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"La Repubblica fondata sull'insicurezza", di Ilvo Diamanti

È il lavoro la questione intorno a cui ruota il dibattito politico di questa fase. L’articolo 18, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, il futuro dei giovani, il posto fisso, i mammoni. Angelino Alfano ha indicato al governo tre priorità: «Lavoro, lavoro e lavoro». Apostrofato da Bersani: «L’ha scoperto solo ora (per non parlare delle frequenze tivù)». Il lavoro e il suo reciproco: il non-lavoro attraggono, dunque, l’interesse degli attori politici e del governo. Ma, forse, non abbastanza rispetto a quanto avviene nella società. La disoccupazione, infatti, è il problema più sentito dai cittadini, in Italia, da almeno due anni, come emerge dai dati dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (curato da Demos, l’Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), a cui facciamo riferimento in questa Mappa ( www.demos.it ). Una persona su due, infatti, si definisce “frequentemente” preoccupata – per sé e i propri familiari – di perdere il lavoro (gennaio 2012). Circa dieci punti in più rispetto a un anno fa. D’altronde, nel campione rappresentativo della popolazione italiana, il 35% dichiara che, nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha cercato lavoro, senza trovarlo.

Il 22%, che (in famiglia) qualcuno è stato messo in mobilità o in cassa integrazione. Il 19%, infine, che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. In definitiva, quasi una famiglia su due sta sperimentando gli effetti della crisi sul piano dell’occupazione.

Un problema comune al resto d’Europa, dove si rileva un grado di inquietudine analogo. Con una differenza significativa.

L’85% degli italiani ritiene che i giovani, nel prossimo futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai genitori.

Quasi 10 punti in più rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma circa 20 più che in Germania e Spagna. In altri termini: l’incertezza e la precarietà del lavoro si riflettono nell’incertezza e nella precarietà del futuro dei giovani.

Anzi, nell’incertezza del futuro, semplicemente. D’altronde, il 56% degli italiani non vede sbocco a questa crisi. Non riesce a immaginare quando finirà. Certamente non prima di due anni. Il lavoro – incerto, precario e perduto – alimenta l’insicurezza economica. Un sentimento che contagia il 73% degli italiani e trascina le altre dimensioni dell’insicurezza. Non a caso le paure relative alla globalizzazione e alla criminalità risultano molto più elevate fra coloro che si sentono maggiormente minacciati dalla disoccupazione. È come se, insieme all’incertezza del lavoro, fosse cresciuto un diffuso e crescente senso di «insicurezza ontologica», per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Che, cioè, scuote alle radici il nostro sistema di riferimenti sociali e personali. Mette in dubbio la nostra identità. E ci schiaccia nel presente, lasciandoci senza ancore né legami. Da ciò la differenza da un tempo, quando il lavoro ci forniva relazioni, prospettive, senso. Anche quando era una “materia scarsa”, quanto e più di oggi. Basti pensare alla rappresentazione – cruda e disincantata – di Luigi Meneghello, in “Libera nos a Malo”: «C’è invece l’espressione ‘bisogna’, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la ‘dòna’, per ‘el me òmo’, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare.

Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre….». Il lavoro, come necessità. Dura e senza fine.

A cui affidare la propria condizionee quella della propria famiglia. Ma anche la propria identità, la propria immagine e il proprio riconoscimento, di fronte agli altri. Oggi, però, quel modello si è dissolto. Perché se è vero che “lavorare bisogna” occorre aggiungere: “Se possibile”. Ma soprattutto “senza certezze e senza continuità”. Il che scardina il fondamento stesso della nostra società “laburista”. Dove se lavori esisti ed esisti se lavori.

Dove le divisioni sociali e politiche si sono formate intorno alla posizione occupata nei rapporti di lavoro. Operai, impiegati, imprenditori. Lavoratori “dipendenti” e “autonomi”.

Non è un problema di “lavoro fisso”, ma di “lavoro certo”. E di professione, a cui si collegano il reddito e la posizione sociale.

Ma se il mercato del lavoro e il welfare diventano “liquidi” (per echeggiare ancora Bauman), allora anche il futuro tende a liquefarsi. Allora le relazioni sociali,i valori e,a maggior ragione, i riferimenti politici e istituzionali: tutto diventa liquido e relativo. E la sindrome dell’insicurezza si diffonde. Non tanto fra i giovani, ma soprattutto fra le generazioni adulte e anziane. I genitoriei nonni. Gli indici più bassi di insicurezza economica, infatti, emergono tra i giovani fra 15 e 25 anni. I più elevati: tra le persone intorno ai 30 anni e, soprattutto di età centrale (45-54 anni). I fratelli maggiori e genitori. Lo stesso si osserva in relazione al futuro dei giovani.I più pessimisti sono gli adulti e gli anziani. I meno preoccupati proprio loro: i giovani più giovani. Anche se pochi a quell’età lavorano.

Non si tratta di incoscienza giovanile. È che ormai si sono abituati all’in-certezza. All’assenza di luoghie riferimenti certi. Si sono abituati al lavoro intermittente, assente e perfino alla transizione infinita. Senza stazioni di passaggio e senza destinazioni.

Si sono abituati a fare affidamento sui genitori e la famiglia – finché dura. E su se stessi. Si sono abituati a un’idea del futuro senza progetti e senza percorsi programmati. Idealisti con realismo. L’angoscia, invece, è tutta nostra. Colpisce la società adulta e anziana. Coloro che hanno impostato la loro vita sul futuro.

E l’idea stessa di futuro sui giovani. Sul passaggio da una generazione all’altra. E sul lavoro – e il suo complemento: lo sviluppo, anch’esso sinonimo di futuro.

Ma se il lavoro diventa liquido e in-definito. Senza regole e senza prospettive. Insicuro: senza sicurezza del futuro. Senza “previdenza”. Soprattutto per i giovani, intermittenti (nel lavoro) e imprevidenti (senza pensione).

Allora, rischiamo di trovarci non solo senza lavoro e senza pensione. Ma senza futuro. E senza presente. Il problema può, forse, apparire astratto, dal punto di vista “tecnico”. Ma non dal punto di vista”politico”. E dal punto di vista “personale” mi inquieta molto.

La Repubblica 12.03.12

“La Repubblica fondata sull’insicurezza”, di Ilvo Diamanti

È il lavoro la questione intorno a cui ruota il dibattito politico di questa fase. L’articolo 18, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, il futuro dei giovani, il posto fisso, i mammoni. Angelino Alfano ha indicato al governo tre priorità: «Lavoro, lavoro e lavoro». Apostrofato da Bersani: «L’ha scoperto solo ora (per non parlare delle frequenze tivù)». Il lavoro e il suo reciproco: il non-lavoro attraggono, dunque, l’interesse degli attori politici e del governo. Ma, forse, non abbastanza rispetto a quanto avviene nella società. La disoccupazione, infatti, è il problema più sentito dai cittadini, in Italia, da almeno due anni, come emerge dai dati dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (curato da Demos, l’Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), a cui facciamo riferimento in questa Mappa ( www.demos.it ). Una persona su due, infatti, si definisce “frequentemente” preoccupata – per sé e i propri familiari – di perdere il lavoro (gennaio 2012). Circa dieci punti in più rispetto a un anno fa. D’altronde, nel campione rappresentativo della popolazione italiana, il 35% dichiara che, nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha cercato lavoro, senza trovarlo.

Il 22%, che (in famiglia) qualcuno è stato messo in mobilità o in cassa integrazione. Il 19%, infine, che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. In definitiva, quasi una famiglia su due sta sperimentando gli effetti della crisi sul piano dell’occupazione.

Un problema comune al resto d’Europa, dove si rileva un grado di inquietudine analogo. Con una differenza significativa.

L’85% degli italiani ritiene che i giovani, nel prossimo futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai genitori.

Quasi 10 punti in più rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma circa 20 più che in Germania e Spagna. In altri termini: l’incertezza e la precarietà del lavoro si riflettono nell’incertezza e nella precarietà del futuro dei giovani.

Anzi, nell’incertezza del futuro, semplicemente. D’altronde, il 56% degli italiani non vede sbocco a questa crisi. Non riesce a immaginare quando finirà. Certamente non prima di due anni. Il lavoro – incerto, precario e perduto – alimenta l’insicurezza economica. Un sentimento che contagia il 73% degli italiani e trascina le altre dimensioni dell’insicurezza. Non a caso le paure relative alla globalizzazione e alla criminalità risultano molto più elevate fra coloro che si sentono maggiormente minacciati dalla disoccupazione. È come se, insieme all’incertezza del lavoro, fosse cresciuto un diffuso e crescente senso di «insicurezza ontologica», per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Che, cioè, scuote alle radici il nostro sistema di riferimenti sociali e personali. Mette in dubbio la nostra identità. E ci schiaccia nel presente, lasciandoci senza ancore né legami. Da ciò la differenza da un tempo, quando il lavoro ci forniva relazioni, prospettive, senso. Anche quando era una “materia scarsa”, quanto e più di oggi. Basti pensare alla rappresentazione – cruda e disincantata – di Luigi Meneghello, in “Libera nos a Malo”: «C’è invece l’espressione ‘bisogna’, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la ‘dòna’, per ‘el me òmo’, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare.

Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre….». Il lavoro, come necessità. Dura e senza fine.

A cui affidare la propria condizionee quella della propria famiglia. Ma anche la propria identità, la propria immagine e il proprio riconoscimento, di fronte agli altri. Oggi, però, quel modello si è dissolto. Perché se è vero che “lavorare bisogna” occorre aggiungere: “Se possibile”. Ma soprattutto “senza certezze e senza continuità”. Il che scardina il fondamento stesso della nostra società “laburista”. Dove se lavori esisti ed esisti se lavori.

Dove le divisioni sociali e politiche si sono formate intorno alla posizione occupata nei rapporti di lavoro. Operai, impiegati, imprenditori. Lavoratori “dipendenti” e “autonomi”.

Non è un problema di “lavoro fisso”, ma di “lavoro certo”. E di professione, a cui si collegano il reddito e la posizione sociale.

Ma se il mercato del lavoro e il welfare diventano “liquidi” (per echeggiare ancora Bauman), allora anche il futuro tende a liquefarsi. Allora le relazioni sociali,i valori e,a maggior ragione, i riferimenti politici e istituzionali: tutto diventa liquido e relativo. E la sindrome dell’insicurezza si diffonde. Non tanto fra i giovani, ma soprattutto fra le generazioni adulte e anziane. I genitoriei nonni. Gli indici più bassi di insicurezza economica, infatti, emergono tra i giovani fra 15 e 25 anni. I più elevati: tra le persone intorno ai 30 anni e, soprattutto di età centrale (45-54 anni). I fratelli maggiori e genitori. Lo stesso si osserva in relazione al futuro dei giovani.I più pessimisti sono gli adulti e gli anziani. I meno preoccupati proprio loro: i giovani più giovani. Anche se pochi a quell’età lavorano.

Non si tratta di incoscienza giovanile. È che ormai si sono abituati all’in-certezza. All’assenza di luoghie riferimenti certi. Si sono abituati al lavoro intermittente, assente e perfino alla transizione infinita. Senza stazioni di passaggio e senza destinazioni.

Si sono abituati a fare affidamento sui genitori e la famiglia – finché dura. E su se stessi. Si sono abituati a un’idea del futuro senza progetti e senza percorsi programmati. Idealisti con realismo. L’angoscia, invece, è tutta nostra. Colpisce la società adulta e anziana. Coloro che hanno impostato la loro vita sul futuro.

E l’idea stessa di futuro sui giovani. Sul passaggio da una generazione all’altra. E sul lavoro – e il suo complemento: lo sviluppo, anch’esso sinonimo di futuro.

Ma se il lavoro diventa liquido e in-definito. Senza regole e senza prospettive. Insicuro: senza sicurezza del futuro. Senza “previdenza”. Soprattutto per i giovani, intermittenti (nel lavoro) e imprevidenti (senza pensione).

Allora, rischiamo di trovarci non solo senza lavoro e senza pensione. Ma senza futuro. E senza presente. Il problema può, forse, apparire astratto, dal punto di vista “tecnico”. Ma non dal punto di vista”politico”. E dal punto di vista “personale” mi inquieta molto.

La Repubblica 12.03.12

“La Repubblica fondata sull’insicurezza”, di Ilvo Diamanti

È il lavoro la questione intorno a cui ruota il dibattito politico di questa fase. L’articolo 18, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, il futuro dei giovani, il posto fisso, i mammoni. Angelino Alfano ha indicato al governo tre priorità: «Lavoro, lavoro e lavoro». Apostrofato da Bersani: «L’ha scoperto solo ora (per non parlare delle frequenze tivù)». Il lavoro e il suo reciproco: il non-lavoro attraggono, dunque, l’interesse degli attori politici e del governo. Ma, forse, non abbastanza rispetto a quanto avviene nella società. La disoccupazione, infatti, è il problema più sentito dai cittadini, in Italia, da almeno due anni, come emerge dai dati dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (curato da Demos, l’Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), a cui facciamo riferimento in questa Mappa ( www.demos.it ). Una persona su due, infatti, si definisce “frequentemente” preoccupata – per sé e i propri familiari – di perdere il lavoro (gennaio 2012). Circa dieci punti in più rispetto a un anno fa. D’altronde, nel campione rappresentativo della popolazione italiana, il 35% dichiara che, nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha cercato lavoro, senza trovarlo.

Il 22%, che (in famiglia) qualcuno è stato messo in mobilità o in cassa integrazione. Il 19%, infine, che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. In definitiva, quasi una famiglia su due sta sperimentando gli effetti della crisi sul piano dell’occupazione.

Un problema comune al resto d’Europa, dove si rileva un grado di inquietudine analogo. Con una differenza significativa.

L’85% degli italiani ritiene che i giovani, nel prossimo futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai genitori.

Quasi 10 punti in più rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma circa 20 più che in Germania e Spagna. In altri termini: l’incertezza e la precarietà del lavoro si riflettono nell’incertezza e nella precarietà del futuro dei giovani.

Anzi, nell’incertezza del futuro, semplicemente. D’altronde, il 56% degli italiani non vede sbocco a questa crisi. Non riesce a immaginare quando finirà. Certamente non prima di due anni. Il lavoro – incerto, precario e perduto – alimenta l’insicurezza economica. Un sentimento che contagia il 73% degli italiani e trascina le altre dimensioni dell’insicurezza. Non a caso le paure relative alla globalizzazione e alla criminalità risultano molto più elevate fra coloro che si sentono maggiormente minacciati dalla disoccupazione. È come se, insieme all’incertezza del lavoro, fosse cresciuto un diffuso e crescente senso di «insicurezza ontologica», per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Che, cioè, scuote alle radici il nostro sistema di riferimenti sociali e personali. Mette in dubbio la nostra identità. E ci schiaccia nel presente, lasciandoci senza ancore né legami. Da ciò la differenza da un tempo, quando il lavoro ci forniva relazioni, prospettive, senso. Anche quando era una “materia scarsa”, quanto e più di oggi. Basti pensare alla rappresentazione – cruda e disincantata – di Luigi Meneghello, in “Libera nos a Malo”: «C’è invece l’espressione ‘bisogna’, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la ‘dòna’, per ‘el me òmo’, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare.

Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre….». Il lavoro, come necessità. Dura e senza fine.

A cui affidare la propria condizionee quella della propria famiglia. Ma anche la propria identità, la propria immagine e il proprio riconoscimento, di fronte agli altri. Oggi, però, quel modello si è dissolto. Perché se è vero che “lavorare bisogna” occorre aggiungere: “Se possibile”. Ma soprattutto “senza certezze e senza continuità”. Il che scardina il fondamento stesso della nostra società “laburista”. Dove se lavori esisti ed esisti se lavori.

Dove le divisioni sociali e politiche si sono formate intorno alla posizione occupata nei rapporti di lavoro. Operai, impiegati, imprenditori. Lavoratori “dipendenti” e “autonomi”.

Non è un problema di “lavoro fisso”, ma di “lavoro certo”. E di professione, a cui si collegano il reddito e la posizione sociale.

Ma se il mercato del lavoro e il welfare diventano “liquidi” (per echeggiare ancora Bauman), allora anche il futuro tende a liquefarsi. Allora le relazioni sociali,i valori e,a maggior ragione, i riferimenti politici e istituzionali: tutto diventa liquido e relativo. E la sindrome dell’insicurezza si diffonde. Non tanto fra i giovani, ma soprattutto fra le generazioni adulte e anziane. I genitoriei nonni. Gli indici più bassi di insicurezza economica, infatti, emergono tra i giovani fra 15 e 25 anni. I più elevati: tra le persone intorno ai 30 anni e, soprattutto di età centrale (45-54 anni). I fratelli maggiori e genitori. Lo stesso si osserva in relazione al futuro dei giovani.I più pessimisti sono gli adulti e gli anziani. I meno preoccupati proprio loro: i giovani più giovani. Anche se pochi a quell’età lavorano.

Non si tratta di incoscienza giovanile. È che ormai si sono abituati all’in-certezza. All’assenza di luoghie riferimenti certi. Si sono abituati al lavoro intermittente, assente e perfino alla transizione infinita. Senza stazioni di passaggio e senza destinazioni.

Si sono abituati a fare affidamento sui genitori e la famiglia – finché dura. E su se stessi. Si sono abituati a un’idea del futuro senza progetti e senza percorsi programmati. Idealisti con realismo. L’angoscia, invece, è tutta nostra. Colpisce la società adulta e anziana. Coloro che hanno impostato la loro vita sul futuro.

E l’idea stessa di futuro sui giovani. Sul passaggio da una generazione all’altra. E sul lavoro – e il suo complemento: lo sviluppo, anch’esso sinonimo di futuro.

Ma se il lavoro diventa liquido e in-definito. Senza regole e senza prospettive. Insicuro: senza sicurezza del futuro. Senza “previdenza”. Soprattutto per i giovani, intermittenti (nel lavoro) e imprevidenti (senza pensione).

Allora, rischiamo di trovarci non solo senza lavoro e senza pensione. Ma senza futuro. E senza presente. Il problema può, forse, apparire astratto, dal punto di vista “tecnico”. Ma non dal punto di vista”politico”. E dal punto di vista “personale” mi inquieta molto.

La Repubblica 12.03.12

"Tre strade per creare occupazione", di Daniele Marin

Il viaggio che La Stampa ha fatto in queste settimane in Italia sul tema del lavoro ha ben raccontato delle difficoltà e delle emergenze che attraversano il nostro Paese. Ma ha narrato anche delle sue articolazioni, di realtà sociali ed economiche molto diverse. Alcune (purtroppo) storicamente segnate da problematicità, faticano a trovare percorsi di ripresa dell’occupazione. Altre stanno vivendo una fase di trasformazione economica; altre ancora nonostante tutto mostrano segni di vivacità. Lo scenario di sfondo, però, accomuna tutti: la fase che stiamo attraversando si caratterizza per un cambiamento strutturale delle nostre economie. La crisi non è di natura congiunturale: basta attendere che passi e tutto si riaggiusterà, anche sul versante del lavoro. Non è così. I mutamenti negli assetti produttivi a livello internazionale dureranno ancora a lungo, prima di trovare un nuovo equilibrio. E, nel frattempo, i sistemi produttivi, e con essi il lavoro, devono trovare nuove modalità organizzative e di relazioni industriali, nuove regolazioni del mercato del lavoro e sistemi di tutele, nuovi profili professionali e di formazione. Sarà banale sottolinearlo, ma la sensazione è che tale consapevolezza non sempre sia così diffusa.

Tant’è che le risposte alla crisi del lavoro sembrano ripercorrere le strade tradizionali. O incagliarsi, come nel caso della discussione sull’articolo 18, in contrapposizioni spesso ideologiche e di bandiera, disancorate dalla realtà. Tornare a creare le condizioni affinché aumenti l’occupazione, affinché il lavoro riassuma una veste di continuità e stabilità per le persone, significa rigenerare e ridistribuire ricchezza. E offrire prospettive di futuro, soprattutto per le giovani generazioni.

Ma, com’è noto, il lavoro non si crea per decreto. La discussione attorno alla ridefinizione del sistema di welfare e di tutele, la riforma non procrastinabile degli ammortizzatori sociali (anche se in modo miope si cerca di rinviarla), sono necessari per dare una maggiore fluidità, ma anche per ricercare tutele diverse, al mercato del lavoro. Tuttavia, nello stesso tempo vanno avviate politiche industriali e iniziative a favore delle imprese: perché solo una ripresa del sistema produttivo può generare nuova occupazione. Altre strade non sono date. Le ricette non sono semplici e universalmente valide, come la crisi insegna. Ciò non di meno, è utile porre attenzione a quelle realtà imprenditoriali che oggi – nonostante la crisi – riescono a offrire performance positive sotto il profilo economico e occupazionale per individuare le corde utili da toccare per sostenere lo sviluppo.

In primo luogo, favorire gli investimenti delle imprese nell’innovazione variamente intesa. Come dimostrano le ricerche, sono le realtà produttive che hanno avviato investimenti per innovare la propria organizzazione e produzione, già nella fase precedente alla crisi, a offrire risultati positivi. Di più, a mantenere e a incrementare ulteriormente gli investimenti in questi anni. Tre le direzioni principali perseguite con queste innovazioni. La prima è nei confronti del proprio capitale umano: investimenti in formazione dei propri lavoratori e dei propri fornitori è una prima leva. Perché non va dimenticato che la vera arma competitiva delle Pmi è la flessibilità, la capacità di fare prodotti che rispondano alle variegate esigenze dei clienti. E tale flessibilità, si può avere solo con un capitale umano fortemente professionalizzato.

La seconda direzione è di una maggiore ricerca nei prodotti, nella qualità, nel design, nel brand: nella parte «immateriale» del prodotto, ma che oggi ne costituisce una dimensione essenziale. La terza direzione è andata nella ricerca di nuovi mercati, soprattutto nei Paesi esteri, dove la crescita economica è più rilevante. La seconda corda da toccare, è proprio quella dell’internazionalizzazione delle imprese. Sono quelle che si sono aperte ai mercati esteri a conoscere performance positive sotto tutti i profili. E che per seguire questa strada si sono dovute strutturare maggiormente, crescendo di dimensione o trovando forme di aggregazione che le potessero aiutare in questa proiezione internazionale. Di più, processi di innovazione e di internazionalizzazione vanno a braccetto.

Quanto più un’impresa si sposta sui mercati esteri, tanto più innova. E facendo ciò crea occupazione. E genera un’occupazione buona, nel senso che alimenta lo sviluppo di profili professionali più elevati. Una politica industriale in grado di creare le condizioni affinché le imprese possano seguire queste strade, porterebbe ad almeno tre effetti positivi: 1) meritocratico: perché premierebbe il merito di quelle imprese che, nonostante le condizioni avverse, hanno saputo individuare percorsi di crescita; 2) imitativo: perché spingerebbe almeno una parte del sistema produttivo a perseguire anch’esso percorsi analoghi; 3) lavorativo: perché alimenterebbe un circuito virtuoso fatto di sviluppo imprenditoriale e creazione di occupazione. Soprattutto, generativo di buona occupazione.

La Stampa 12.03.12

“Tre strade per creare occupazione”, di Daniele Marin

Il viaggio che La Stampa ha fatto in queste settimane in Italia sul tema del lavoro ha ben raccontato delle difficoltà e delle emergenze che attraversano il nostro Paese. Ma ha narrato anche delle sue articolazioni, di realtà sociali ed economiche molto diverse. Alcune (purtroppo) storicamente segnate da problematicità, faticano a trovare percorsi di ripresa dell’occupazione. Altre stanno vivendo una fase di trasformazione economica; altre ancora nonostante tutto mostrano segni di vivacità. Lo scenario di sfondo, però, accomuna tutti: la fase che stiamo attraversando si caratterizza per un cambiamento strutturale delle nostre economie. La crisi non è di natura congiunturale: basta attendere che passi e tutto si riaggiusterà, anche sul versante del lavoro. Non è così. I mutamenti negli assetti produttivi a livello internazionale dureranno ancora a lungo, prima di trovare un nuovo equilibrio. E, nel frattempo, i sistemi produttivi, e con essi il lavoro, devono trovare nuove modalità organizzative e di relazioni industriali, nuove regolazioni del mercato del lavoro e sistemi di tutele, nuovi profili professionali e di formazione. Sarà banale sottolinearlo, ma la sensazione è che tale consapevolezza non sempre sia così diffusa.

Tant’è che le risposte alla crisi del lavoro sembrano ripercorrere le strade tradizionali. O incagliarsi, come nel caso della discussione sull’articolo 18, in contrapposizioni spesso ideologiche e di bandiera, disancorate dalla realtà. Tornare a creare le condizioni affinché aumenti l’occupazione, affinché il lavoro riassuma una veste di continuità e stabilità per le persone, significa rigenerare e ridistribuire ricchezza. E offrire prospettive di futuro, soprattutto per le giovani generazioni.

Ma, com’è noto, il lavoro non si crea per decreto. La discussione attorno alla ridefinizione del sistema di welfare e di tutele, la riforma non procrastinabile degli ammortizzatori sociali (anche se in modo miope si cerca di rinviarla), sono necessari per dare una maggiore fluidità, ma anche per ricercare tutele diverse, al mercato del lavoro. Tuttavia, nello stesso tempo vanno avviate politiche industriali e iniziative a favore delle imprese: perché solo una ripresa del sistema produttivo può generare nuova occupazione. Altre strade non sono date. Le ricette non sono semplici e universalmente valide, come la crisi insegna. Ciò non di meno, è utile porre attenzione a quelle realtà imprenditoriali che oggi – nonostante la crisi – riescono a offrire performance positive sotto il profilo economico e occupazionale per individuare le corde utili da toccare per sostenere lo sviluppo.

In primo luogo, favorire gli investimenti delle imprese nell’innovazione variamente intesa. Come dimostrano le ricerche, sono le realtà produttive che hanno avviato investimenti per innovare la propria organizzazione e produzione, già nella fase precedente alla crisi, a offrire risultati positivi. Di più, a mantenere e a incrementare ulteriormente gli investimenti in questi anni. Tre le direzioni principali perseguite con queste innovazioni. La prima è nei confronti del proprio capitale umano: investimenti in formazione dei propri lavoratori e dei propri fornitori è una prima leva. Perché non va dimenticato che la vera arma competitiva delle Pmi è la flessibilità, la capacità di fare prodotti che rispondano alle variegate esigenze dei clienti. E tale flessibilità, si può avere solo con un capitale umano fortemente professionalizzato.

La seconda direzione è di una maggiore ricerca nei prodotti, nella qualità, nel design, nel brand: nella parte «immateriale» del prodotto, ma che oggi ne costituisce una dimensione essenziale. La terza direzione è andata nella ricerca di nuovi mercati, soprattutto nei Paesi esteri, dove la crescita economica è più rilevante. La seconda corda da toccare, è proprio quella dell’internazionalizzazione delle imprese. Sono quelle che si sono aperte ai mercati esteri a conoscere performance positive sotto tutti i profili. E che per seguire questa strada si sono dovute strutturare maggiormente, crescendo di dimensione o trovando forme di aggregazione che le potessero aiutare in questa proiezione internazionale. Di più, processi di innovazione e di internazionalizzazione vanno a braccetto.

Quanto più un’impresa si sposta sui mercati esteri, tanto più innova. E facendo ciò crea occupazione. E genera un’occupazione buona, nel senso che alimenta lo sviluppo di profili professionali più elevati. Una politica industriale in grado di creare le condizioni affinché le imprese possano seguire queste strade, porterebbe ad almeno tre effetti positivi: 1) meritocratico: perché premierebbe il merito di quelle imprese che, nonostante le condizioni avverse, hanno saputo individuare percorsi di crescita; 2) imitativo: perché spingerebbe almeno una parte del sistema produttivo a perseguire anch’esso percorsi analoghi; 3) lavorativo: perché alimenterebbe un circuito virtuoso fatto di sviluppo imprenditoriale e creazione di occupazione. Soprattutto, generativo di buona occupazione.

La Stampa 12.03.12

"Questione morale ultimo atto", di Stefano Rodotà

Lo stillicidio delle informazioni sui fatti di corruzione, quasi un quotidiano bollettino di guerra, rende sempre più insopportabile l’attesa di qualche nuova norma che consenta di opporsi in modo un po’ più efficace ad un fenomeno dilagante. Le cronache confermano che la corruzione è ormai una struttura della società italiana, è penetrata ovunque, come testimonia la presenza tra i corrotti di politici e amministratori, imprenditori e primari medici, poliziotti e vigili urbani.

Ogni ritardo del Parlamento diventa un aiuto a questo nuovo ceto sociale. E proprio la “disattenzione” politica spiega perché, a vent’anni da Mani pulite e dalle speranze allora suscitate, la corruzione sia divenuta sempre più diffusa.

Ricordiamo quel che disse il cardinale Tettamanzi, lasciando la diocesi di Milano: “Gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d’attualità”. Ma vi è un documento recentissimo che descrive con spudoratezza una condizione della politica. È la memoria difensiva di un politico calabrese accusato di rapporti con ambienti criminali, dov’è scritto: “La mentalità elettoralistico-clientelare è diventata cultura, costume e inevitabilmente anche modo di governare” e quindi, per il politico che “vive ed opera in questo difficilissimo ambiente, mettersi a disposizione è quasi d’obbligo, senza grandi possibilità di crearsi una difesa che lo garantisca da immorali e infedeli strumentalizzazioni. Il mettersi a disposizione è condizione quali fisiologica dell’attività politica svolta in Calabria, con la conseguenza di affidarsi supinamente alla lealtà dell’interlocutore”. Questa richiesta di una “assoluzione sociologica” riguarda i rapporti con ambienti criminali, ma descrive una più generale regola di comportamento dove il “mettersi a disposizione” s’intreccia con le pratiche corruttive alle quali, peraltro, proprio i poteri criminali ricorrono sempre più ampiamente. Siamo oltre il “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato nell’Ottocento da Silvio Spaventa. Conosciamo altri connubi: tra politica e affari, tra politica e criminalità, che tutti insieme hanno provocato un connubio obbligato tra politica e malapolitica, con quest’ultima che corrode l’intera società. Proprio per questo è necessario guardare alla dimensione politica, pur sapendo, ovviamente, che non è soltanto questa ad essere il luogo della corruzione e che i politici corrotti sono una minoranza. Ma quando la corruzione si insedia nel ceto politico, e da questo non è adeguatamente contrastata, essa finisce con l’assumere una particolare natura, diventa fatto istituzionale, modo di governo della cosa pubblica. Proprio per questo è grandissima la responsabilità dei politici onesti, che non possono chiamarsi fuori in nome della loro personale integrità, poiché hanno l’obbligo di ricostruire le condizioni anche istituzionali per il ritorno dell’etica pubblica.

Finora non è avvenuto. Si è ceduto al patriottismo di partito, si sono cercate misere scorciatoie, si sono coltivate illusioni politico-istituzionali. Spicca, tra queste ultime, la tesi secondo la quale la corruzione era figlia di un sistema bloccato sì che, una volta approdati ad una democrazia dell’alternanza, la corruzione si sarebbe automaticamente ridotta. Non è andata così. L’alternanza tra diverse forze politiche nel governo centrale e in quelli locali ha coinciso con l’espansione della corruzione. Questa, da modalità di esercizio del potere, si è fatta potere essa stessa, ha prodotto le sue istituzioni, le sue reti formali e informali, le sue aree di influenza, una sua economia. Non più fenomeno selvaggio, ma forte e autonomo potere corruttivo.

Non lo scopriamo oggi, nessun politico può invocare l’attenuante della mancanza di informazione. Da anni in Italia sono state prodotte eccellenti ricerche sul tema, sono state fatte proposte dettagliate. Se questa buona cultura è rimasta senza echi, è perché era stata imboccata una diversa via istituzionale. Discutendo delle differenze tra il tempo di Mani pulite e il tempo nostro, bisogna ricordare le diverse linee istituzionali che proprio in Tangentopoli trovarono il loro spartiacque. Per anni la politica difese le pratiche corruttive senza toccare sostanzialmente il sistema generale delle regole, alle quali ci si sottraeva attraverso una robusta rete di protezione. Si negava la messa in stato d’accusa di ministri (unica eccezione il caso Lockheed, ma questa falla fu prontamente chiusa). Si negavano le autorizzazioni a procedere contro i parlamentari sospetti di corruzione. Si portavano inchieste scottanti nel “porto delle nebbie” della Procura di Roma, che provvedeva ad insabbiarle. Si rifiutava di prendere atto di clamorose responsabilità politiche, con l’argomento che qualsiasi sanzione poteva scattare solo dopo una definitiva sentenza di condanna (e così si allontanava nel tempo ogni iniziativa). Questa rete si smaglia con l’arrivo delle inchieste del febbraio 1992. Si cancella una immunità parlamentare di cui si era abusato. La magistratura, che aveva assicurato protezione, ritrova il suo ruolo di garante della legalità. Questo provoca sconcerto, e per qualche tempo si spera che un tempo nuovo sia davvero cominciato. Ma le vecchie resistenze erano tutt’altro che sconfitte, come subito dimostrarono le difficoltà nel riformare la legge sugli appalti.

Una nuova strategia era alle porte, e trovò nel berlusconismo il clima propizio. Una diversa rete di protezione è stata costruita, cambiando le stesse regole di base. È storia nota, quella delle leggi sulla prescrizione e sul falso in bilancio, delle norme sulla Protezione civile. Il mutamento è radicale. L’intero sistema istituzionale viene configurato come “contenitore” della corruzione.

Di fronte a questa reale emergenza è pura ipocrisia rifiutare interventi immediati dicendo che si tratta di materia estranea al programma di governo e che nuove norme sulla corruzione devono far parte di un più largo “pacchetto” di riforme della giustizia.

La questione morale, evocata dal cardinale Tettamanzi e che richiama l’intuizione lungimirante di Enrico Berlinguer, è tema ineludibile della politica di oggi.

Ma non è solo affare di leggi. Bisogna tornare alla responsabilità politica, rifiutando la scappatoia del “non è un comportamento penalmente rilevante”. L’etica pubblica non ha il suo fondamento solo nel codice penale. Lo dice bene l’articolo 54 della Costituzione, affermando che le funzioni pubbliche devono essere adempiute con “onore” e “disciplina”. Questo significa che, anche se verranno nuove norme, la partita non è chiusa. Oltre le leggi vi è la ricostruzione della moralità pubblica, il dovere della politica d’essere inflessibile con se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini. Una domanda, per intenderci. Le frequentazioni mafiose possono essere considerate penalmente non rilevanti e consentire a Dell’Utri l’assoluzione. Ma sono compatibili con l’onore e la disciplina richiesti dalla Costituzione? Per i candidati alle future elezioni dovrebbe essere obbligatoria la lettura del Viaggio elettorale raccontato da Francesco De Sanctis nel 1875, che così parlava ai cittadini: “Avete intorno al mio nome inalberata la bandiera della moralità. Siate benedetti!”.

La Repubblica 12.03.12

“Questione morale ultimo atto”, di Stefano Rodotà

Lo stillicidio delle informazioni sui fatti di corruzione, quasi un quotidiano bollettino di guerra, rende sempre più insopportabile l’attesa di qualche nuova norma che consenta di opporsi in modo un po’ più efficace ad un fenomeno dilagante. Le cronache confermano che la corruzione è ormai una struttura della società italiana, è penetrata ovunque, come testimonia la presenza tra i corrotti di politici e amministratori, imprenditori e primari medici, poliziotti e vigili urbani.

Ogni ritardo del Parlamento diventa un aiuto a questo nuovo ceto sociale. E proprio la “disattenzione” politica spiega perché, a vent’anni da Mani pulite e dalle speranze allora suscitate, la corruzione sia divenuta sempre più diffusa.

Ricordiamo quel che disse il cardinale Tettamanzi, lasciando la diocesi di Milano: “Gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d’attualità”. Ma vi è un documento recentissimo che descrive con spudoratezza una condizione della politica. È la memoria difensiva di un politico calabrese accusato di rapporti con ambienti criminali, dov’è scritto: “La mentalità elettoralistico-clientelare è diventata cultura, costume e inevitabilmente anche modo di governare” e quindi, per il politico che “vive ed opera in questo difficilissimo ambiente, mettersi a disposizione è quasi d’obbligo, senza grandi possibilità di crearsi una difesa che lo garantisca da immorali e infedeli strumentalizzazioni. Il mettersi a disposizione è condizione quali fisiologica dell’attività politica svolta in Calabria, con la conseguenza di affidarsi supinamente alla lealtà dell’interlocutore”. Questa richiesta di una “assoluzione sociologica” riguarda i rapporti con ambienti criminali, ma descrive una più generale regola di comportamento dove il “mettersi a disposizione” s’intreccia con le pratiche corruttive alle quali, peraltro, proprio i poteri criminali ricorrono sempre più ampiamente. Siamo oltre il “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato nell’Ottocento da Silvio Spaventa. Conosciamo altri connubi: tra politica e affari, tra politica e criminalità, che tutti insieme hanno provocato un connubio obbligato tra politica e malapolitica, con quest’ultima che corrode l’intera società. Proprio per questo è necessario guardare alla dimensione politica, pur sapendo, ovviamente, che non è soltanto questa ad essere il luogo della corruzione e che i politici corrotti sono una minoranza. Ma quando la corruzione si insedia nel ceto politico, e da questo non è adeguatamente contrastata, essa finisce con l’assumere una particolare natura, diventa fatto istituzionale, modo di governo della cosa pubblica. Proprio per questo è grandissima la responsabilità dei politici onesti, che non possono chiamarsi fuori in nome della loro personale integrità, poiché hanno l’obbligo di ricostruire le condizioni anche istituzionali per il ritorno dell’etica pubblica.

Finora non è avvenuto. Si è ceduto al patriottismo di partito, si sono cercate misere scorciatoie, si sono coltivate illusioni politico-istituzionali. Spicca, tra queste ultime, la tesi secondo la quale la corruzione era figlia di un sistema bloccato sì che, una volta approdati ad una democrazia dell’alternanza, la corruzione si sarebbe automaticamente ridotta. Non è andata così. L’alternanza tra diverse forze politiche nel governo centrale e in quelli locali ha coinciso con l’espansione della corruzione. Questa, da modalità di esercizio del potere, si è fatta potere essa stessa, ha prodotto le sue istituzioni, le sue reti formali e informali, le sue aree di influenza, una sua economia. Non più fenomeno selvaggio, ma forte e autonomo potere corruttivo.

Non lo scopriamo oggi, nessun politico può invocare l’attenuante della mancanza di informazione. Da anni in Italia sono state prodotte eccellenti ricerche sul tema, sono state fatte proposte dettagliate. Se questa buona cultura è rimasta senza echi, è perché era stata imboccata una diversa via istituzionale. Discutendo delle differenze tra il tempo di Mani pulite e il tempo nostro, bisogna ricordare le diverse linee istituzionali che proprio in Tangentopoli trovarono il loro spartiacque. Per anni la politica difese le pratiche corruttive senza toccare sostanzialmente il sistema generale delle regole, alle quali ci si sottraeva attraverso una robusta rete di protezione. Si negava la messa in stato d’accusa di ministri (unica eccezione il caso Lockheed, ma questa falla fu prontamente chiusa). Si negavano le autorizzazioni a procedere contro i parlamentari sospetti di corruzione. Si portavano inchieste scottanti nel “porto delle nebbie” della Procura di Roma, che provvedeva ad insabbiarle. Si rifiutava di prendere atto di clamorose responsabilità politiche, con l’argomento che qualsiasi sanzione poteva scattare solo dopo una definitiva sentenza di condanna (e così si allontanava nel tempo ogni iniziativa). Questa rete si smaglia con l’arrivo delle inchieste del febbraio 1992. Si cancella una immunità parlamentare di cui si era abusato. La magistratura, che aveva assicurato protezione, ritrova il suo ruolo di garante della legalità. Questo provoca sconcerto, e per qualche tempo si spera che un tempo nuovo sia davvero cominciato. Ma le vecchie resistenze erano tutt’altro che sconfitte, come subito dimostrarono le difficoltà nel riformare la legge sugli appalti.

Una nuova strategia era alle porte, e trovò nel berlusconismo il clima propizio. Una diversa rete di protezione è stata costruita, cambiando le stesse regole di base. È storia nota, quella delle leggi sulla prescrizione e sul falso in bilancio, delle norme sulla Protezione civile. Il mutamento è radicale. L’intero sistema istituzionale viene configurato come “contenitore” della corruzione.

Di fronte a questa reale emergenza è pura ipocrisia rifiutare interventi immediati dicendo che si tratta di materia estranea al programma di governo e che nuove norme sulla corruzione devono far parte di un più largo “pacchetto” di riforme della giustizia.

La questione morale, evocata dal cardinale Tettamanzi e che richiama l’intuizione lungimirante di Enrico Berlinguer, è tema ineludibile della politica di oggi.

Ma non è solo affare di leggi. Bisogna tornare alla responsabilità politica, rifiutando la scappatoia del “non è un comportamento penalmente rilevante”. L’etica pubblica non ha il suo fondamento solo nel codice penale. Lo dice bene l’articolo 54 della Costituzione, affermando che le funzioni pubbliche devono essere adempiute con “onore” e “disciplina”. Questo significa che, anche se verranno nuove norme, la partita non è chiusa. Oltre le leggi vi è la ricostruzione della moralità pubblica, il dovere della politica d’essere inflessibile con se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini. Una domanda, per intenderci. Le frequentazioni mafiose possono essere considerate penalmente non rilevanti e consentire a Dell’Utri l’assoluzione. Ma sono compatibili con l’onore e la disciplina richiesti dalla Costituzione? Per i candidati alle future elezioni dovrebbe essere obbligatoria la lettura del Viaggio elettorale raccontato da Francesco De Sanctis nel 1875, che così parlava ai cittadini: “Avete intorno al mio nome inalberata la bandiera della moralità. Siate benedetti!”.

La Repubblica 12.03.12