attualità, lavoro, politica italiana

“La Repubblica fondata sull’insicurezza”, di Ilvo Diamanti

È il lavoro la questione intorno a cui ruota il dibattito politico di questa fase. L’articolo 18, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, il futuro dei giovani, il posto fisso, i mammoni. Angelino Alfano ha indicato al governo tre priorità: «Lavoro, lavoro e lavoro». Apostrofato da Bersani: «L’ha scoperto solo ora (per non parlare delle frequenze tivù)». Il lavoro e il suo reciproco: il non-lavoro attraggono, dunque, l’interesse degli attori politici e del governo. Ma, forse, non abbastanza rispetto a quanto avviene nella società. La disoccupazione, infatti, è il problema più sentito dai cittadini, in Italia, da almeno due anni, come emerge dai dati dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (curato da Demos, l’Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), a cui facciamo riferimento in questa Mappa ( www.demos.it ). Una persona su due, infatti, si definisce “frequentemente” preoccupata – per sé e i propri familiari – di perdere il lavoro (gennaio 2012). Circa dieci punti in più rispetto a un anno fa. D’altronde, nel campione rappresentativo della popolazione italiana, il 35% dichiara che, nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha cercato lavoro, senza trovarlo.

Il 22%, che (in famiglia) qualcuno è stato messo in mobilità o in cassa integrazione. Il 19%, infine, che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. In definitiva, quasi una famiglia su due sta sperimentando gli effetti della crisi sul piano dell’occupazione.

Un problema comune al resto d’Europa, dove si rileva un grado di inquietudine analogo. Con una differenza significativa.

L’85% degli italiani ritiene che i giovani, nel prossimo futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai genitori.

Quasi 10 punti in più rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma circa 20 più che in Germania e Spagna. In altri termini: l’incertezza e la precarietà del lavoro si riflettono nell’incertezza e nella precarietà del futuro dei giovani.

Anzi, nell’incertezza del futuro, semplicemente. D’altronde, il 56% degli italiani non vede sbocco a questa crisi. Non riesce a immaginare quando finirà. Certamente non prima di due anni. Il lavoro – incerto, precario e perduto – alimenta l’insicurezza economica. Un sentimento che contagia il 73% degli italiani e trascina le altre dimensioni dell’insicurezza. Non a caso le paure relative alla globalizzazione e alla criminalità risultano molto più elevate fra coloro che si sentono maggiormente minacciati dalla disoccupazione. È come se, insieme all’incertezza del lavoro, fosse cresciuto un diffuso e crescente senso di «insicurezza ontologica», per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Che, cioè, scuote alle radici il nostro sistema di riferimenti sociali e personali. Mette in dubbio la nostra identità. E ci schiaccia nel presente, lasciandoci senza ancore né legami. Da ciò la differenza da un tempo, quando il lavoro ci forniva relazioni, prospettive, senso. Anche quando era una “materia scarsa”, quanto e più di oggi. Basti pensare alla rappresentazione – cruda e disincantata – di Luigi Meneghello, in “Libera nos a Malo”: «C’è invece l’espressione ‘bisogna’, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la ‘dòna’, per ‘el me òmo’, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare.

Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre….». Il lavoro, come necessità. Dura e senza fine.

A cui affidare la propria condizionee quella della propria famiglia. Ma anche la propria identità, la propria immagine e il proprio riconoscimento, di fronte agli altri. Oggi, però, quel modello si è dissolto. Perché se è vero che “lavorare bisogna” occorre aggiungere: “Se possibile”. Ma soprattutto “senza certezze e senza continuità”. Il che scardina il fondamento stesso della nostra società “laburista”. Dove se lavori esisti ed esisti se lavori.

Dove le divisioni sociali e politiche si sono formate intorno alla posizione occupata nei rapporti di lavoro. Operai, impiegati, imprenditori. Lavoratori “dipendenti” e “autonomi”.

Non è un problema di “lavoro fisso”, ma di “lavoro certo”. E di professione, a cui si collegano il reddito e la posizione sociale.

Ma se il mercato del lavoro e il welfare diventano “liquidi” (per echeggiare ancora Bauman), allora anche il futuro tende a liquefarsi. Allora le relazioni sociali,i valori e,a maggior ragione, i riferimenti politici e istituzionali: tutto diventa liquido e relativo. E la sindrome dell’insicurezza si diffonde. Non tanto fra i giovani, ma soprattutto fra le generazioni adulte e anziane. I genitoriei nonni. Gli indici più bassi di insicurezza economica, infatti, emergono tra i giovani fra 15 e 25 anni. I più elevati: tra le persone intorno ai 30 anni e, soprattutto di età centrale (45-54 anni). I fratelli maggiori e genitori. Lo stesso si osserva in relazione al futuro dei giovani.I più pessimisti sono gli adulti e gli anziani. I meno preoccupati proprio loro: i giovani più giovani. Anche se pochi a quell’età lavorano.

Non si tratta di incoscienza giovanile. È che ormai si sono abituati all’in-certezza. All’assenza di luoghie riferimenti certi. Si sono abituati al lavoro intermittente, assente e perfino alla transizione infinita. Senza stazioni di passaggio e senza destinazioni.

Si sono abituati a fare affidamento sui genitori e la famiglia – finché dura. E su se stessi. Si sono abituati a un’idea del futuro senza progetti e senza percorsi programmati. Idealisti con realismo. L’angoscia, invece, è tutta nostra. Colpisce la società adulta e anziana. Coloro che hanno impostato la loro vita sul futuro.

E l’idea stessa di futuro sui giovani. Sul passaggio da una generazione all’altra. E sul lavoro – e il suo complemento: lo sviluppo, anch’esso sinonimo di futuro.

Ma se il lavoro diventa liquido e in-definito. Senza regole e senza prospettive. Insicuro: senza sicurezza del futuro. Senza “previdenza”. Soprattutto per i giovani, intermittenti (nel lavoro) e imprevidenti (senza pensione).

Allora, rischiamo di trovarci non solo senza lavoro e senza pensione. Ma senza futuro. E senza presente. Il problema può, forse, apparire astratto, dal punto di vista “tecnico”. Ma non dal punto di vista”politico”. E dal punto di vista “personale” mi inquieta molto.

La Repubblica 12.03.12

attualità, lavoro, politica italiana

“La Repubblica fondata sull’insicurezza”, di Ilvo Diamanti

È il lavoro la questione intorno a cui ruota il dibattito politico di questa fase. L’articolo 18, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, il futuro dei giovani, il posto fisso, i mammoni. Angelino Alfano ha indicato al governo tre priorità: «Lavoro, lavoro e lavoro». Apostrofato da Bersani: «L’ha scoperto solo ora (per non parlare delle frequenze tivù)». Il lavoro e il suo reciproco: il non-lavoro attraggono, dunque, l’interesse degli attori politici e del governo. Ma, forse, non abbastanza rispetto a quanto avviene nella società. La disoccupazione, infatti, è il problema più sentito dai cittadini, in Italia, da almeno due anni, come emerge dai dati dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (curato da Demos, l’Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), a cui facciamo riferimento in questa Mappa ( www.demos.it ). Una persona su due, infatti, si definisce “frequentemente” preoccupata – per sé e i propri familiari – di perdere il lavoro (gennaio 2012). Circa dieci punti in più rispetto a un anno fa. D’altronde, nel campione rappresentativo della popolazione italiana, il 35% dichiara che, nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha cercato lavoro, senza trovarlo.

Il 22%, che (in famiglia) qualcuno è stato messo in mobilità o in cassa integrazione. Il 19%, infine, che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. In definitiva, quasi una famiglia su due sta sperimentando gli effetti della crisi sul piano dell’occupazione.

Un problema comune al resto d’Europa, dove si rileva un grado di inquietudine analogo. Con una differenza significativa.

L’85% degli italiani ritiene che i giovani, nel prossimo futuro, occuperanno una posizione sociale peggiore rispetto ai genitori.

Quasi 10 punti in più rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma circa 20 più che in Germania e Spagna. In altri termini: l’incertezza e la precarietà del lavoro si riflettono nell’incertezza e nella precarietà del futuro dei giovani.

Anzi, nell’incertezza del futuro, semplicemente. D’altronde, il 56% degli italiani non vede sbocco a questa crisi. Non riesce a immaginare quando finirà. Certamente non prima di due anni. Il lavoro – incerto, precario e perduto – alimenta l’insicurezza economica. Un sentimento che contagia il 73% degli italiani e trascina le altre dimensioni dell’insicurezza. Non a caso le paure relative alla globalizzazione e alla criminalità risultano molto più elevate fra coloro che si sentono maggiormente minacciati dalla disoccupazione. È come se, insieme all’incertezza del lavoro, fosse cresciuto un diffuso e crescente senso di «insicurezza ontologica», per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Che, cioè, scuote alle radici il nostro sistema di riferimenti sociali e personali. Mette in dubbio la nostra identità. E ci schiaccia nel presente, lasciandoci senza ancore né legami. Da ciò la differenza da un tempo, quando il lavoro ci forniva relazioni, prospettive, senso. Anche quando era una “materia scarsa”, quanto e più di oggi. Basti pensare alla rappresentazione – cruda e disincantata – di Luigi Meneghello, in “Libera nos a Malo”: «C’è invece l’espressione ‘bisogna’, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la ‘dòna’, per ‘el me òmo’, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare.

Bisogna lavorare, non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre….». Il lavoro, come necessità. Dura e senza fine.

A cui affidare la propria condizionee quella della propria famiglia. Ma anche la propria identità, la propria immagine e il proprio riconoscimento, di fronte agli altri. Oggi, però, quel modello si è dissolto. Perché se è vero che “lavorare bisogna” occorre aggiungere: “Se possibile”. Ma soprattutto “senza certezze e senza continuità”. Il che scardina il fondamento stesso della nostra società “laburista”. Dove se lavori esisti ed esisti se lavori.

Dove le divisioni sociali e politiche si sono formate intorno alla posizione occupata nei rapporti di lavoro. Operai, impiegati, imprenditori. Lavoratori “dipendenti” e “autonomi”.

Non è un problema di “lavoro fisso”, ma di “lavoro certo”. E di professione, a cui si collegano il reddito e la posizione sociale.

Ma se il mercato del lavoro e il welfare diventano “liquidi” (per echeggiare ancora Bauman), allora anche il futuro tende a liquefarsi. Allora le relazioni sociali,i valori e,a maggior ragione, i riferimenti politici e istituzionali: tutto diventa liquido e relativo. E la sindrome dell’insicurezza si diffonde. Non tanto fra i giovani, ma soprattutto fra le generazioni adulte e anziane. I genitoriei nonni. Gli indici più bassi di insicurezza economica, infatti, emergono tra i giovani fra 15 e 25 anni. I più elevati: tra le persone intorno ai 30 anni e, soprattutto di età centrale (45-54 anni). I fratelli maggiori e genitori. Lo stesso si osserva in relazione al futuro dei giovani.I più pessimisti sono gli adulti e gli anziani. I meno preoccupati proprio loro: i giovani più giovani. Anche se pochi a quell’età lavorano.

Non si tratta di incoscienza giovanile. È che ormai si sono abituati all’in-certezza. All’assenza di luoghie riferimenti certi. Si sono abituati al lavoro intermittente, assente e perfino alla transizione infinita. Senza stazioni di passaggio e senza destinazioni.

Si sono abituati a fare affidamento sui genitori e la famiglia – finché dura. E su se stessi. Si sono abituati a un’idea del futuro senza progetti e senza percorsi programmati. Idealisti con realismo. L’angoscia, invece, è tutta nostra. Colpisce la società adulta e anziana. Coloro che hanno impostato la loro vita sul futuro.

E l’idea stessa di futuro sui giovani. Sul passaggio da una generazione all’altra. E sul lavoro – e il suo complemento: lo sviluppo, anch’esso sinonimo di futuro.

Ma se il lavoro diventa liquido e in-definito. Senza regole e senza prospettive. Insicuro: senza sicurezza del futuro. Senza “previdenza”. Soprattutto per i giovani, intermittenti (nel lavoro) e imprevidenti (senza pensione).

Allora, rischiamo di trovarci non solo senza lavoro e senza pensione. Ma senza futuro. E senza presente. Il problema può, forse, apparire astratto, dal punto di vista “tecnico”. Ma non dal punto di vista”politico”. E dal punto di vista “personale” mi inquieta molto.

La Repubblica 12.03.12