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"Nelle classi più studenti e meno insegnanti", di Lorenzo Salvia

La politica ha discusso, lo scontro fra governo e Parlamento è stato acceso. Ma alla fine le 10 mila assunzioni nella scuola non sono arrivate. Dovevano essere finanziate alzando le tasse sull’alcol e sui giochi, trasformando il vizio in virtù, o almeno in posti di lavoro. Ma l’emendamento al decreto legge sulle semplificazioni presentato dal Pd e approvato in commissione è stato cancellato, sostituito da un meccanismo pieno di curve: le assunzioni saranno possibili ma solo in caso di aumento degli studenti, da verificare ogni tre anni, e a patto che il settore abbia risparmiato qualcosa. Nessun impegno preciso, non una sorpresa visto il momento di sacrifici per tutti. Ma mentre la politica discute, nelle scuole che cosa succede? Il confronto tra l’anno in corso e quello precedente ci dice che, anche se di poco, il numero degli studenti è salito, più 0,1%. Mentre quello degli insegnanti è sceso, con una tendenza più marcata, 2,6%. Il risultato è che abbiamo meno classi, lo 0,6%. E che sono diventate un po’ più affollate: da una media di 21,28 alunni siamo passati a 21,45, anche se restiamo in linea con la media dell’Ocse, l’Organizzazione che raggruppa 34 Paesi a economia avanzata. I numeri non dicono tutto, non misurano sempre la qualità e nemmeno l’impegno dei singoli. Ma le ultime tabelle distribuite ai sindacati dal ministero dell’Istruzione sono un ottimo punto di partenza per capire cosa è successo.
Più studenti
Considerando tutto il percorso dell’istruzione, dal primo anno di materna all’ultimo delle superiori, gli studenti italiani sono quasi 8 milioni, 7.826.232. Rispetto all’anno scorso ne abbiamo 8.436 in più. Gli italiani fanno meno figli ma il numero cresce grazie agli stranieri, ormai intorno all’8% del totale. Per capire meglio, però, bisogna abbassare la lente d’ingrandimento. Ci sono più alunni alle materne, alle medie e alle superiori, mentre scendono alle elementari. E soprattutto l’aumento riguarda il Nord (in Lombardia ci sono 11.579 studenti in più) ma non il Sud, la Sicilia quest’anno ne ha persi 7.539.
Meno insegnanti
Considerando sia quelli di ruolo che i precari, ma senza contare quelli di sostegno, gli insegnanti italiani sono 625.878. Rispetto all’anno scorso ce ne sono 16.980 di meno. È l’onda lunga dei tagli decisi dal governo Berlusconi, 87 mila cattedre in meno negli ultimi tre anni. Qui il calo riguarda tutti i gradini del percorso scolastico, anche se il sacrificio maggiore lo hanno fatto superiori ed elementari. Ma tra Nord e Sud non si salva nessuno: ci sono meno insegnanti (2.316) sia in Sicilia, dove gli studenti sono in calo, sia in Lombardia (2.074), dove invece sono aumentati. La nuova versione dell’emendamento per le assunzioni dice che per il futuro bisognerà tener conto dell’andamento demografico degli studenti. Finora non è andata così.
Classi pollaio?
La conseguenza inevitabile è che sale il numero di alunni per classe. In media siamo a 21,45 contro il 21,28 dell’anno scorso. I nostri vicini europei hanno valori più alti, 24,5 in Francia, 24,7 in Germania anche se lì non sempre vengono considerati gli insegnanti di sostegno che da noi rientrano invece nella stessa categoria. E anche in questa classifica il Nord sembra soffrire di più: in Emilia Romagna la media sale a 22,5 alunni per classe, in Calabria e Sardegna scende a 19,7. Le cosiddette classi pollaio, cioè con più di 30 studenti, sono circa 2 mila, lo 0,6% del totale. In compenso il 4% ha meno di 12 studenti, quasi sempre nei paesini e in zone di montagna.
Il tempo pieno
È stato uno dei temi più caldi degli ultimi anni. E qui i dati ufficiali consentono di fare chiarezza fino a un certo punto. Sulle medie non ci sono dubbi: rispetto all’anno scorso le classi con il tempo prolungato sono 1.479 di meno, un calo dello 0,4%. A poter usufruire di questo servizio sono 31.602 studenti in meno. Per le elementari le tabelle del ministero indicano un aumento di 979 classi, il 2,6% in più, 26.256 bambini. Ma il dato non dice tutto. Il modello originario del tempo pieno prevedeva 40 ore alla settimana con due maestre. «In molti casi — dice Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil scuola — quelle 40 ore sono diventate uno spezzatino, coperto da 4 o 5 insegnanti che si alternano trasformando in alcuni casi la scuola in un parcheggio». In ogni caso le domande per il tempo pieno superano di gran lunga l’offerta, non ci sono dati ufficiali ma molte famiglie restano fuori.
Il sostegno
È un altro tema delicato. Il numero degli studenti disabili è in costante aumento, quest’anno sono quasi 200 mila, 198.672, 10 mila in più rispetto all’anno scorso. Un vero e proprio boom se si pensa che dieci anni fa erano quasi la metà. Anche il numero degli insegnanti di sostegno è cresciuto — adesso siamo a 97.636, 3 mila in più — lasciando sostanzialmente inalterato il rapporto di due studenti disabili per ogni insegnante di sostegno. Una conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale che due anni fa ha cancellato il tetto di 91 mila docenti di sostegno fissato con la Finanziaria del 2008, governo Prodi.
Gli accorpamenti
L’anno prossimo diversi istituti saranno chiusi e accorpati. La prima manovra estiva del 2011 ha stabilito che le scuole elementari e medie devono avere almeno mille studenti. Quelle più piccole devono fondersi fra loro, in modo da abbassare i costi di gestione. La previsione era di chiudere 1.300 scuole con un risparmio di 115 mila euro l’anno per ogni cancellazione. Dopo le proteste è partita una mediazione, sono le singole Regioni a decidere come ridisegnare la rete. Al momento è stato già deciso l’accorpamento di 400 scuole ma alla fine dovrebbero essere 1.056, poco meno della previsione iniziale. Questo non vorrà dire avere per forza meno classi o meno insegnanti. Ma le scuole piccole sono spesso nei piccoli centri. In alcuni casi per andare in classe sarà necessario viaggiare. E anche questo è un disagio.

Il Corriere della Sera 11.03.12

“Nelle classi più studenti e meno insegnanti”, di Lorenzo Salvia

La politica ha discusso, lo scontro fra governo e Parlamento è stato acceso. Ma alla fine le 10 mila assunzioni nella scuola non sono arrivate. Dovevano essere finanziate alzando le tasse sull’alcol e sui giochi, trasformando il vizio in virtù, o almeno in posti di lavoro. Ma l’emendamento al decreto legge sulle semplificazioni presentato dal Pd e approvato in commissione è stato cancellato, sostituito da un meccanismo pieno di curve: le assunzioni saranno possibili ma solo in caso di aumento degli studenti, da verificare ogni tre anni, e a patto che il settore abbia risparmiato qualcosa. Nessun impegno preciso, non una sorpresa visto il momento di sacrifici per tutti. Ma mentre la politica discute, nelle scuole che cosa succede? Il confronto tra l’anno in corso e quello precedente ci dice che, anche se di poco, il numero degli studenti è salito, più 0,1%. Mentre quello degli insegnanti è sceso, con una tendenza più marcata, 2,6%. Il risultato è che abbiamo meno classi, lo 0,6%. E che sono diventate un po’ più affollate: da una media di 21,28 alunni siamo passati a 21,45, anche se restiamo in linea con la media dell’Ocse, l’Organizzazione che raggruppa 34 Paesi a economia avanzata. I numeri non dicono tutto, non misurano sempre la qualità e nemmeno l’impegno dei singoli. Ma le ultime tabelle distribuite ai sindacati dal ministero dell’Istruzione sono un ottimo punto di partenza per capire cosa è successo.
Più studenti
Considerando tutto il percorso dell’istruzione, dal primo anno di materna all’ultimo delle superiori, gli studenti italiani sono quasi 8 milioni, 7.826.232. Rispetto all’anno scorso ne abbiamo 8.436 in più. Gli italiani fanno meno figli ma il numero cresce grazie agli stranieri, ormai intorno all’8% del totale. Per capire meglio, però, bisogna abbassare la lente d’ingrandimento. Ci sono più alunni alle materne, alle medie e alle superiori, mentre scendono alle elementari. E soprattutto l’aumento riguarda il Nord (in Lombardia ci sono 11.579 studenti in più) ma non il Sud, la Sicilia quest’anno ne ha persi 7.539.
Meno insegnanti
Considerando sia quelli di ruolo che i precari, ma senza contare quelli di sostegno, gli insegnanti italiani sono 625.878. Rispetto all’anno scorso ce ne sono 16.980 di meno. È l’onda lunga dei tagli decisi dal governo Berlusconi, 87 mila cattedre in meno negli ultimi tre anni. Qui il calo riguarda tutti i gradini del percorso scolastico, anche se il sacrificio maggiore lo hanno fatto superiori ed elementari. Ma tra Nord e Sud non si salva nessuno: ci sono meno insegnanti (2.316) sia in Sicilia, dove gli studenti sono in calo, sia in Lombardia (2.074), dove invece sono aumentati. La nuova versione dell’emendamento per le assunzioni dice che per il futuro bisognerà tener conto dell’andamento demografico degli studenti. Finora non è andata così.
Classi pollaio?
La conseguenza inevitabile è che sale il numero di alunni per classe. In media siamo a 21,45 contro il 21,28 dell’anno scorso. I nostri vicini europei hanno valori più alti, 24,5 in Francia, 24,7 in Germania anche se lì non sempre vengono considerati gli insegnanti di sostegno che da noi rientrano invece nella stessa categoria. E anche in questa classifica il Nord sembra soffrire di più: in Emilia Romagna la media sale a 22,5 alunni per classe, in Calabria e Sardegna scende a 19,7. Le cosiddette classi pollaio, cioè con più di 30 studenti, sono circa 2 mila, lo 0,6% del totale. In compenso il 4% ha meno di 12 studenti, quasi sempre nei paesini e in zone di montagna.
Il tempo pieno
È stato uno dei temi più caldi degli ultimi anni. E qui i dati ufficiali consentono di fare chiarezza fino a un certo punto. Sulle medie non ci sono dubbi: rispetto all’anno scorso le classi con il tempo prolungato sono 1.479 di meno, un calo dello 0,4%. A poter usufruire di questo servizio sono 31.602 studenti in meno. Per le elementari le tabelle del ministero indicano un aumento di 979 classi, il 2,6% in più, 26.256 bambini. Ma il dato non dice tutto. Il modello originario del tempo pieno prevedeva 40 ore alla settimana con due maestre. «In molti casi — dice Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil scuola — quelle 40 ore sono diventate uno spezzatino, coperto da 4 o 5 insegnanti che si alternano trasformando in alcuni casi la scuola in un parcheggio». In ogni caso le domande per il tempo pieno superano di gran lunga l’offerta, non ci sono dati ufficiali ma molte famiglie restano fuori.
Il sostegno
È un altro tema delicato. Il numero degli studenti disabili è in costante aumento, quest’anno sono quasi 200 mila, 198.672, 10 mila in più rispetto all’anno scorso. Un vero e proprio boom se si pensa che dieci anni fa erano quasi la metà. Anche il numero degli insegnanti di sostegno è cresciuto — adesso siamo a 97.636, 3 mila in più — lasciando sostanzialmente inalterato il rapporto di due studenti disabili per ogni insegnante di sostegno. Una conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale che due anni fa ha cancellato il tetto di 91 mila docenti di sostegno fissato con la Finanziaria del 2008, governo Prodi.
Gli accorpamenti
L’anno prossimo diversi istituti saranno chiusi e accorpati. La prima manovra estiva del 2011 ha stabilito che le scuole elementari e medie devono avere almeno mille studenti. Quelle più piccole devono fondersi fra loro, in modo da abbassare i costi di gestione. La previsione era di chiudere 1.300 scuole con un risparmio di 115 mila euro l’anno per ogni cancellazione. Dopo le proteste è partita una mediazione, sono le singole Regioni a decidere come ridisegnare la rete. Al momento è stato già deciso l’accorpamento di 400 scuole ma alla fine dovrebbero essere 1.056, poco meno della previsione iniziale. Questo non vorrà dire avere per forza meno classi o meno insegnanti. Ma le scuole piccole sono spesso nei piccoli centri. In alcuni casi per andare in classe sarà necessario viaggiare. E anche questo è un disagio.

Il Corriere della Sera 11.03.12

"Se cento giorni vi sembran troppi", di Eugenio Scalfari

Lo “spread” è quasi dimezzato rispetto a tre mesi fa, ma c´è anche chi scrive (Guido Gentili sul “24 Ore” di venerdì scorso) che uno “spread” a livelli pericolosi dava al governo Monti l´energia dell´emergenza e imponeva ai partiti di appoggiarlo senza riserve, mentre il recupero di una quasi normalità finanziaria allenta i vincoli della strana maggioranza esistente rendendo più fragile la tenuta del governo.
Questa riflessione è paradossale ma come tutti i paradossi contiene una parte di verità. Alcune fastidiose gaffe di ministri e di sottosegretari e alcuni drammatici episodi in Nigeria e in India hanno nei giorni scorsi dato la stura a critiche e ad uno scollamento evidente nel rapporto tra i partiti e il governo. La recessione in corso ha accentuato il malessere di molte categorie. Il movimento No-Tav è diventato una sorta di distintivo unificante per tutti gli scontenti d´Italia e la Fiom una sorta di sindacato-partito all´insegna del solito articolo 18.
Infine il “dopo Monti” e l´avvicinarsi delle elezioni amministrative del 6 maggio hanno risvegliato i partiti dal lungo letargo in cui sembravano caduti. Cresce l´insofferenza verso la “dittatura” dei tecnici ai quali si guarda come una necessaria sospensione della democrazia parlamentare, che dovrà comunque cessare nella primavera del 2013. Accenti di questo tipo sono anche contenuti nel “manifesto” dell´associazione “Libertà e Giustizia” che sarà illustrato domani a Milano da Gustavo Zagrebelsky.

Mettete insieme tutti questi disparati elementi e avrete una miscela che può produrre esiti imprevedibili e preoccupanti proprio nel momento più delicato della politica italiana.
Tre mesi fa eravamo sul ciglio di un baratro, la credibilità del nostro Paese era scesa sotto il livello dello zero, dalla finanza e dalla tenuta del debito pubblico emergevano sinistri scricchiolii; la recessione dell´economia reale era già evidente e così pure il malessere sociale dei ceti più deboli, delle famiglie e del Mezzogiorno. Il Nord dal canto suo aveva cessato da tempo di “tirare” ed anzi avvertiva un disagio sociale crescente.
Questa era la situazione fino al novembre del 2011 e questo spiega il sollievo e il plauso pressoché unanime con cui fu accolta la decisione di Napolitano di dare a Monti la responsabilità di salvare l´Italia da un avvitamento irreversibile incombente.
L´operazione è riuscita per metà. In cento giorni. Piacerebbe chiedere ai tanti critici che ora sbucano a destra a manca in quali altre occasioni nella storia del nostro Paese situazioni di analoga gravità sono state contenute e avviate a soluzione in così breve lasso di tempo.
Io non ne ricordo altre. Si può a giusto titolo rievocare quella compiuta dal governo Ciampi nel 1993, con una differenza però tutt´altro che trascurabile: la grave crisi di allora era soltanto italiana; quella di oggi è mondiale ed è in corso da quattro anni.
Ciampi compì il miracolo in un anno con un governo che, per nascita e composizione, somiglia molto da vicino a quello attuale. Fu anche quello – come i critici di oggi ripetono ossessivamente parlando dei tecnici – un sequestro della democrazia?
Il governo Ciampi scrisse la parola fine alla partitocrazia e alla corruttela pubblica che l´aveva accompagnata. Il governo Monti ha messo la parola fine al populismo dell´era berlusconiana. Ma – lo ripeto – ci troviamo oggi al centro della più grave crisi economica e politica degli ultimi cent´anni. L´Italia è stata fino a un mese fa al centro di questa crisi perché le dimensioni del nostro debito pubblico sono tali che un suo “default” avrebbe fatto saltare in aria l´euro e quindi l´intera Europa creando un terremoto di dimensioni planetarie.
In cento giorni siamo usciti da questa situazione ma non per questo la crisi è conclusa. Siamo nel bel mezzo di una recessione che durerà almeno un anno. La crescita è indispensabile. Ora ne è convinta perfino la Merkel e soprattutto il suo ministro delle Finanze, come risulta chiaramente dall´intervista che appare oggi sulle nostre pagine.
Non si ottiene crescita con la bacchetta magica ma predisponendo un quadro ampio di liberalizzazioni e di incremento della concorrenza, modificando in senso federale la “governance” europea e mettendo in sicurezza i debiti sovrani. Si ottiene, per quanto riguarda l´Italia, detassando il costo del lavoro e incoraggiando la domanda interna, le esportazioni e gli investimenti.
Una responsabilità primaria grava, a questo proposito, sugli imprenditori. Nello scorso decennio molti imprenditori hanno smesso di investire; hanno sospeso l´ammodernamento degli impianti, hanno prolungato i loro ammortamenti, non c´è stato investimento per nuovi prodotti né per nuovi modi di produrli, le scorte sono state limitate al minimo indispensabile e così pure il capitale circolante. La produttività si è concentrata quasi esclusivamente sul costo del lavoro, favorendo l´occupazione precaria a bassissimo costo.
Questo è stato il comportamento medio della nostra imprenditoria e da questo punto di vista la Fiat di Marchionne ne è stato l´esempio più radicale.
Il processo di crescita è appena avviato e sarà lungo perché il rigore è doloroso ma rapido, il recupero di un decente benessere è complicato e richiede partecipazione e tenace e continuativo sforzo. Per questa ragione le forze politiche che sostengono il governo dovrebbero aumentare e non certo diminuire il loro appoggio almeno fino alla fine della legislatura. Se basterà.
***
Quello che accadrà dopo non è prevedibile, salvo su una questione: chi pensasse che il dopo debba riagganciarsi al prima è fuori tema e fuori tempo. Il prima, cioè la seconda Repubblica, fu dominato dal populismo. Oggi quella fase è definitivamente chiusa, ma la nuova non è ancora cominciata. Il governo Monti ne sta creando le pre-condizioni. Spetterà alle forze politiche costruirne l´architettura cominciando dal primo mattone: una nuova legge elettorale (e la diminuzione del numero dei parlamentari che con quella legge è inevitabilmente collegato). La nuova legge dovrebbe soddisfare quattro esigenze: abolire il premio di maggioranza, restituire agli elettori la possibilità di scegliere gli eletti, evitare un eccessivo frazionamento della rappresentanza, favorire l´esistenza di governi di legislatura.
Il Pd sembra unanime su questi obiettivi come risulta dalle recenti interviste di Bersani, Veltroni, D´Alema, Enrico Letta e Franceschini. L´Udc sembra anch´essa disponibile. Anche Alfano converge su queste posizioni, ma qui nasce una questione che riguarda l´esistenza stessa del Pdl: come reggerà quel partito alle prossime amministrative? Il 6 maggio lo sapremo, ma se andassero come i sondaggi sembrano prevedere, un´implosione del Pdl non è affatto da escludere, con ripercussioni sull´intero quadro politico.
Il “dopo Monti” è dunque ancora avvolto da fitta nebbia, ma una cosa è certa: non si può parlare del “dopo Monti” mettendo a rischio l´azione del Monti in carica. L´amplificazione delle critiche e dei disagi che fanno parte non eliminabile del processo in corso sono comportamenti irresponsabili, dettati nel migliore dei casi da ingenuità e nel peggiore da esibizionismo e ricerca di posizionamento per un futuro del quale non si conoscono neppure i lineamenti.
Questo è ancora il momento del “senza sé, senza ma”. Vale per tutti e vale anche per il governo e per il suo modo di comunicare che francamente non brilla per sagacia.
Post scriptum. 1) Ieri il circuito mediatico ha dato largo spazio ad un comunicato dell´Istituto che rappresenta i possessori dei certificati di assicurazione contro il default di un debito sovrano. L´interpretazione di quel comunicato, fatta propria anche dalle agenzie di rating Moody´s e Fitch, è stata che lo Stato greco è fallito nonostante le dichiarazioni positive del governo di Atene e dell´Unione europea.
Le cose stanno così: le banche creditrici del governo greco hanno deciso di accettare in pagamento dei titoli greci in scadenza da loro detenuti nuovi titoli di più lunga durata e ad un modesto tasso di interesse con un taglio del 53 per cento del valore nominale. Si sono cioè addossate una perdita di quell´entità, che arriva di fatto al 70 per cento calcolando il basso livello delle cedole e la più lunga durata dei nuovi titoli. Sulla base di questa operazione la Grecia ha dimezzato l´ammontare del suo debito sovrano ed ha ricevuto l´aiuto europeo fino a 130 miliardi di euro.
Il governo greco ha imposto un accordo analogo ai privati creditori che non hanno volontariamente aderito all´accordo con le banche. L´ammontare stimato di questo gruppo di creditori dissenzienti sarebbe di 3.5 miliardi.
Sulla base di questa decisione forzosa l´istituto competente ha dichiarato liquidabili le polizze di assicurazione stipulate a suo tempo contro il default del debito greco.
Questa è la situazione. Se ridurre del 53 per cento il valore del debito equivale a fallimento, allora lo Stato greco è certamente fallito. Ma poiché quello Stato continua ad emettere titoli, a collocarli nelle banche e nel pubblico, a pagare stipendi e fornitori, insomma ad esistere all´interno del sistema monetario dell´eurozona, evidentemente non c´è fallimento ma c´è un concordato con i creditori. Durerà? Il futuro è sempre incerto ma l´esistente è comunque meno preoccupante di prima.
2) Leggo su alcuni giornali (“Il Manifesto, “Il Fatto Quotidiano”) che il movimento anti-Tav e la Fiom aumenteranno la loro pressione e la loro forza fino a produrre una svolta. Non si capisce in che cosa consista questa svolta, descritta come decisiva. Sottoporre a referendum ogni opera pubblica? Mettere in crisi questo governo e sostituirlo con un altro? Quale? Oppure abolire governo e Parlamento e creare una Repubblica referendaria? C´è un Palazzo d´Inverno da invadere? Uno zar da abbattere? Un soviet da installare a Montecitorio?
Qualche informazione in proposito sarebbe gradita.

La Repubblica 11.03.12

“Se cento giorni vi sembran troppi”, di Eugenio Scalfari

Lo “spread” è quasi dimezzato rispetto a tre mesi fa, ma c´è anche chi scrive (Guido Gentili sul “24 Ore” di venerdì scorso) che uno “spread” a livelli pericolosi dava al governo Monti l´energia dell´emergenza e imponeva ai partiti di appoggiarlo senza riserve, mentre il recupero di una quasi normalità finanziaria allenta i vincoli della strana maggioranza esistente rendendo più fragile la tenuta del governo.
Questa riflessione è paradossale ma come tutti i paradossi contiene una parte di verità. Alcune fastidiose gaffe di ministri e di sottosegretari e alcuni drammatici episodi in Nigeria e in India hanno nei giorni scorsi dato la stura a critiche e ad uno scollamento evidente nel rapporto tra i partiti e il governo. La recessione in corso ha accentuato il malessere di molte categorie. Il movimento No-Tav è diventato una sorta di distintivo unificante per tutti gli scontenti d´Italia e la Fiom una sorta di sindacato-partito all´insegna del solito articolo 18.
Infine il “dopo Monti” e l´avvicinarsi delle elezioni amministrative del 6 maggio hanno risvegliato i partiti dal lungo letargo in cui sembravano caduti. Cresce l´insofferenza verso la “dittatura” dei tecnici ai quali si guarda come una necessaria sospensione della democrazia parlamentare, che dovrà comunque cessare nella primavera del 2013. Accenti di questo tipo sono anche contenuti nel “manifesto” dell´associazione “Libertà e Giustizia” che sarà illustrato domani a Milano da Gustavo Zagrebelsky.

Mettete insieme tutti questi disparati elementi e avrete una miscela che può produrre esiti imprevedibili e preoccupanti proprio nel momento più delicato della politica italiana.
Tre mesi fa eravamo sul ciglio di un baratro, la credibilità del nostro Paese era scesa sotto il livello dello zero, dalla finanza e dalla tenuta del debito pubblico emergevano sinistri scricchiolii; la recessione dell´economia reale era già evidente e così pure il malessere sociale dei ceti più deboli, delle famiglie e del Mezzogiorno. Il Nord dal canto suo aveva cessato da tempo di “tirare” ed anzi avvertiva un disagio sociale crescente.
Questa era la situazione fino al novembre del 2011 e questo spiega il sollievo e il plauso pressoché unanime con cui fu accolta la decisione di Napolitano di dare a Monti la responsabilità di salvare l´Italia da un avvitamento irreversibile incombente.
L´operazione è riuscita per metà. In cento giorni. Piacerebbe chiedere ai tanti critici che ora sbucano a destra a manca in quali altre occasioni nella storia del nostro Paese situazioni di analoga gravità sono state contenute e avviate a soluzione in così breve lasso di tempo.
Io non ne ricordo altre. Si può a giusto titolo rievocare quella compiuta dal governo Ciampi nel 1993, con una differenza però tutt´altro che trascurabile: la grave crisi di allora era soltanto italiana; quella di oggi è mondiale ed è in corso da quattro anni.
Ciampi compì il miracolo in un anno con un governo che, per nascita e composizione, somiglia molto da vicino a quello attuale. Fu anche quello – come i critici di oggi ripetono ossessivamente parlando dei tecnici – un sequestro della democrazia?
Il governo Ciampi scrisse la parola fine alla partitocrazia e alla corruttela pubblica che l´aveva accompagnata. Il governo Monti ha messo la parola fine al populismo dell´era berlusconiana. Ma – lo ripeto – ci troviamo oggi al centro della più grave crisi economica e politica degli ultimi cent´anni. L´Italia è stata fino a un mese fa al centro di questa crisi perché le dimensioni del nostro debito pubblico sono tali che un suo “default” avrebbe fatto saltare in aria l´euro e quindi l´intera Europa creando un terremoto di dimensioni planetarie.
In cento giorni siamo usciti da questa situazione ma non per questo la crisi è conclusa. Siamo nel bel mezzo di una recessione che durerà almeno un anno. La crescita è indispensabile. Ora ne è convinta perfino la Merkel e soprattutto il suo ministro delle Finanze, come risulta chiaramente dall´intervista che appare oggi sulle nostre pagine.
Non si ottiene crescita con la bacchetta magica ma predisponendo un quadro ampio di liberalizzazioni e di incremento della concorrenza, modificando in senso federale la “governance” europea e mettendo in sicurezza i debiti sovrani. Si ottiene, per quanto riguarda l´Italia, detassando il costo del lavoro e incoraggiando la domanda interna, le esportazioni e gli investimenti.
Una responsabilità primaria grava, a questo proposito, sugli imprenditori. Nello scorso decennio molti imprenditori hanno smesso di investire; hanno sospeso l´ammodernamento degli impianti, hanno prolungato i loro ammortamenti, non c´è stato investimento per nuovi prodotti né per nuovi modi di produrli, le scorte sono state limitate al minimo indispensabile e così pure il capitale circolante. La produttività si è concentrata quasi esclusivamente sul costo del lavoro, favorendo l´occupazione precaria a bassissimo costo.
Questo è stato il comportamento medio della nostra imprenditoria e da questo punto di vista la Fiat di Marchionne ne è stato l´esempio più radicale.
Il processo di crescita è appena avviato e sarà lungo perché il rigore è doloroso ma rapido, il recupero di un decente benessere è complicato e richiede partecipazione e tenace e continuativo sforzo. Per questa ragione le forze politiche che sostengono il governo dovrebbero aumentare e non certo diminuire il loro appoggio almeno fino alla fine della legislatura. Se basterà.
***
Quello che accadrà dopo non è prevedibile, salvo su una questione: chi pensasse che il dopo debba riagganciarsi al prima è fuori tema e fuori tempo. Il prima, cioè la seconda Repubblica, fu dominato dal populismo. Oggi quella fase è definitivamente chiusa, ma la nuova non è ancora cominciata. Il governo Monti ne sta creando le pre-condizioni. Spetterà alle forze politiche costruirne l´architettura cominciando dal primo mattone: una nuova legge elettorale (e la diminuzione del numero dei parlamentari che con quella legge è inevitabilmente collegato). La nuova legge dovrebbe soddisfare quattro esigenze: abolire il premio di maggioranza, restituire agli elettori la possibilità di scegliere gli eletti, evitare un eccessivo frazionamento della rappresentanza, favorire l´esistenza di governi di legislatura.
Il Pd sembra unanime su questi obiettivi come risulta dalle recenti interviste di Bersani, Veltroni, D´Alema, Enrico Letta e Franceschini. L´Udc sembra anch´essa disponibile. Anche Alfano converge su queste posizioni, ma qui nasce una questione che riguarda l´esistenza stessa del Pdl: come reggerà quel partito alle prossime amministrative? Il 6 maggio lo sapremo, ma se andassero come i sondaggi sembrano prevedere, un´implosione del Pdl non è affatto da escludere, con ripercussioni sull´intero quadro politico.
Il “dopo Monti” è dunque ancora avvolto da fitta nebbia, ma una cosa è certa: non si può parlare del “dopo Monti” mettendo a rischio l´azione del Monti in carica. L´amplificazione delle critiche e dei disagi che fanno parte non eliminabile del processo in corso sono comportamenti irresponsabili, dettati nel migliore dei casi da ingenuità e nel peggiore da esibizionismo e ricerca di posizionamento per un futuro del quale non si conoscono neppure i lineamenti.
Questo è ancora il momento del “senza sé, senza ma”. Vale per tutti e vale anche per il governo e per il suo modo di comunicare che francamente non brilla per sagacia.
Post scriptum. 1) Ieri il circuito mediatico ha dato largo spazio ad un comunicato dell´Istituto che rappresenta i possessori dei certificati di assicurazione contro il default di un debito sovrano. L´interpretazione di quel comunicato, fatta propria anche dalle agenzie di rating Moody´s e Fitch, è stata che lo Stato greco è fallito nonostante le dichiarazioni positive del governo di Atene e dell´Unione europea.
Le cose stanno così: le banche creditrici del governo greco hanno deciso di accettare in pagamento dei titoli greci in scadenza da loro detenuti nuovi titoli di più lunga durata e ad un modesto tasso di interesse con un taglio del 53 per cento del valore nominale. Si sono cioè addossate una perdita di quell´entità, che arriva di fatto al 70 per cento calcolando il basso livello delle cedole e la più lunga durata dei nuovi titoli. Sulla base di questa operazione la Grecia ha dimezzato l´ammontare del suo debito sovrano ed ha ricevuto l´aiuto europeo fino a 130 miliardi di euro.
Il governo greco ha imposto un accordo analogo ai privati creditori che non hanno volontariamente aderito all´accordo con le banche. L´ammontare stimato di questo gruppo di creditori dissenzienti sarebbe di 3.5 miliardi.
Sulla base di questa decisione forzosa l´istituto competente ha dichiarato liquidabili le polizze di assicurazione stipulate a suo tempo contro il default del debito greco.
Questa è la situazione. Se ridurre del 53 per cento il valore del debito equivale a fallimento, allora lo Stato greco è certamente fallito. Ma poiché quello Stato continua ad emettere titoli, a collocarli nelle banche e nel pubblico, a pagare stipendi e fornitori, insomma ad esistere all´interno del sistema monetario dell´eurozona, evidentemente non c´è fallimento ma c´è un concordato con i creditori. Durerà? Il futuro è sempre incerto ma l´esistente è comunque meno preoccupante di prima.
2) Leggo su alcuni giornali (“Il Manifesto, “Il Fatto Quotidiano”) che il movimento anti-Tav e la Fiom aumenteranno la loro pressione e la loro forza fino a produrre una svolta. Non si capisce in che cosa consista questa svolta, descritta come decisiva. Sottoporre a referendum ogni opera pubblica? Mettere in crisi questo governo e sostituirlo con un altro? Quale? Oppure abolire governo e Parlamento e creare una Repubblica referendaria? C´è un Palazzo d´Inverno da invadere? Uno zar da abbattere? Un soviet da installare a Montecitorio?
Qualche informazione in proposito sarebbe gradita.

La Repubblica 11.03.12

"Pdl-Lega, un invito e una minaccia", di Michele Brambilla

A meno di due mesi dalle elezioni amministrative, il centrodestra ha improvvisamente scoperto il grande pericolo: perdere il Nord. Che ne sarà infatti del Nord se Pdl e Lega correranno ciascuno per conto proprio? L’allarme lanciato ieri dal segretario del Pdl Angelino Alfano è figlio dell’incubo che il centrodestra sta vivendo in questi giorni. Solo una settimana fa Alfano aveva detto, anzi annunciato in forma ufficiale, che il suo partito non si sarebbe mai più alleato con la Lega. Dall’altra parte i leghisti erano stati ancora più tranchant. Maroni da mesi ripete che «la Lega correrà da sola», e Bossi è quasi tornato al linguaggio dei bei tempi del «mafioso di Arcore»: lunedì scorso ha detto che il governo Monti è una rapina, nella quale il premier fa la parte del rapinatore e Berlusconi quella del palo.

Proprio il governo Monti è all’origine della spaccatura. Berlusconi ha deciso di appoggiarlo, insieme a centristi e Pd: un po’ per senso di responsabilità, un po’ per interesse personale. Bossi ha invece deciso di osteggiarlo: un po’ per convinzione, un po’ – anche qui – per interesse personale, nel senso che un periodo all’opposizione potrebbe essere rigenerante per la Lega, soprattutto agli occhi dei suoi elettori.

Ciascuno aveva dunque il proprio tornaconto: il Pdl nell’appoggiare Monti in una maggioranza bipartisan, la Lega nello starne alla larga. Ma adesso che si avvicinano le elezioni, sia il Pdl sia la Lega si trovano a sbattere il muso contro una realtà per entrambi sgradevole. E la realtà è che, con Pdl e Lega separati, anche il Nord – da tempo grande roccaforte del centrodestra – rischia di passare con il centrosinistra.

Per questo Alfano, a una sola settimana dal proclama «mai più con la Lega», ieri ha lanciato un appello-invito agli ex alleati, chiedendo loro di non fare in modo che il Nord venga consegnato alla sinistra. Perché lo ha fatto? Certamente nella settimana intercorsa fra il primo e il secondo annuncio sono accaduti fatti importanti. Alfano si è molto irritato per il vertice Severino-Bersani-Casini su Rai e giustizia: non solo si è sentito tagliato fuori, ma ha avuto l’impressione che quell’incontro fosse solo un capitolo di una trappola a lungo termine. Alfano ha pensato che avesse ragione Berlusconi quando sosteneva che con Casini non si va da nessuna parte, e che in fondo il leader dell’Udc punta a un logoramento del Pdl per prendere la guida di un nuovo centrodestra. Questi ragionamenti, uniti ai calcoli sulle prossime elezioni del 6 maggio, lo hanno indotto a tentare un recupero con la Lega.

Ma attenzione. Le parole che Alfano ha rivolto ieri alla Lega («Non consegniamo il Nord alla sinistra») sono al tempo stesso un invito (a ritornare insieme) e una minaccia. La sera del 7 maggio, infatti, per capire chi ha vinto e chi ha perso non conteranno le percentuali prese dai partiti: quelle saranno in gran parte falsate dalla presenza delle varie liste civiche. Ciò che conterà saranno solo le cosiddette «bandierine»: quanti Comuni al centrodestra e quanti al centrosinistra. Il 6 maggio in tutta Italia si vota in ventisette Comuni capoluoghi di provincia. Cinque anni fa, in diciotto di questi ventisette Comuni aveva vinto il centrodestra.

Al Nord erano stati conquistati dall’alleanza Pdl-Lega Alessandria, Asti, Como, Monza, Belluno, Verona, Gorizia e Parma. Il centrosinistra aveva vinto a Cuneo, Piacenza, Genova e La Spezia. Insomma al Nord otto bandierine a quattro per il centrodestra. Adesso, con Lega e Pdl che corrono separati, il risultato potrebbe essere invertito. In teoria, potrebbe finire anche dodici a zero, o qualcosa di simile, per il centrosinistra.

Ecco perché le parole di Alfano alla Lega sono al tempo stesso un invito e una minaccia. Un invito a ripensare la scelta di correre da soli. E una minaccia in questo senso: cari leghisti, sappiate che se perdiamo la battaglia delle bandierine la colpa sarà vostra, e sarete voi – non noi – a doverne rendere conto agli elettori. Nella Lega però pensano l’esatto opposto: che sia stato il Pdl, appoggiando Monti, a rompere l’alleanza. E se ciascuno rimarrà sulle proprie posizioni, ne verrà miracolato un centrosinistra talmente malmesso che può vincere solo su autorete.

La Stampa 11.03.12

“Pdl-Lega, un invito e una minaccia”, di Michele Brambilla

A meno di due mesi dalle elezioni amministrative, il centrodestra ha improvvisamente scoperto il grande pericolo: perdere il Nord. Che ne sarà infatti del Nord se Pdl e Lega correranno ciascuno per conto proprio? L’allarme lanciato ieri dal segretario del Pdl Angelino Alfano è figlio dell’incubo che il centrodestra sta vivendo in questi giorni. Solo una settimana fa Alfano aveva detto, anzi annunciato in forma ufficiale, che il suo partito non si sarebbe mai più alleato con la Lega. Dall’altra parte i leghisti erano stati ancora più tranchant. Maroni da mesi ripete che «la Lega correrà da sola», e Bossi è quasi tornato al linguaggio dei bei tempi del «mafioso di Arcore»: lunedì scorso ha detto che il governo Monti è una rapina, nella quale il premier fa la parte del rapinatore e Berlusconi quella del palo.

Proprio il governo Monti è all’origine della spaccatura. Berlusconi ha deciso di appoggiarlo, insieme a centristi e Pd: un po’ per senso di responsabilità, un po’ per interesse personale. Bossi ha invece deciso di osteggiarlo: un po’ per convinzione, un po’ – anche qui – per interesse personale, nel senso che un periodo all’opposizione potrebbe essere rigenerante per la Lega, soprattutto agli occhi dei suoi elettori.

Ciascuno aveva dunque il proprio tornaconto: il Pdl nell’appoggiare Monti in una maggioranza bipartisan, la Lega nello starne alla larga. Ma adesso che si avvicinano le elezioni, sia il Pdl sia la Lega si trovano a sbattere il muso contro una realtà per entrambi sgradevole. E la realtà è che, con Pdl e Lega separati, anche il Nord – da tempo grande roccaforte del centrodestra – rischia di passare con il centrosinistra.

Per questo Alfano, a una sola settimana dal proclama «mai più con la Lega», ieri ha lanciato un appello-invito agli ex alleati, chiedendo loro di non fare in modo che il Nord venga consegnato alla sinistra. Perché lo ha fatto? Certamente nella settimana intercorsa fra il primo e il secondo annuncio sono accaduti fatti importanti. Alfano si è molto irritato per il vertice Severino-Bersani-Casini su Rai e giustizia: non solo si è sentito tagliato fuori, ma ha avuto l’impressione che quell’incontro fosse solo un capitolo di una trappola a lungo termine. Alfano ha pensato che avesse ragione Berlusconi quando sosteneva che con Casini non si va da nessuna parte, e che in fondo il leader dell’Udc punta a un logoramento del Pdl per prendere la guida di un nuovo centrodestra. Questi ragionamenti, uniti ai calcoli sulle prossime elezioni del 6 maggio, lo hanno indotto a tentare un recupero con la Lega.

Ma attenzione. Le parole che Alfano ha rivolto ieri alla Lega («Non consegniamo il Nord alla sinistra») sono al tempo stesso un invito (a ritornare insieme) e una minaccia. La sera del 7 maggio, infatti, per capire chi ha vinto e chi ha perso non conteranno le percentuali prese dai partiti: quelle saranno in gran parte falsate dalla presenza delle varie liste civiche. Ciò che conterà saranno solo le cosiddette «bandierine»: quanti Comuni al centrodestra e quanti al centrosinistra. Il 6 maggio in tutta Italia si vota in ventisette Comuni capoluoghi di provincia. Cinque anni fa, in diciotto di questi ventisette Comuni aveva vinto il centrodestra.

Al Nord erano stati conquistati dall’alleanza Pdl-Lega Alessandria, Asti, Como, Monza, Belluno, Verona, Gorizia e Parma. Il centrosinistra aveva vinto a Cuneo, Piacenza, Genova e La Spezia. Insomma al Nord otto bandierine a quattro per il centrodestra. Adesso, con Lega e Pdl che corrono separati, il risultato potrebbe essere invertito. In teoria, potrebbe finire anche dodici a zero, o qualcosa di simile, per il centrosinistra.

Ecco perché le parole di Alfano alla Lega sono al tempo stesso un invito e una minaccia. Un invito a ripensare la scelta di correre da soli. E una minaccia in questo senso: cari leghisti, sappiate che se perdiamo la battaglia delle bandierine la colpa sarà vostra, e sarete voi – non noi – a doverne rendere conto agli elettori. Nella Lega però pensano l’esatto opposto: che sia stato il Pdl, appoggiando Monti, a rompere l’alleanza. E se ciascuno rimarrà sulle proprie posizioni, ne verrà miracolato un centrosinistra talmente malmesso che può vincere solo su autorete.

La Stampa 11.03.12

"Il partito che non serve", di Francesco Cundari

Si dice che le recenti tensioni tra Pdl e governo siano semplicemente la prova che la campagna elettorale per le amministrative è cominciata. Ma a giudicare dall`agitazione che caratterizza partiti vecchi e nuovi, e attorno a loro movimenti, giornali, leadership già affermate o in formazione, non pare una campagna destinata a chiudersi tra pochi mesi. Tanta agitazione e tanto fervore di iniziative non si giustificano, evidentemente, con il rinnovo di qualche consiglio comunale, per quanto importante.

Da questo vortice di legittime aspirazioni politiche e non celate ambizioni personali è bene che la Fiom sia tenuta al riparo. Se la battaglia contro la discriminazione degli operai iscritti alla Fiom negli stabilimenti Fiat è oscurata anche solo per un istante dagli insulti al segretario del Pd pronunciati dal palco della manifestazione di ieri, o dai fischi alla stessa Cgil, o dalle piccole rivalità tra gli esponenti del centrosinistra presenti al corteo, non ne viene un grande aiuto alla battaglia del sindacato.

Battaglia che è già abbastanza difficile.

Di fronte a un attacco di inedita asprezza e radicalità come quello guidato da Sergio Marchionne negli ultimi due anni, è comprensibile che Maurizio Landini si sia preoccupato anzitutto di evitare l`isolamento della sua organizzazione, anche nel dibattito pubblico, che in Italia è quello che è.

Da tempo tira una gran brutta aria, nel nostro Paese, per operai e sindacati. E non sono stati in molti a contrastare per tempo l`offensiva di Marchionne, nemmeno a sinistra.

Un`offensiva cominciata a Pomigliano e culminata nell`uscita di Fiat da Confindustria, con l`esplicito tentativo di imporre la linea della rottura all`intera imprenditoria italiana.

Le note stonate della manifestazione di ieri, ovviamente, non tolgono nulla all`importanza di questa battaglia, in cui il sindacato non può essere lasciato solo, per nessuna ragione. Ma sono la spia di un contesto politico e sociale in fermento, in cui si mescolano istanze diverse e contraddittorie, in una generale ansia di rinnovamento che rischia di tradire molto presto le sue promesse, proprio come vent`anni fa.

Lo dimostra il ritorno in campo di un vecchissimo armamentario di slogan e parole d`ordine contro la politica e contro i partiti che ha avuto grande fortuna all`inizio degli anni Novanta, con la crisi della Prima Repubblica. E lo dimostra anche l`incontenibile attivismo di tanti amministratori locali, già stanchi di un lavoro spesso appena cominciato, ma faticoso e prezioso come quello del sindaco o del presidente di Regione, e impegnatissimi a costruirsi il trampolino verso un impegno nazionale da protagonisti.

Da questo magma indistinto emerge quindi sui mezzi di comunicazione un paradossale miscuglio di sindaci-sceriffi e no tav, decisionismo e assemblearismo, sostenitori del mercato come unico argine alla corruzione dello Stato e sostenitori dello Stato come unico argine alla corruzione del mercato.

Venti anni fa, il più rapido e il più abile a cavalcare una simile onda, con tutte le sue contraddizioni, fu proprio il Cavaliere. Sarebbe bene, pertanto, evitare di ripetere gli stessi errori di allora. Non perché Silvio Berlusconi, ormai, rappresenti ancora una minaccia reale. Ma perché i berlusconiani sono molto più numerosi di quel che possa apparire a prima vista, e non stanno solamente nel Pdl.

L’Unità 10.03.12