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"Il welfare da salvare", di Barbara Spinelli

Parlando dell´austerità che si impone a Atene, e delle riforme strutturali necessarie al ritorno della crescita, il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi è ricorso a un´immagine forte. In un´intervista al Wall Street Journal, il 23 febbraio, ha detto che quel che si profila in Grecia è un Nuovo Mondo. L´immagine è forte, e singolare, perché di Nuovi Mondi nessuno osa più molto parlare: tanti ne sono stati promessi, e le cose non sono andate bene.
Generalmente quando si annunciano Nuovi Mondi se ne seppelliscono di vecchi, o perché falliti o perché malgovernati. Goethe, ad esempio, era convinto che la Rivoluzione francese non avrebbe spazzato via i monarchi come «vecchie scope», se questi fossero stati veri monarchi. Lo stesso si può dire oggi dell´Europa, che versa in condizioni ancora peggiori di quei re: la corona non l´ha persa; non l´ha mai pienamente avuta. Non esiste un impero europeo che governi il caos. Non esistono partiti europeisti che si battano contro l´impotente potenza dei nazionalismi, letale per l´Unione. Proviamo dunque a vederlo e pensarlo, il Nuovo Mondo proposto non solo a Atene ma a tutti noi.
È un mondo che abolirà il vecchio regime, e ci libererà dei sepolcri imbiancati dentro cui giacciono divinità ancora onorate, ma ormai finite: «All´esterno paiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume», di ipocrisia e iniquità. Tra questi sepolcri viene additato il Welfare: cioè quel sistema di protezione universale dai rischi della malattia, del lavoro, della vecchiaia, conosciuto in Europa dopo il ‘45. «Lo Stato sociale è morto», annuncia il governatore della Bce, perché perde senso se non copre tutti i cittadini e se il lavoro resta duale: da una parte i giovani costretti alla flessibilità, dall´altra i protetti con salari basati sull´anzianità e non sulla produttività.
Naturalmente c´è del vero, nella denuncia del sepolcro-idolo. Lo Stato sociale fallisce, a partire dal momento in cui non mantiene più la parola. Ma perché dire che come promessa è morto, gone? Perché nessun accenno al fatto che, essendo un patrimonio essenziale dell´Europa, va riorganizzato, ma non ucciso? Possibile che debba emergere da un certificato di decesso il mirabile nuovo mondo che vedremo dopo austerità e liberalizzazioni? Il brave new world di Huxley – ricordiamocelo – è una distopia, un´utopia tutta negativa.
In realtà sono decenni che lo Stato sociale è sotto attacco, quasi fosse un lusso ormai insano. Più fondamentalmente è sotto attacco lo Stato: considerato esso stesso un rischio, da politici ed economisti abituati a nutrirsi di dottrine antistataliste. Su quel che accadrà di qui al Nuovo Mondo non ci si sofferma. Parole come povertà, penuria, declino demografico scompaiono, sostituite dal pulito, clinico eufemismo: «Ci sarà una contrazione». Torna in auge perfino la famosa certezza esibita dalla Thatcher: «Non c´è alternativa». Anche quest´affermazione è leggermente stupefacente, perché l´univoca ideologia inglese e americana degli anni ‘80 è finita infelicemente. Il mercato-padrone, che da solo si equilibra, s´è infranto nel 2007-2008. Oppure no?
Quel che conta è sapere cosa muore, e cosa si mette nel vuoto che resta. Muore quel che gli europei appresero nella crisi degli anni ‘30, e in due guerre. La prima cosa che scoprirono fu l´unione europea, il No alle rovinose sovranità assolute degli Stati-nazione. La seconda fu il Welfare, il No alla povertà che aveva colpito le genti negli anni ‘30, gettandole nelle dittature e nelle guerre. Si tratta di due polizze d´assicurazione, offerte ai popoli per far fronte ai sinistri del passato, e tra esse c´è un nesso. Basti ricordare che il principale ideatore del Welfare, William Beveridge, fu anche militante dell´Europa federale.
Come si tiene insieme una società? Come si scongiurano le guerre, civili o tra Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare che la questione della povertà divenisse di nuovo mortifera. Lo Stato sociale che Beveridge propose nel 1942 su richiesta di Churchill fu voluto all´inizio da un liberale e un conservatore. Toccò al Premier laburista Attlee, nel dopoguerra, metterlo in pratica. Come disse Churchill, l´aspirazione era di «proteggere l´individuo dalla culla alla tomba». Secondo Michel Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle persone «che avevano attraversato una crisi economica e sociale gravissima», i governanti dissero in sostanza: «Ora vi chiediamo di farvi uccidere, ma vi promettiamo che, una volta fatto questo, conserverete il posto di lavoro sino alla fine dei vostri giorni» (Foucault, Nascita della biopolitica). Cinque erano i «giganti» che Beveridge riteneva nemici della Ricostruzione postbellica: Bisogno, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. Tutti insieme andavano abbattuti.
Quali sono i giganti contro cui oggi combattiamo, per ricostruirci? A sentire chi ci governa non sono quelli evocati da Beveridge. Non sono il disgregarsi della convivenza civile, la miseria, il crollo della democrazia. Sono la non-attuazione dell´austerità, l´»immediata reazione negativa» dei mercati. Perfino il voto democratico si tramuta in rischio, e infatti si diffida delle elezioni greche di aprile, e forse anche delle italiane. L´unico gigante che impaura è l´ozio, la pigrizia figlia del Welfare. L´essere umano non è guardato con apprensione: è guatato con sospetto, e sul sospetto non si edificano polizze né patti.
Per la verità anche Foucault denunciò la «coppia infernale sicurezza sociale-dipendenza», negli anni ‘80. Di fronte a una «domanda infinita», s´ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del mercato sulla società, era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un´ennesima utopia, lo si era visto negli anni ‘30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli anni di presa di coscienza sull´orlo del disastro. È il patto di guerra che stavolta manca, in Europa. È la memoria di quel che escogitarono uomini come Keynes, Beveridge, Roosevelt. È significativo che mentre l´Europa dimentica, l´America tenti – assai timidamente con Obama – di resuscitare Roosevelt e il New Deal.
Ci sono momenti nella vicenda europea dei debiti sovrani in cui si ha l´impressione, netta, che sulla pelle dei greci si stia compiendo un esperimento neo-liberista, una sorta di regolamento dei conti con Keynes, Beveridge, Roosevelt. Si vuol capire sin dove regge un paese, se impoverito e sfrondato di Stato sociale. È la tesi di Michael Hudson, economista dell´Università di Missouri a Kansas City: «La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore».
Con decenni di ritardo, molti economisti e politici sembrano riesumare l´illusione del 1989, quando Francis Fukuyama dichiarò finita la Storia. I patti sociali del dopoguerra non servono, ora che è naufragato lo stimolo che fu il comunismo. Quel che prevale è una sorta di spirito anti-conciliare: allo stesso modo in cui la Chiesa disattende sovente la sua stessa dottrina sociale (meno in Europa, più in America), gli Stati affossano la giustizia sociale offerta in pegno nel buio della guerra. Pensano di poter fare l´Europa così, sognando di sospendere lo Stato sociale e l´agorà democratica con le sue sempre possibili alternative. Non riusciranno, perché un´Europa siffatta è costruzione vana, dietro la quale non ci sono più comunità di uomini, ma cavalli dalle gambe spezzate.

La Repubblica 29.02.12

“Il welfare da salvare”, di Barbara Spinelli

Parlando dell´austerità che si impone a Atene, e delle riforme strutturali necessarie al ritorno della crescita, il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi è ricorso a un´immagine forte. In un´intervista al Wall Street Journal, il 23 febbraio, ha detto che quel che si profila in Grecia è un Nuovo Mondo. L´immagine è forte, e singolare, perché di Nuovi Mondi nessuno osa più molto parlare: tanti ne sono stati promessi, e le cose non sono andate bene.
Generalmente quando si annunciano Nuovi Mondi se ne seppelliscono di vecchi, o perché falliti o perché malgovernati. Goethe, ad esempio, era convinto che la Rivoluzione francese non avrebbe spazzato via i monarchi come «vecchie scope», se questi fossero stati veri monarchi. Lo stesso si può dire oggi dell´Europa, che versa in condizioni ancora peggiori di quei re: la corona non l´ha persa; non l´ha mai pienamente avuta. Non esiste un impero europeo che governi il caos. Non esistono partiti europeisti che si battano contro l´impotente potenza dei nazionalismi, letale per l´Unione. Proviamo dunque a vederlo e pensarlo, il Nuovo Mondo proposto non solo a Atene ma a tutti noi.
È un mondo che abolirà il vecchio regime, e ci libererà dei sepolcri imbiancati dentro cui giacciono divinità ancora onorate, ma ormai finite: «All´esterno paiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume», di ipocrisia e iniquità. Tra questi sepolcri viene additato il Welfare: cioè quel sistema di protezione universale dai rischi della malattia, del lavoro, della vecchiaia, conosciuto in Europa dopo il ‘45. «Lo Stato sociale è morto», annuncia il governatore della Bce, perché perde senso se non copre tutti i cittadini e se il lavoro resta duale: da una parte i giovani costretti alla flessibilità, dall´altra i protetti con salari basati sull´anzianità e non sulla produttività.
Naturalmente c´è del vero, nella denuncia del sepolcro-idolo. Lo Stato sociale fallisce, a partire dal momento in cui non mantiene più la parola. Ma perché dire che come promessa è morto, gone? Perché nessun accenno al fatto che, essendo un patrimonio essenziale dell´Europa, va riorganizzato, ma non ucciso? Possibile che debba emergere da un certificato di decesso il mirabile nuovo mondo che vedremo dopo austerità e liberalizzazioni? Il brave new world di Huxley – ricordiamocelo – è una distopia, un´utopia tutta negativa.
In realtà sono decenni che lo Stato sociale è sotto attacco, quasi fosse un lusso ormai insano. Più fondamentalmente è sotto attacco lo Stato: considerato esso stesso un rischio, da politici ed economisti abituati a nutrirsi di dottrine antistataliste. Su quel che accadrà di qui al Nuovo Mondo non ci si sofferma. Parole come povertà, penuria, declino demografico scompaiono, sostituite dal pulito, clinico eufemismo: «Ci sarà una contrazione». Torna in auge perfino la famosa certezza esibita dalla Thatcher: «Non c´è alternativa». Anche quest´affermazione è leggermente stupefacente, perché l´univoca ideologia inglese e americana degli anni ‘80 è finita infelicemente. Il mercato-padrone, che da solo si equilibra, s´è infranto nel 2007-2008. Oppure no?
Quel che conta è sapere cosa muore, e cosa si mette nel vuoto che resta. Muore quel che gli europei appresero nella crisi degli anni ‘30, e in due guerre. La prima cosa che scoprirono fu l´unione europea, il No alle rovinose sovranità assolute degli Stati-nazione. La seconda fu il Welfare, il No alla povertà che aveva colpito le genti negli anni ‘30, gettandole nelle dittature e nelle guerre. Si tratta di due polizze d´assicurazione, offerte ai popoli per far fronte ai sinistri del passato, e tra esse c´è un nesso. Basti ricordare che il principale ideatore del Welfare, William Beveridge, fu anche militante dell´Europa federale.
Come si tiene insieme una società? Come si scongiurano le guerre, civili o tra Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare che la questione della povertà divenisse di nuovo mortifera. Lo Stato sociale che Beveridge propose nel 1942 su richiesta di Churchill fu voluto all´inizio da un liberale e un conservatore. Toccò al Premier laburista Attlee, nel dopoguerra, metterlo in pratica. Come disse Churchill, l´aspirazione era di «proteggere l´individuo dalla culla alla tomba». Secondo Michel Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle persone «che avevano attraversato una crisi economica e sociale gravissima», i governanti dissero in sostanza: «Ora vi chiediamo di farvi uccidere, ma vi promettiamo che, una volta fatto questo, conserverete il posto di lavoro sino alla fine dei vostri giorni» (Foucault, Nascita della biopolitica). Cinque erano i «giganti» che Beveridge riteneva nemici della Ricostruzione postbellica: Bisogno, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. Tutti insieme andavano abbattuti.
Quali sono i giganti contro cui oggi combattiamo, per ricostruirci? A sentire chi ci governa non sono quelli evocati da Beveridge. Non sono il disgregarsi della convivenza civile, la miseria, il crollo della democrazia. Sono la non-attuazione dell´austerità, l´»immediata reazione negativa» dei mercati. Perfino il voto democratico si tramuta in rischio, e infatti si diffida delle elezioni greche di aprile, e forse anche delle italiane. L´unico gigante che impaura è l´ozio, la pigrizia figlia del Welfare. L´essere umano non è guardato con apprensione: è guatato con sospetto, e sul sospetto non si edificano polizze né patti.
Per la verità anche Foucault denunciò la «coppia infernale sicurezza sociale-dipendenza», negli anni ‘80. Di fronte a una «domanda infinita», s´ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del mercato sulla società, era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un´ennesima utopia, lo si era visto negli anni ‘30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli anni di presa di coscienza sull´orlo del disastro. È il patto di guerra che stavolta manca, in Europa. È la memoria di quel che escogitarono uomini come Keynes, Beveridge, Roosevelt. È significativo che mentre l´Europa dimentica, l´America tenti – assai timidamente con Obama – di resuscitare Roosevelt e il New Deal.
Ci sono momenti nella vicenda europea dei debiti sovrani in cui si ha l´impressione, netta, che sulla pelle dei greci si stia compiendo un esperimento neo-liberista, una sorta di regolamento dei conti con Keynes, Beveridge, Roosevelt. Si vuol capire sin dove regge un paese, se impoverito e sfrondato di Stato sociale. È la tesi di Michael Hudson, economista dell´Università di Missouri a Kansas City: «La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore».
Con decenni di ritardo, molti economisti e politici sembrano riesumare l´illusione del 1989, quando Francis Fukuyama dichiarò finita la Storia. I patti sociali del dopoguerra non servono, ora che è naufragato lo stimolo che fu il comunismo. Quel che prevale è una sorta di spirito anti-conciliare: allo stesso modo in cui la Chiesa disattende sovente la sua stessa dottrina sociale (meno in Europa, più in America), gli Stati affossano la giustizia sociale offerta in pegno nel buio della guerra. Pensano di poter fare l´Europa così, sognando di sospendere lo Stato sociale e l´agorà democratica con le sue sempre possibili alternative. Non riusciranno, perché un´Europa siffatta è costruzione vana, dietro la quale non ci sono più comunità di uomini, ma cavalli dalle gambe spezzate.

La Repubblica 29.02.12

"Un aiuto per inasprire le pene", di Carlo Federico Grosso

Il ministro Passera, nel corso di un’audizione in commissione Trasporti della Camera, ha affrontato ieri il tema dell’introduzione in Italia del delitto di «omicidio stradale» (un reato destinato a reprimere duramente chi commette omicidio mettendosi alla guida di un automezzo in condizione di ubriachezza od avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope).

Di fronte a un testo di legge-delega di riforma del Codice della strada che intenderebbe introdurre sanzioni pesanti nei confronti di chi uccide guidando in condizione di ebbrezza o avendo ingerito droghe (reclusione non inferiore nel minimo ad otto anni e nel massimo a diciotto anni, possibilità di arresto in fragranza, revoca definitiva della patente), il ministro ha espresso apprezzamento, ma, nel contempo, ha manifestato cautela. L’iniziativa è seria, ha detto, e merita riflessione. Occorre tuttavia fare attenzione a rispettare i parametri europei, evitare di introdurre divieti radicali che costituirebbero un «unicum» in Europa e rischierebbero di risolversi in un pregiudizio per la circolazione (ritiro perpetuo della patente), rispettare il criterio della «delega» che fa riferimento al «principio di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione nell’ambito dell’Unione europea».

Al di là delle preoccupazioni manifestate, è comunque importante che il governo abbia preso atto dell’esistenza del problema dei così detti «omicidi stradali» e si sia dichiarato disponibile ad affrontarlo. Da anni, infatti, alcuni tecnici del diritto ed una parte dell’opinione pubblica insistono sulla necessità di reprimere adeguatamente il fenomeno di chi si mette consapevolmente alla guida di un automezzo sapendo di essere ubriaco o di avere ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope e cagiona incidenti mortali.

Vediamo, innanzitutto, di chiarire qual è, oggi, lo stato della legislazione e quali orientamenti giurisprudenziali si sono imposti nelle aule di giustizia. Quando si verifica un incidente stradale che cagiona la morte di una persona, di regola viene applicata la norma che prevede l’omicidio colposo. La pena prevista per chi cagiona colposamente la morte guidando un automezzo in stato di ubriachezza o avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope è, oggi, dopo gli aumenti introdotti nel 2008, la reclusione da tre a dieci anni.

Nonostante l’aumento introdotto nel 2008, la repressione dell’omicidio causato in stato di ebbrezza o da chi ha ingerito sostanze stupefacenti è stata, in realtà, relativa. La pena minima prevista dalla legge è, come si è visto, di soli tre anni di reclusione; essa può essere ulteriormente diminuita se sono presenti circostanze attenuanti; ulteriori diminuzioni possono essere concesse in ragione del rito prescelto dall’imputato (giudizio abbreviato o patteggiamento).

In questa situazione è sovente accaduto che le pene concretamente irrogate siano state assai poco elevate ed agevole preda della sospensione condizionale. E’ vero che, proprio per evitare tale «marginalizzazione criminale», alcuni magistrati hanno cercato di inquadrare l’omicidio in questione nel ben più grave delitto di omicidio doloso, ritenendo che nei casi indicati fosse possibile riscontrare il c.d. «dolo eventuale» (chi si è messo alla guida di un’autovettura ubriaco o drogato avrebbe «accettato il rischio» di cagionare un evento mortale; tale evento dovrebbe essergli pertanto addebitato a titolo di «dolo eventuale», che si riscontra appunto quando un soggetto, pur non volendo cagionare la morte, «accetta il rischio» che essa si verifichi a cagione della condotta improvvida posta in essere).

Si è trattato, tuttavia, di tentativi sporadici. Non ha d’altronde senso fare dipendere dalla casualità dell’interpretazione giuridica specificamente seguita conseguenze così rilevanti quali sono l’applicazione dell’omicidio colposo ovvero di quello doloso (punito, si badi, con la reclusione non inferiore ad anni ventuno). Di qui la forte spinta ad introdurre, appunto, un autonomo reato di omicidio stradale, punito adeguatamente (reclusione da otto a diciotto anni) ed in grado di sottrarsi ad ogni casualità interpretativa.

Bene ha fatto, tuttavia, il ministro Passera a richiedere comunque una riflessione, soprattutto alla luce della (doverosa) armonizzazione europea della materia. Nei Paesi europei, sebbene non sia di regola previsto un delitto autonomo di omicidio stradale, e si utilizzi normalmente lo strumento dell’omicidio colposo, la repressione di chi cagiona incidenti guidando in condizione di ebbrezza o avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope è comunque più dura di quanto lo sia oggi in Italia. Un incremento delle nostre pene non introdurrebbe pertanto, sicuramente, di per sé disarmonia.

Non potrebbe essere, d’altronde, l’Italia, con l’introduzione del menzionato delitto autonomo di omicidio stradale, ad aprire una strada che potrebbe essere ragionevolmente seguita, presto, da altri Paesi?

La Stampa 29.02.12

“Un aiuto per inasprire le pene”, di Carlo Federico Grosso

Il ministro Passera, nel corso di un’audizione in commissione Trasporti della Camera, ha affrontato ieri il tema dell’introduzione in Italia del delitto di «omicidio stradale» (un reato destinato a reprimere duramente chi commette omicidio mettendosi alla guida di un automezzo in condizione di ubriachezza od avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope).

Di fronte a un testo di legge-delega di riforma del Codice della strada che intenderebbe introdurre sanzioni pesanti nei confronti di chi uccide guidando in condizione di ebbrezza o avendo ingerito droghe (reclusione non inferiore nel minimo ad otto anni e nel massimo a diciotto anni, possibilità di arresto in fragranza, revoca definitiva della patente), il ministro ha espresso apprezzamento, ma, nel contempo, ha manifestato cautela. L’iniziativa è seria, ha detto, e merita riflessione. Occorre tuttavia fare attenzione a rispettare i parametri europei, evitare di introdurre divieti radicali che costituirebbero un «unicum» in Europa e rischierebbero di risolversi in un pregiudizio per la circolazione (ritiro perpetuo della patente), rispettare il criterio della «delega» che fa riferimento al «principio di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione nell’ambito dell’Unione europea».

Al di là delle preoccupazioni manifestate, è comunque importante che il governo abbia preso atto dell’esistenza del problema dei così detti «omicidi stradali» e si sia dichiarato disponibile ad affrontarlo. Da anni, infatti, alcuni tecnici del diritto ed una parte dell’opinione pubblica insistono sulla necessità di reprimere adeguatamente il fenomeno di chi si mette consapevolmente alla guida di un automezzo sapendo di essere ubriaco o di avere ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope e cagiona incidenti mortali.

Vediamo, innanzitutto, di chiarire qual è, oggi, lo stato della legislazione e quali orientamenti giurisprudenziali si sono imposti nelle aule di giustizia. Quando si verifica un incidente stradale che cagiona la morte di una persona, di regola viene applicata la norma che prevede l’omicidio colposo. La pena prevista per chi cagiona colposamente la morte guidando un automezzo in stato di ubriachezza o avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope è, oggi, dopo gli aumenti introdotti nel 2008, la reclusione da tre a dieci anni.

Nonostante l’aumento introdotto nel 2008, la repressione dell’omicidio causato in stato di ebbrezza o da chi ha ingerito sostanze stupefacenti è stata, in realtà, relativa. La pena minima prevista dalla legge è, come si è visto, di soli tre anni di reclusione; essa può essere ulteriormente diminuita se sono presenti circostanze attenuanti; ulteriori diminuzioni possono essere concesse in ragione del rito prescelto dall’imputato (giudizio abbreviato o patteggiamento).

In questa situazione è sovente accaduto che le pene concretamente irrogate siano state assai poco elevate ed agevole preda della sospensione condizionale. E’ vero che, proprio per evitare tale «marginalizzazione criminale», alcuni magistrati hanno cercato di inquadrare l’omicidio in questione nel ben più grave delitto di omicidio doloso, ritenendo che nei casi indicati fosse possibile riscontrare il c.d. «dolo eventuale» (chi si è messo alla guida di un’autovettura ubriaco o drogato avrebbe «accettato il rischio» di cagionare un evento mortale; tale evento dovrebbe essergli pertanto addebitato a titolo di «dolo eventuale», che si riscontra appunto quando un soggetto, pur non volendo cagionare la morte, «accetta il rischio» che essa si verifichi a cagione della condotta improvvida posta in essere).

Si è trattato, tuttavia, di tentativi sporadici. Non ha d’altronde senso fare dipendere dalla casualità dell’interpretazione giuridica specificamente seguita conseguenze così rilevanti quali sono l’applicazione dell’omicidio colposo ovvero di quello doloso (punito, si badi, con la reclusione non inferiore ad anni ventuno). Di qui la forte spinta ad introdurre, appunto, un autonomo reato di omicidio stradale, punito adeguatamente (reclusione da otto a diciotto anni) ed in grado di sottrarsi ad ogni casualità interpretativa.

Bene ha fatto, tuttavia, il ministro Passera a richiedere comunque una riflessione, soprattutto alla luce della (doverosa) armonizzazione europea della materia. Nei Paesi europei, sebbene non sia di regola previsto un delitto autonomo di omicidio stradale, e si utilizzi normalmente lo strumento dell’omicidio colposo, la repressione di chi cagiona incidenti guidando in condizione di ebbrezza o avendo ingerito sostanze stupefacenti o psicotrope è comunque più dura di quanto lo sia oggi in Italia. Un incremento delle nostre pene non introdurrebbe pertanto, sicuramente, di per sé disarmonia.

Non potrebbe essere, d’altronde, l’Italia, con l’introduzione del menzionato delitto autonomo di omicidio stradale, ad aprire una strada che potrebbe essere ragionevolmente seguita, presto, da altri Paesi?

La Stampa 29.02.12

TAV, Bersani: "Si torni al confronto civile. Necessario un pronunciamento del Parlamento"

“In queste ore drammatiche per la vita di una persona, ci sono movimenti che hanno preso una piega non accettabile”. Così il Segretario del PD Pier Luigi Bersani ha espresso preoccupazione per l’acuirsi dello scontro sulla TAV ed ha assicurato che ” il PD farà una vigilanza democratica per evitare che la protesta sfoci in violenza. Si torni a un confronto civile – ha esortato – perchè si può essere contrari ad un’opera che pure è stata decisa con tutti i passaggi democratici, ma non si può cedere a gesti che aprano la strada alla violenza”.

Nel pomeriggio il Segretario ha incontrato l’on. Stefano Esposito del PD e gli ha espresso la solidarietà personale e del partito per gli attacchi che ha subito per aver difeso il percorso democratico che ha portato alle decisioni relative alla TAV.
Nel corso del colloquio Bersani ed Esposito hanno condiviso l’opinione che sia “urgente e necessario un pronunciamento del Parlamento, ricordando, in proposito, che il PD ha presentato una mozione parlamentare per rendere immediatamente disponibili le risorse da destinare al piano di sviluppo della Val di Susa e che il Gruppo parlamentare ha esplicitamente chiesto la calendarizzazione urgente per la discussione parlamentare su questo testo”.

Il Segretario nazionale del PD ha infine espresso il proprio apprezzamento per l’operato e per le posizioni espresse in questi giorni dal sindaco di Torino, Piero Fassino, e dal presidente della provincia di Torino, Antonio Saitta.

www.partitodemocratico.it

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“L´asimmetria delle ragioni”, di ADRIANO SOFRI
La gran maggioranza della gente della Val di Susa, con la miglior conoscenza di causa, e molti nel resto d´Italia, sono persuasi che la Tav sia un gravissimo errore. E la manifestazione di sabato scorso ne ha dato un´impressionante conferma. Sono convinti che sia un gravissimo errore non solo per la devastazione che provocherà a quei luoghi, ma rispetto ai suoi stessi propositi economici e commerciali. Dunque il problema drammatico che si trovano ad affrontare è questo: che cosa è giusto fare quando si crede fermamente di avere ragione, e si sente che il proprio avversario, dalla parte del torto – in buona o cattiva fede – è disposto a tutto pur di non smettere la strada intrapresa? Si può obiettare che il problema sia reciproco, e che il governo e lo Stato, convinti di trovarsi dalla parte della ragione, debbano loro porsi il problema della tenacia intransigente di una cittadinanza. Ma questa simmetria, al punto cui siamo, è soltanto apparente. Intanto, per la sproporzione delle forze. Ma soprattutto perché tra i fautori della Tav prevalgono da tempo argomenti estrinseci e, per così dire, di convenienze: non si può mancare, per l´avversione di una particolare popolazione, a decisioni prese e confermate ripetutamente da istituzioni che rappresentano tutto il popolo italiano, e ancora meno si può mancare a impegni europei.
Fra gli avvertimenti più pressanti c´è la notizia che “già si scava” sul versante francese. Anche qui, come sull´intera crisi, una specie di ineluttabilità, di inesorabilità da fatto compiuto, vuole pesare sulle obiezioni di merito di quella cittadinanza. E alcune delle più rilevanti obiezioni di merito sono il frutto del lunghissimo tempo trascorso fra il progetto iniziale della Tav e la situazione attuale, così cambiata da inficiare quelle motivazioni. Se si stesse “serenamente” ai fatti, bisognerebbe riconoscere – così pare a me, che sono un orecchiatore non specialista, e però la sorte di tante vertenze locali e localiste avrebbe bisogno di arrivare all´orecchio di non specialisti e non locali – che i fautori della Tav appartengono a quel partito trasversale e ingordo che si chiama il Partito Preso. Il loro avverbio è: Ormai. Ormai, non si può che continuare. Lo ripetono, come per convincersene meglio. Lo direbbero, con la stessa inesorabilità, a proposito del nucleare, se non ci fosse stato l´accidente di Fukushima, e aspettano solo di ricominciare. Ammesso che il progetto originario fosse fondato (la gente della Valle lo negò da subito) è passato da allora il tempo di una generazione, e l´impresa promette adesso di far dilapidare denaro – una parte, perché di un´altra non si sa da dove possa arrivare – ; di far viaggiare a grande velocità, e a km 5 mila piuttosto che a km zero, merci che anche loro non ci sono; a sacrificare ancora al feticcio dei Grandi Lavori, a scapito di lavori piccoli che riparerebbero Pompei e arginerebbero il Bisagno e farebbero andare in treno le persone da Catania a Comiso; e infine di assicurare a qualunque governo un focolaio di scontro micidiale.
Qualcuno ammonisce amaramente il movimento anti-Tav a rendersi conto che la sua è una partita persa, e a tirarne le conseguenze. Dubito che l´argomento sia efficace. Certo, a questo punto gli argomenti efficaci sembrano tutti venir meno, e due partiti presi affrontarsi in una sfida senza mediazione. Soprattutto, per chi sente di aver ragione – e gli abitanti della Val di Susa lo sentono così fortemente – la sensazione di una battaglia impossibile non è un deterrente adeguato, anzi: ci sono cause perse che proprio per questo spingono a battersi senza riserve. Dunque è difficile che sia il realismo a scongiurare il peggio, e almeno questo genere di realismo. Quanto al dialogo invocato ancora ieri dal ministro dell´Interno, a ridosso della tragica caduta di un militante anarchico, è augurio spuntato, su un tema che non prevede più mediazioni e che esige di schierarsi per un sì o per un no.
Dunque si torna a quella domanda: che cosa è giusto fare quando si sa e si crede di avere ragione, e ci si accorge di trovarsi in un vicolo cieco? La nonviolenza è nata per rispondere a questa domanda ricorrente, ma la nonviolenza è una scelta morale e un metodo, non una garanzia di vincere. Nello scontro sulla Tav, e nelle sue molteplici diramazioni nel resto d´Italia, non è affatto detto che la nonviolenza prevalga, nei comportamenti del movimento e ancor meno in quelli dell´ordine pubblico; ed è invece prevedibile una catena di azioni e reazioni incontrollabili da chiunque, e manipolabili da molti. Il partito preso si nutre di frasi fatte: “dovranno passare sui nostri cadaveri”. Le frasi sanno scivolare fino ai loro fatti, e l´abnegazione disastrosa del “passeranno sui nostri cadaveri” al disastro del “passeremo sui loro cadaveri”.
Si rifà un gran parlare, in questi giorni, dell´incombenza di morti che ci scappano e morti ammazzati. Vogliono essere scongiuri, diventano facilmente profezie che si autoadempiono. Sul traliccio dell´altroieri è toccato a uno dei No-Tav. Non aveva fatto niente di violento, si era arrampicato più su della sua bandiera. Qualunque parte vi abbia avuto la polizia, questa era la circostanza. La militarizzazione della valle ha pochi paragoni, dall´antica rivolta di Reggio Calabria. Anche di questo l´intervento di polizia fra domenica e lunedì ha dato un´impressionante conferma. Non so come la cittadinanza della Val di Susa possa impiegare una responsabilità che le autorità mostrano di non avere: di non riuscire ad avere, anche se lo desiderassero davvero, inchiodate come si sono al loro ruolo. Penso che ci sia un legame, solo in apparenza paradossale, fra la convinzione di avere ragione e di battersi non solo per sé e per il proprio cortile, ma anche per gli altri e per le generazioni a venire, e il coraggio di uscire dall´angolo, di proclamare un disarmo unilaterale e farne il terreno nuovo sul quale disarmare l´oltranzismo avversario. Di far scivolare il No-Tav, piuttosto che verso il corpo a corpo, verso l´irriducibile “Preferirei di no” dello scrivano Bartleby. Di reinventare le risorse della diserzione. Non so se sia possibile. So che comunque non lo sarebbe, se non si spostasse la testimonianza dal cantiere dei fantasmi ai cittadini che la Val di Susa la conoscono sì e no in cartolina, e anche di quelli che non sono militanti di niente, se non della democrazia.

La Repubblica 29.02.12

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“Il dilemma della protesta, di PAOLO GRISERI
Due giorni per decidere, due giorni per scegliere quale sarà la faccia del movimento No Tav dopo i fatti di Chianocco. Due giorni e il timore di non riuscire più ad avvicinarsi al cantiere della Maddalena. Un cantiere ora sì diventato una fortezza più difficile da espugnare rispetto a pochi giorni fa. Perché questo, subito dopo il dramma umano di Luca Abbà, è il fatto nuovo: la recinzione del cantiere. Un passo al quale nell´inverno del 2005 – quello degli scontri di Venaus e del popolo No Tav che riconquista l´area dove si sarebbe dovuta scavare la prima galleria – non si era mai arrivati. Allora i lavori si erano fermati prima. Oggi, anche dopo l´incidente, sono proseguiti e la recinzione è stata eretta. Quale sarà la risposta? La frase rivelatrice la pronuncia ancora una volta Alberto Perino, leader dell´ala valligiana, all´assemblea serale convocata alla rampa autostradale di Chianocco, nuovo luogo simbolo della protesta. «Siamo pronti a organizzare flash mob e altre azioni improvvise. Per dare fastidio a chi ci considera un parco giochi o una riserva indiana da spremere». Il problema è evitare la riserva indiana, l´isolamento. Trovare solidarietà, sollecitarla in tutta Italia.
«Alla Maddalena prima o poi torneremo», dice un militante all´assemblea serale. Ma come, con quali mezzi? La giornata del movimento è in questo dilemma sul futuro. C´è prima un problema più urgente da risolvere: la difficile traversata fino al fine settimana. La notte tra lunedì e martedì è stata di scontri lungo l´autostrada e nei paesi. La mattinata di ieri è stato un lungo fronteggiarsi con la polizia dall´altra parte del guard rail. A mezzogiorno Perino si collega a Radio Blackout, l´emittente di area anarchica, e lancia l´appello: «Invito tutti quelli che possono a salire a Chianocco e a darci il cambio». Perché durante la settimana il popolo No-Tav è un torrente, prosciugato dai molti che devono andare a lavorare o a scuola. Torna fiume solo nel fine settimana. Ma oggi è martedì. Si riuscirà a resistere per altri quattro giorni?
Perino cerca di sollevare gli animi: «È trenta ore che siamo qui sulla carreggiata, il più lungo blocco del traffico nella storia del movimento». Ma le truppe sono stanche. Bisogna arrivare almeno alla serata, quando chiudono gli uffici. L´appuntamento per i riservisti è alla Gardenia Blu di Rivoli. Una mail che circola nel pomeriggio annuncia «un aperitivo alle 17» e successivamente la partenza «per Bussoleno». In realtà alle 20 una parte delle truppe di rincalzo riesce ad occupare l´autostrada a Rivoli, uno dei nodi della tangenziale torinese nell´ora di massimo traffico. E qui si verifica un altro episodio poco rassicurante per il movimento. Gli automobilisti non ci stanno a sacrificare una parte del loro tempo per la causa. Si accendono animate discussioni, alla fine la mediazione è nella corsia di scorrimento che i No-Tav lasciano libera. Non è un blocco, diventa un rallentamento.
Anche i 170 camionisti che stanno in fila lungo la statale 25 prima del blocco hanno difficoltà a manifestare solidarietà: «Sono partito da Pesaro e devo andare a Parigi. Siamo lavoratori anche noi, rispettateci», dice Giuseppe. Si possono avere dubbi sul fatto che i camionisti bloccati da ore su una statale siano il termometro del consenso sociale. Ma come giudicare la reazione di un dipendente dell´ufficio tecnico del comune di Salbertrand? Dopo una notte di devastazioni sbotta: «Anche io sono contro il Tav. Ma la prossima volta moliamo il motosega».
Questo è il clima, i primi segnali di cedimento alla stanchezza, le prime difficoltà di rapporto con una parte della popolazione locale. Si può reggere così altri quattro giorni? E, soprattutto, come protestare nel fine settimana, dove portare l´esercito sabato pomeriggio? In queste ore le diverse anime del movimento discutono. L´area dell´autonomia preferirebbe tornare all´obiettivo principale, il cantiere della Maddalena a Chiomonte, quello che è diventato una sorta di fortezza. Una scelta di attacco: inevitabilmente l´arrivo di migliaia di persone a ridosso delle recinzioni scatenerebbe una guerriglia simile a quella del luglio scorso. Con risultati analoghi: centinaia di feriti e gli arresti. L´area anarchica, quella più vicina a Luca Abbà, vorrebbe invece scendere a Torino, nel centro. Anche in questo caso sarebbe difficile prevedere l´esito di un corteo arrabbiato nel cuore della città. C´è una terza via? Una soluzione che mantenga alto il livello della protesta senza alienare al movimento quelle simpatie che ha ancora in questi giorni? Fino a ieri sera nei capannelli lungo la rampa dell´autostrada quella soluzione non era ancora stata trovata.

La Repubblica 29.02.12

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“Tav, parliamo solo del come”, di Alessandro Bianchi
È certamente difficile parlare della vicenda Tav mentre una persona è in fin di vita a causa degli incidenti che sono avvenuti in questi giorni.
Il primo pensiero e la prima preoccupazione non possono che andare a quella persona, unitamente all’auspicio che il confronto delle idee e delle posizioni, per quanto duro e intransigente, non debba più avere conseguenze simili. Ciò detto vedo che sulla questione della linea ferroviaria ad alta velocità/capacità Torino- Lione, si continuano a dire (e fare) cose a volte demagogiche, a volte sbagliate, a volte semplicemente prive di senso. Ne indico due tra quelle ripetute più di frequente in questi giorni.
La prima è che si tratta di un’opera inutile e dannosa, dunque non va fatta. Per quel che riguarda l’inutilità, è un giudizio sbagliato alla radice. Dopo infinite discussioni e valutazioni in sedi nazionali e internazionali, è ormai da tempo maturato il convincimento che si tratta di un opera essenziale all’interno del cosiddetto “Corridoio 5”, quello che collegando Lisbona con Kiev costituirà una dei rami portanti della rete ferroviaria europea per i prossimi cento anni.
Certo si può decidere di non far passare questa direttrice lungo la linea Torino-Trieste, favorendo l’alternativa di percorso al di là delle Alpi. Ma bisogna essere consapevoli che questo significa autoescludersi dal sistema delle relazioni e degli scambi commerciali dell’Europa futura. Una scelta miope e da tempo scartata.
Quanto alla dannosità, vorrei ricordare che durante il governo Prodi II è stato fatto (anche da chi scrive) un intenso lavoro – in continuo contatto con i rappresentanti delle comunità locali – proprio per eliminare gli aspetti di maggiore impatto connessi all’opera. Da quel lavoro sono derivate notevoli modifiche di tracciato rispetto a quello previsto dal progetto iniziale di Fs. Con l’attuale tracciato – e con opportuni interventi di inserimento ambientale – l’opera risulterà sostenibile al pari di molte opere analoghe nel resto d’Europa.
Vorrei poi far notare a chi propone di usare l’attuale ferrovia come sede dell’alta velocità/capacità, che questo significherebbe vedere passare nei centri abitati attraversati da quella ferrovia, un treno circa ogni sette minuti: un impatto niente male.
Il secondo argomento che si sente ripetere è che le manifestazioni in corso sono espressione di un sentire diffuso tra la popolazione della vallata interessata, un sentire al quale bisogna dare ascolto, una popolazione con cui si deve dialogare ascoltandone le ragioni. Niente di più giusto, a patto di escludere dall’ascolto e dal dialogo quelle componenti che nulla hanno a che vedere con i valligiani e che, per lo più, sono quelle che alimentano le manifestazioni di violenza. Fatto questo nessuno può fingere di non sapere che questo ascolto e questo dialogo è proseguito per anni e in molte sedi, sia a livello centrale che locale, soprattutto grazie all’imponente lavoro svolto dall’Osservatorio diretto dall’architetto Virano, di cui sono testimonianza gli scritti e gli studi che tutti possono consultare (anche on line) e dai quali emerge un ascolto e un dialogo con la popolazione e le amminstrazioni locali che, per durata e per ampiezza, non ha eguali in circostanze similari.
Questo lavoro sembra essere stato rimosso e, come fosse un gioco, si tornano a chiedere cose già fatte e percorsi già praticati. Ma questo non è un gioco, è una cosa molto seria che sta compromettendo la credibilità del paese in ambito europeo, sta mettendo a rischio finanziamenti ingenti e, per tornare a quanto già detto, può tagliare fuori l’Italia dalla rete delle relazioni tra l’Ovest e l’Est del continente europeo. Un problema, dunque, di dimensione nazionale non valligiana.
Prendendo atto di tutto questo si deve ancora discutere con la popolazione locale? Certamente sì, perchè il dialogo non deve essere interrotto e, anzi, si dovrà prolungare fino al completamento dell’opera. Ma bisogna farlo sapendo che il dialogo può riguardare il “come” realizzare al meglio l’opera, non il “se” realizzarla che non è più un tema in discussione e che tutti, con un minimo di onestà intellettuale, dovrebbero evitare di riproporre.

da Europa Quotidiano 29.02.12

TAV, Bersani: “Si torni al confronto civile. Necessario un pronunciamento del Parlamento”

“In queste ore drammatiche per la vita di una persona, ci sono movimenti che hanno preso una piega non accettabile”. Così il Segretario del PD Pier Luigi Bersani ha espresso preoccupazione per l’acuirsi dello scontro sulla TAV ed ha assicurato che ” il PD farà una vigilanza democratica per evitare che la protesta sfoci in violenza. Si torni a un confronto civile – ha esortato – perchè si può essere contrari ad un’opera che pure è stata decisa con tutti i passaggi democratici, ma non si può cedere a gesti che aprano la strada alla violenza”.

Nel pomeriggio il Segretario ha incontrato l’on. Stefano Esposito del PD e gli ha espresso la solidarietà personale e del partito per gli attacchi che ha subito per aver difeso il percorso democratico che ha portato alle decisioni relative alla TAV.
Nel corso del colloquio Bersani ed Esposito hanno condiviso l’opinione che sia “urgente e necessario un pronunciamento del Parlamento, ricordando, in proposito, che il PD ha presentato una mozione parlamentare per rendere immediatamente disponibili le risorse da destinare al piano di sviluppo della Val di Susa e che il Gruppo parlamentare ha esplicitamente chiesto la calendarizzazione urgente per la discussione parlamentare su questo testo”.

Il Segretario nazionale del PD ha infine espresso il proprio apprezzamento per l’operato e per le posizioni espresse in questi giorni dal sindaco di Torino, Piero Fassino, e dal presidente della provincia di Torino, Antonio Saitta.

www.partitodemocratico.it

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“L´asimmetria delle ragioni”, di ADRIANO SOFRI
La gran maggioranza della gente della Val di Susa, con la miglior conoscenza di causa, e molti nel resto d´Italia, sono persuasi che la Tav sia un gravissimo errore. E la manifestazione di sabato scorso ne ha dato un´impressionante conferma. Sono convinti che sia un gravissimo errore non solo per la devastazione che provocherà a quei luoghi, ma rispetto ai suoi stessi propositi economici e commerciali. Dunque il problema drammatico che si trovano ad affrontare è questo: che cosa è giusto fare quando si crede fermamente di avere ragione, e si sente che il proprio avversario, dalla parte del torto – in buona o cattiva fede – è disposto a tutto pur di non smettere la strada intrapresa? Si può obiettare che il problema sia reciproco, e che il governo e lo Stato, convinti di trovarsi dalla parte della ragione, debbano loro porsi il problema della tenacia intransigente di una cittadinanza. Ma questa simmetria, al punto cui siamo, è soltanto apparente. Intanto, per la sproporzione delle forze. Ma soprattutto perché tra i fautori della Tav prevalgono da tempo argomenti estrinseci e, per così dire, di convenienze: non si può mancare, per l´avversione di una particolare popolazione, a decisioni prese e confermate ripetutamente da istituzioni che rappresentano tutto il popolo italiano, e ancora meno si può mancare a impegni europei.
Fra gli avvertimenti più pressanti c´è la notizia che “già si scava” sul versante francese. Anche qui, come sull´intera crisi, una specie di ineluttabilità, di inesorabilità da fatto compiuto, vuole pesare sulle obiezioni di merito di quella cittadinanza. E alcune delle più rilevanti obiezioni di merito sono il frutto del lunghissimo tempo trascorso fra il progetto iniziale della Tav e la situazione attuale, così cambiata da inficiare quelle motivazioni. Se si stesse “serenamente” ai fatti, bisognerebbe riconoscere – così pare a me, che sono un orecchiatore non specialista, e però la sorte di tante vertenze locali e localiste avrebbe bisogno di arrivare all´orecchio di non specialisti e non locali – che i fautori della Tav appartengono a quel partito trasversale e ingordo che si chiama il Partito Preso. Il loro avverbio è: Ormai. Ormai, non si può che continuare. Lo ripetono, come per convincersene meglio. Lo direbbero, con la stessa inesorabilità, a proposito del nucleare, se non ci fosse stato l´accidente di Fukushima, e aspettano solo di ricominciare. Ammesso che il progetto originario fosse fondato (la gente della Valle lo negò da subito) è passato da allora il tempo di una generazione, e l´impresa promette adesso di far dilapidare denaro – una parte, perché di un´altra non si sa da dove possa arrivare – ; di far viaggiare a grande velocità, e a km 5 mila piuttosto che a km zero, merci che anche loro non ci sono; a sacrificare ancora al feticcio dei Grandi Lavori, a scapito di lavori piccoli che riparerebbero Pompei e arginerebbero il Bisagno e farebbero andare in treno le persone da Catania a Comiso; e infine di assicurare a qualunque governo un focolaio di scontro micidiale.
Qualcuno ammonisce amaramente il movimento anti-Tav a rendersi conto che la sua è una partita persa, e a tirarne le conseguenze. Dubito che l´argomento sia efficace. Certo, a questo punto gli argomenti efficaci sembrano tutti venir meno, e due partiti presi affrontarsi in una sfida senza mediazione. Soprattutto, per chi sente di aver ragione – e gli abitanti della Val di Susa lo sentono così fortemente – la sensazione di una battaglia impossibile non è un deterrente adeguato, anzi: ci sono cause perse che proprio per questo spingono a battersi senza riserve. Dunque è difficile che sia il realismo a scongiurare il peggio, e almeno questo genere di realismo. Quanto al dialogo invocato ancora ieri dal ministro dell´Interno, a ridosso della tragica caduta di un militante anarchico, è augurio spuntato, su un tema che non prevede più mediazioni e che esige di schierarsi per un sì o per un no.
Dunque si torna a quella domanda: che cosa è giusto fare quando si sa e si crede di avere ragione, e ci si accorge di trovarsi in un vicolo cieco? La nonviolenza è nata per rispondere a questa domanda ricorrente, ma la nonviolenza è una scelta morale e un metodo, non una garanzia di vincere. Nello scontro sulla Tav, e nelle sue molteplici diramazioni nel resto d´Italia, non è affatto detto che la nonviolenza prevalga, nei comportamenti del movimento e ancor meno in quelli dell´ordine pubblico; ed è invece prevedibile una catena di azioni e reazioni incontrollabili da chiunque, e manipolabili da molti. Il partito preso si nutre di frasi fatte: “dovranno passare sui nostri cadaveri”. Le frasi sanno scivolare fino ai loro fatti, e l´abnegazione disastrosa del “passeranno sui nostri cadaveri” al disastro del “passeremo sui loro cadaveri”.
Si rifà un gran parlare, in questi giorni, dell´incombenza di morti che ci scappano e morti ammazzati. Vogliono essere scongiuri, diventano facilmente profezie che si autoadempiono. Sul traliccio dell´altroieri è toccato a uno dei No-Tav. Non aveva fatto niente di violento, si era arrampicato più su della sua bandiera. Qualunque parte vi abbia avuto la polizia, questa era la circostanza. La militarizzazione della valle ha pochi paragoni, dall´antica rivolta di Reggio Calabria. Anche di questo l´intervento di polizia fra domenica e lunedì ha dato un´impressionante conferma. Non so come la cittadinanza della Val di Susa possa impiegare una responsabilità che le autorità mostrano di non avere: di non riuscire ad avere, anche se lo desiderassero davvero, inchiodate come si sono al loro ruolo. Penso che ci sia un legame, solo in apparenza paradossale, fra la convinzione di avere ragione e di battersi non solo per sé e per il proprio cortile, ma anche per gli altri e per le generazioni a venire, e il coraggio di uscire dall´angolo, di proclamare un disarmo unilaterale e farne il terreno nuovo sul quale disarmare l´oltranzismo avversario. Di far scivolare il No-Tav, piuttosto che verso il corpo a corpo, verso l´irriducibile “Preferirei di no” dello scrivano Bartleby. Di reinventare le risorse della diserzione. Non so se sia possibile. So che comunque non lo sarebbe, se non si spostasse la testimonianza dal cantiere dei fantasmi ai cittadini che la Val di Susa la conoscono sì e no in cartolina, e anche di quelli che non sono militanti di niente, se non della democrazia.

La Repubblica 29.02.12

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“Il dilemma della protesta, di PAOLO GRISERI
Due giorni per decidere, due giorni per scegliere quale sarà la faccia del movimento No Tav dopo i fatti di Chianocco. Due giorni e il timore di non riuscire più ad avvicinarsi al cantiere della Maddalena. Un cantiere ora sì diventato una fortezza più difficile da espugnare rispetto a pochi giorni fa. Perché questo, subito dopo il dramma umano di Luca Abbà, è il fatto nuovo: la recinzione del cantiere. Un passo al quale nell´inverno del 2005 – quello degli scontri di Venaus e del popolo No Tav che riconquista l´area dove si sarebbe dovuta scavare la prima galleria – non si era mai arrivati. Allora i lavori si erano fermati prima. Oggi, anche dopo l´incidente, sono proseguiti e la recinzione è stata eretta. Quale sarà la risposta? La frase rivelatrice la pronuncia ancora una volta Alberto Perino, leader dell´ala valligiana, all´assemblea serale convocata alla rampa autostradale di Chianocco, nuovo luogo simbolo della protesta. «Siamo pronti a organizzare flash mob e altre azioni improvvise. Per dare fastidio a chi ci considera un parco giochi o una riserva indiana da spremere». Il problema è evitare la riserva indiana, l´isolamento. Trovare solidarietà, sollecitarla in tutta Italia.
«Alla Maddalena prima o poi torneremo», dice un militante all´assemblea serale. Ma come, con quali mezzi? La giornata del movimento è in questo dilemma sul futuro. C´è prima un problema più urgente da risolvere: la difficile traversata fino al fine settimana. La notte tra lunedì e martedì è stata di scontri lungo l´autostrada e nei paesi. La mattinata di ieri è stato un lungo fronteggiarsi con la polizia dall´altra parte del guard rail. A mezzogiorno Perino si collega a Radio Blackout, l´emittente di area anarchica, e lancia l´appello: «Invito tutti quelli che possono a salire a Chianocco e a darci il cambio». Perché durante la settimana il popolo No-Tav è un torrente, prosciugato dai molti che devono andare a lavorare o a scuola. Torna fiume solo nel fine settimana. Ma oggi è martedì. Si riuscirà a resistere per altri quattro giorni?
Perino cerca di sollevare gli animi: «È trenta ore che siamo qui sulla carreggiata, il più lungo blocco del traffico nella storia del movimento». Ma le truppe sono stanche. Bisogna arrivare almeno alla serata, quando chiudono gli uffici. L´appuntamento per i riservisti è alla Gardenia Blu di Rivoli. Una mail che circola nel pomeriggio annuncia «un aperitivo alle 17» e successivamente la partenza «per Bussoleno». In realtà alle 20 una parte delle truppe di rincalzo riesce ad occupare l´autostrada a Rivoli, uno dei nodi della tangenziale torinese nell´ora di massimo traffico. E qui si verifica un altro episodio poco rassicurante per il movimento. Gli automobilisti non ci stanno a sacrificare una parte del loro tempo per la causa. Si accendono animate discussioni, alla fine la mediazione è nella corsia di scorrimento che i No-Tav lasciano libera. Non è un blocco, diventa un rallentamento.
Anche i 170 camionisti che stanno in fila lungo la statale 25 prima del blocco hanno difficoltà a manifestare solidarietà: «Sono partito da Pesaro e devo andare a Parigi. Siamo lavoratori anche noi, rispettateci», dice Giuseppe. Si possono avere dubbi sul fatto che i camionisti bloccati da ore su una statale siano il termometro del consenso sociale. Ma come giudicare la reazione di un dipendente dell´ufficio tecnico del comune di Salbertrand? Dopo una notte di devastazioni sbotta: «Anche io sono contro il Tav. Ma la prossima volta moliamo il motosega».
Questo è il clima, i primi segnali di cedimento alla stanchezza, le prime difficoltà di rapporto con una parte della popolazione locale. Si può reggere così altri quattro giorni? E, soprattutto, come protestare nel fine settimana, dove portare l´esercito sabato pomeriggio? In queste ore le diverse anime del movimento discutono. L´area dell´autonomia preferirebbe tornare all´obiettivo principale, il cantiere della Maddalena a Chiomonte, quello che è diventato una sorta di fortezza. Una scelta di attacco: inevitabilmente l´arrivo di migliaia di persone a ridosso delle recinzioni scatenerebbe una guerriglia simile a quella del luglio scorso. Con risultati analoghi: centinaia di feriti e gli arresti. L´area anarchica, quella più vicina a Luca Abbà, vorrebbe invece scendere a Torino, nel centro. Anche in questo caso sarebbe difficile prevedere l´esito di un corteo arrabbiato nel cuore della città. C´è una terza via? Una soluzione che mantenga alto il livello della protesta senza alienare al movimento quelle simpatie che ha ancora in questi giorni? Fino a ieri sera nei capannelli lungo la rampa dell´autostrada quella soluzione non era ancora stata trovata.

La Repubblica 29.02.12

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“Tav, parliamo solo del come”, di Alessandro Bianchi
È certamente difficile parlare della vicenda Tav mentre una persona è in fin di vita a causa degli incidenti che sono avvenuti in questi giorni.
Il primo pensiero e la prima preoccupazione non possono che andare a quella persona, unitamente all’auspicio che il confronto delle idee e delle posizioni, per quanto duro e intransigente, non debba più avere conseguenze simili. Ciò detto vedo che sulla questione della linea ferroviaria ad alta velocità/capacità Torino- Lione, si continuano a dire (e fare) cose a volte demagogiche, a volte sbagliate, a volte semplicemente prive di senso. Ne indico due tra quelle ripetute più di frequente in questi giorni.
La prima è che si tratta di un’opera inutile e dannosa, dunque non va fatta. Per quel che riguarda l’inutilità, è un giudizio sbagliato alla radice. Dopo infinite discussioni e valutazioni in sedi nazionali e internazionali, è ormai da tempo maturato il convincimento che si tratta di un opera essenziale all’interno del cosiddetto “Corridoio 5”, quello che collegando Lisbona con Kiev costituirà una dei rami portanti della rete ferroviaria europea per i prossimi cento anni.
Certo si può decidere di non far passare questa direttrice lungo la linea Torino-Trieste, favorendo l’alternativa di percorso al di là delle Alpi. Ma bisogna essere consapevoli che questo significa autoescludersi dal sistema delle relazioni e degli scambi commerciali dell’Europa futura. Una scelta miope e da tempo scartata.
Quanto alla dannosità, vorrei ricordare che durante il governo Prodi II è stato fatto (anche da chi scrive) un intenso lavoro – in continuo contatto con i rappresentanti delle comunità locali – proprio per eliminare gli aspetti di maggiore impatto connessi all’opera. Da quel lavoro sono derivate notevoli modifiche di tracciato rispetto a quello previsto dal progetto iniziale di Fs. Con l’attuale tracciato – e con opportuni interventi di inserimento ambientale – l’opera risulterà sostenibile al pari di molte opere analoghe nel resto d’Europa.
Vorrei poi far notare a chi propone di usare l’attuale ferrovia come sede dell’alta velocità/capacità, che questo significherebbe vedere passare nei centri abitati attraversati da quella ferrovia, un treno circa ogni sette minuti: un impatto niente male.
Il secondo argomento che si sente ripetere è che le manifestazioni in corso sono espressione di un sentire diffuso tra la popolazione della vallata interessata, un sentire al quale bisogna dare ascolto, una popolazione con cui si deve dialogare ascoltandone le ragioni. Niente di più giusto, a patto di escludere dall’ascolto e dal dialogo quelle componenti che nulla hanno a che vedere con i valligiani e che, per lo più, sono quelle che alimentano le manifestazioni di violenza. Fatto questo nessuno può fingere di non sapere che questo ascolto e questo dialogo è proseguito per anni e in molte sedi, sia a livello centrale che locale, soprattutto grazie all’imponente lavoro svolto dall’Osservatorio diretto dall’architetto Virano, di cui sono testimonianza gli scritti e gli studi che tutti possono consultare (anche on line) e dai quali emerge un ascolto e un dialogo con la popolazione e le amminstrazioni locali che, per durata e per ampiezza, non ha eguali in circostanze similari.
Questo lavoro sembra essere stato rimosso e, come fosse un gioco, si tornano a chiedere cose già fatte e percorsi già praticati. Ma questo non è un gioco, è una cosa molto seria che sta compromettendo la credibilità del paese in ambito europeo, sta mettendo a rischio finanziamenti ingenti e, per tornare a quanto già detto, può tagliare fuori l’Italia dalla rete delle relazioni tra l’Ovest e l’Est del continente europeo. Un problema, dunque, di dimensione nazionale non valligiana.
Prendendo atto di tutto questo si deve ancora discutere con la popolazione locale? Certamente sì, perchè il dialogo non deve essere interrotto e, anzi, si dovrà prolungare fino al completamento dell’opera. Ma bisogna farlo sapendo che il dialogo può riguardare il “come” realizzare al meglio l’opera, non il “se” realizzarla che non è più un tema in discussione e che tutti, con un minimo di onestà intellettuale, dovrebbero evitare di riproporre.

da Europa Quotidiano 29.02.12

"La corruzione si batte a scuola", di Luigi Guiso

Ha fatto bene il Sole 24 Ore a lanciare un manifesto di sostegno alla cultura. Il successo dell’iniziativa, come dimostrano le numerose adesioni, indica che questo bisogno è sentito, ma è rimasto latente, forse perché abbiamo vissuto un lungo periodo di promozione d’altro. Il successo, probabilmente, riflette anche il fatto che il concetto di cultura, già per sua natura vago, è, in questa campagna, non specificato, lasciando intendere che include la conoscenza accumulata, la produzione di arte, nelle sue più varie articolazioni, lo studio, la scuola e l’apprendimento nonché il sistema di valori, credenze e norme che definiscono e circoscrivono i nostri comportamenti al di là di quanto non regolato – o non regolabile – dalla legge.
Così ce n’è per tutti e tutti vi possono trovare se stessi. Da chi nella promozione della cultura vi legge la difesa e conservazione delle minoranze linguistiche a chi vi vede una ricomposizione del pubblico bilancio verso la scuola, la ricerca e l’università oppure verso la promozione di musei, teatri e opere liriche. Da chi vi intravede una enfasi nuova sullo sfruttamento economico dell’enorme patrimonio artistico e archeologico di cui il paese dispone, fino a chi spera che il focus sulla cultura serva a riportare l’attenzione verso la ricostruzione di un sistema di valori che oggi molti reputano compromesso e minacciato dal dilagare della corruzione – come sembrano suggerire le allarmanti statistiche rese recentemente note dalla Corte dei Conti.

Queste nozioni non sono né antitetiche né indipendenti né mutuamente esclusive. Ma la loro “promozione”, come è facile intuire, chiama interventi molto diversi. E forse sarà di questi che da ultimo si dovrà discutere. Qui vorrei soffermarmi su una nozione specifica: il sistema di valori, norme e credenze più o meno condivise dalla comunità, che ne regolano e spiegano i comportamenti dei suoi membri. E, in particolare, su un sottoinsieme di queste norme, valori e credenze: le attitudini delle persone verso la corruzione, le norme che presiedono al rifiuto o alla accettazione di comportamenti corruttivi, le aspettative sul comportamento corruttivo degli altri. Gli standard del nostro Paese sono sotto questo aspetto ancora lontani da quelli dove la corruzione è fenomeno raro. Le testimonianze di questo deficit sono numerose. Ne riporto alcune tratte dalla European Social Survey. Su quattro danesi tre ritengono che possano tranquillamente fidarsi che un funzionario pubblico si comporti onestamente con loro e due tedeschi su quattro la pensano così. Tra gli italiani solo uno su quattro pensa di potersi fidare dell’onestà di un pubblico funzionario – più o meno le stesse aspettative che hanno i greci riguardo ai loro dipendenti pubblici. Il 50% degli italiani ha maturato un serio timore di poter essere trattato in modo disonesto. Questa paura riguarda solo il 7% dei danesi e il 23% dei tedeschi: evidentemente la diffusione di fenomeni corruttivi alimenta queste credenze. Infatti se oltre il 6% degli italiani intervistati dichiara che nei trascorsi cinque anni un pubblico dipendente ha preteso mazzette o favori, questo accade in meno dell’1% tra i danesi e i tedeschi, ma tra il 12% dei greci.

Una ragione per cui queste pratiche sono diffuse ha certamente a che fare con la legge e ciò che si fa per farla rispettare. È possibile che tedeschi e danesi siano più severi di quanto noi non siamo nel far rispettare le norme anticorruzione e che abbiano anche norme più severe delle nostre. Il decreto che il governo si appresta a varare in materia probabilmente aiuta. Ma la legge non può moltissimo se le persone sono tolleranti verso la corruzione, se vi è intorno al fenomeno un favorevole humus culturale che ne alimenta domanda e offerta. Dopotutto solo il 70% degli italiani pensa che sia seriamente sbagliato che un funzionario pubblico accetti favori o bustarelle in cambio di una accelerazione del servizio mentre quasi il 90% dei danesi lo pensa. Se si è tolleranti verso la corruzione, si tollera anche che non venga perseguita o che non appaia al top dell’agenda politica, e quindi che la sua eradicazione si rifletta in leggi e provvedimenti.

Sovvertire questa cultura – questo insieme di norme e credenze – sembra quindi conditio sine qua non per restringere il campo della corruzione. Ma è anche possibile? E come si fa? Dopotutto – questa è l’obiezione – non è forse la cultura un fenomeno così persistente da rendere l’impresa quasi senza speranza (un po’ come cercare di far cambiare religione agli italiani)? Non sono tanti gli esempi di politiche che si siano poste questo obiettivo. Ma vi è un caso interessante: quello di Hong Kong nella metà degli anni 70 quando Murray MacLehose, ultimo governatore britannico di Hong Kong, decise di varare un programma per liberare l’isola dalla corruzione endemica che affliggeva qualunque settore della amministrazione pubblica e aveva innervato la polizia, rendendo la sua punizione ormai impossibile. Il compito viene affidato alla Commissione Indipendente Contro la Corruzione (Icac) che lo persegue usando tre strade: azioni preventive per ripristinare la funzionalità della polizia, un severo enforcement delle leggi e un vasto programma di educazione contro la corruzione condotto nelle scuole. La vera novità rispetto ai tentativi falliti del passato era il programma di educazione, vasto e insistito per 20 generazioni di ragazzi. Fu questo che mutò l’atteggiamento verso la corruzione, sia scoraggiando direttamente atti corruttivi (perché non si fa) sia perché prosciugò in maniera durevole la giustificazione della corruzione, accrescendo la domanda di legalità e quindi il consenso verso le politiche di enforcement.
Fu una piccola rivoluzione culturale. Mentre prima del programma solo il 32% della gente di Honk Kong riteneva che passare una mazzetta a un funzionario pubblico per sveltire una pratica fosse un atto commendevole, questa quota accede il 70% 15 anni dopo. Oggi Hong Kong svetta nelle classifiche di Transparency International come uno dei paesi a minor corruzione. La lezione per noi è che se si vuole si può cambiare; richiede però un impegno non estemporaneo ma duraturo. È questo impegno a insistere sulla politica che gli conferisce credibilità. A sua volta quest’ultima è condizione indispensabile perché le persone siano disposte ad abbandonare norme e credenze con cui sono cresciuti.

Il Sole 24 Ore 28.02.12