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“Quel che resta da fare”, di Tito Boeri

I mercati finanziari festeggiano e lo spread scende sotto i 300 punti. Ma l´economia reale parteciperà alla festa solo se i tecnici faranno fino in fondo le cose che sono stati chiamati a fare. Ieri le Borse hanno celebrato il successo del piano di ristrutturazione del debito greco anche perché, a ben guardare, il coinvolgimento del settore privato nelle perdite è molto meno rilevante di quanto potesse apparire prima facie. Ma non è da ieri che le Borse ci regalano segni più (chissà perché fanno notizia solo quando bruciano, solo virtualmente, miliardi). Ed è sempre più stridente il contrasto fra le notizie che vengono dai mercati finanziari e i bollettini di guerra trasmessi dall´economia reale. La Borsa americana è tornata ai livelli precedenti alla crisi subprime, quella tedesca è cresciuta di quasi il 25 per cento da fine novembre. Eppure il commercio mondiale ristagna e ha smesso di compensare il calo della domanda interna in molte economie mature, la produzione industriale in Europa è da mesi in vistoso calo e l´insieme dell´area Euro sta entrando in recessione, come certificato anche ieri dalla Bce che, dopo la Commissione Europea, il Fondo Monetario e l´Ocse, ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita nel prossimo biennio. La disoccupazione nella Ue ha raggiunto i livelli più alti da 15 anni a questa parte. E mentre i dati della Cassa Integrazione in Italia ci riportano indietro all´inverno della Grande Recessione del 2008-9, continuano ad arrivare buone notizie sullo spread, sceso ieri sotto la soglia dei 300 punti base dai 550 toccati a settembre 2011.
Dietro a queste dinamiche divergenti ci sono certamente gli effetti della massiccia iniezione di liquidità operata dalla Fed negli Stati Uniti e dalla Bce in Europa. La Banca Centrale Europea ha erogato più di mille miliardi di prestiti alle banche europee per tre anni a un tasso dell´un per cento, quando il mercato avrebbe richiesto tassi da 7 a 8 volte più alti. Si creano così le condizioni per gigantesche operazioni di carry trade, con banche che lucrano sui differenziali fra i tassi della linea di credito aperta presso la Bce e i rendimenti dei titoli di stato, tornati in molti paesi ad apparire meno rischiosi dei prestiti alle imprese agli inizi di una recessione che ha già fatto aumentare le sofferenze bancarie. Negli ultimi due mesi le banche italiane hanno acquistato 33 miliardi di titoli di Stato, proprio mentre calavano di 20 miliardi i prestiti erogati alle imprese e alle famiglie. Anche per questo la festa non si trasmette all´economia reale. La stessa riduzione della spesa per gli interessi sul debito pubblico non concede spazi per interventi a sostegno dell´economia. Siamo ancora troppo vicini al baratro e i paesi già oggi in recessione sono proprio quelli cui viene richiesto l´aggiustamento fiscale più forte. Le misure straordinarie della Bce, il cui successo è stato rivendicato ieri da Mario Draghi, non possono perciò scongiurare la recessione. Al massimo daranno tempo ai governi per varare misure a sostegno della crescita e, al tempo stesso, riguadagnarsi la credibilità perduta da quando si era innestata quella spirale perversa di crisi di fiducia, tassi crescenti, manovre sempre più ambiziose e recessive che ci ha portato sull´orlo del precipizio.
L´Italia ha, per una volta, un piccolo vantaggio sugli altri paesi del contagio. C´è qualcosa di più del doping della Bce nel miglioramento dei nostri titoli di Stato. Ce ne si rende conto guardando – come abbiamo fatto fin dall´inizio della crisi – allo spread fra i titoli di stato spagnoli e italiani. A fine 2011 i nostri titoli di stato venivano comprati con rendimenti di 200 punti base più alti dei bonos. Ieri i tassi sui btp erano 25 punti al di sotto dei titoli di stato spagnoli. Insomma un miglioramento di 225 punti base (a regime saranno quasi 40 miliardi di spesa per interessi in meno) che può essere attribuito al miglioramento della nostra credibilità, interamente avvenuto sotto il cosiddetto “governo dei tecnici”. È un vantaggio che rischia di rivelarsi effimero se l´azione riformatrice di questi mesi si dovesse arrestare. I rischi ci sono tutti dato che la stessa classe politica responsabile del disastro sembra oggi ansiosa di tornare protagonista e i tecnici danno ripetuti segnali di stare imparando rapidamente il mestiere di politici. Non che ci illudessimo che i tecnici al governo potessero rimanere tali. Ma certo è che sono stati chiamati a fare quelle scelte difficili che chi deve farsi rieleggere a breve non vuole e forse non può neanche fare. Oggi c´è spazio solo per riforme a costo zero. I tesoretti vivono solo nei sogni dei politici e dei rappresentanti delle forzi sociali. Gravissimo evocarli da parte di ministri tecnici. E dati i veti incrociati presenti al tavolo sul mercato del lavoro, una riforma che dovesse accontentare tutti, sarà inevitabilmente una non riforma. È invece di cambiamenti profondi, soprattutto nelle condizioni di ingresso nel mercato del lavoro, che ha bisogno il Paese. Il nostro Presidente del Consiglio si è ripetutamente e personalmente impegnato a portare a termine entro la fine di marzo questa riforma, già scontata dai mercati. Deluderli brucerebbe d´un colpo la credibilità conquistata in questi mesi. Ancora più cocente sarebbe la delusione dei tanti giovani italiani in Italia e all´estero, dalle cui scelte di investimento di capitale umano dipendono le sorti del nostro Paese.

La Repubblica 09.03.12

"Democrazia paritaria: è questa la leva per cambiare la politica", di Roberta Agostini

L’8 marzo dello scorso anno un’autorevole delegazione di donne democratiche consegnò a Palazzo Chigi un pacchetto che rappresentava simbolicamente milioni di firme che il Pd aveva raccolto per chiedere le dimissioni di Berlusconi. Oggi possiamo dire che quelle firme hanno avuto la loro risposta, ma siamo ancora nel pieno di una grave crisi di sistema, che ci chiede di sostenere il lavoro di Monti senza smarrire la consapevolezza della necessità di una lunga fase di ricostruzione del Paese. Uscire dal berlusconismo, cosi come dalla crisi economica più grave dal dopoguerra, significa interrogarci a fondo su quale futuro immaginiamo. Con la consapevolezza che i danni prodotti dal considerare le istituzioni oggetti di proprietà o luoghi dove affrontare e risolvere questioni patrimoniali o giudiziarie del premier, sono profondi ed investono tutti.

Quello che è venuto alla luce in questi mesi, e che è stata una delle ragioni del successo della manifestazione del 13 febbraio, è che questa concezione individualista e proprietaria, fondata sul travisamento assoluto dell’idea della libertà, è strettamente intrecciata con la marginalizzazione della forza femminile, con lo squilibrio profondo dei ruoli tra uomini e donne, con le offese alla dignità femminile. Tutto ciò non solo costituisce una violazione dei diritti delle donne, ma è un blocco per lo sviluppo del Paese.

Allora, la parola chiave che vogliamo sia al centro del nostro progetto è democrazia paritaria. È la ricostruzione delle istituzioni democratiche attraverso la condivisione del potere pubblico e delle responsabilità private, che presuppone una rivoluzione nella mentalità, nella cultura, nel modo in cui oggi il potere è distribuito nel nostro Paese, nelle forme in cui il lavoro è organizzato. La democrazia paritaria è la risorsa attraverso cui dare forza al cambiamento della politica. Non è solo un tema di riequilibrio della rappresentanza, ma significa costruire un legame diverso tra cittadini ed eletti, fondato sulla qualità della proposta e del progetto politico.

Se guardiamo alla storia dei 150 anni dell`unità d’Italia, i 60 anni trascorsi dal diritto di voto sono pochi, eppure molti passi avanti sono stati fatti. Ma se guardiamo ora, con gli occhi delle donne che faticosamente hanno conquistato autonomia e senso di sé, al panorama di amministrazioni spesso completamente maschili, una politica chiusa alle capacità e ai bisogni femminili non è più accettabile.
A Milano, Bologna, Trieste, Cagliari, la formazione di giunte paritarie è seguita ad una straordinaria partecipazione femminile che ha contribuito alla vittoria del centro sinistra. A Roma e in altre città i Tar hanno dato ragione ai ricorsi per la presenza delle donne nelle giunte.

Ma ci vogliono nuovi strumenti, a partire dalla rapida approvazione in Parlamento della legge che prevede la doppia preferenza di genere per le elezioni nei Comuni e quote per le giunte. La stessa legge che stiamo chiedendo in tante Regioni. Finalmente discutiamo di abolizione del “Porcellum”, ma dopo 10 anni trascorsi dall’approvazione del nuovo articolo 51 della Costituzione, dobbiamo farlo assumendo il tema di regole e sanzioni per la presenza delle donne nelle liste e la loro successiva elezione.

Partiamo dalla proposta del Pd, che prevede la parità tra uomini e donne nella parte delle candidature riferibili ai collegi e l’alternanza in quella proporzionale (siamo il partito che ha eletto la più alta percentuale di donne in Parlamento…). Ma molte studiose, costituzionaliste, associazioni hanno proposto regole per la parità da applicare anche in presenza di sistemi elettorali diversi e per l’ipotesi di primarie. Le soluzioni non mancano, così come le esperienze europee. Naturalmente, le leggi elettorali non bastano se non sono accompagnate dalla capacità dei partiti di ripensare la propria organizzazione, le modalità di partecipazione, la costruzione del consenso, la selezione e formazione dei gruppi dirigenti. Attraverso quel metodo democratico richiamato dell’art. 49 della Costituzione che dovrebbe essere tradotto in legge.

Le donne hanno bisogno di partiti forti, di sedi trasparenti della decisione, dove siano chiari responsabilità e percorsi. Partiti che abbiano saldi rapporti con l’Europa ed investano sulla sua dimensione politica. Insomma, partiti che agiscano come soggetti collettivi, non come la risultante di personalismi. Questa fase di cambiamento ci offre l’opportunità di un grande dibattito pubblico, politico e culturale, per rendere la nostra democrazia più ricca, giusta, inclusiva.

L’Unità 08.03.12

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Otto Marzo, “Il ruolo delle donne è decisivo per lo sviluppo e la crescita del Paese”, di Pier Luigi Bersani

“Oggi è un giorno importante perché pone al centro la valorizzazione del ruolo delle donne, che è uno dei pilastri della nostra linea politica, delle nostre proposte concrete, e rispetto al quale in tutto il mondo e anche in Italia c’è ancora moltissima strada da fare”, ha detto il Segretario del PD Pier Luigi Bersani per la giornata internazionale delle Donne.

“Il ruolo delle donne nel mondo del lavoro, attraverso il sostegno all’occupazione e alle possibilità di avanzamenti economici e nelle carriere, il rispetto della dignità femminile, dei diritti sociali, la parità nella composizione dei gruppi dirigenti nei diversi ambiti, dalla politica alle aziende: sono obiettivi decisivi per lo sviluppo e la crescita sui quali siamo fortemente impegnati. Il grado di civiltà di un paese si misura dal modo con il quale vengono considerate e trattate le donne. In questo stesso contesto – ha aggiunto Bersani – desidero ricordare che oggi è un giorno importante anche per un altro motivo: esattamente l’otto marzo dello scorso anno, quando tutto l’establishment economico, amministrativo e dell’informazione italiano sosteneva a spada tratta Berlusconi e Tremonti che con le loro scelte ci stavano portando al disastro, una delegazione di donne del Partito Democratico consegnò a Palazzo Chigi una parte dei milioni di firme raccolte tra gli italiani per chiedere che Berlusconi se ne andasse e consentisse così la formazione di un governo di transizione. Fu uno dei momenti, non l’unico, in cui le donne italiane, non solo quelle che si riconoscono nel Pd, hanno saputo sostenere il risveglio del civismo e dell’impegno nel nostro paese”.

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nna Finocchiaro, Presidente del gruppo del PD nel suo intervento nell’aula del Senato, nella giornata dell’8 marzo, ha parlato della mozione unitaria per il riequilibrio della rappresentanza di genere nella prossima riforma della legge elettorale. “La discussione di questa mozione, non riguarda la tutela di una minorità o di una categoria di soggetti che ha bisogno di una particolare tutela. Qui stiamo parlando della questione politica che viene in campo ai fini della compiutezza dei sistemi democratici e della forza di un Paese in ragione della forza e del protagonismo delle donne italiane. Questa è la questione – ha chiarito – come mettere in condizione l’Italia di giovarsi della forza e del protagonismo delle donne italiane, anche nella politica e nelle istituzioni, per la sua modernizzazione e il suo rilancio? Cosa serve perché in Italia la forza delle donne possa essere trasferita nei luoghi della politica? Come fare per aprire il mercato delle opportunità di accesso alle sedi di rappresentanza politica e di esercizio del potere alle donne? Quanto ancora il fortilizio del potere maschile dovrà essere chiuso?”

Finocchiaro ha aggiunto che di tratta di “una discussione che ha interessato non solo tutte le democrazie occidentali, ma direi tutti i paesi del mondo, alla quale partecipano parlamenti e governi che sono chiamati ad esprimersi nei consessi internazionali più prestigiosi, dalle sedi Onu a quelle europee. Ma è una questione urticante, spinosa, perché mette in discussione la distribuzione del potere, per tradizione nella mani maschili. La questione del riequilibrio della rappresentanza in tutte le democrazie occidentali è infatti preliminare per la scelta dello strumento elettorale, più di quanto non lo sia la scelta tra maggioritario e proporzionale. Perché è ovvio che misurare lo strumento elettorale rispetto alla necessità di riequilibrare la rappresentanza impone delle scelte. Poniamo quindi il tema politico per quello che è – ha concluso Anna Finocchiaro – questo tema ci accompagnerà nel lavoro di questi mesi e di questi anni”.

www.partitodemocratico.it

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“L’anno delle donne senza più Nemico”, di Franca Fossati

L’8 marzo è un compleanno, l’occasione di un “ripasso” dei mesi trascorsi. Inevitabile è tornare al febbraio 2011: tutte quelle donne in piazza e quei sentimenti mischiati, la protesta, l’orgoglio, la dignità offesa e il denominatore comune dell’antiberlusconismo.
Ci fu dibattito, prima, e servì a frenare la deriva di una messa all’indice delle ragazze licenziose. Fu prova di forza: la misura era colma (se non allora, quando?). Gli arcinemici del premier tutti a dire evviva le donne, mentre prolificavano comitati con quel nome da fumetto, Snoq. Voglia di iniziativa su tutti i fronti di vecchie e nuove militanti e piccole burocrazie in ascesa.
Sotto il sole di Siena, a luglio, quel movimento elencava piattaforme e obiettivi, con la crisi che azzannava l’Europa. Ai nomi delle olgettine si sostituivano parole poco piccanti come occupazione, precarietà, welfare. È a novembre che Berlusconi se ne va, dai cuori di molte se ne era già andato a febbraio. Il governo tecnico fa sperare: tre donne ministro, ministre sul serio. Sarà l’occasione per ridisegnare l’Italia a misura di donna? La manifestazione che le promotrici di “Se non ora quando” avevano convocato per l’11 dicembre, pensata con Berlusconi regnante, perde impeto e risulta difficile riempire piazza del Popolo. Non c’è più il Nemico e la proposta di un Pink new deal non scalda i cuori, anche se anima gruppi di lavoro e di ricerca. Ma non sembra interessare il governo nè i grandi organi di informazione che tanto avevano esaltato l’indignazione femminile.
Certo, fanno notizia le lacrime di Fornero come fa notizia che siano tre signore a occuparsi del tema più caldo e più doloroso, il lavoro. Alla ministra delle pensioni e dell’articolo 18 però non si perdona niente, eccola dipinta come sadica maestrina dalla penna rossa (Aldo Grasso, Corriere della Sera) o addirittura come «Domina», «lady di ferro trattenuta e marziale, mistress algida e scudisciatrice seriale» (Andrea Scanzi, Il Fatto quotidiano). Era stato facile farsi paladini della dignità femminile quando c’era da abbattere il premier dongiovanni, senza di lui riemerge la misoginia quotidiana. Ma la stagione precedente ha lasciato anche tra le donne una discutibile eredità. Quello che, nel suo saggio appena pubblicato per il melangolo, Valeria Ottonelli definisce il «femminismo moralista».
Per giorni, ad esempio, si accaniranno in molte sulla farfallina di Belén e anche l’anticonformista Litizzetto si conformerà alla tendenza censoria senza accorgersi che al festival Belén era stata “signora del gioco”, padrona della sua bellezza e della sua provocazione, mentre i conduttori, loro sì subalterne macchiette, rivelavano tutti i luoghi comuni del patriarcato in declino. In declino, ma non per questo meno offensivo. Anzi. La cronaca delle violenze omicide contro mogli e fidanzate che osano riprendersi la loro libertà è agghiacciante. “A noi la festa, a voi la parola” è il titolo di un post unificato firmato da alcune note blogger che per l’8 marzo si augurano che siano gli uomini a esprimersi sulla violenza riconoscendo «la questione maschile» che si nasconde dietro i delitti definiti “passionali”.
Le blogger: questa è sicuramente una novità dell’ultimo anno, la presenza diffusa delle donne sulla Rete. Elaborazioni e dibattiti fino a poco tempo fa chiusi in luoghi separati cominciano a circolare e a contaminarsi in cerchi sempre più ampi attraverso i siti femminili.
Come la riflessione sul lavoro di cura, o meglio su “la cura del vivere” nata a Roma nel “gruppo del mercoledì”, rilanciata dalla rivista Leggendaria e dal sito donnealtri.it, che continua ad arricchirsi in incontri e convegni. Ma anche gli appelli-minaccia ai partiti che non garantiranno il 50 e 50 di candidate e la raccolta di firme contro le dimissioni in bianco, insieme al coro spesso indistinto di denunce e lamentazioni.
Un lavorio che corre parallelo all’affannarsi del governo e alle sconfitte della politica tradizionale. Sarà l’inizio di una stagione, contraddittoria e confusa come tutte le primavere, ma capace di accumulare forza e sapere? Dopo marzo, vedremo. Di solito viene sempre aprile.

da Europa Quotidiano 08.03.12

“Democrazia paritaria: è questa la leva per cambiare la politica”, di Roberta Agostini

L’8 marzo dello scorso anno un’autorevole delegazione di donne democratiche consegnò a Palazzo Chigi un pacchetto che rappresentava simbolicamente milioni di firme che il Pd aveva raccolto per chiedere le dimissioni di Berlusconi. Oggi possiamo dire che quelle firme hanno avuto la loro risposta, ma siamo ancora nel pieno di una grave crisi di sistema, che ci chiede di sostenere il lavoro di Monti senza smarrire la consapevolezza della necessità di una lunga fase di ricostruzione del Paese. Uscire dal berlusconismo, cosi come dalla crisi economica più grave dal dopoguerra, significa interrogarci a fondo su quale futuro immaginiamo. Con la consapevolezza che i danni prodotti dal considerare le istituzioni oggetti di proprietà o luoghi dove affrontare e risolvere questioni patrimoniali o giudiziarie del premier, sono profondi ed investono tutti.

Quello che è venuto alla luce in questi mesi, e che è stata una delle ragioni del successo della manifestazione del 13 febbraio, è che questa concezione individualista e proprietaria, fondata sul travisamento assoluto dell’idea della libertà, è strettamente intrecciata con la marginalizzazione della forza femminile, con lo squilibrio profondo dei ruoli tra uomini e donne, con le offese alla dignità femminile. Tutto ciò non solo costituisce una violazione dei diritti delle donne, ma è un blocco per lo sviluppo del Paese.

Allora, la parola chiave che vogliamo sia al centro del nostro progetto è democrazia paritaria. È la ricostruzione delle istituzioni democratiche attraverso la condivisione del potere pubblico e delle responsabilità private, che presuppone una rivoluzione nella mentalità, nella cultura, nel modo in cui oggi il potere è distribuito nel nostro Paese, nelle forme in cui il lavoro è organizzato. La democrazia paritaria è la risorsa attraverso cui dare forza al cambiamento della politica. Non è solo un tema di riequilibrio della rappresentanza, ma significa costruire un legame diverso tra cittadini ed eletti, fondato sulla qualità della proposta e del progetto politico.

Se guardiamo alla storia dei 150 anni dell`unità d’Italia, i 60 anni trascorsi dal diritto di voto sono pochi, eppure molti passi avanti sono stati fatti. Ma se guardiamo ora, con gli occhi delle donne che faticosamente hanno conquistato autonomia e senso di sé, al panorama di amministrazioni spesso completamente maschili, una politica chiusa alle capacità e ai bisogni femminili non è più accettabile.
A Milano, Bologna, Trieste, Cagliari, la formazione di giunte paritarie è seguita ad una straordinaria partecipazione femminile che ha contribuito alla vittoria del centro sinistra. A Roma e in altre città i Tar hanno dato ragione ai ricorsi per la presenza delle donne nelle giunte.

Ma ci vogliono nuovi strumenti, a partire dalla rapida approvazione in Parlamento della legge che prevede la doppia preferenza di genere per le elezioni nei Comuni e quote per le giunte. La stessa legge che stiamo chiedendo in tante Regioni. Finalmente discutiamo di abolizione del “Porcellum”, ma dopo 10 anni trascorsi dall’approvazione del nuovo articolo 51 della Costituzione, dobbiamo farlo assumendo il tema di regole e sanzioni per la presenza delle donne nelle liste e la loro successiva elezione.

Partiamo dalla proposta del Pd, che prevede la parità tra uomini e donne nella parte delle candidature riferibili ai collegi e l’alternanza in quella proporzionale (siamo il partito che ha eletto la più alta percentuale di donne in Parlamento…). Ma molte studiose, costituzionaliste, associazioni hanno proposto regole per la parità da applicare anche in presenza di sistemi elettorali diversi e per l’ipotesi di primarie. Le soluzioni non mancano, così come le esperienze europee. Naturalmente, le leggi elettorali non bastano se non sono accompagnate dalla capacità dei partiti di ripensare la propria organizzazione, le modalità di partecipazione, la costruzione del consenso, la selezione e formazione dei gruppi dirigenti. Attraverso quel metodo democratico richiamato dell’art. 49 della Costituzione che dovrebbe essere tradotto in legge.

Le donne hanno bisogno di partiti forti, di sedi trasparenti della decisione, dove siano chiari responsabilità e percorsi. Partiti che abbiano saldi rapporti con l’Europa ed investano sulla sua dimensione politica. Insomma, partiti che agiscano come soggetti collettivi, non come la risultante di personalismi. Questa fase di cambiamento ci offre l’opportunità di un grande dibattito pubblico, politico e culturale, per rendere la nostra democrazia più ricca, giusta, inclusiva.

L’Unità 08.03.12

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Otto Marzo, “Il ruolo delle donne è decisivo per lo sviluppo e la crescita del Paese”, di Pier Luigi Bersani

“Oggi è un giorno importante perché pone al centro la valorizzazione del ruolo delle donne, che è uno dei pilastri della nostra linea politica, delle nostre proposte concrete, e rispetto al quale in tutto il mondo e anche in Italia c’è ancora moltissima strada da fare”, ha detto il Segretario del PD Pier Luigi Bersani per la giornata internazionale delle Donne.

“Il ruolo delle donne nel mondo del lavoro, attraverso il sostegno all’occupazione e alle possibilità di avanzamenti economici e nelle carriere, il rispetto della dignità femminile, dei diritti sociali, la parità nella composizione dei gruppi dirigenti nei diversi ambiti, dalla politica alle aziende: sono obiettivi decisivi per lo sviluppo e la crescita sui quali siamo fortemente impegnati. Il grado di civiltà di un paese si misura dal modo con il quale vengono considerate e trattate le donne. In questo stesso contesto – ha aggiunto Bersani – desidero ricordare che oggi è un giorno importante anche per un altro motivo: esattamente l’otto marzo dello scorso anno, quando tutto l’establishment economico, amministrativo e dell’informazione italiano sosteneva a spada tratta Berlusconi e Tremonti che con le loro scelte ci stavano portando al disastro, una delegazione di donne del Partito Democratico consegnò a Palazzo Chigi una parte dei milioni di firme raccolte tra gli italiani per chiedere che Berlusconi se ne andasse e consentisse così la formazione di un governo di transizione. Fu uno dei momenti, non l’unico, in cui le donne italiane, non solo quelle che si riconoscono nel Pd, hanno saputo sostenere il risveglio del civismo e dell’impegno nel nostro paese”.

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nna Finocchiaro, Presidente del gruppo del PD nel suo intervento nell’aula del Senato, nella giornata dell’8 marzo, ha parlato della mozione unitaria per il riequilibrio della rappresentanza di genere nella prossima riforma della legge elettorale. “La discussione di questa mozione, non riguarda la tutela di una minorità o di una categoria di soggetti che ha bisogno di una particolare tutela. Qui stiamo parlando della questione politica che viene in campo ai fini della compiutezza dei sistemi democratici e della forza di un Paese in ragione della forza e del protagonismo delle donne italiane. Questa è la questione – ha chiarito – come mettere in condizione l’Italia di giovarsi della forza e del protagonismo delle donne italiane, anche nella politica e nelle istituzioni, per la sua modernizzazione e il suo rilancio? Cosa serve perché in Italia la forza delle donne possa essere trasferita nei luoghi della politica? Come fare per aprire il mercato delle opportunità di accesso alle sedi di rappresentanza politica e di esercizio del potere alle donne? Quanto ancora il fortilizio del potere maschile dovrà essere chiuso?”

Finocchiaro ha aggiunto che di tratta di “una discussione che ha interessato non solo tutte le democrazie occidentali, ma direi tutti i paesi del mondo, alla quale partecipano parlamenti e governi che sono chiamati ad esprimersi nei consessi internazionali più prestigiosi, dalle sedi Onu a quelle europee. Ma è una questione urticante, spinosa, perché mette in discussione la distribuzione del potere, per tradizione nella mani maschili. La questione del riequilibrio della rappresentanza in tutte le democrazie occidentali è infatti preliminare per la scelta dello strumento elettorale, più di quanto non lo sia la scelta tra maggioritario e proporzionale. Perché è ovvio che misurare lo strumento elettorale rispetto alla necessità di riequilibrare la rappresentanza impone delle scelte. Poniamo quindi il tema politico per quello che è – ha concluso Anna Finocchiaro – questo tema ci accompagnerà nel lavoro di questi mesi e di questi anni”.

www.partitodemocratico.it

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“L’anno delle donne senza più Nemico”, di Franca Fossati

L’8 marzo è un compleanno, l’occasione di un “ripasso” dei mesi trascorsi. Inevitabile è tornare al febbraio 2011: tutte quelle donne in piazza e quei sentimenti mischiati, la protesta, l’orgoglio, la dignità offesa e il denominatore comune dell’antiberlusconismo.
Ci fu dibattito, prima, e servì a frenare la deriva di una messa all’indice delle ragazze licenziose. Fu prova di forza: la misura era colma (se non allora, quando?). Gli arcinemici del premier tutti a dire evviva le donne, mentre prolificavano comitati con quel nome da fumetto, Snoq. Voglia di iniziativa su tutti i fronti di vecchie e nuove militanti e piccole burocrazie in ascesa.
Sotto il sole di Siena, a luglio, quel movimento elencava piattaforme e obiettivi, con la crisi che azzannava l’Europa. Ai nomi delle olgettine si sostituivano parole poco piccanti come occupazione, precarietà, welfare. È a novembre che Berlusconi se ne va, dai cuori di molte se ne era già andato a febbraio. Il governo tecnico fa sperare: tre donne ministro, ministre sul serio. Sarà l’occasione per ridisegnare l’Italia a misura di donna? La manifestazione che le promotrici di “Se non ora quando” avevano convocato per l’11 dicembre, pensata con Berlusconi regnante, perde impeto e risulta difficile riempire piazza del Popolo. Non c’è più il Nemico e la proposta di un Pink new deal non scalda i cuori, anche se anima gruppi di lavoro e di ricerca. Ma non sembra interessare il governo nè i grandi organi di informazione che tanto avevano esaltato l’indignazione femminile.
Certo, fanno notizia le lacrime di Fornero come fa notizia che siano tre signore a occuparsi del tema più caldo e più doloroso, il lavoro. Alla ministra delle pensioni e dell’articolo 18 però non si perdona niente, eccola dipinta come sadica maestrina dalla penna rossa (Aldo Grasso, Corriere della Sera) o addirittura come «Domina», «lady di ferro trattenuta e marziale, mistress algida e scudisciatrice seriale» (Andrea Scanzi, Il Fatto quotidiano). Era stato facile farsi paladini della dignità femminile quando c’era da abbattere il premier dongiovanni, senza di lui riemerge la misoginia quotidiana. Ma la stagione precedente ha lasciato anche tra le donne una discutibile eredità. Quello che, nel suo saggio appena pubblicato per il melangolo, Valeria Ottonelli definisce il «femminismo moralista».
Per giorni, ad esempio, si accaniranno in molte sulla farfallina di Belén e anche l’anticonformista Litizzetto si conformerà alla tendenza censoria senza accorgersi che al festival Belén era stata “signora del gioco”, padrona della sua bellezza e della sua provocazione, mentre i conduttori, loro sì subalterne macchiette, rivelavano tutti i luoghi comuni del patriarcato in declino. In declino, ma non per questo meno offensivo. Anzi. La cronaca delle violenze omicide contro mogli e fidanzate che osano riprendersi la loro libertà è agghiacciante. “A noi la festa, a voi la parola” è il titolo di un post unificato firmato da alcune note blogger che per l’8 marzo si augurano che siano gli uomini a esprimersi sulla violenza riconoscendo «la questione maschile» che si nasconde dietro i delitti definiti “passionali”.
Le blogger: questa è sicuramente una novità dell’ultimo anno, la presenza diffusa delle donne sulla Rete. Elaborazioni e dibattiti fino a poco tempo fa chiusi in luoghi separati cominciano a circolare e a contaminarsi in cerchi sempre più ampi attraverso i siti femminili.
Come la riflessione sul lavoro di cura, o meglio su “la cura del vivere” nata a Roma nel “gruppo del mercoledì”, rilanciata dalla rivista Leggendaria e dal sito donnealtri.it, che continua ad arricchirsi in incontri e convegni. Ma anche gli appelli-minaccia ai partiti che non garantiranno il 50 e 50 di candidate e la raccolta di firme contro le dimissioni in bianco, insieme al coro spesso indistinto di denunce e lamentazioni.
Un lavorio che corre parallelo all’affannarsi del governo e alle sconfitte della politica tradizionale. Sarà l’inizio di una stagione, contraddittoria e confusa come tutte le primavere, ma capace di accumulare forza e sapere? Dopo marzo, vedremo. Di solito viene sempre aprile.

da Europa Quotidiano 08.03.12

«Uomini unitevi a noi. È una battaglia di civiltà», intervista a Cristina Comencini di Mariagrazia Gerina

«Dopo Se non ora quando anche il senso di questa giornata è cambiato. Nel mio spettacolo “Libere” due generazioni ritrovano la forza di ribellarsi». Omaggio alle donne italiane e a quello che devono affrontare ogni giorno, Libere, il dialogo militante scritto da Cristina Comencini – interpretato da Isabella Ragonese e Lunetta Savino -, dopo aver fatto il giro dell’Italia con la formula «ingresso gratuito, dibattito obbligatorio» approda oggi, in occasione dell’8 marzo, al Quirinale, portandosi dietro una ventata delle speranze e delle attese che hanno percorso Se non ora quando. «Un effetto lo abbiamo ottenuto: non si fa che parlare di donne, ormai. Persino Bankitalia quest’anno ha dedicato all’8 marzo una tavola rotonda», suggerisce da regista di Libere e da madrina di quella piazza, Cristina Comencini: «Noi però vorremmo che oltre a parlare di noi, questo Paese facesse qualcosa…».
Cosa dovrebbe fare per le donne?
«Lavoro, si comincia da lì. Siamo agli ultimi posti in Europa per tasso di occupazione femminile. E poi welfare. Perché se chiedi alle donne di lavorare di più e per più tempo allora devi anche pensare che per i bambini, che sono sia del padre che della madre ed è importante ripeterlo, soprattutto al Sud non c’è nulla. È tutto da costruire: gli asili, il tempo pieno. Terzo: democrazia paritaria. L’anno prossimo ci saranno le elezioni. Quindi: spazio alle donne. Lo dico rubando una battuta a Linda Laura Sabbadini, che da anni cura le indagini Istat sui tempi di vita delle donne: se Lehman Brothers si fosse chiamatoLehmanSisters forse non saremmo
a questo punto».
Lo spettacolo che oggi porterai alQuirinale racconta due donne di diverse generazioni: libere. In che senso? E le donne in Italia possono davvero sentirsi libere?
«Certo, lo sono molto più di prima. Ma ti faccio rispondere dalle due donne del dialogo. La più grande appartiene alla mia generazione e ha una storia di libertà che si è costruita dentro il movimento delle donne,ma sente che di quella libertà che lei ha dentro non c’è più traccia nel mondo in cui vive. La più giovane non ha conosciuto quello stare insieme ed è scettica, ha molta rabbia. Voi ci avete educato alla libertà – dice a un certo punto -ma nel mondo in cui ci avete mandato non è cambiato nulla, avete lasciato tutto a metà. Poi però tra le due si forma un feeling, una comprensione molto forte…».
Finisce che si scambiano anche l’email… dici che l’hanno usata?
«Quello spettacolo l’ho scritto due anni fa,ma se pensi a Se non ora quando direi che, nel frattempo, le donne italiane di tutte le generazioni si sono scritte milioni di email. Il mondo delle donne si è messo in moto. Anche l’8marzo ha riacquistato una sua centralità.
Se pensi che un paio di anni fa ci domandavamo se avesse senso scambiarsi le mimose…»
A chi o a cosa dedicheresti questo 8 marzo?
«Lo dedicherei alla forza che le donne si sono riprese. Una forza di legame, di cittadinanza.Una forza che anche le giovani donne spero che possano tirare fuori».
Forti, libere. Però poi le donne continuano ad essere vittime spesso dei loro stessi uomini. È cronaca di questi
giorni,una serie terribile di femminicidi dall’inizio dell’anno.
«La violenza sulle donne è tutt’oggi un fatto planetario e se è planetario vuol dire che c’è un ’ordine simbolico fondato sul fatto sulla coppia vittima-carnefice. Per scardinarlo bisogna
parlarne tanto, ragionare sul modo in cui vengono rappresentate le
donne, perché è lì che si annida la radice della violenza.E occorre coinvolgere in questo lavoro gli uomini, dare loro quella parola che su questi argomenti fanno così fatica a prendere.
L’idea che la donna sia sempre di qualcuno, fidanzata, moglie, è terribile. E poi: si può sentire parlare ancora di delitto passionale?» Qualcuno suggerisce che strappare quell’aggettivo dal vocabolario è un bel modo di festeggiare l’8 marzo. «Sono d’accordo».
C’è un augurio in particolare che si può fare alle donne?
«Non farsi sopraffare dalle situazioni difficili che devono affrontare ogni giorno e non far spegnere la forza che hanno ritrovato nello stare insieme. La forza e la libertà di cui parlavo sono conquistabili e devono saperlo tutte le donne, soprattutto le più giovani. Dobbiamo superare una subalternità antica. Un sentimento che ci attraversa sempre e che ci fa venire paura di prendere il comando».
E agli uomini cosa si può augurare?
«Di unirsi a noi in questo percorso. Noi e loro il mondo è fatto di queste due parti: se non comunichiamo non c’è felicità per nessuno».

L’Unità 08.03.12

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“L’occupazione al femminile può spingere il Pil del 4%”, di BARBARA CORRAO

ROMA Non è più solo una questione di genere, né di legittima rivendicazione. Molto più concretamente, la disuguaglianza tra i sessi è una questione di crescita. Cioè di Pil e di ricchezza nazionale. Lo dice la Banca d’Italia, lo osservano Banca mondiale e Ocse. E fa un certo effetto salire lo scalone che porta nella sala in cui il governatore, il 31 maggio di ogni anno, tiene le sue «Considerazioni finali» ed entrare nel tempio riconosciuto della Finanza, settore difficile da penetrare per le donne, per ascoltare frasi come questa: «C’è l’urgenza di istituire e attuare meccanismi di limitazione della presenza maschile al potere, specie quando avviene attraverso meccanismi di cooptazione, soprattutto nella politica e nell’economia, come in tutte le istituzioni visti i risultati». A parlare è Linda Laura Sabbadini, direttrice del Dipartimento statistiche sociali dell’Istat. Dopo il saluto di Ignazio Visco, il suo è il terzo intervento del convegno su «Le donne e l’economia italiana», organizzato e ospitato a Palazzo Koch. La banca centrale ha messo a disposizione i suoi cervelli migliori, molti dei quali femminili, per indagare a tutto campo sul Fattore D. Lo rileva Anna Maria Tarantola, vice-direttore generale, che spiega come a palazzo Koch il «20% dei dirigenti oggi siano donne contro il 15% nel 2002. Forse ancora poche ma in rapida crescita». «Ridurre il differenziale tra uomo e donna afferma Alessandro Rosina, docente di demografia alla Cattolica di Milano porterebbe ad un aumento del Pil del 4%». L’ex ministro Mara Carfagna, in ottobre, aveva ipotizzato il 7% se l’Italia avesse centrato l’obiettivo del Trattato di Lisbona, con un tasso di occupazione femminile del 60% (Francia e Germania lo hanno già raggiunto e superato). Siamo invece fermi al 46% e, limitandosi al solo settore privato, il dato scende al 30%. Il gap tra salari femminili e maschili si aggira in media intorno al 5-8% grezzo ma sale al 13,8% includendo le caratteristiche del lavoratore. Una dato cresciuto e non diminuito negli anni.
Non è in gioco solo la quantità: «Non consola dice ancora Sabbadini sapere che l’incidenza delle donne al vertice delle banche aumenti dal 2 al 7 per cento visto che questo risultato si ottiene nell’arco di 15 anni», cioè tra il 1995 e il 2010. Di questo passo, ci vorrebbero 120 anni infatti per arrivare al sospirato fifty-fifty. E ne servirebbero una sessantina, ha stimato Roberta Zizza di Bankitalia, per raggiungere la parità nella divisione del tempo dedicato ai carichi domestici. La ragione del gap al vertice sembra risiedere nel fatto che le donne sono più prudenti degli uomini mentre nei posti di comando il rischio è determinante per il successo. Ma allora, la prudenza femminile avrebbe potuto rappresentare, conclude Sabbadini, «un fattore di contrasto della crisi finanziaria del 2008. Da qui la domanda: What if Lehman Brothers had been Lehman Sisters?». Ovvero, cosa sarebbe successo se i Fratelli Lehman fossero stati le Sorelle Lehman?
Domanda impegnativa. E d’altra parte, proprio la crisi ha aggravato la posizione delle donne (e dei giovani) in Italia, comprimendo il già basso tasso di occupazione. Cosa fare allora? Quali politiche si possono adottare per spingere la presenza femminile nell’economia? L’economista Daniela Del Boca chiede «una sinergia di azioni per accelerare i tempi: partendo dall’istruzione, si può pensare ad un incentivo alle ragazze che vogliono fare un percorso tecnico scientifico, come negli Usa. Sarebbe poi utile ripristinare la legge sulle dimissioni in bianco, rendere obbligatorio il congedo di paternità e prevedere congedi part time per redistribuire il carico familiare. O ancora spalmare l’investimento pubblico nella scuola includendo anche gli asili nido».

Il Messaggero 08.03.12

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“Ragazze antimafia”, di Carlo Lucarelli

Dalle mie parti, cioè in Romagna ma anche nel resto d’Italia -, nelle famiglie contadine più tradizionali c’erano le azdore, in dialetto, le reggitrici, perché reggevano la famiglia. A decidere era sempre l’uomo, ma le azdore che spesso avevano studiato di più, riflettuto e pensato di più erano quelle che conoscevano le storie della famiglia.
Le azdore conoscevano le tradizio-
ni e anche le leggende, i valori e lo spirito delle cose, quelle che educavano i figli e che la notte, poco prima di addormentarsi, sussurravano al marito il loro parere, in una «moral suasion», si direbbe adesso, che al mattino poi lasciava i suoi segni.
Ecco, fatte le dovute differenze, è ovvio, le famiglie mafiose non sono meno tradizionali e al loro interno il ruolo della donna, dell’azdora comunque si dica in calabrese, siciliano, campano, pugliese o in uno dei dialetti del nord in cui le mafie si sono ormai radicate non è meno importante.
Sono le donne ad educare i figli e quando si tratta di una famiglia mafiosa i valori di cui si nutre il figlio del boss, dell’affiliato o del picciotto sono quelli di Cosa Nostra, della Camorra o della ’ndrangheta. Valori difesi con determinata ostinazione, come accade alla madre di Rita Atria, che distrugge a martellate la lapide sulla tomba della figlia collaboratrice di giustizia.
E quando l’uomo, il boss, finisce dentro, impacciato dal 41bis, sono sempre più spesso le donne a prenderne il posto, a fargli da portavoce come Rosetta Cutolo col fratello Raffaele o a dirigerne in reggenza gli affari, come accade da un po’ di tempo nella ’ndrangheta.
Sono importanti le donne, anche nella mafia. La mafia lo sa e ne ha paura. Perché quando succede che le donne si ribellino, la forza e la loro capacità di scardinarli dall’interno quei valori, di rinnegarli e di combatterli, è enorme e dirompente.
Perché succede che una madre capisca all’improvviso che i figli faranno la stessa fine dei padri, assassini e ammazzati, che non potranno fare la vita degli altri ragazzi per esempio innamorarsi e sposare qualcuno che non sia di un’altra famiglia di ’ndrangheta succede che veda il figlio ricevere fino da bambino gli omaggi degli affiliati come il boss che necessariamente diventerà. E allora le donne, le madri e le sorelle, si «pentono», ma sul serio, e collaborano con la giustizia raccontando non solo i segreti e i fatti della mafia, ma anche lo spirito, gli umori e i costumi. Oppure succede che le donne, sempre le madri soprattutto, diventino loro stesse antimafia, punti di riferimento per intere generazioni, in grado di dare coraggio e forza, come la signora Felicia, la mamma di Peppino Impastato.
Non è una cosa facile. La mafia lo sa e quando capisce che sta accadendo reagisce duramente. Opprime al punto di portare al suicidio, come succede a Maria Concetta Cacciola, ammazza e scioglie nell’acido, come Lea Garofalo, due donne che si sono ribellate alla ’ndrangheta e ne hanno pagato il prezzo. Ma è proprio chi vive le cose dall’interno, nell’intimità più quotidiana che è in grado di capire quello che è sbagliato e fare a proprio modo la sua importantissima «moral suasion». Soprattutto nella mafia, se ci sarà una rivoluzione, a farla saranno proprio le donne.

L’Unità 08.03.12

"TV e giustizia i tabù di Berlusconi", di Pietro Spataro

Come era prevedibile Berlusconi ha rotto l’incantesimo della presunta neutralità del governo dei tecnici e lo ha fatto sui due argomenti che gli stanno personalmente a cuore: le tv e la giustizia. In questo modo, il fantasma del conflitto di interessi continua a volteggiare sulla politica e guida ancora un Pdl solo nominalmente in mano ad Alfano ma di fatto proprietà privata del Cavaliere. C’è poco da fare, quando si tratta di discutere di temi che riguardano tutti ma che toccano rendite e privilegi di uno solo il centrodestra si trasforma in un inaccessibile castello dei ricatti incrociati. E se questo mette in forse persino la sopravvivenza del governo poco importa: che vada all’aria l’Italia pur di difendere l’«impero». Tv e giustizia sono i tabù del centrodestra. Non interessa se nell’agenda del vertice con Monti, fatto saltare da Alfano, ci fossero non solo ma anche quei due temi. Il Pdl non vuole assolutamente ridiscutere le leggi ad personam: né la Gasparri, né i vari lodi salva Berlusconi. E quindi, figurarsi la legge anticorruzione su cui sta lavorando il ministro Severino, con cui si interviene sull’allungamento dei termini della prescrizione di fronte all’emergenza delle nuove tangentopoli. Al contrario si difende la «strategia della vendetta» contro i giudici che ha avuto il suo apice con l’introduzione della norma sulla responsabilità civile. Sulle tv
l’assalto ha un doppio fronte: impedire alla Rai di liberarsi dal dominio della maggioranza Pdl-Lega e consentirle, con una nuova governance, di affrontare la competizione ad armi pari; contrastare l’asta sulle frequenze digitali al posto dello scandaloso beauty contest voluto da Berlusconi. Confalonieri l’ha detto nella forma più ruvida possibile: basta demagogia, o ci date le frequenze gratis oppure saremo costretti a licenziare.
Si tratta di inaccettabili ricatti che mettono un’ipoteca sull’esecutivo e che chiamano direttamente la responsabilità di Monti. Il quale questa volta non può cavarsela dicendo che questi problemi riguardano i rapporti tra i partiti. Si tratta invece, come è evidente, di questioni che toccano la capacità di governo del premier che anche su Rai, asta tv e anticorruzione si era assunto, personalmente e in modo pubblico, impegni concreti. Ora dovrà trovare il modo di risolvere il caso evitando accuratamente di sottostare a un diktat che snaturerebbe il profilo del governo provocando imprevedibili squilibri politici. Perché non si può dare l’impressione che quando si tratta di pensionati e lavoratori si procede con piglio qualche volta troppo deciso e quando in gioco sono gli interessi del più potente imprenditore italiano si usa il passo felpato. Non esistono, per qualsiasi governo, argomenti tabù: soprattutto se riguardano due capitoli decisivi della costituency di un Paese, quali sono la giustizia e l’informazione
È difficile prevedere quale effetto finale avrà la tempesta di ieri. Sicuramente si è aperto un vulnus che non lascia presagire molto di buono. Questa scossa suggerisce però qualche utile riflessione anche per il dopo Monti, un tema che ha riscaldato
il dibattito, pure dentro il Pd, nelle ultime settimane. Come si vede sul campo, destra e sinistra esistono non come luoghi geografici ma come intenzioni politiche e progetti di governo alternativi. La superiore neutralità della tecnica è una favola: la politica è fatta di scelte di campo, di distribuzione di pesi,
di visioni della società, di rapporti sociali. Per questo l’ipotesi di una «grande coalizione» dopo il voto del 2013 appare, ancor di più oggi, come un puro esercizio che non sembra avere alcun rapporto con la realtà del Paese. Tra un anno è doveroso che si torni alle normali regole del gioco: governa chi vince le elezioni. Il centrosinistra farebbe bene a impiegare il tempo che rimane non a rincorrere le nuvole di nuove improbabili soluzioni emergenziali, ma a discutere sul «che fare» per dare all’Italia, dopo il lavoro del governo Monti, una nuova occasione.

L’Unità 08.03.12

“TV e giustizia i tabù di Berlusconi”, di Pietro Spataro

Come era prevedibile Berlusconi ha rotto l’incantesimo della presunta neutralità del governo dei tecnici e lo ha fatto sui due argomenti che gli stanno personalmente a cuore: le tv e la giustizia. In questo modo, il fantasma del conflitto di interessi continua a volteggiare sulla politica e guida ancora un Pdl solo nominalmente in mano ad Alfano ma di fatto proprietà privata del Cavaliere. C’è poco da fare, quando si tratta di discutere di temi che riguardano tutti ma che toccano rendite e privilegi di uno solo il centrodestra si trasforma in un inaccessibile castello dei ricatti incrociati. E se questo mette in forse persino la sopravvivenza del governo poco importa: che vada all’aria l’Italia pur di difendere l’«impero». Tv e giustizia sono i tabù del centrodestra. Non interessa se nell’agenda del vertice con Monti, fatto saltare da Alfano, ci fossero non solo ma anche quei due temi. Il Pdl non vuole assolutamente ridiscutere le leggi ad personam: né la Gasparri, né i vari lodi salva Berlusconi. E quindi, figurarsi la legge anticorruzione su cui sta lavorando il ministro Severino, con cui si interviene sull’allungamento dei termini della prescrizione di fronte all’emergenza delle nuove tangentopoli. Al contrario si difende la «strategia della vendetta» contro i giudici che ha avuto il suo apice con l’introduzione della norma sulla responsabilità civile. Sulle tv
l’assalto ha un doppio fronte: impedire alla Rai di liberarsi dal dominio della maggioranza Pdl-Lega e consentirle, con una nuova governance, di affrontare la competizione ad armi pari; contrastare l’asta sulle frequenze digitali al posto dello scandaloso beauty contest voluto da Berlusconi. Confalonieri l’ha detto nella forma più ruvida possibile: basta demagogia, o ci date le frequenze gratis oppure saremo costretti a licenziare.
Si tratta di inaccettabili ricatti che mettono un’ipoteca sull’esecutivo e che chiamano direttamente la responsabilità di Monti. Il quale questa volta non può cavarsela dicendo che questi problemi riguardano i rapporti tra i partiti. Si tratta invece, come è evidente, di questioni che toccano la capacità di governo del premier che anche su Rai, asta tv e anticorruzione si era assunto, personalmente e in modo pubblico, impegni concreti. Ora dovrà trovare il modo di risolvere il caso evitando accuratamente di sottostare a un diktat che snaturerebbe il profilo del governo provocando imprevedibili squilibri politici. Perché non si può dare l’impressione che quando si tratta di pensionati e lavoratori si procede con piglio qualche volta troppo deciso e quando in gioco sono gli interessi del più potente imprenditore italiano si usa il passo felpato. Non esistono, per qualsiasi governo, argomenti tabù: soprattutto se riguardano due capitoli decisivi della costituency di un Paese, quali sono la giustizia e l’informazione
È difficile prevedere quale effetto finale avrà la tempesta di ieri. Sicuramente si è aperto un vulnus che non lascia presagire molto di buono. Questa scossa suggerisce però qualche utile riflessione anche per il dopo Monti, un tema che ha riscaldato
il dibattito, pure dentro il Pd, nelle ultime settimane. Come si vede sul campo, destra e sinistra esistono non come luoghi geografici ma come intenzioni politiche e progetti di governo alternativi. La superiore neutralità della tecnica è una favola: la politica è fatta di scelte di campo, di distribuzione di pesi,
di visioni della società, di rapporti sociali. Per questo l’ipotesi di una «grande coalizione» dopo il voto del 2013 appare, ancor di più oggi, come un puro esercizio che non sembra avere alcun rapporto con la realtà del Paese. Tra un anno è doveroso che si torni alle normali regole del gioco: governa chi vince le elezioni. Il centrosinistra farebbe bene a impiegare il tempo che rimane non a rincorrere le nuvole di nuove improbabili soluzioni emergenziali, ma a discutere sul «che fare» per dare all’Italia, dopo il lavoro del governo Monti, una nuova occasione.

L’Unità 08.03.12

Educazione con insegnanti “usa e getta”, di Marina Boscaino

Provate a inserire la parola “precariato” su Google, e vi renderete conto che – nonostante si tratti di un problema di carattere generale – l’intera prima pagina di occorrenze riguarda la scuola. Un termine che nella lingua italiana designa una condizione che riguarda molte categorie – quasi tutte oggi – di lavoratori; ma che indicativamente, viene individuata dal motore di ricerca come specifica o prioritariamente riferibile al mondo della scuola, al pari di POF, competenza, collegio.
I supplenti sono oltre 116 mila
Il precario per antonomasia è, insomma, il precario della scuola. Vorrà pur dire qualcosa. L’ultima Commissione d’inchiesta istituita dal Parlamento italiano ad aver aperto un’indagine conoscitiva sul fenomeno risale alla XV legislatura, anni 2006-7. Gli ultimi dati pubblicati dal MIUR in proposito sono quelli del 2009-10, che evidenziano come il precariato rappresenti tra i docenti l’unico dato di certezza in un panorama caotico, che negli anni è diventato sempre più complesso, grazie anche ai restyling improvvisati e pedestri di Mariastella Gelmini. E che individuano una progressiva tendenza alla scuola usa-e-getta, a cominciare dal trattamento riservato alle donne e agli uomini che in essa gravitano, docenti e ATA. Un trattamento che si ripercuote – oltrechesuldirittoallavoro–suldirittoallo studio degli studenti, troppo sovente sottoposti a una discontinuità didattica che ne compromette gli apprendimenti.
A fronte di un corpo docente scolastico italiano pari a circa 800 mila unità, coloro che vengono assunti per supplenze annuali (circa 20 mila) o fino al termine dell’anno scolastico sono passati dai 64.000 del 1998/99 ai 116.973 del 2009/10: la maggior parte delle supplenze ‘lunghe’ assegnate riguardano la secondaria superiore (circa 40 mila contratti), seguono le medie, la primaria e i maestri della scuola dell’infanzia.
Dati che, com’è evidente, non tengono conto di quanti vengono chiamati per frazioni di tempo inferiori all’anno scolastico: quelli che rimpiazzano assenze brevi o lunghe, ma che non vedono garantita e riconosciuta la conclusione; altre 50 mila persone (dato stimato Flc). A questi vanno aggiunti gli Ata (personale tecnico e ausiliario), con 5 mila precari “stabili” e altrettanti saltuari. Nel 1998 vi era solo un docente precario ogni 12 diruolo, oggi uno ogni 7. L’aumento più significativo di precarietà dell’ultimo decennio si è registrato nella scuola primaria (quasi il 7%) e nella scuola media (11.7%).
Ecco, sinteticamente, i frutti di una programmazione di posti di lavoro allegra, demagogica e irresponsabile, che negli anni ha investito sul mercato del lavoro – in nome di una flessibilità ante litteram – migliaia di donne e uomini che hanno prestato la propria opera senza garanzie definitive, spesso iniziando a lavorare a ottobre e concludendo il giorno dello scrutinio estivo: ferie non pagate, sedi svantaggiate, mancanza di continuità didattica, discontinuità nell’anzianità di servizio. Diritti a metà, lavoratori dimezzati. Mercedi scarto del mercato del lavoro. Il fenomeno è talmente endemico che, per definirli e distinguerli dalle “new entry”, è stato necessario “inventare” una vera e propria formula, quella di “precari storici”: laurea-ti, a volte plurilaureati, che si sono sotto-posti a prove concorsuali diversificate, che hanno subito letteralmente regole e condizioni imposte dallo Stato. Ma non sono ancora riusciti ad entrare in ruolo. Hanno la stessa età che avevano i nostri genitori quando noi eravamo alla fine della scuola superiore o all’università. Vivono uno stato di pseudo-adolescenza coatta: troppo adulti per cambiare strada, riciclarsi, inventarsi un mestiere “da grandi”, troppo giovani per metterci una pietra sopra. Sono quelli che Renato Brunetta ha chiamato “L’Italia peggiore”, quelli cui si è rivolto dicendo: “Voi non lavorate, siete dei poveracci”. Quelli che si rivolsero al non compianto ministro con cassette piene di titoli di studio, qualifiche e contratti indecenti. E dei quali non si riesce ad immaginare cosa direbbe il supersponsorizzato Michel Martone, che – dall’alto del suo rispettabilissimo e rispettatissimo pedigree – ha apostrofato “sfigati” quelli che non si laureano entro i 28 anni.
I messaggi contraddittori del governo Monti
Indubbiamente Francesco Profumo si è trovato davanti una situazione di non semplice risoluzione. Ma i suoi primi passi nel caos del precariato hanno destato non poche perplessità. Il ministro è tornato a più riprese sul tema di un imminente concorso, che dovrebbe essere bandito entro il 2012. Inizialmente la sua previsione di affluenza fu di 300mila docenti, corretti qualche giorno dopo a 200 mila. Un numero comunque enorme, che mal si concilia con il fatto che – dal 2009 al 2011 – sono stati tagliati 87 mila posti di docente; e che – contemporaneamente a questa iniezione di gioventù di cui la scuola italiana avrebbe bisogno – il governo ha alzato notevolmente l’età pensionabile. Messaggi contraddittori, che non trovano per il momento conferma. È durata infine solo qualche ora l’illusione dell’assunzione di 10 mila docenti nella scuola per sostenere tempo pieno e bisogni speciali degli alunni: governo e commissioni parlamentari sono infatti orientati a mantenere fisso l’organico del comparto scuola, bloccandolo a quello in vigore nell’anno scolastico 2011/2012, evitando il trascinamento dei tagli previsti dalla legge 133/08; eventuali sforamenti – non quantificati a priori – saranno coperti con un fondo già in possesso del Miur, quello sul merito, e verrà introdotto nel decreto Semplificazioni un comma di salvaguardia: se necessario il ministero dell’Economia, attraverso i Monopoli di Stato, potrà variare il prelievo sui giochi già esistenti per raccogliere i fondi per le assunzioni. Commenta ironicamente un gruppo di insegnanti di sostegno precari dell’IIS Beccari di Torino: “Quanti gratta-e-vinci e quante schedine del SuperEnalotto dovrebbero comperare i cittadini italiani per dare qualità e certezze alla scuola pubblica? ”.

Il Fatto Quotidiano 08.03.12