento legislativo in questa materia, che si è tradotto in una proposta di legge di cui sono primo firmatario in Senato, cui ha collaborato anche l’ex senatore del Prc ed ex componente del pool di Falcone Peppino Di Lello. In quel testo, approvato da tutto il gruppo Pd, precisiamo la fattispecie e cerchiamo di concretizzare quel tipo di reato, proprio per evitare ambiguità interpretative».
Che fine ha fatto?
«Come per qualsiasi altra nostra proposta in tema di giustizia presentata durante il governo Berlusconi, ci è stato opposto un muro. Per partito preso».
Che senso ha dire che a quel reato non crede più nessuno?
«Si vede che negli ambienti che frequenta Iacoviello non ci crede nessuno. In altri ambienti ci si crede eccome. Io dico che è stato uno strumento prezioso di lotta alle mafie, ma ora va regolamentato».
Il procuratore Giancarlo Caselli ipotizza un intervento del Csm contro Iacoviello.
«Mi pare inopportuno chiedere un intervento del Csm».
Alcuni pm siciliani sostengono che le parole del pg delegittimano i processi già conclusi e le indagini in corso. «Non sono d’accordo. Tutto il lavoro fatto resta in piedi, così come le sentenze passate in giudicato. Ogni processo è autonomo, è una storia a sé».
Il Pm di Matteo sostiene che si rischia di delegittimare anche le indagini in corso.
«Da un punto di vista giuridico non è così. Di fronte alle parole di un sostituto procuratore di Cassazione non bisogna fasciarsi la testa e ritenere tutto distrutto: quelle parole si possono combattere da un punto di vista di fatto e di diritto, continuando a lavorare sulla lotta alla mafia e a ricercare le prove in modo efficiente. Se si vuole continuare a utilizzare questo strumento del concorso esterno si può fare tranquillamente, però si sa benissimo che le interpretazioni possono essere diversificate. In passato ci sono state valutazioni diversificate anche tra i magistrati siciliani, con scelte di un certo tipo da parte del procuratore Antimafia Grasso, che ha ritenuto di ancorare l’accusa a ipotesi di reato più precise e maggiormente dimostrabili».
In questi giorni si è registrato un certo silenzio del Pd sulla vicenda Dell’Utri. La nascita del governo tecnico vi ha spinto ad abbassare i toni sulla giustizia? C’è chi parla addirittura di un salvaconcotto per Berlusconi, da Mills a Dell’Utri.
«Quella del salvacondotto è una balla, che non sta nè in cielo né in terra. Le valutazioni della Cassazione hanno la loro autonomia, i partiti non c’entrano. Non condivido l’idea di un Pd che si è estraniato. Non vedo neppure la necessità, se non richiesti, di commentare situazioni processuali. Se richiesti, non ci tiriamo indietro. Violante è intervenuto senza problemi, così sto facendo io».
Nessun salvacondotto, dunque?
«Stiamo ai fatti. La sentenza su Dell’Utri non è una sorpresa, era una delle possibilità di cui si parlava da anni. Ribadisco: io non condivido l’intervento di Iacoviello, ma non ha detto nulla di inedito. Quanto a Mills, il tribunale ha calcolato correttamente i tempi della prescrizione. Per anni Berlusconi ha perseguito l’obiettivo della prescrizione, costringendo il Parlamento a occuparsi dei suoi processi, e alla fine ci è riuscito».
Ritiene che ora ci sia il clima per arrivare a una modifica del concorso esterno?
«Il clima è rovente, ed è pericoloso muoversi sull’onda emotiva. E tuttavia il centrodestra, invece che lanciare inutili peana per Dell’Utri, potrebbe iniziare a lavorare seriamente in Parlamento sui temi della giustizia, a partire dalla corruzione. Sul concorso esterno li sfido. Vogliono cambiare? Votino la nostra proposta».

da l’Unità 12.3.12

politica italiana

«Senza “concorso” Mafia più forte», di Carlo Federico Grosso

L’ annullamento della sentenza Dell’Utri e le parole del Procuratore Generale («nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»), hanno riacceso l’attenzione su tale discusso istituto giuridico.
Ieri, in una bella intervista su questo giornale, Violante ha cercato di fare il punto. Il concorso esterno, ha osservato, esiste, ed è stato utile alla magistratura per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall’esterno la mafia. Esso pecca tuttavia d’indeterminatezza, perché non individua gli specifici comportamenti che devono essere considerati reato; occorre pertanto che il Parlamento intervenga, tipizzando le condotte che si intende incriminare.

La questione è stata individuata in termini corretti. Permane, si è detto, l’esigenza di disporre di strumenti giuridici adeguati per colpire i colletti bianchi che aiutano la mafia. Il problema, tuttavia, è configurare un intervento repressivo che consenta, nel contempo, alla magistratura di essere incisiva ed ai cittadini di essere sufficientemente garantiti sul terreno della certezza del diritto.

Davvero, tuttavia, per ottenere questo risultato sarebbe necessario rivedere l’istituto del concorso esterno, sostituendo alla sua attuale configurazione «generale» la tipizzazione legislativa delle singole condotte punibili? E non potrebbe essere invece, questa tipizzazione, lo strumento per indebolire l’attività di contrasto del fenomeno mafioso?

Domandiamoci, innanzitutto, se veramente l’applicazione del concorso esterno sia, oggi, priva di regole in grado d’assicurare un livello sufficiente di certezza giuridica. È vero che anni fa, quando la magistratura ha iniziato a far uso di tale istituto, vi sono state divergenze interpretative e, pertanto, decisioni giudiziali di segno diverso. La Cassazione ha tuttavia provveduto ad armonizzare l’interpretazione, enunciando i criteri sulla base dei quali è possibile stabilire se il contatto con la mafia costituisca concorso esterno punibile o fatto penalmente irrilevante.

In questa prospettiva ha stabilito che non qualsiasi rapporto con l’organizzazione criminale o con singoli mafiosi può essere considerato reato, ma che può essere ritenuto tale soltanto il contatto «che abbia concretamente contribuito al rafforzamento dell’organizzazione criminale o quantomeno alla conservazione della sua forza». La condotta punibile, si è soggiunto, dev’essere specificamente individuata e dimostrata, e dev’essere altresì provato che essa ha contribuito al menzionato mantenimento dell’efficienza dell’associazione o al suo rafforzamento. Su questa base, la tipizzazione della fattispecie penale sembra, in larga misura, soddisfatta. Saranno sicuramente esclusi dall’ambito dell’incriminazione, ad esempio, i contatti sporadici, i contributi marginali, le prestazioni che non forniscano alla mafia strumenti per raggiungere i suoi obiettivi, gli apporti che rientrino nella fisiologia delle prestazioni professionali. Perché un politico possa essere incriminato, non sarà d’altronde sufficiente che si accerti che ha accettato i voti mafiosi, ma sarà necessario stabilire che è stato stipulato un patto e quale è stata la controprestazione promessa.

Se si tipizzassero i singoli comportamenti punibili a titolo di concorso esterno, la tassatività delle fattispecie penali diventerebbe indubbiamente più stringente. Ma non potrebbero emergere, a questo punto, specifiche controindicazioni? Non potrebbe accadere, ad esempio, che, nell’ansia di tipizzare questo o quel comportamento, si rischi di tagliare fuori situazioni che, nella concretezza dell’esercizio dell’attività giudiziaria, potrebbero rivelare una sicura caratura criminale? Non potrebbe allora, in questa prospettiva, la proposta tipizzazione, da riforma diretta a garantire la certezza del diritto, trasformarsi in riforma funzionale agli obiettivi di chi vorrebbe, impropriamente, allentare l’attenzione sui rapporti illeciti tra la mafia, la politica e le articolazioni della società civile?

La discussione è, e rimane, aperta. È comunque un fatto che esiste oggi un’interpretazione garantista del concorso esterno, avallata dalla cassazione, in grado d’assicurare un’applicazione omogenea e rigorosa dell’istituto. Che bisogno c’è, dunque, di procedere a innovazioni che potrebbero indebolire la repressione del fenomeno mafioso?

Tanto più che, alla luce della menzionata interpretazione rigoristica, sembrano ormai pressoché abbandonate prospettive (abnormi) quali quelle che pretendevano d’individuare la prova del concorso esterno in fatti e/o accadimenti fisiologici nella vita sociale di una regione ad alta densità mafiosa, come la semplice partecipazione ad un battesimo o ad un matrimonio, la presenza ad una cena, la frequentazione dello stesso circolo, l’amicizia giovanile, e via dicendo. Analogamente, sembra esservi maggiore prudenza nel valutare la condotta dell’imprenditore che, vittima di estorsione, per attenuare il pizzo cerca d’interloquire con la mafia finendo così per contraccambiare in qualche modo (assumendo personale, mettendo a disposizione i propri mezzi di movimento terra, acquistando materiale da determinate imprese, ecc.).

Non vorrei, per altro verso, che l’abbandono dell’istituto generale del concorso in reato associativo suonasse, nei fatti e nell’immaginario collettivo, come un’inversione di rotta rispetto alla grande intuizione di Falcone e Borsellino sulla necessità di colpire con incisività i rapporti impropri fra mafia e istituzioni, mafia e politica, mafia e imprenditoria. Anche soltanto sul terreno dell’immagine sarebbe un segnale molto grave.

da La Stampa

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“Intervista a Felice Casson: «Strumento prezioso, ma va riformato»”, di Andrea Carugati
L’ex giudice, senatore Pd: «Da anni c’è una nostra proposta per rendere più efficace il “concorso esterno”, ma il centrodestra ha sempre fatto muro»

Il Pdl sta reagendo alla sentenza Dell’Utri in modo schizofrenico e violento, come sempre quando si tratta dei processi a Berlusconi e ai suoi accoliti», spiega Felice Casson, ex magistrato, vice capogruppo Pd al Senato. «Sento dei toni trionfalistici, anche dall’ex premier, e mi chiedo: di cosa parlano? Il processo non è ancora finito, le sentenze si possono sempre commentare, ma almeno bisogna sapere di cosa si sta parlando». Senatore, alcuni suoi ex colleghi magistrati, come Caselli e Ingroia, hanno duramente criticato il pg della Cassazione Iacoviello, che nella sua requisitoria su Dell’Utri ha detto che al reato di concorso esterno in associazione mafiosa «non crede più nessuno». «Non condivido affatto le parole di Iacoviello, non erano necessarie, soprattutto in quella sede. E tuttavia quelle opinioni giuridiche non sono una novità: si inseriscono in una discussione antica sulla configurazione di quel reato. Si tratta di una situazione a margine, di una zona grigia del diritto che può creare scompensi. Non a caso, nella scorsa legislatura, in Commissione Antimafia si era prospettato un intervento legislativo in questa materia, che si è tradotto in una proposta di legge di cui sono primo firmatario in Senato, cui ha collaborato anche l’ex senatore del Prc ed ex componente del pool di Falcone Peppino Di Lello. In quel testo, approvato da tutto il gruppo Pd, precisiamo la fattispecie e cerchiamo di concretizzare quel tipo di reato, proprio per evitare ambiguità interpretative».
Che fine ha fatto?
«Come per qualsiasi altra nostra proposta in tema di giustizia presentata durante il governo Berlusconi, ci è stato opposto un muro. Per partito preso».
Che senso ha dire che a quel reato non crede più nessuno?
«Si vede che negli ambienti che frequenta Iacoviello non ci crede nessuno. In altri ambienti ci si crede eccome. Io dico che è stato uno strumento prezioso di lotta alle mafie, ma ora va regolamentato».
Il procuratore Giancarlo Caselli ipotizza un intervento del Csm contro Iacoviello.
«Mi pare inopportuno chiedere un intervento del Csm».
Alcuni pm siciliani sostengono che le parole del pg delegittimano i processi già conclusi e le indagini in corso. «Non sono d’accordo. Tutto il lavoro fatto resta in piedi, così come le sentenze passate in giudicato. Ogni processo è autonomo, è una storia a sé».
Il Pm di Matteo sostiene che si rischia di delegittimare anche le indagini in corso.
«Da un punto di vista giuridico non è così. Di fronte alle parole di un sostituto procuratore di Cassazione non bisogna fasciarsi la testa e ritenere tutto distrutto: quelle parole si possono combattere da un punto di vista di fatto e di diritto, continuando a lavorare sulla lotta alla mafia e a ricercare le prove in modo efficiente. Se si vuole continuare a utilizzare questo strumento del concorso esterno si può fare tranquillamente, però si sa benissimo che le interpretazioni possono essere diversificate. In passato ci sono state valutazioni diversificate anche tra i magistrati siciliani, con scelte di un certo tipo da parte del procuratore Antimafia Grasso, che ha ritenuto di ancorare l’accusa a ipotesi di reato più precise e maggiormente dimostrabili».
In questi giorni si è registrato un certo silenzio del Pd sulla vicenda Dell’Utri. La nascita del governo tecnico vi ha spinto ad abbassare i toni sulla giustizia? C’è chi parla addirittura di un salvaconcotto per Berlusconi, da Mills a Dell’Utri.
«Quella del salvacondotto è una balla, che non sta nè in cielo né in terra. Le valutazioni della Cassazione hanno la loro autonomia, i partiti non c’entrano. Non condivido l’idea di un Pd che si è estraniato. Non vedo neppure la necessità, se non richiesti, di commentare situazioni processuali. Se richiesti, non ci tiriamo indietro. Violante è intervenuto senza problemi, così sto facendo io».
Nessun salvacondotto, dunque?
«Stiamo ai fatti. La sentenza su Dell’Utri non è una sorpresa, era una delle possibilità di cui si parlava da anni. Ribadisco: io non condivido l’intervento di Iacoviello, ma non ha detto nulla di inedito. Quanto a Mills, il tribunale ha calcolato correttamente i tempi della prescrizione. Per anni Berlusconi ha perseguito l’obiettivo della prescrizione, costringendo il Parlamento a occuparsi dei suoi processi, e alla fine ci è riuscito».
Ritiene che ora ci sia il clima per arrivare a una modifica del concorso esterno?
«Il clima è rovente, ed è pericoloso muoversi sull’onda emotiva. E tuttavia il centrodestra, invece che lanciare inutili peana per Dell’Utri, potrebbe iniziare a lavorare seriamente in Parlamento sui temi della giustizia, a partire dalla corruzione. Sul concorso esterno li sfido. Vogliono cambiare? Votino la nostra proposta».

da l’Unità 12.3.12