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"Giovani donne co.co.pro le meno pagate d'Italia", di Claudio Tucci

Poco più di 5mila euro tra gli uomini. Che salgono addirittura a 6.800 euro se si mettono a confronto le retribuzioni medie annue di una lavoratrice dipendente e di una collaboratrice a progetto.
A tanto ammonta la differenza (media annua) tra la busta paga di un co.co.pro. e un collaboratore coordinato e continuativo e quella di un lavoratore dipendente. Una forbice, ha sottolineato l’Isfol, presentando ieri i primi risultati di un progetto di ricerca sul lavoro parasubordinato basato su dati Inps 2010, che penalizza soprattutto le donne e i più giovani. Nella fascia d’età sotto i 24 anni infatti il gap salariale tra un parasubordinato e un occupato dipendente tocca quota 8.221 euro (vale a dire la differenza tra gli 11.400 euro medi annui di un dipendente e i 3.179 euro di un co.co.pro. e un collaboratore coordinato e continuativo). «Una situazione che per le lavoratrici diventa paradossale», ha commentato il direttore generale dell’Isfol, Aviana Bulgarelli. «Le donne hanno in genere tassi di istruzione più elevati degli uomini. E invece sul fronte salariale continuano a subire una forte disparità di genere. Sia se inquadrate come co.co.pro. che come lavoratrici dipendenti». Nel primo caso il gap di stipendio è di circa la metà rispetto a quanto percepito da un collega parasubordinato (7.420 euro contro 12.735 euro). Mentre nel confronto con la busta paga di un dipendente la differenza di stipendio è di circa 3.600 euro (a tutto svantaggio della collega donna).
Di qui la necessità di intervenire. Anche perché, ha ricordato l’Isfol, i collaboratori a progetto sono 676mila (dato 2010), a cui vanno aggiunti i circa 50mila collaboratori coordinati e continuativi che ci sono nella Pubblica amministrazione, e hanno un reddito medio annuo di 9.885 euro. Contro i 16.290 euro di busta paga media l’anno degli oltre 17 milioni di occupati dipendenti.
Complessivamente i lavoratori parasubordinati in Italia corrispondono a un milione e 442mila unità. E il 46,9% sono co.co.pro. Il 35,1% dei collaboratori a progetto ha un’età inferiore ai 30 anni e il 28,7% tra i 30 e 39 anni. L’84,2% dei co.co.pro. è caratterizzato poi da un regime contributivo esclusivo (non ha quindi un’altra occupazione): sono 569mila lavoratori il cui reddito medio scende a 8.500 euro l’anno. Mentre la retribuzione di un co.co.pro. e un co.co.co. cresce con l’età e arriva a superare quella di un dipendente solo nella fascia d’età superiore ai 60 anni (a fine carriera, cioè) quando i redditi medi annuali ammontano a 19.797 euro e 19.462 euro per un dipendente). In più, secondo una recente indagine Isfol-Plus sul grado di subordinazione della prestazione lavorativa resa dai parasubordinati, oltre il 70% dei collaboratori è tenuto a garantire la presenza presso la sede di lavoro, il 67% ha concordato un orario giornaliero con il datore e il 71% utilizza, nello svolgimento della prestazione, mezzi e strumenti del datore di lavoro. Inoltre, più del 70% dei collaboratori dichiara che la forma del contratto non deriva da una sua scelta, ma da una richiesta esplicita del proprio datore. «Ecco un esempio evidente di cattiva flessibilità in entrata», ha sottolineato Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil. Per Fammoni il ministro del Welfare, Elsa Fornero, dovrebbe intervenire alla radice: «equiparando i contributi, garantendo contestualmente le stesse tutele e dando certezza di un salario corrispondente al lavoro che si svolge». Mentre per Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, per contrastare l’utilizzo improprio dei co.co.pro. è «decisivo» che queste forme contrattuali siano utilizzate «solo assumere lavoratori per qualifiche medio-alte».
Ma la vasta platea dei lavoratori subordinati, ha evidenziato ancora lo studio Isfol, comprende anche i quasi 500mila contribuenti alla gestione Inps composti da amministratori e sindaci di società. Hanno un’età media sensibilmente più elevata dei co.co.pro. e un reddito più alto, superiore a 31mila euro annui. Un ulteriore gruppo di parasubordinati (collaboratori occasionali, dottorati di ricerca, borse di studio e collaborazioni presso la Pubblica amministrazione) è composto invece di 270mila unità. E hanno una busta paga media annua di poco più di 11mila euro.

Il Sole 24 ore 01.03.12

“Giovani donne co.co.pro le meno pagate d’Italia”, di Claudio Tucci

Poco più di 5mila euro tra gli uomini. Che salgono addirittura a 6.800 euro se si mettono a confronto le retribuzioni medie annue di una lavoratrice dipendente e di una collaboratrice a progetto.
A tanto ammonta la differenza (media annua) tra la busta paga di un co.co.pro. e un collaboratore coordinato e continuativo e quella di un lavoratore dipendente. Una forbice, ha sottolineato l’Isfol, presentando ieri i primi risultati di un progetto di ricerca sul lavoro parasubordinato basato su dati Inps 2010, che penalizza soprattutto le donne e i più giovani. Nella fascia d’età sotto i 24 anni infatti il gap salariale tra un parasubordinato e un occupato dipendente tocca quota 8.221 euro (vale a dire la differenza tra gli 11.400 euro medi annui di un dipendente e i 3.179 euro di un co.co.pro. e un collaboratore coordinato e continuativo). «Una situazione che per le lavoratrici diventa paradossale», ha commentato il direttore generale dell’Isfol, Aviana Bulgarelli. «Le donne hanno in genere tassi di istruzione più elevati degli uomini. E invece sul fronte salariale continuano a subire una forte disparità di genere. Sia se inquadrate come co.co.pro. che come lavoratrici dipendenti». Nel primo caso il gap di stipendio è di circa la metà rispetto a quanto percepito da un collega parasubordinato (7.420 euro contro 12.735 euro). Mentre nel confronto con la busta paga di un dipendente la differenza di stipendio è di circa 3.600 euro (a tutto svantaggio della collega donna).
Di qui la necessità di intervenire. Anche perché, ha ricordato l’Isfol, i collaboratori a progetto sono 676mila (dato 2010), a cui vanno aggiunti i circa 50mila collaboratori coordinati e continuativi che ci sono nella Pubblica amministrazione, e hanno un reddito medio annuo di 9.885 euro. Contro i 16.290 euro di busta paga media l’anno degli oltre 17 milioni di occupati dipendenti.
Complessivamente i lavoratori parasubordinati in Italia corrispondono a un milione e 442mila unità. E il 46,9% sono co.co.pro. Il 35,1% dei collaboratori a progetto ha un’età inferiore ai 30 anni e il 28,7% tra i 30 e 39 anni. L’84,2% dei co.co.pro. è caratterizzato poi da un regime contributivo esclusivo (non ha quindi un’altra occupazione): sono 569mila lavoratori il cui reddito medio scende a 8.500 euro l’anno. Mentre la retribuzione di un co.co.pro. e un co.co.co. cresce con l’età e arriva a superare quella di un dipendente solo nella fascia d’età superiore ai 60 anni (a fine carriera, cioè) quando i redditi medi annuali ammontano a 19.797 euro e 19.462 euro per un dipendente). In più, secondo una recente indagine Isfol-Plus sul grado di subordinazione della prestazione lavorativa resa dai parasubordinati, oltre il 70% dei collaboratori è tenuto a garantire la presenza presso la sede di lavoro, il 67% ha concordato un orario giornaliero con il datore e il 71% utilizza, nello svolgimento della prestazione, mezzi e strumenti del datore di lavoro. Inoltre, più del 70% dei collaboratori dichiara che la forma del contratto non deriva da una sua scelta, ma da una richiesta esplicita del proprio datore. «Ecco un esempio evidente di cattiva flessibilità in entrata», ha sottolineato Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil. Per Fammoni il ministro del Welfare, Elsa Fornero, dovrebbe intervenire alla radice: «equiparando i contributi, garantendo contestualmente le stesse tutele e dando certezza di un salario corrispondente al lavoro che si svolge». Mentre per Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, per contrastare l’utilizzo improprio dei co.co.pro. è «decisivo» che queste forme contrattuali siano utilizzate «solo assumere lavoratori per qualifiche medio-alte».
Ma la vasta platea dei lavoratori subordinati, ha evidenziato ancora lo studio Isfol, comprende anche i quasi 500mila contribuenti alla gestione Inps composti da amministratori e sindaci di società. Hanno un’età media sensibilmente più elevata dei co.co.pro. e un reddito più alto, superiore a 31mila euro annui. Un ulteriore gruppo di parasubordinati (collaboratori occasionali, dottorati di ricerca, borse di studio e collaborazioni presso la Pubblica amministrazione) è composto invece di 270mila unità. E hanno una busta paga media annua di poco più di 11mila euro.

Il Sole 24 ore 01.03.12

"Dal dialogo alla violenza le tante vie di chi sfida il potere", di Carlo Galli

Con le proteste in Val di Susa contro i lavori della Tav si riapre la discussione sul confine tra le forme legittime di contestazione e le azioni inaccettabili. Attraverso lunghe lotte e aspri conflitti durante il Ventesimo secolo la democrazia è riuscita veramente a dare la voce a molti. La strategia non è rivoluzionaria, ma piuttosto fuga secessione resistenza passiva disobbedienza non collaborazione. L´antagonismo non è estremismo. Quest´ultimo, infatti, è concepibile solo all´interno di una concezione lineare della politica, appunto raffigurata, in via di metafora, come un segmento orizzontale, nella quale c´è un centro e ci sono gli estremi, oppure verticale, come la scala di un termometro, che ha temperature accettabili e altre, invece, polari o tropicali. L´estremismo è quindi un concetto statico, posizionale; e soprattutto è una posizione politica vista e interpretata dal potere, che fissa e stabilisce in piena autonomia limiti e gradazioni.
Al contrario, c´è nella nozione di antagonismo una concezione agonale della politica; e c´è una idea di movimento – qualcuno, qualcosa, va contro il potere, che è sì protagonista, ma che trova un avversario – . L´antagonismo è una politica che vuol essere non statica ma dinamica; una politica che possa essere vista anche da una prospettiva diversa da quella del potere, anche nell´ottica di chi al potere si oppone, da chi lotta contro di esso. Nell´antagonismo non c´è più l´Uno: c´è il Due. Il potere non è più libero di definire sovranamente i propri avversari; questi prendono la parola, lo chiamano a gran voce, lo provocano. Il potere ha finalmente trovato un soggetto che non si assoggetta, che lo sfida. Un Altro, insomma.
Fin qui nulla di male, anzi. L´armonia nasce dal conflitto, come insegnava già Eraclito; e l´idea che solo il potere abbia la parola sarebbe realmente insopportabile. La dialettica, il discorso che si scontra e che passa dall´uno all´altro, è vita. E la democrazia è appunto l´insieme delle istituzioni e delle pratiche che danno voce a tutti, che rendono possibile il conflitto regolato, che non accettano – o almeno non dovrebbero – l´idea che c´è una Voce sola, quella del Potere. E veramente, attraverso lunghe lotte e aspri conflitti, la democrazia nel XX secolo ha dato voce a molti, ed è stata un´arena di conflitti civili, sociali, economici e ideali. La democrazia ha reso produttivi gli antagonismi, insomma.
Ma è anche vero che all´interno delle istituzioni democratiche esistono da tempo forze che non danno credito ad esse, che praticano l´antagonismo non come una dialettica, cioè per dialogare, alla pari, col potere; forze che non chiedono l´inclusione paritaria nell´arena politica; che non esigono il riconoscimento all´interno di una comune cittadinanza: che col potere, anche democratico, non vogliono avere nulla da spartire, neppure lo spazio del conflitto. Che rifiutano dialogo, cittadinanza, spazio, inclusione, perché li ritengono già pregiudicati, perché li vedono come un Sistema col quale non vogliono avere nulla da spartire, un Tutto di cui non vogliono essere Parte, una falsità in cui non ci può essere alcuna verità. Il Soggetto antagonista non vuol essere né ragionevole né dialettico: non si lascia inserire, in alcun ruolo, nel Sistema. Semplicemente, vi si oppone, lo combatte frontalmente, esistenzialmente: cioè per il fatto che esiste, e, esistendo, nega la sua libertà.
Non necessariamente l´Antagonismo entra nella logica amico/nemico, della violenza mortale, anche se non la rifiuta in linea di principio; quando vi entra, tuttavia, non lo fa per motivi strategici, per ottenere qualcosa: al sistema non chiede nulla, dopo tutto – lo provoca con richieste assurde, per farsi dire di No, e per dirgli di No – . Del resto, l´antagonismo non ha la forza di prendere il potere con una rivoluzione e di rovesciarlo, per farsi esso stesso Potere. Quando l´antagonismo ricorre alla violenza (il che avviene, peraltro, di frequente) lo fa per colpire (non simbolicamente) dei simboli, realizzando così una spersonalizzazione dell´avversario uguale e contraria a quella che imputa al Potere. Per definire la strategia dell´antagonista si può parlare non di rivoluzione né tantomeno di opposizione, quanto piuttosto di fuga, di secessione, di resistenza passiva, di non collaborazione, di disobbedienza, di potere destituente, di “passaggio al bosco”, di contestazione (cioè di un´accusa che si esprime con un linguaggio che non appartiene all´imputato ma solo all´accusatore).
Per tacere di settari e fanatici di ogni tempo, e per restare alle esperienze contemporanee, questi atteggiamenti – tanto più diffusi quanto più lo spazio politico appare conformista, o inospitale, o paludoso – si ritrovano sia negli anarchici sia nell´ecologismo radicale, sia in autori un tempo “maledetti” come Céline (nel suo antisemitismo), o come Pound (nel suo silenzio postbellico), sia in personalità un tempo alla moda come Marcuse (nel Gran Rifiuto) sia in figure elitarie come Jünger (nel suo Anarca).
Accanto a poche posizioni alte e faticose ve ne sono però molte di infantili e di troppo facili, di irresponsabili, e ancora di più di teppistiche e di criminali (dai black bloc a Unabomber, solo per fare qualche esempio). Soprattutto, c´è nell´antagonismo il rischio di non avere nulla da dire: il rischio, cioè, per sottrarsi alla dialettica, di agire in una sorta di muto automatismo, di presentarsi puntualmente, dove c´è un problema, una criticità, non per affermare una ragione ma per lanciarsi, per partito preso, contro il potere. Così l´antagonismo, per non avere nulla a che fare col potere, finisce per dipenderne esistenzialmente, per esserne l´ombra, non la negazione ma il negativo, il semplice rovescio, la fastidiosa appendice. E il suo preteso dinamismo si rivela così solo una contrapposizione statica, sterile, dannosa. Non politica, dopo tutto.

La Repubblica 01.03.12

******

“LA STRATEGIA DEL RANCORE”, di MIGUEL GOTOR
Dissenso, conflitto, antagonismo, violenza, lotta armata: per comprendere la realtà bisogna anzitutto distinguere fenomeni assai diversi tra loro. Il dissenso e il conflitto sono il sale della democrazia, la violenza e la lotta armata ne sono l´esatta negazione, mentre l´antagonismo è un´ambigua terra di confine che le istituzioni (governo e forze dell´ordine) e la politica (partiti e movimenti) hanno il dovere di non ignorare, né di sottovalutare per evitare il rischio di ulteriori e più pericolose radicalizzazioni. Non è facile, ma è proprio lungo quello scivoloso crinale che si misura da sempre la qualità di una democrazia.
L´errore peggiore è fare di ogni erba un fascio utilizzando in modo indiscriminato la categoria “monstre” di terrorismo. Chi lo commette spesso evoca gli anni Settanta nel tentativo di riattivare i meccanismi di una microstrategia della tensione alimentando il circuito provocazione/repressione/resistenza. Purtroppo, per una certa destra nostrana si tratta di un riflesso istintivo, lo scatto di una tagliola ideologica che si direbbe sallustiana (e il riferimento non è all´insigne storico latino…). E così, sulle pagine de il Giornale, il contadino No Tav Luca Abbà, nelle ore in cui sta lottando per la vita, è definito un “cretinetti” ed equiparato all´editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da una bomba nel 1972, mentre voleva far saltare un traliccio per boicottare il congresso del Pci (quest´ultimo dato è omesso non essendo funzionale al disegno disinformativo). I due uomini in comune hanno soltanto un traliccio, ma tanto basta per sfoderare la similitudine allusiva e rancorosa, che serve a soffiare sul fuoco dello scontro.
In realtà, tra l´Italia attuale e quella degli anni Settanta le differenze prevalgono sulle analogie. I parallelismi sono essenzialmente due: il primo riguarda una crisi economica bruciante, ieri di carattere energetico, oggi di segno finanziario. Il secondo concerne il funzionamento del sistema politico in quanto sia negli anni Settanta, con Aldo Moro e la solidarietà nazionale, sia oggi, con Mario Monti e il governo dei tecnici, è in corso un processo di accentramento del quadro generale per rispondere a una situazione di emergenza. Negli anni Settanta gli esiti di quest´azione furono drammatici perché la reazione a essa produsse un lungo ciclo di violenza extra-parlamentare, di stragismo neofascista e di terrorismo rosso che favorirono una soluzione moderata della crisi.
Le differenze toccano anzitutto la politica che allora era robusta e innervata come le ideologie che la sostenevano lungo l´asse anticomunismo/antifascismo. Inoltre, vi era un quadro di attivismo operaio, studentesco e femminile che si confrontava con eventi sociali e culturali epocali come l´immigrazione interna, la diffusione dell´università di massa, la rivoluzione nel mondo dei consumi e dei costumi. Infine, oggi manca la dimensione internazionale della Guerra fredda che allora favorì l´esplosione e il radicamento destabilizzante di quegli avvenimenti.
Per queste ragioni la violenza diffusa, lo stragismo e la lotta armata degli anni Settanta costituiscono un evento difficilmente ripetibile. Ciò non significa che quanto sta avvenendo debba essere sminuito poiché la crisi di rappresentanza della politica e la sua continua svalutazione, così come la riluttanza di questo governo a “metterci la faccia” laddove ci sono problemi di ordine sociale denunciano l´ampiezza di un deserto che purtroppo non promette nulla di buono.

La Repubblica 01.03.12

“Dal dialogo alla violenza le tante vie di chi sfida il potere”, di Carlo Galli

Con le proteste in Val di Susa contro i lavori della Tav si riapre la discussione sul confine tra le forme legittime di contestazione e le azioni inaccettabili. Attraverso lunghe lotte e aspri conflitti durante il Ventesimo secolo la democrazia è riuscita veramente a dare la voce a molti. La strategia non è rivoluzionaria, ma piuttosto fuga secessione resistenza passiva disobbedienza non collaborazione. L´antagonismo non è estremismo. Quest´ultimo, infatti, è concepibile solo all´interno di una concezione lineare della politica, appunto raffigurata, in via di metafora, come un segmento orizzontale, nella quale c´è un centro e ci sono gli estremi, oppure verticale, come la scala di un termometro, che ha temperature accettabili e altre, invece, polari o tropicali. L´estremismo è quindi un concetto statico, posizionale; e soprattutto è una posizione politica vista e interpretata dal potere, che fissa e stabilisce in piena autonomia limiti e gradazioni.
Al contrario, c´è nella nozione di antagonismo una concezione agonale della politica; e c´è una idea di movimento – qualcuno, qualcosa, va contro il potere, che è sì protagonista, ma che trova un avversario – . L´antagonismo è una politica che vuol essere non statica ma dinamica; una politica che possa essere vista anche da una prospettiva diversa da quella del potere, anche nell´ottica di chi al potere si oppone, da chi lotta contro di esso. Nell´antagonismo non c´è più l´Uno: c´è il Due. Il potere non è più libero di definire sovranamente i propri avversari; questi prendono la parola, lo chiamano a gran voce, lo provocano. Il potere ha finalmente trovato un soggetto che non si assoggetta, che lo sfida. Un Altro, insomma.
Fin qui nulla di male, anzi. L´armonia nasce dal conflitto, come insegnava già Eraclito; e l´idea che solo il potere abbia la parola sarebbe realmente insopportabile. La dialettica, il discorso che si scontra e che passa dall´uno all´altro, è vita. E la democrazia è appunto l´insieme delle istituzioni e delle pratiche che danno voce a tutti, che rendono possibile il conflitto regolato, che non accettano – o almeno non dovrebbero – l´idea che c´è una Voce sola, quella del Potere. E veramente, attraverso lunghe lotte e aspri conflitti, la democrazia nel XX secolo ha dato voce a molti, ed è stata un´arena di conflitti civili, sociali, economici e ideali. La democrazia ha reso produttivi gli antagonismi, insomma.
Ma è anche vero che all´interno delle istituzioni democratiche esistono da tempo forze che non danno credito ad esse, che praticano l´antagonismo non come una dialettica, cioè per dialogare, alla pari, col potere; forze che non chiedono l´inclusione paritaria nell´arena politica; che non esigono il riconoscimento all´interno di una comune cittadinanza: che col potere, anche democratico, non vogliono avere nulla da spartire, neppure lo spazio del conflitto. Che rifiutano dialogo, cittadinanza, spazio, inclusione, perché li ritengono già pregiudicati, perché li vedono come un Sistema col quale non vogliono avere nulla da spartire, un Tutto di cui non vogliono essere Parte, una falsità in cui non ci può essere alcuna verità. Il Soggetto antagonista non vuol essere né ragionevole né dialettico: non si lascia inserire, in alcun ruolo, nel Sistema. Semplicemente, vi si oppone, lo combatte frontalmente, esistenzialmente: cioè per il fatto che esiste, e, esistendo, nega la sua libertà.
Non necessariamente l´Antagonismo entra nella logica amico/nemico, della violenza mortale, anche se non la rifiuta in linea di principio; quando vi entra, tuttavia, non lo fa per motivi strategici, per ottenere qualcosa: al sistema non chiede nulla, dopo tutto – lo provoca con richieste assurde, per farsi dire di No, e per dirgli di No – . Del resto, l´antagonismo non ha la forza di prendere il potere con una rivoluzione e di rovesciarlo, per farsi esso stesso Potere. Quando l´antagonismo ricorre alla violenza (il che avviene, peraltro, di frequente) lo fa per colpire (non simbolicamente) dei simboli, realizzando così una spersonalizzazione dell´avversario uguale e contraria a quella che imputa al Potere. Per definire la strategia dell´antagonista si può parlare non di rivoluzione né tantomeno di opposizione, quanto piuttosto di fuga, di secessione, di resistenza passiva, di non collaborazione, di disobbedienza, di potere destituente, di “passaggio al bosco”, di contestazione (cioè di un´accusa che si esprime con un linguaggio che non appartiene all´imputato ma solo all´accusatore).
Per tacere di settari e fanatici di ogni tempo, e per restare alle esperienze contemporanee, questi atteggiamenti – tanto più diffusi quanto più lo spazio politico appare conformista, o inospitale, o paludoso – si ritrovano sia negli anarchici sia nell´ecologismo radicale, sia in autori un tempo “maledetti” come Céline (nel suo antisemitismo), o come Pound (nel suo silenzio postbellico), sia in personalità un tempo alla moda come Marcuse (nel Gran Rifiuto) sia in figure elitarie come Jünger (nel suo Anarca).
Accanto a poche posizioni alte e faticose ve ne sono però molte di infantili e di troppo facili, di irresponsabili, e ancora di più di teppistiche e di criminali (dai black bloc a Unabomber, solo per fare qualche esempio). Soprattutto, c´è nell´antagonismo il rischio di non avere nulla da dire: il rischio, cioè, per sottrarsi alla dialettica, di agire in una sorta di muto automatismo, di presentarsi puntualmente, dove c´è un problema, una criticità, non per affermare una ragione ma per lanciarsi, per partito preso, contro il potere. Così l´antagonismo, per non avere nulla a che fare col potere, finisce per dipenderne esistenzialmente, per esserne l´ombra, non la negazione ma il negativo, il semplice rovescio, la fastidiosa appendice. E il suo preteso dinamismo si rivela così solo una contrapposizione statica, sterile, dannosa. Non politica, dopo tutto.

La Repubblica 01.03.12

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“LA STRATEGIA DEL RANCORE”, di MIGUEL GOTOR
Dissenso, conflitto, antagonismo, violenza, lotta armata: per comprendere la realtà bisogna anzitutto distinguere fenomeni assai diversi tra loro. Il dissenso e il conflitto sono il sale della democrazia, la violenza e la lotta armata ne sono l´esatta negazione, mentre l´antagonismo è un´ambigua terra di confine che le istituzioni (governo e forze dell´ordine) e la politica (partiti e movimenti) hanno il dovere di non ignorare, né di sottovalutare per evitare il rischio di ulteriori e più pericolose radicalizzazioni. Non è facile, ma è proprio lungo quello scivoloso crinale che si misura da sempre la qualità di una democrazia.
L´errore peggiore è fare di ogni erba un fascio utilizzando in modo indiscriminato la categoria “monstre” di terrorismo. Chi lo commette spesso evoca gli anni Settanta nel tentativo di riattivare i meccanismi di una microstrategia della tensione alimentando il circuito provocazione/repressione/resistenza. Purtroppo, per una certa destra nostrana si tratta di un riflesso istintivo, lo scatto di una tagliola ideologica che si direbbe sallustiana (e il riferimento non è all´insigne storico latino…). E così, sulle pagine de il Giornale, il contadino No Tav Luca Abbà, nelle ore in cui sta lottando per la vita, è definito un “cretinetti” ed equiparato all´editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da una bomba nel 1972, mentre voleva far saltare un traliccio per boicottare il congresso del Pci (quest´ultimo dato è omesso non essendo funzionale al disegno disinformativo). I due uomini in comune hanno soltanto un traliccio, ma tanto basta per sfoderare la similitudine allusiva e rancorosa, che serve a soffiare sul fuoco dello scontro.
In realtà, tra l´Italia attuale e quella degli anni Settanta le differenze prevalgono sulle analogie. I parallelismi sono essenzialmente due: il primo riguarda una crisi economica bruciante, ieri di carattere energetico, oggi di segno finanziario. Il secondo concerne il funzionamento del sistema politico in quanto sia negli anni Settanta, con Aldo Moro e la solidarietà nazionale, sia oggi, con Mario Monti e il governo dei tecnici, è in corso un processo di accentramento del quadro generale per rispondere a una situazione di emergenza. Negli anni Settanta gli esiti di quest´azione furono drammatici perché la reazione a essa produsse un lungo ciclo di violenza extra-parlamentare, di stragismo neofascista e di terrorismo rosso che favorirono una soluzione moderata della crisi.
Le differenze toccano anzitutto la politica che allora era robusta e innervata come le ideologie che la sostenevano lungo l´asse anticomunismo/antifascismo. Inoltre, vi era un quadro di attivismo operaio, studentesco e femminile che si confrontava con eventi sociali e culturali epocali come l´immigrazione interna, la diffusione dell´università di massa, la rivoluzione nel mondo dei consumi e dei costumi. Infine, oggi manca la dimensione internazionale della Guerra fredda che allora favorì l´esplosione e il radicamento destabilizzante di quegli avvenimenti.
Per queste ragioni la violenza diffusa, lo stragismo e la lotta armata degli anni Settanta costituiscono un evento difficilmente ripetibile. Ciò non significa che quanto sta avvenendo debba essere sminuito poiché la crisi di rappresentanza della politica e la sua continua svalutazione, così come la riluttanza di questo governo a “metterci la faccia” laddove ci sono problemi di ordine sociale denunciano l´ampiezza di un deserto che purtroppo non promette nulla di buono.

La Repubblica 01.03.12

"RSU : il 5-6-7 marzo si vota" di Pippo Frisone

Nei giorni 5,6 e 7 marzo il personale della scuola assieme a tutto il pubblico impiego voterà i propri rappresentanti nei luoghi di lavoro. Nella scuola votano tutti i dipendenti a tempo indeterminato e i supplenti annuali (elettorato attivo) sia su posti interi sia su spezzoni o in part-time, mentre le candidature ( elettorato passivo) restano prerogativa del personale di ruolo.
L’8 febbraio è scaduto il termine per la presentazione delle liste e delle candidature.

Cisl e Cgil hanno fatto a gara per coprire tutte le scuole, seguono snals e uil ma anche gilda, cobas,cub,ugil e anief sono riusciti a presentare liste proprie nelle scuole.

Le liste presentate sembrano superare quelle del 2006.

Qualche difficoltà, invece, a completare le liste ma soprattutto a reperire i designati nelle commissioni elettorali e ancor più nei seggi elettorali.

Un segnale di disinteresse ? I timori ci sono e sono tanti.

Innanzitutto quello sulla partecipazione che si prevede al di sotto delle tornate precedenti.

La stanchezza per un mandato durato 6 anni, invece di 3, per volontà del ministro Brunetta e di alcuni sindacati compiacenti, timorosi di affrontare nel 2009 il giudizio delle urne.

Il peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori della scuola e di tutto il pubblico impiego, col blocco dei contratti, blocco delle anzianità,allungamento delle pensioni, tagli agli organici non lasciano ben sperare.

La sfiducia degli italiani nei partiti e nella politica trascina inesorabilmente verso i basso anche i sindacati, favorendo ancor più l’astensionismo.

La difficile trattativa sul precariato, mercato del lavoro e art.18 farà sentire il suo peso.

A ciò va aggiunta l’azione costante di smantellamento dei diritti contrattuali e delle tutele, portata avanti negli ultimi tre anni dal duo Sacconi-Brunetta che ha fortemente inciso sulla stessa contrattazione integrativa , indebolendo il ruolo del sindacato .

La partita delle RSU si giocherà anche su questi temi e servirà non solo ad eleggere le rappresentanze in ogni luogo di lavoro ma anche a misurare la rappresentatività a livello nazionale delle organizzazioni sindacali. Chi andrà oltre il 5% potrà partecipare alle trattative nazionali sul CCNL mentre chi starà sotto verrà escluso.

Il voto sulle RSU che coinvolgerà oltre 3milioni e mezzo di lavoratori pubblici, inevitabilmente parlerà anche alla politica e di politica.

Dirà quali sindacati godranno ancora della fiducia dei lavoratori e quali la perderanno, sulla base delle scelte fatte in questi ultimi anni.

Scelte non sempre facili, perchè se è vero che il sindacato non può essere assimilato ad un partito politico né omologato a nessun governo, compreso un governo tecnico, è anche vero che può mettere in gioco la propria autonomia o rimanere subalterno alla politica.

L’esito del voto, pur nella sua parzialità, ci dirà tante cose e innanzitutto se i lavoratori pubblici credono ancora nella democrazia rappresentativa nei luoghi di lavoro e in che misura ancora.

Essendo un voto nazionale ci dirà molte cose sulla coesione sociale del Paese nonché sui comportamenti degli elettori del nord, del centro e del sud.

Sarà un segnale forte per le stesse forze politiche , un anticipo degli orientamenti che una parte degli italiani avranno rispetto al voto amministrativo di primavera e poi a quello politico del 2013.

Sarà anche un segnale politico che i partiti faranno bene ad analizzare e a non sottovalutare, se vorranno che nel 2013, dando la parola agli elettori, debba tornare la politica a governare il Paese.

da ScuolaOggi 01.03.12

“RSU : il 5-6-7 marzo si vota” di Pippo Frisone

Nei giorni 5,6 e 7 marzo il personale della scuola assieme a tutto il pubblico impiego voterà i propri rappresentanti nei luoghi di lavoro. Nella scuola votano tutti i dipendenti a tempo indeterminato e i supplenti annuali (elettorato attivo) sia su posti interi sia su spezzoni o in part-time, mentre le candidature ( elettorato passivo) restano prerogativa del personale di ruolo.
L’8 febbraio è scaduto il termine per la presentazione delle liste e delle candidature.

Cisl e Cgil hanno fatto a gara per coprire tutte le scuole, seguono snals e uil ma anche gilda, cobas,cub,ugil e anief sono riusciti a presentare liste proprie nelle scuole.

Le liste presentate sembrano superare quelle del 2006.

Qualche difficoltà, invece, a completare le liste ma soprattutto a reperire i designati nelle commissioni elettorali e ancor più nei seggi elettorali.

Un segnale di disinteresse ? I timori ci sono e sono tanti.

Innanzitutto quello sulla partecipazione che si prevede al di sotto delle tornate precedenti.

La stanchezza per un mandato durato 6 anni, invece di 3, per volontà del ministro Brunetta e di alcuni sindacati compiacenti, timorosi di affrontare nel 2009 il giudizio delle urne.

Il peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori della scuola e di tutto il pubblico impiego, col blocco dei contratti, blocco delle anzianità,allungamento delle pensioni, tagli agli organici non lasciano ben sperare.

La sfiducia degli italiani nei partiti e nella politica trascina inesorabilmente verso i basso anche i sindacati, favorendo ancor più l’astensionismo.

La difficile trattativa sul precariato, mercato del lavoro e art.18 farà sentire il suo peso.

A ciò va aggiunta l’azione costante di smantellamento dei diritti contrattuali e delle tutele, portata avanti negli ultimi tre anni dal duo Sacconi-Brunetta che ha fortemente inciso sulla stessa contrattazione integrativa , indebolendo il ruolo del sindacato .

La partita delle RSU si giocherà anche su questi temi e servirà non solo ad eleggere le rappresentanze in ogni luogo di lavoro ma anche a misurare la rappresentatività a livello nazionale delle organizzazioni sindacali. Chi andrà oltre il 5% potrà partecipare alle trattative nazionali sul CCNL mentre chi starà sotto verrà escluso.

Il voto sulle RSU che coinvolgerà oltre 3milioni e mezzo di lavoratori pubblici, inevitabilmente parlerà anche alla politica e di politica.

Dirà quali sindacati godranno ancora della fiducia dei lavoratori e quali la perderanno, sulla base delle scelte fatte in questi ultimi anni.

Scelte non sempre facili, perchè se è vero che il sindacato non può essere assimilato ad un partito politico né omologato a nessun governo, compreso un governo tecnico, è anche vero che può mettere in gioco la propria autonomia o rimanere subalterno alla politica.

L’esito del voto, pur nella sua parzialità, ci dirà tante cose e innanzitutto se i lavoratori pubblici credono ancora nella democrazia rappresentativa nei luoghi di lavoro e in che misura ancora.

Essendo un voto nazionale ci dirà molte cose sulla coesione sociale del Paese nonché sui comportamenti degli elettori del nord, del centro e del sud.

Sarà un segnale forte per le stesse forze politiche , un anticipo degli orientamenti che una parte degli italiani avranno rispetto al voto amministrativo di primavera e poi a quello politico del 2013.

Sarà anche un segnale politico che i partiti faranno bene ad analizzare e a non sottovalutare, se vorranno che nel 2013, dando la parola agli elettori, debba tornare la politica a governare il Paese.

da ScuolaOggi 01.03.12

Soppressa l'Agenzia per il Terzo Settore

Nel consiglio dei ministri del 24 febbraio il Governo ha deciso la chiusura dell’organismo che aveva poteri di indirizzo, promozione e vigilanza per le associazioni non lucrative di utilità sociale, per il terzo settore e per gli enti non commerciali. Il provvedimento è atteso all’esame dell’Aula che dovrà convertirlo in legge. A darne l’ufficialità è stato Danilo Giovanni Festa, direttore generale per il volontariato, l’associazionismo e le formazioni sociali del Ministero Politiche Sociali. “Le sue funzioni passeranno al Ministero”
E’ ufficiale: l’Agenzia per il Terzo Settore sarà cancellata. A confermarlo, a Villaggio Solidale, il salone del volontariato italiano, è stato Danilo Giovanni Festa, direttore generale per il volontariato, l’associazionismo e le formazioni sociali del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali. “Il Consiglio dei Ministri ha approvato l’abrogazione dell’Agenzia del Terzo settore – ha annunciato Festa – e le sue funzioni passeranno quindi al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. E’ vero, solo un anno fa avevamo fatto un intervento sull’Agenzia. Ma da allora tante cose sono cambiate nel nostro Paese…”.
Mentre il Consiglio dei Ministri stava varando la manovra fiscale, sempre nel corso del salone del volontariato italiano organizzato a Lucca dal Centro Nazionale per Volontariato in collaborazione con la Fondazione Volontariato e Partecipazione e il Cesvot, Emanuele Rossi, consigliere dell’Agenzia, aveva dichiarato di non conoscere “le ragioni” della chiusura. “Nessuno – ha aggiunto Rossi – ha mai spiegato nulla. Né a me né agli altri consiglieri dell’Agenzia. Forse si vogliono risparmiare quei 15 mila euro annui che rappresentano il ‘costo’ dell’Agenzia”. Rossi, inoltre, ha chiesto maggiore coerenza. “Lo scorso anno, dopo un lungo e laborioso iter, è stato varato un decreto che ha rivisto l’attività dell’Agenzia. Oggi, a distanza di appena un anno – ha aggiunto – si parla di chiusura. Ci vorrebbero un minimo di coerenza e di serietà”.
Danilo Giovanni Festa risponde a Rossi a distanza di un giorno dal palco del convegno sulla legge 266 e la normativa regionale organizzato a Villaggio Solidale. “Il bilancio dell’Agenzia non era particolarmente significativo, ma in questa fase era importante dare un segnale in questa fase difficile per l’Italia”.
Festa, nel convegno di Lucca in cui si è discusso sui possibili sviluppi per il volontariato italiano in questa fase sospesa tra federalismo e prospettive di riforma, è inoltre intervenuto dicendo che la legge quadro sul volontariato andrebbe rivista. “Dal 1991, anno della sua approvazione, si sono alternati molti governi – commenta il direttore generale del Ministero -. Ci sarebbe stato tutto il tempo per cambiare la legge 266, ma ciò non è avvenuto. Anche perché – aggiunge Festa – c’erano forti resistenze da parte dello stesso mondo del volontariato. Comunque al momento non è un argomento al tavolo di questo Governo, anche se la forza per cambiarla l’avrebbe, visto che è intervenuto in ambiti ben più difficili”.
Festa ritiene che l’esigenza di modificare la legge sia una naturale conseguenza. “E’ cambiata parte della normativa e sono cambiati anche i nostri orizzonti culturali, ma ci sono degli aspetti della legge – precisa Festa – sui quali esistono ancora dei ritardi. E’ ad esempio il caso dei Registri regionali”. Festa ha poi osservato che un altro aspetto importante sul quale bisognerebbe intervenire è il sistema dei Coge, i Comitati di gestione dei fondi per il volontariato. “Un sistema che va rivisto e migliorato perché – dichiara il direttore generale per il volontariato – bisogna fare i conti con la realtà e con la mancanza di risorse che durerà almeno per i prossimi cinque anni. Per la direttiva 266 dovremo avere 2milioni e 7 milioni per la 383. Ma tutti noi sappiamo che non saranno sufficienti. L’utilizzo dei fondi Coge, perché possa essere davvero un aiuto fondamentale al volontariato, andrebbe definito meglio”.

Comunicato di Cecilia Carmassi del 28 gennaio: “Ridurre i costi ma non chiudere agenzia”

No a chiusura Agenzia Terzo Settore. E’ strumento necessario per dialogo con istituzioni di Cecilia Carmassi

Su Youdem “La fine del Terzo Settore” con le interviste a Stefano Zamagni e Andrea Olivero, in studio Cecilia Carmassi

Zamagni attacca il governo: “Se mette la fiducia l’Agenzia è morta”
Il presidente dell’Agenzia del Terzo settore commenta dalle pagine di Famiglia Cristiana la decisione di chiuderla. Al momento è stata prorogata di altri due mesi in attesa che il decreto divenga legge. Per Zamagni il parlamento voterà contro la chiusura
ROMA – Duro attacco al Governo da parte del presidente dell’Agenzia del Terzo settore, Stefano Zamagni, sulla decisione di trasferire le competenze dell’organo da lui rappresentato al ministero del Lavoro e della Previdenza sociale. Senza mezzi termini, dalle pagine di Famiglia Cristiana il presidente dell’Agenzia non esita ad affermare che “questo Governo non capisce cosa sia il Terzo settore, non capisce cosa sono i corpi intermedi della società, non capisce la rilevanza del modello italiano di Welfare, che è la sussidiarietà”. “Questo Governo vuol far vedere che non guarda in faccia a nessuno e che taglia dove vuole –si legge nell’intervista -. Come certi chirurghi che tagliano anche dove non c’è da tagliare. Questo Governo tende a pensare che l’Italia possa rimettersi in sesto solo se si punta sullo Stato e sul mercato”.
Guardando ai fatti, il presidente dell’Agenzia si dice convinto che il Parlamento voterà contro l’articolo del decreto che predispone il passaggio di competenze al ministero, perché tutti partiti compresa la Lega non vogliono la chiusura della struttura. “Al momento l’Agenzia è stata prorogata di altri due mesi in attesa che il decreto divenga legge –aggiunge -. A questo punto delle due l’una: se il Governo mette la fiducia l’Agenzia è morta”. Secondo Zamagni la scelta del governo è sbagliata anche in termini di costi/benefici perché inglobare la struttura all’interno del ministero non comporterà di certo un risparmio per lo Stato. E ed questa una delle ragioni per cui il Parlamento voterà contro. “Un’Agenzia autonoma e indipendente costa molto di meno che non le stesse attività svolte all’interno del ministero –sostiene -.Si gioca sull’equivoco. L’agenzia attuale ha sede a Milano.
Il Comune di Milano fornisce gratuitamente la sede, la Provincia e la Regione forniscono il personale. Le Fondazioni bancarie finanziano le attività di tipo culturale e pubblicistico. Il giorno in cui queste attività vengono incorporate al ministero è ovvio che nessun Comune o ente o Fondazione darà soldi al ministero. Chi ha preso questa decisione dimostra di non conoscere le cose o di essere all’oscuro. Stiamo parlando di tagli del bilancio dello Stato. I costi di gestione sarebbero superiori”. Inoltre, secondo Zamagni, i partiti sono contraria alla chiusura perché “l’Agenzia deve essere un ente autonomo e indipendente. Nel momento in cui venisse inglobata dal ministero del Lavoro perderebbe la caratteristica della terzietà, verrebbe snaturata. Non avrebbe più una sua ragion d’essere e una sua fisionomia”. Un’altra ragione riguarda, invece, la capacità del ministero di svolgere le funzioni dell’Agenzia. “Il Lavoro può controllare la liceità degli atti degli enti non profit, ma non potrà mai controllare le meritorietà degli stessi – aggiunge -. Per farlo ci vuole un’esperienza e una conoscenza che i burocrati del ministro per quanto bravi e per quanto preparati non possono avere”.
Nelle parole di Zamagni non manca neanche una punta di amarezza nella constatazione che la chiusura dell’Agenzia è solo l’ultimo di una serie di provvedimenti volti a colpire il settore. “Questi segnali dimostrano che il Governo ritiene che per far ripartire l’Italia non sia necessario intervenire sui corpi intermedi dello Stato. E’ come se dicessero: non abbiamo bisogno di voi. E sbagliano, perché il Terzo Settore è una fonte di sviluppo. E’ importante non solo perché dà da lavorare a circa un milione di persone, ma perché produce coesione sociale”.
Leggi l’intervista completa

Soppressa l’Agenzia per il terzo settore, il Forum: “Gravi conseguenze” Il portavoce Olivero: “Chiudere l’Agenzia e affidarne le competenze al ministero del Lavoro è un brutto segnale politico, significa ridurre il terzo settore al solo ambito del welfare”
ROMA – “Con l’obiettivo di ‘contenere’ la spesa pubblica, si perde uno strumento di promozione, ma anche di vigilanza e controllo, fondamentale per il terzo settore”. E’ il commento del Forum del terzo settore alla soppressione dell’Agenzia per il terzo settore, le cui competenze saranno affidate al ministero del Lavoro e delle politiche sociali.
“Siamo fortemente contrari – dichiara il portavoce del Forum, Andrea Olivero – a questa decisione presa dal governo, peraltro in totale contraddizione con i segnali di attenzione che finora ci aveva mostrato. L’Agenzia per il terzo settore, seppur ente di emanazione governativa, ha svolto un importante ruolo di ‘terzietà’ tra organizzazioni non profit e istituzioni, ruolo che le ha permesso di essere autorevole strumento di controllo, trasparenza e promozione del terzo settore in modo autonomo e non immediatamente legato all’azione di governo. Sopprimere l’Agenzia – prosegue il portavoce – per risparmi del tutto inconsistenti, è quindi una scelta miope, foriera di gravi conseguenze per tutto il terzo settore, che ne va a minare la sua articolazione organizzativa e soprattutto la sua autonomia”.
“Chiudere l’Agenzia – prosegue il portavoce – ed affidarne le competenze al ministero del Lavoro e delle politiche sociali è un brutto segnale politico; significa infatti ridurre il terzo settore al solo ambito del welfare, non riconoscerne la multiformità delle iniziative e il ruolo fondamentale di leva per la crescita del Paese. È un’iniziativa che va a sommarsi ad altri brutti segnali che il governo ha dato nell’ultimo periodo, come le contraddittorie dichiarazioni sul 5x mille, l’estensione dell’Ici e dell’Imu, e l’ulteriore inasprimento dei controlli fiscali sul terzo settore.”
“Infine – conclude il portavoce – la decisione è tanto più grave quanto il fatto che sia stata presa senza alcuna interlocuzione con il nostro mondo. Da parte nostra ci siamo sempre posti in un ottica di dialogo con il governo e da sempre abbiamo rappresentato un soggetto vocato a rappresentare il bene comune, non certo una lobby di interessi. Non ascoltare le nostre istanze è una grave scorrettezza e manifesta un’assoluta mancanza di sensibilità. Ci aspettiamo che, alle prese di posizione avverse a questa risoluzione, arrivate da parte di numerosi esponenti di tutte le forze politiche, ne seguano ulteriori e che il provvedimento venga modificato dal Parlamento. A sostegno di questa nostra richiesta attiveremo da subito azioni di sensibilizzazione e mobilitazione tra tutte le nostre associazioni e nel territorio. Al Governo chiediamo che mostri segnali di attenzione verso il terzo settore, in coerenza con quel senso di responsabilità e partecipazione che da sempre sosteniamo”.

Agenzia per il Terzo settore cancellata. Guerra: “Due mesi per il passaggio”
Le competenze passano alla Direzione per il volontariato del Ministero del Welfare. Il sottosegretario: “Organizzeremo un sostegno di tipo collaborativo sulle cose pratiche. E lavoreremo sul rapporto con altre amministrazioni e con l’Agenzia delle Entrate
LUCCA – “Ci sentiamo caricati di una forte responsabilità e abbiamo il giusto entusiasmo per poter metterci al servizio. Ora inizia un percorso importante”. Sulla chiusura dell’Agenzia per il Terzo settore, al salone del volontariato italiano “Villaggio Solidale” che si è chiuso ieri a Lucca, è intervenuta anche Maria Cecilia Guerra, sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. “Il Consiglio dei Ministri – ha affermato la Guerra – ha effettivamente preso la decisione di trasferire le competenze dell’Agenzia alla Direzione per il volontariato e l’associazionismo insediata nel nostro Ministero”. Per il sottosegretario, a seguito della soppressione dell’Agenzia saranno avviati due percorsi. “Da un lato – spiega Guerra – organizzeremo un sostegno di tipo consulenziale e collaborativo sulle cose pratiche. Cominceremo con la conoscenza del settore, che approfondiremo anche dal punto di vista fiscale e giuridico. Ma lavoreremo anche sul rapporto con altre amministrazioni e con l’Agenzia delle Entrate. Sappiamo che questi sono temi delicati”.
Il Ministero desidera poi “proseguire con l’analisi delle ispezioni”, ha aggiunto il sottosegretario. “Vorremo capire e definire bene il mondo delle associazioni di promozione sociale e delle onlus per difenderlo dalle ‘false onlus’. Nello stesso tempo – precisa – potenzieremo, anche attraverso gli Osservatori, le funzioni di conoscenza, promozione e interlocuzione”. Per Maria Cecilia Guerra questo processo “parte da subito” anche se il passaggio di consegne “avrà bisogno di un paio di mesi al massimo”. Poi Guerra ha confessato: “Onestamente avevamo già cominciato a fare un piano di lavoro. Avevamo già pensato a come far fronte agli adempimenti necessari”.
Il sottosegretario, che ha partecipato al salone di Lucca per il convegno dal titolo “Il volontariato e il terzo settore, tra crisi economica e trasformazione del modello di welfare”, ha parlato anche del rapporto tra istituzioni e associazioni. “Il sostegno che le istituzioni possono dare al volontariato è fondamentale. Dobbiamo sostenerlo con i fatti – ha precisato Guerra – non con le parole. Il rischio è che venga scaricato sul volontariato una responsabilità che dev’essere anche pubblica. Insieme devono però creare sinergie. Perché gli obiettivi sono comuni, prioritari e difesi da entrambi”.

Agenzia per il Terzo settore cancellata, un percorso iniziato già da anni
L’analisi del direttore Gabrio Quattropani: “Ci sono state varie tappe che sono andate in questa direzione, di certo ci vuole a monte un pensiero politico forte, che è rimasto tra le righe”. Ccontributo pubblico diminuito negli ultimi due anni
ROMA – La chiusura dell’Agenzia del Terzo settore è la diretta conclusione di un percorso iniziato già da anni, con un investimento sempre più decrescente in questo settore. Ne è convinto il direttore dell’Agenzia Gabrio Quattropani. “Ci sono state varie tappe che sono andate in questa direzione – afferma – di certo ci vuole a monte un pensiero politico forte, che è rimasto tra le righe. A volte c’era l’intenzione che non era poi sostenuta nel concreto”. Nel tracciare un bilancio dell’attività svolta in questi anni Quattropani sottolinea in particolare la costruzione di Linee guida per regolare il settore e orientare i comportamenti delle organizzazioni. Negli ultimi anni sono in cinque gli atti di indirizzo, elaborati da gruppi di esperti interni ed esterni approvati in via preliminare dal Consiglio dell’Agenzia e poi sottoposti al confronto con le organizzazioni e infine approvati in via definitiva. Tra questi le Linee guida per la redazione del bilancio sociale degli enti non profit, che hanno visto la luce nel 2009, così come quelle per la tenuta dei registri del volontariato e per il sostegno a distanza di minori e giovani. Nel 2011, invece, sono state elaborate le Linee guida per la redazione del bilancio sociale delle organizzazioni non profit e quelle per la raccolta fondi.
Quanto ai costi dell’Agenzia, anche se la legge n.133 del 1999 stabilisce un finanziamento annuo fino a 2.585.285 euro (pari a 5 miliardi di vecchie lire) il contributo pubblico è andato diminuendo soprattutto negli ultimi due anni. Negli anni 2002/2005 il finanziamento è stato pari al tetto massimo stabilito, mentre nel 2006 sono stati erogati 2.091.651 euro; nel 2007 1.398.535euro più un finanziamento straordinario di un milione di euro; nel 2008 1.547.860euro , integrato con la quota ex cinque per mille del 2007, pari a 1.250.000; nel 2009 846.510 euro più un finanziamento straordinario di 3.250.000. Mentre nel 2010 il sostegno è stato pari a 1.160.313 euro e nel 2011 726.000. Il volume di spesa degli anni più recenti è stato di 3.016.723 euro nel 2007, di 2.765.976 euro nel 2009 e di 2.495.023 euro nel 2010. “Abbiamo operato in funzione della capacità finanziaria che avevamo a disposizione – afferma Quattropani – potevamo curare altri compiti che ci sono attribuiti per legge ma con le capacità che avevamo a disposizione non era possibile. La situazione è sempre stata precaria”.

Chiusura Agenzia Terzo settore, l’Auser: “Grave colpo al mondo del non profit”
Il presidente Mangano: “Siamo in presenza di una scelta autoritaria ed unilaterale che non tiene conto delle serie motivazioni che la stragrande maggioranza delle associazioni del Terzo settore avevano evidenziato contro una tale decisione”
ROMA – “Nonostante le ripetute proteste, il Consiglio dei Ministri ha deciso di chiudere l’Agenzia per il Terzo Settore affidandone le competenze al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Siamo in presenza di una scelta autoritaria ed unilaterale che non tiene conto delle serie motivazioni che la stragrande maggioranza delle associazioni del Terzo settore avevano evidenziato contro una tale decisione”. Così Michele Mangano, presidente nazionale dell’Auser, secondo cui “con questa scelta burocratica si assesta un grave colpo al mondo del Terzo Settore che con la chiusura dell’Agenzia perde una interlocuzione competente e qualificata sulle tematiche che investono il complesso mondo dell’associazionismo”.
E conclude: “Registriamo, ancora una volta, la indisponibilità al dialogo ed al confronto che non lascia intravedere un futuro costruttivo e sereno nelle relazioni tra Governo e Terzo Settore. Le forze politiche che sostengono questo Governo non possono rimanere insensibili e tacere di fronte a questa scelta arbitraria e contraddittoria”.

Chiusa l’Agenzia Terzo settore, l’Istituto italiano della donazione: “Scelta che il non profit non meritava”
Il presidente, Maria Guidotti: “Una scelta davvero unilaterale ed arbitraria, presa proprio nel momento in cui il non profit sta dimostrando di essere un pilastro fondamentale e di qualità per il sistema di welfare”
MILANO – Il Consiglio Direttivo dell’Istituto Italiano della Donazione (IID) esprime in una nota “vivo disappunto” per la chiusura dell’Agenzia per il Terzo Settore:
“Una scelta davvero unilaterale ed arbitraria – afferma Maria Guidotti, Presidente IID – presa proprio nel momento in cui il non profit sta dimostrando di essere un pilastro fondamentale e di qualità per il sistema di welfare territoriale e nazionale. Mi stupisce molto la contraddittorietà di tale decisione, viste le ripetute proteste da parte di tutto il Terzo Settore ed i segnali di attenzione che finora il Consiglio dei Ministri sembrava aver riservato al non profit”.
“L’Agenzia per il Terzo Settore è stata un interlocutore qualificato e competente sulle tematiche che investono il complesso mondo dell’associazionismo – continua la Guidotti -, un insostituibile punto di riferimento per le organizzazioni non profit e le istituzioni tutte grazie alla sua preziosa attività nel campo della trasparenza e della promozione di un settore complesso come il nostro”.
E conclude: “Indubbiamente questa decisione lascia un vuoto che ora il Governo è chiamato a colmare: il mio augurio è che si lavori al più presto in questa direzione, facendo tesoro del prezioso patrimonio di competenze lasciato dall’Agenzia. L’Istituto Italiano della Donazione, pur non condividendo la scelta fatta, offre la sua piena collaborazione a questa fase di transizione, nella speranza di costruire una rinnovata disponibilità al dialogo ed al confronto tra Governo e Terzo settore”.

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