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“La corruzione si batte a scuola”, di Luigi Guiso

Ha fatto bene il Sole 24 Ore a lanciare un manifesto di sostegno alla cultura. Il successo dell’iniziativa, come dimostrano le numerose adesioni, indica che questo bisogno è sentito, ma è rimasto latente, forse perché abbiamo vissuto un lungo periodo di promozione d’altro. Il successo, probabilmente, riflette anche il fatto che il concetto di cultura, già per sua natura vago, è, in questa campagna, non specificato, lasciando intendere che include la conoscenza accumulata, la produzione di arte, nelle sue più varie articolazioni, lo studio, la scuola e l’apprendimento nonché il sistema di valori, credenze e norme che definiscono e circoscrivono i nostri comportamenti al di là di quanto non regolato – o non regolabile – dalla legge.
Così ce n’è per tutti e tutti vi possono trovare se stessi. Da chi nella promozione della cultura vi legge la difesa e conservazione delle minoranze linguistiche a chi vi vede una ricomposizione del pubblico bilancio verso la scuola, la ricerca e l’università oppure verso la promozione di musei, teatri e opere liriche. Da chi vi intravede una enfasi nuova sullo sfruttamento economico dell’enorme patrimonio artistico e archeologico di cui il paese dispone, fino a chi spera che il focus sulla cultura serva a riportare l’attenzione verso la ricostruzione di un sistema di valori che oggi molti reputano compromesso e minacciato dal dilagare della corruzione – come sembrano suggerire le allarmanti statistiche rese recentemente note dalla Corte dei Conti.

Queste nozioni non sono né antitetiche né indipendenti né mutuamente esclusive. Ma la loro “promozione”, come è facile intuire, chiama interventi molto diversi. E forse sarà di questi che da ultimo si dovrà discutere. Qui vorrei soffermarmi su una nozione specifica: il sistema di valori, norme e credenze più o meno condivise dalla comunità, che ne regolano e spiegano i comportamenti dei suoi membri. E, in particolare, su un sottoinsieme di queste norme, valori e credenze: le attitudini delle persone verso la corruzione, le norme che presiedono al rifiuto o alla accettazione di comportamenti corruttivi, le aspettative sul comportamento corruttivo degli altri. Gli standard del nostro Paese sono sotto questo aspetto ancora lontani da quelli dove la corruzione è fenomeno raro. Le testimonianze di questo deficit sono numerose. Ne riporto alcune tratte dalla European Social Survey. Su quattro danesi tre ritengono che possano tranquillamente fidarsi che un funzionario pubblico si comporti onestamente con loro e due tedeschi su quattro la pensano così. Tra gli italiani solo uno su quattro pensa di potersi fidare dell’onestà di un pubblico funzionario – più o meno le stesse aspettative che hanno i greci riguardo ai loro dipendenti pubblici. Il 50% degli italiani ha maturato un serio timore di poter essere trattato in modo disonesto. Questa paura riguarda solo il 7% dei danesi e il 23% dei tedeschi: evidentemente la diffusione di fenomeni corruttivi alimenta queste credenze. Infatti se oltre il 6% degli italiani intervistati dichiara che nei trascorsi cinque anni un pubblico dipendente ha preteso mazzette o favori, questo accade in meno dell’1% tra i danesi e i tedeschi, ma tra il 12% dei greci.

Una ragione per cui queste pratiche sono diffuse ha certamente a che fare con la legge e ciò che si fa per farla rispettare. È possibile che tedeschi e danesi siano più severi di quanto noi non siamo nel far rispettare le norme anticorruzione e che abbiano anche norme più severe delle nostre. Il decreto che il governo si appresta a varare in materia probabilmente aiuta. Ma la legge non può moltissimo se le persone sono tolleranti verso la corruzione, se vi è intorno al fenomeno un favorevole humus culturale che ne alimenta domanda e offerta. Dopotutto solo il 70% degli italiani pensa che sia seriamente sbagliato che un funzionario pubblico accetti favori o bustarelle in cambio di una accelerazione del servizio mentre quasi il 90% dei danesi lo pensa. Se si è tolleranti verso la corruzione, si tollera anche che non venga perseguita o che non appaia al top dell’agenda politica, e quindi che la sua eradicazione si rifletta in leggi e provvedimenti.

Sovvertire questa cultura – questo insieme di norme e credenze – sembra quindi conditio sine qua non per restringere il campo della corruzione. Ma è anche possibile? E come si fa? Dopotutto – questa è l’obiezione – non è forse la cultura un fenomeno così persistente da rendere l’impresa quasi senza speranza (un po’ come cercare di far cambiare religione agli italiani)? Non sono tanti gli esempi di politiche che si siano poste questo obiettivo. Ma vi è un caso interessante: quello di Hong Kong nella metà degli anni 70 quando Murray MacLehose, ultimo governatore britannico di Hong Kong, decise di varare un programma per liberare l’isola dalla corruzione endemica che affliggeva qualunque settore della amministrazione pubblica e aveva innervato la polizia, rendendo la sua punizione ormai impossibile. Il compito viene affidato alla Commissione Indipendente Contro la Corruzione (Icac) che lo persegue usando tre strade: azioni preventive per ripristinare la funzionalità della polizia, un severo enforcement delle leggi e un vasto programma di educazione contro la corruzione condotto nelle scuole. La vera novità rispetto ai tentativi falliti del passato era il programma di educazione, vasto e insistito per 20 generazioni di ragazzi. Fu questo che mutò l’atteggiamento verso la corruzione, sia scoraggiando direttamente atti corruttivi (perché non si fa) sia perché prosciugò in maniera durevole la giustificazione della corruzione, accrescendo la domanda di legalità e quindi il consenso verso le politiche di enforcement.
Fu una piccola rivoluzione culturale. Mentre prima del programma solo il 32% della gente di Honk Kong riteneva che passare una mazzetta a un funzionario pubblico per sveltire una pratica fosse un atto commendevole, questa quota accede il 70% 15 anni dopo. Oggi Hong Kong svetta nelle classifiche di Transparency International come uno dei paesi a minor corruzione. La lezione per noi è che se si vuole si può cambiare; richiede però un impegno non estemporaneo ma duraturo. È questo impegno a insistere sulla politica che gli conferisce credibilità. A sua volta quest’ultima è condizione indispensabile perché le persone siano disposte ad abbandonare norme e credenze con cui sono cresciuti.

Il Sole 24 Ore 28.02.12

"La vera malattia che piega l'Europa", di Paul Krugman

La situazione in Portogallo è terribile, ora che la disoccupazione vola addirittura oltre il 13 per cento. Ma va anche peggio in Grecia, Irlanda e probabilmente Spagna. Nel suo complesso tutta l´Europa pare scivolare nuovamente nella recessione. Perché l´Europa è diventata il malato dell´economia mondiale? La risposta è nota a tutti. Purtroppo, però, buona parte di ciò che si sa non è attendibile, e le false voci sui guai europei stanno snaturando il nostro dibattito economico. È assai probabile che chi legge un articolo d´opinione riguardante l´Europa – oppure, troppo spesso, una presunta cronaca giornalistica degli avvenimenti – possa imbattersi in una di due possibili interpretazioni, alle quali penso in termini di variante repubblicana e variante tedesca. In verità, nessuna delle due rispecchia la realtà.

Secondo la versione repubblicana di come stanno le cose – uno dei temi centrali sui quali batte la campagna elettorale di Mitt Romney –, l´Europa si trova nei guai perché ha esagerato nell´aiutare i meno abbienti e i disgraziati, e staremmo quindi assistendo all´agonia del welfare state. Questa versione dei fatti, a proposito, è una delle costanti preferite della destra: già nel 1991, quando la Svezia si angosciò per una crisi delle banche innescata dalla deregulation (vi suona familiare?), il Cato Institute pubblicò un trionfante articolo su come ciò che stava accadendo di fatto confermasse il fallimento dell´intero modello del welfare state.

Vi ho già detto che la Svezia – che ha ancora oggi un generoso welfare – è al momento una delle migliori performer e ha una crescita economica più dinamica di qualsiasi altra ricca nazione? Ma procediamo con sistematicità: pensiamo alle 15 nazioni europee che usano l´euro (lasciando in disparte Malta e Cipro) e proviamo a classificarle in rapporto alla percentuale di Pil che hanno speso in programmi di assistenza sociale prima della crisi. Le nazioni Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) che oggi sono nei guai spiccano davvero in tale classifica per il fatto di avere uno stato assistenziale insolitamente generoso? Niente affatto. Soltanto l´Italia rientra nelle prime cinque posizioni della classifica, ma anche così il suo welfare state è inferiore a quello della Germania. Ne consegue che i problemi non sono stati causati da grandi welfare.

Passiamo ora alla versione tedesca, secondo la quale tutto dipende dall´irresponsabilità fiscale. Questa opinione pare adattarsi alla Grecia, ma a nessun altro Paese. L´Italia ha avuto deficit negli anni antecedenti alla crisi, ma erano di poco superiori a quelli tedeschi (l´enorme indebitamento dell´Italia è un´eredità delle irresponsabili politiche di molti anni fa). I deficit del Portogallo erano significativamente inferiori, mentre Spagna e Irlanda in realtà avevano plusvalenze.

Ah: non dimentichiamo che Paesi non appartenenti alla zona euro sembrano proprio in grado di avere grandi deficit e sostenere un forte indebitamento senza affrontare alcuna crisi. Gran Bretagna e Stati Uniti possono prendere in prestito capitali a un tasso di interesse che si aggira intorno al 2 per cento. Il Giappone – di gran lunga più indebitato di qualsiasi Paese europeo, Grecia inclusa – paga soltanto l´1 per cento. In altre parole, il processo di ellenizzazione del nostro dibattito economico – secondo il quale tra uno o due anni soltanto ci troveremo nella stessa situazione della Grecia – è del tutto sbagliato.

Che cosa affligge, dunque, l´Europa? La verità è che la questione è in buona parte legata alla moneta. Introducendo una valuta unica senza aver preventivamente creato le istituzioni necessarie a farla funzionare a dovere, l´Europa in realtà ha ricreato i difetti del gold standard, inadeguatezze che rivestirono un ruolo di primo piano nel provocare e far perdurare la Grande Depressione.

Andando più nello specifico, la creazione dell´euro ha alimentato un falso senso di sicurezza tra gli investitori privati che ha dato briglia sciolta a enormi e insostenibili flussi di capitali nelle nazioni di tutta la periferia europea. In conseguenza di questi flussi, le spese e i prezzi sono aumentati, la produzione ha perso in competitività e le nazioni che nel 1999 avevano a stento raggiunto un equilibrio tra importazioni ed esportazioni hanno iniziato invece a incorrere in ingenti deficit commerciali. Poi la musica si è interrotta.
Se le nazioni della periferia europea avessero ancora le loro valute potrebbero ricorrere alla svalutazione – e sicuramente lo farebbero – per ripristinare quanto prima la propria competitività. Ma non le hanno più, e ciò significa che sono destinate a un lungo periodo di disoccupazione di massa e a una lenta e faticosa deflazione. Le loro crisi debitorie sono per lo più un effetto collaterale di questa triste prospettiva, perché le economie depresse portano a deficit di budget e la deflazione aumenta l´incidenza del debito.

Diciamo pure che comprendere la natura dei guai europei offre agli europei stessi benefici soltanto assai limitati. Alle nazioni colpite, in particolare, non resta granché al di là di scelte difficili: o soffrono le pene della deflazione oppure prendono la drastica decisione di abbandonare l´euro, il che non sarà praticabile da un punto di vista politico fino a quando – o a meno che – ogni altra cosa non avrà fallito (punto verso il quale pare che si stia avvicinando la Grecia). La Germania potrebbe dare una mano facendo dietrofront rispetto alle sue stesse politiche di austerità e accettando un´inflazione più alta, ma non lo farà.

Per il resto di noi, tuttavia, capire bene come stanno le cose in Europa fa una bella differenza, in quanto circolano su di essa false teorie utilizzate per spingere avanti politiche che potrebbero rivelarsi aggressive, distruttive o entrambe le cose. La prossima volta che sentirete qualcuno invocare l´esempio dell´Europa per chiedere di far piazza pulita delle nostre reti di sicurezza sociale o per tagliare la spesa a fronte di un´economia gravemente depressa, ricordate di tenere bene a mente che non ha idea alcuna di ciò di cui sta parlando.

Traduzione di Anna Bissanti –

La Repubblica 28.02.12

“La vera malattia che piega l’Europa”, di Paul Krugman

La situazione in Portogallo è terribile, ora che la disoccupazione vola addirittura oltre il 13 per cento. Ma va anche peggio in Grecia, Irlanda e probabilmente Spagna. Nel suo complesso tutta l´Europa pare scivolare nuovamente nella recessione. Perché l´Europa è diventata il malato dell´economia mondiale? La risposta è nota a tutti. Purtroppo, però, buona parte di ciò che si sa non è attendibile, e le false voci sui guai europei stanno snaturando il nostro dibattito economico. È assai probabile che chi legge un articolo d´opinione riguardante l´Europa – oppure, troppo spesso, una presunta cronaca giornalistica degli avvenimenti – possa imbattersi in una di due possibili interpretazioni, alle quali penso in termini di variante repubblicana e variante tedesca. In verità, nessuna delle due rispecchia la realtà.

Secondo la versione repubblicana di come stanno le cose – uno dei temi centrali sui quali batte la campagna elettorale di Mitt Romney –, l´Europa si trova nei guai perché ha esagerato nell´aiutare i meno abbienti e i disgraziati, e staremmo quindi assistendo all´agonia del welfare state. Questa versione dei fatti, a proposito, è una delle costanti preferite della destra: già nel 1991, quando la Svezia si angosciò per una crisi delle banche innescata dalla deregulation (vi suona familiare?), il Cato Institute pubblicò un trionfante articolo su come ciò che stava accadendo di fatto confermasse il fallimento dell´intero modello del welfare state.

Vi ho già detto che la Svezia – che ha ancora oggi un generoso welfare – è al momento una delle migliori performer e ha una crescita economica più dinamica di qualsiasi altra ricca nazione? Ma procediamo con sistematicità: pensiamo alle 15 nazioni europee che usano l´euro (lasciando in disparte Malta e Cipro) e proviamo a classificarle in rapporto alla percentuale di Pil che hanno speso in programmi di assistenza sociale prima della crisi. Le nazioni Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) che oggi sono nei guai spiccano davvero in tale classifica per il fatto di avere uno stato assistenziale insolitamente generoso? Niente affatto. Soltanto l´Italia rientra nelle prime cinque posizioni della classifica, ma anche così il suo welfare state è inferiore a quello della Germania. Ne consegue che i problemi non sono stati causati da grandi welfare.

Passiamo ora alla versione tedesca, secondo la quale tutto dipende dall´irresponsabilità fiscale. Questa opinione pare adattarsi alla Grecia, ma a nessun altro Paese. L´Italia ha avuto deficit negli anni antecedenti alla crisi, ma erano di poco superiori a quelli tedeschi (l´enorme indebitamento dell´Italia è un´eredità delle irresponsabili politiche di molti anni fa). I deficit del Portogallo erano significativamente inferiori, mentre Spagna e Irlanda in realtà avevano plusvalenze.

Ah: non dimentichiamo che Paesi non appartenenti alla zona euro sembrano proprio in grado di avere grandi deficit e sostenere un forte indebitamento senza affrontare alcuna crisi. Gran Bretagna e Stati Uniti possono prendere in prestito capitali a un tasso di interesse che si aggira intorno al 2 per cento. Il Giappone – di gran lunga più indebitato di qualsiasi Paese europeo, Grecia inclusa – paga soltanto l´1 per cento. In altre parole, il processo di ellenizzazione del nostro dibattito economico – secondo il quale tra uno o due anni soltanto ci troveremo nella stessa situazione della Grecia – è del tutto sbagliato.

Che cosa affligge, dunque, l´Europa? La verità è che la questione è in buona parte legata alla moneta. Introducendo una valuta unica senza aver preventivamente creato le istituzioni necessarie a farla funzionare a dovere, l´Europa in realtà ha ricreato i difetti del gold standard, inadeguatezze che rivestirono un ruolo di primo piano nel provocare e far perdurare la Grande Depressione.

Andando più nello specifico, la creazione dell´euro ha alimentato un falso senso di sicurezza tra gli investitori privati che ha dato briglia sciolta a enormi e insostenibili flussi di capitali nelle nazioni di tutta la periferia europea. In conseguenza di questi flussi, le spese e i prezzi sono aumentati, la produzione ha perso in competitività e le nazioni che nel 1999 avevano a stento raggiunto un equilibrio tra importazioni ed esportazioni hanno iniziato invece a incorrere in ingenti deficit commerciali. Poi la musica si è interrotta.
Se le nazioni della periferia europea avessero ancora le loro valute potrebbero ricorrere alla svalutazione – e sicuramente lo farebbero – per ripristinare quanto prima la propria competitività. Ma non le hanno più, e ciò significa che sono destinate a un lungo periodo di disoccupazione di massa e a una lenta e faticosa deflazione. Le loro crisi debitorie sono per lo più un effetto collaterale di questa triste prospettiva, perché le economie depresse portano a deficit di budget e la deflazione aumenta l´incidenza del debito.

Diciamo pure che comprendere la natura dei guai europei offre agli europei stessi benefici soltanto assai limitati. Alle nazioni colpite, in particolare, non resta granché al di là di scelte difficili: o soffrono le pene della deflazione oppure prendono la drastica decisione di abbandonare l´euro, il che non sarà praticabile da un punto di vista politico fino a quando – o a meno che – ogni altra cosa non avrà fallito (punto verso il quale pare che si stia avvicinando la Grecia). La Germania potrebbe dare una mano facendo dietrofront rispetto alle sue stesse politiche di austerità e accettando un´inflazione più alta, ma non lo farà.

Per il resto di noi, tuttavia, capire bene come stanno le cose in Europa fa una bella differenza, in quanto circolano su di essa false teorie utilizzate per spingere avanti politiche che potrebbero rivelarsi aggressive, distruttive o entrambe le cose. La prossima volta che sentirete qualcuno invocare l´esempio dell´Europa per chiedere di far piazza pulita delle nostre reti di sicurezza sociale o per tagliare la spesa a fronte di un´economia gravemente depressa, ricordate di tenere bene a mente che non ha idea alcuna di ciò di cui sta parlando.

Traduzione di Anna Bissanti –

La Repubblica 28.02.12

"Così i tombaroli devastano Cerveteri", di Sergio Rizzo

Cerveteri, necropoli etrusca della Banditaccia. Nel 2004 l’Unesco l’ha dichiarata Patrimonio dell’umanità. Tombe dappertutto. Nell’area recintata, dove si accede con il biglietto, sono 400. Ma fuori da quel recinto sgangherato c’è la più grande cava di beni archeologici del pianeta. A ingresso libero. Per la felicità dei tombaroli. La Smart avanza sobbalzando sullo sterrato. Arrivata a dieci metri rallenta: il guidatore ci scruta. Dietro gli occhiali scuri s’intuisce uno sguardo poco amichevole. Poi si allontana, per ripassare poco dopo in direzione contraria. Stessa andatura, identico sguardo ostile.
Siamo a Cerveteri, quaranta chilometri da Roma. Qui c’è la necropoli etrusca della Banditaccia, una delle zone archeologiche più importanti della Terra, che l’Unesco ha dichiarato nel 2004 patrimonio dell’umanità. Le tombe sono dappertutto. Sottoterra, e anche sopra, nei giganteschi tumuli dove i cadaveri venivano adagiati sui letti di tufo, insieme a monili e preziose suppellettili. Quei tumuli, soltanto nell’area recintata dove si accede con il biglietto, sono 400. Ma basta dare un’occhiata oltre il cancello per capire il resto.
Fuori da quel recinto sgangherato, in un paio di punti addirittura sfondato per permettere il passaggio di un uomo adulto senza che nessuno si curi di metterci una toppa per impedire l’andirivieni, c’è probabilmente la più grande cava di beni archeologici del pianeta: a cielo aperto e ingresso libero. Da decenni alimenta il traffico illegale, per la felicità dei potentati locali, che sulla spoliazione delle tombe hanno costruito autentiche fortune, e dei mercanti senza scrupoli. Valga come esempio la storia del famoso Vaso di Eufronio, ritornato in Italia da quattro anni al termine di lunghe vicissitudini giudiziarie e diplomatiche. Per oltre 35 anni, dal 1972, quello straordinario oggetto era stato esposto al Metropolitan museum di New York, che l’aveva acquistato per la vertiginosa cifra di un milione di dollari da un commerciante americano, nelle cui mani era finito dopo una serie di passaggi, iniziati proprio a Cerveteri. Il Vaso era stato infatti trafugato da una tomba della Banditaccia, anche se non è mai stato chiarito quale.
E torniamo a quella macchinetta. Che ci fa un signore con gli occhiali scuri dentro una Smart appena uscita dall’autolavaggio su una strada di terra piena di buche che attraversa una zona archeologica, un venerdì mattina d’inverno a mezzogiorno? Controlla. Osserva chi passa, dove va, che cosa fa. Perché quel signore è un tombarolo. Uno dei più conosciuti, da queste parti. Vi chiederete: non ha paura di farsi vedere? Perché mai. Lui non rischia niente. Intanto grazie al nuovo codice dei beni culturali del 2004 non lo possono più arrestare nemmeno in flagranza di reato. Al massimo si becca una denuncia a piede libero. E poi la Banditaccia è la sua cava.
L’anomalia non è lui. L’anomalia sono i volontari che da mesi, in accordo con la Soprintendenza che non ha una lira, si stanno dannando l’anima sotto la guida dell’ex delegato comunale per l’Unesco Agostino De Angelis per rompere l’assedio della vegetazione e dei rifiuti alla zona recintata, nell’infastidita indifferenza locale. Sono i giovani (e meno giovani) di tre associazioni: Archeo Theatron, Mare Vivo e Italia Nostra. Con loro Guardia di Finanza, Carabinieri e Polizia locale. Oltre a qualche ditta che ha prestato maestranze e motoseghe per un’impresa immane, non soltanto dal punto di vista materiale. Perché questa è una dichiarazione di guerra a un sistema che ha gestito indisturbato i tesori di Cerveteri per decenni. Dietro i cancelli della necropoli, la Soprintendenza. Fuori, negli altri 400 ettari dove si stima che ancora l’80% delle tombe sia da scavare, il regno dei tombaroli. Con qualche sponda all’interno, se sono vere le chiacchiere sui veri cocci spariti dai depositi del museo negli anni che furono, e di qualcuno che li sostituiva con i falsi cocci.
La verità è che buona parte dell’economia di Cerveteri girava, e gira ancora, intorno alle tombe. C’è chi scava e tira fuori di tutto. Scavano anche i romeni, insieme ai ceretani. E c’è pure chi, nei laboratori, produce imitazioni perfette che invecchiate artificialmente finiscono sul mercato come frutti autentici dei saccheggi. Qualcuno usa le tombe vuote come magazzini. Talvolta ci hanno trovato dentro reperti provenienti da altri sepolcri, vasi falsi messi lì a prendere la muffa per sembrare veri, attrezzi da lavoro. Perfino un bobcat, una di quelle ruspe mignon utilizzate per i piccoli scavi.
Tutto illegale, tutto normale. Anche perché a Cerveteri la politica è sempre stata debolissima: basti dire che da quindici anni non c’è una giunta che abbia terminato il mandato. Compresa l’ultima di centrosinistra guidata da Gino Ciogli, sommersa dagli avvisi di garanzia per presunte irregolarità urbanistiche. Prima di Natale è stata sciolta ed è arrivato il commissario. Ma qui ci sono purtroppo abituati. Non erano abituati, invece, i tombaroli, a veder circolare nella loro «cava» gente che tagliava le erbacce, raccoglieva la sporcizia e liberava i tumuli dalla morsa delle radici. Perché sotto quella selva si poteva agire indisturbati: al riparo, anche di giorno, da occhi indiscreti. Adesso, invece, è un bel problema. Man mano che la bonifica avanza la linea degli scavi clandestini si sposta. E ogni volta che si spazzano via gli arbusti e si mette a nudo un pezzo di terreno, ecco comparire la groviera.
Ma ci vuole tutta la determinazione dei volontari e l’abnegazione di chi è convinto che questo luogo incredibile non meriti il trattamento riservatogli finora. De Angelis ne sa qualcosa. Il 23 dicembre 2011 gli hanno fatto presente che siccome la giunta che l’aveva nominato delegato per l’Unesco era decaduta, si poteva ritenere libero dall’incombenza. E magari andare a fare una passeggiata. Lui non gli ha dato retta. Insieme ai volontari e alle ditte disposte a lavorare gratis si è messo a ripulire la Banditaccia. Fra minacce sempre più pesanti. E qualche pressione è arrivata pure al quotidiano locale, La Voce, che sostiene la battaglia. Finché per un mese intero, a gennaio, De Angelis ha dovuto girare con la scorta.
La posta in gioco è altissima. Gli ispettori dell’Onu arriveranno fra qualche mese, e per avere la conferma del bollino Unesco l’area dev’essere in uno stato decente. Ma c’è chi quel fastidioso bollino preferirebbe farlo saltare. Senza il patrocinio, Onu tombaroli e mercanti avrebbero vita più facile. E anche il partito del cemento che dopo aver devastato il litorale ha fame di terreni, potrebbe sperare nell’allentamento dei vincoli urbanistici che gravano sull’immensa area archeologica. Sarebbe una cuccagna.
Viene da dire: meno male che qualcuno nelle istituzioni adesso ha capito il rischio. Ma se siamo arrivati a questo punto, inutile girarci intorno, è chiaro che non tutti hanno fatto fino in fondo la propria parte. Pur nella drammatica carenza di denari. I numeri stanno a indicare responsabilità ben precise. Se nel 2004, anno del bollino Unesco, i visitatori paganti non erano che 22.198, nel 2010 sono scesi addirittura a 13.757. Una media di 37 al giorno, con un calo del 38 per cento. Nonostante i dieci minuti di treno da Civitavecchia, dove ogni anno passano due milioni e mezzo di croceristi senza che nessuno di loro abbia mai visto la necropoli.
Andate a Cerveteri. A parte lo spettacolo, unico al mondo, aiuterete il cambiamento.

Il Corriere della Sera 28.02.12

“Così i tombaroli devastano Cerveteri”, di Sergio Rizzo

Cerveteri, necropoli etrusca della Banditaccia. Nel 2004 l’Unesco l’ha dichiarata Patrimonio dell’umanità. Tombe dappertutto. Nell’area recintata, dove si accede con il biglietto, sono 400. Ma fuori da quel recinto sgangherato c’è la più grande cava di beni archeologici del pianeta. A ingresso libero. Per la felicità dei tombaroli. La Smart avanza sobbalzando sullo sterrato. Arrivata a dieci metri rallenta: il guidatore ci scruta. Dietro gli occhiali scuri s’intuisce uno sguardo poco amichevole. Poi si allontana, per ripassare poco dopo in direzione contraria. Stessa andatura, identico sguardo ostile.
Siamo a Cerveteri, quaranta chilometri da Roma. Qui c’è la necropoli etrusca della Banditaccia, una delle zone archeologiche più importanti della Terra, che l’Unesco ha dichiarato nel 2004 patrimonio dell’umanità. Le tombe sono dappertutto. Sottoterra, e anche sopra, nei giganteschi tumuli dove i cadaveri venivano adagiati sui letti di tufo, insieme a monili e preziose suppellettili. Quei tumuli, soltanto nell’area recintata dove si accede con il biglietto, sono 400. Ma basta dare un’occhiata oltre il cancello per capire il resto.
Fuori da quel recinto sgangherato, in un paio di punti addirittura sfondato per permettere il passaggio di un uomo adulto senza che nessuno si curi di metterci una toppa per impedire l’andirivieni, c’è probabilmente la più grande cava di beni archeologici del pianeta: a cielo aperto e ingresso libero. Da decenni alimenta il traffico illegale, per la felicità dei potentati locali, che sulla spoliazione delle tombe hanno costruito autentiche fortune, e dei mercanti senza scrupoli. Valga come esempio la storia del famoso Vaso di Eufronio, ritornato in Italia da quattro anni al termine di lunghe vicissitudini giudiziarie e diplomatiche. Per oltre 35 anni, dal 1972, quello straordinario oggetto era stato esposto al Metropolitan museum di New York, che l’aveva acquistato per la vertiginosa cifra di un milione di dollari da un commerciante americano, nelle cui mani era finito dopo una serie di passaggi, iniziati proprio a Cerveteri. Il Vaso era stato infatti trafugato da una tomba della Banditaccia, anche se non è mai stato chiarito quale.
E torniamo a quella macchinetta. Che ci fa un signore con gli occhiali scuri dentro una Smart appena uscita dall’autolavaggio su una strada di terra piena di buche che attraversa una zona archeologica, un venerdì mattina d’inverno a mezzogiorno? Controlla. Osserva chi passa, dove va, che cosa fa. Perché quel signore è un tombarolo. Uno dei più conosciuti, da queste parti. Vi chiederete: non ha paura di farsi vedere? Perché mai. Lui non rischia niente. Intanto grazie al nuovo codice dei beni culturali del 2004 non lo possono più arrestare nemmeno in flagranza di reato. Al massimo si becca una denuncia a piede libero. E poi la Banditaccia è la sua cava.
L’anomalia non è lui. L’anomalia sono i volontari che da mesi, in accordo con la Soprintendenza che non ha una lira, si stanno dannando l’anima sotto la guida dell’ex delegato comunale per l’Unesco Agostino De Angelis per rompere l’assedio della vegetazione e dei rifiuti alla zona recintata, nell’infastidita indifferenza locale. Sono i giovani (e meno giovani) di tre associazioni: Archeo Theatron, Mare Vivo e Italia Nostra. Con loro Guardia di Finanza, Carabinieri e Polizia locale. Oltre a qualche ditta che ha prestato maestranze e motoseghe per un’impresa immane, non soltanto dal punto di vista materiale. Perché questa è una dichiarazione di guerra a un sistema che ha gestito indisturbato i tesori di Cerveteri per decenni. Dietro i cancelli della necropoli, la Soprintendenza. Fuori, negli altri 400 ettari dove si stima che ancora l’80% delle tombe sia da scavare, il regno dei tombaroli. Con qualche sponda all’interno, se sono vere le chiacchiere sui veri cocci spariti dai depositi del museo negli anni che furono, e di qualcuno che li sostituiva con i falsi cocci.
La verità è che buona parte dell’economia di Cerveteri girava, e gira ancora, intorno alle tombe. C’è chi scava e tira fuori di tutto. Scavano anche i romeni, insieme ai ceretani. E c’è pure chi, nei laboratori, produce imitazioni perfette che invecchiate artificialmente finiscono sul mercato come frutti autentici dei saccheggi. Qualcuno usa le tombe vuote come magazzini. Talvolta ci hanno trovato dentro reperti provenienti da altri sepolcri, vasi falsi messi lì a prendere la muffa per sembrare veri, attrezzi da lavoro. Perfino un bobcat, una di quelle ruspe mignon utilizzate per i piccoli scavi.
Tutto illegale, tutto normale. Anche perché a Cerveteri la politica è sempre stata debolissima: basti dire che da quindici anni non c’è una giunta che abbia terminato il mandato. Compresa l’ultima di centrosinistra guidata da Gino Ciogli, sommersa dagli avvisi di garanzia per presunte irregolarità urbanistiche. Prima di Natale è stata sciolta ed è arrivato il commissario. Ma qui ci sono purtroppo abituati. Non erano abituati, invece, i tombaroli, a veder circolare nella loro «cava» gente che tagliava le erbacce, raccoglieva la sporcizia e liberava i tumuli dalla morsa delle radici. Perché sotto quella selva si poteva agire indisturbati: al riparo, anche di giorno, da occhi indiscreti. Adesso, invece, è un bel problema. Man mano che la bonifica avanza la linea degli scavi clandestini si sposta. E ogni volta che si spazzano via gli arbusti e si mette a nudo un pezzo di terreno, ecco comparire la groviera.
Ma ci vuole tutta la determinazione dei volontari e l’abnegazione di chi è convinto che questo luogo incredibile non meriti il trattamento riservatogli finora. De Angelis ne sa qualcosa. Il 23 dicembre 2011 gli hanno fatto presente che siccome la giunta che l’aveva nominato delegato per l’Unesco era decaduta, si poteva ritenere libero dall’incombenza. E magari andare a fare una passeggiata. Lui non gli ha dato retta. Insieme ai volontari e alle ditte disposte a lavorare gratis si è messo a ripulire la Banditaccia. Fra minacce sempre più pesanti. E qualche pressione è arrivata pure al quotidiano locale, La Voce, che sostiene la battaglia. Finché per un mese intero, a gennaio, De Angelis ha dovuto girare con la scorta.
La posta in gioco è altissima. Gli ispettori dell’Onu arriveranno fra qualche mese, e per avere la conferma del bollino Unesco l’area dev’essere in uno stato decente. Ma c’è chi quel fastidioso bollino preferirebbe farlo saltare. Senza il patrocinio, Onu tombaroli e mercanti avrebbero vita più facile. E anche il partito del cemento che dopo aver devastato il litorale ha fame di terreni, potrebbe sperare nell’allentamento dei vincoli urbanistici che gravano sull’immensa area archeologica. Sarebbe una cuccagna.
Viene da dire: meno male che qualcuno nelle istituzioni adesso ha capito il rischio. Ma se siamo arrivati a questo punto, inutile girarci intorno, è chiaro che non tutti hanno fatto fino in fondo la propria parte. Pur nella drammatica carenza di denari. I numeri stanno a indicare responsabilità ben precise. Se nel 2004, anno del bollino Unesco, i visitatori paganti non erano che 22.198, nel 2010 sono scesi addirittura a 13.757. Una media di 37 al giorno, con un calo del 38 per cento. Nonostante i dieci minuti di treno da Civitavecchia, dove ogni anno passano due milioni e mezzo di croceristi senza che nessuno di loro abbia mai visto la necropoli.
Andate a Cerveteri. A parte lo spettacolo, unico al mondo, aiuterete il cambiamento.

Il Corriere della Sera 28.02.12

"Liberalizzazioni: la battaglia finale è sulle farmacie", di Bianca Di Giovanni

Trattativa a oltranza in Senato per sciogliere gli ultimi nodi sulle liberalizzazioni. Quello più difficile da dipanare riguarda le farmacie, che restano all’ultimo punto nella maratona negoziale tra Pd, Pdl, Terzo polo e governo. Mentre scriviamo la commissione Industria si è già convocata e sconvocata per diverse volte, riuscendo a riunirsi soltanto per pochi minuti per votare l’emendamento governo sull’Ici Chiesa passato all’unanimità. Per
l’intera giornata i due relatori, Filippo Bubbico (Pd) e Simona Vicari (Pdl) restano chiusi in una stanza con il sottosegretario Claudio De Vincenti per trovare «la quadra» sugli ultimi 20 articoli: i più importanti. «La strategia è di proseguire il confronto – spiega Bubbico – per portare testi condivisi e votare
in fretta». l’obiettivo è di varare il testo in commissione stamattina, per passare all’aula e licenziare il decreto dal Senato domani.
COMPROMESSI
Ma alle 7,30 di sera la formulazione condivisa non si era ancora vista. E non solo: si riapre a sorpresa anche la questione taxi, che pareva chiusa, mentre sui tirocinanti negli studi professionali si arriva a un compromesso che non basta al Pd (un rimborso forfettario delle spese dopo 6 mesi di tirocinio), che promette battaglia in Aula. In ogni caso il rimborso è comunque
un passo avanti rispetto al testo del governo, che aveva soppresso l’equo compenso previsto dalla legge precedente. Protestano anche i Comuni per la Tesoreria unica, e si cerca una soluzione che restituisca ai municipi le risorse derivanti dagli interessi. La battaglia finale, dunque, è quella sui farmacisti. Pd e Pdl partono da posizioni quasi inconciliabili. Il partito di Berlusconi chiede garanzie per i farmacisti, arrivando a proporre un quorum di abitanti per ogni punto vendita fino a 3.800 unità (il testo ne prevede 3.000). In giornata si arriva a quota 3.300-
3.500, ma nulla è ancora certo. Per il Pd il quorum dovrebbe essere addirittura sotto i 3mila, ma su questo fronte non sfonda. Il partito di Bersani punta al cosiddetto secondo canale, cioè la vendita nelle parafarmacie, vero spauracchio per i farmacisti. Anche la battaglia sui farmaci di fasciaC (almeno di una parte di questi) anche nei corner dei supermercati sembra persa da subito. Fino all’altro ieri, quindi, il braccio di ferro si è spostato sulle quote riservate ai parafarmacisti nei nuovi concorsi. Ma ieri mattina sembrava «saltata» anche questa richiesta, che il Pdl considerava troppo favorevole alle parafarmacie. A quel punto il nuovo obiettivo è stato quello di riconoscere punteggi congrui anche ai parafarmacisti che si fossero presentati alle gare, altrimenti non avrebbero avuto nessuna chance. Per i parafarmacisti basterebbe un punteggio pari almeno a quello delle farmacie rurali. Ai parafarmacisti, comunque, dovrebbe essere assicurata la possibilità di vendere prodotti galenici e quelli veterinari con ricetta. Inoltre si dovrebbe eliminare il divieto di
apertura nei centri al di sotto dei 12.500 abitanti oggi in vigore. Ma questo è davvero troppo poco per il Pd. Così la questione resta aperta. «I freni – dichiara Bubbico – sono più di
natura culturale prima ancora che di interessi, perché per proporsi al cambiamento ci vuole coraggio». In serata si riapre il capitolo taxi, che il Senato vorrebbe rafforzare. Si pensa a concedere all’Authority unpotere sostitutivo (per ora l’emendamento
concordato prevedeun parere obbligatorio ma non vincolante), nel
caso in cui i Comuni non decidano sulle licenze. L’ipotesi ha scatenato subito la reazione di Loreno Bittarelli di Uritaxi, che minaccia anche ricorsi legali.
In mattinata si definisce, invece, il testo per le professioni. Il governo tiene il punto sull’abolizione delle tariffe, inserendo tuttavia una norma transitoria che consenta la liquidazione da parte dei Tribunali, in attesa di nuove disposizioni del governo.
La contesa si concentra così sul preventivo scritto, che i rappresentanti dei professionisti riescono a far saltare. Il testo finale (almeno fino a ieri sera) prevede l’obbligo di pattuire il compenso al momento dell’affidamento dell’incarico, «fornendo tutte le indicazioni utili – si legge – circa gli oneri ipotizzabili». L’informazione deve anche indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati dall’attività professionale. Per quanto riguarda il tirocinio, si riesce a strappare solo il rimborso forfettario dopo i primi sei mesi, da svolgere anche all’Università.

L’Unità 28.02.12

“Liberalizzazioni: la battaglia finale è sulle farmacie”, di Bianca Di Giovanni

Trattativa a oltranza in Senato per sciogliere gli ultimi nodi sulle liberalizzazioni. Quello più difficile da dipanare riguarda le farmacie, che restano all’ultimo punto nella maratona negoziale tra Pd, Pdl, Terzo polo e governo. Mentre scriviamo la commissione Industria si è già convocata e sconvocata per diverse volte, riuscendo a riunirsi soltanto per pochi minuti per votare l’emendamento governo sull’Ici Chiesa passato all’unanimità. Per
l’intera giornata i due relatori, Filippo Bubbico (Pd) e Simona Vicari (Pdl) restano chiusi in una stanza con il sottosegretario Claudio De Vincenti per trovare «la quadra» sugli ultimi 20 articoli: i più importanti. «La strategia è di proseguire il confronto – spiega Bubbico – per portare testi condivisi e votare
in fretta». l’obiettivo è di varare il testo in commissione stamattina, per passare all’aula e licenziare il decreto dal Senato domani.
COMPROMESSI
Ma alle 7,30 di sera la formulazione condivisa non si era ancora vista. E non solo: si riapre a sorpresa anche la questione taxi, che pareva chiusa, mentre sui tirocinanti negli studi professionali si arriva a un compromesso che non basta al Pd (un rimborso forfettario delle spese dopo 6 mesi di tirocinio), che promette battaglia in Aula. In ogni caso il rimborso è comunque
un passo avanti rispetto al testo del governo, che aveva soppresso l’equo compenso previsto dalla legge precedente. Protestano anche i Comuni per la Tesoreria unica, e si cerca una soluzione che restituisca ai municipi le risorse derivanti dagli interessi. La battaglia finale, dunque, è quella sui farmacisti. Pd e Pdl partono da posizioni quasi inconciliabili. Il partito di Berlusconi chiede garanzie per i farmacisti, arrivando a proporre un quorum di abitanti per ogni punto vendita fino a 3.800 unità (il testo ne prevede 3.000). In giornata si arriva a quota 3.300-
3.500, ma nulla è ancora certo. Per il Pd il quorum dovrebbe essere addirittura sotto i 3mila, ma su questo fronte non sfonda. Il partito di Bersani punta al cosiddetto secondo canale, cioè la vendita nelle parafarmacie, vero spauracchio per i farmacisti. Anche la battaglia sui farmaci di fasciaC (almeno di una parte di questi) anche nei corner dei supermercati sembra persa da subito. Fino all’altro ieri, quindi, il braccio di ferro si è spostato sulle quote riservate ai parafarmacisti nei nuovi concorsi. Ma ieri mattina sembrava «saltata» anche questa richiesta, che il Pdl considerava troppo favorevole alle parafarmacie. A quel punto il nuovo obiettivo è stato quello di riconoscere punteggi congrui anche ai parafarmacisti che si fossero presentati alle gare, altrimenti non avrebbero avuto nessuna chance. Per i parafarmacisti basterebbe un punteggio pari almeno a quello delle farmacie rurali. Ai parafarmacisti, comunque, dovrebbe essere assicurata la possibilità di vendere prodotti galenici e quelli veterinari con ricetta. Inoltre si dovrebbe eliminare il divieto di
apertura nei centri al di sotto dei 12.500 abitanti oggi in vigore. Ma questo è davvero troppo poco per il Pd. Così la questione resta aperta. «I freni – dichiara Bubbico – sono più di
natura culturale prima ancora che di interessi, perché per proporsi al cambiamento ci vuole coraggio». In serata si riapre il capitolo taxi, che il Senato vorrebbe rafforzare. Si pensa a concedere all’Authority unpotere sostitutivo (per ora l’emendamento
concordato prevedeun parere obbligatorio ma non vincolante), nel
caso in cui i Comuni non decidano sulle licenze. L’ipotesi ha scatenato subito la reazione di Loreno Bittarelli di Uritaxi, che minaccia anche ricorsi legali.
In mattinata si definisce, invece, il testo per le professioni. Il governo tiene il punto sull’abolizione delle tariffe, inserendo tuttavia una norma transitoria che consenta la liquidazione da parte dei Tribunali, in attesa di nuove disposizioni del governo.
La contesa si concentra così sul preventivo scritto, che i rappresentanti dei professionisti riescono a far saltare. Il testo finale (almeno fino a ieri sera) prevede l’obbligo di pattuire il compenso al momento dell’affidamento dell’incarico, «fornendo tutte le indicazioni utili – si legge – circa gli oneri ipotizzabili». L’informazione deve anche indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati dall’attività professionale. Per quanto riguarda il tirocinio, si riesce a strappare solo il rimborso forfettario dopo i primi sei mesi, da svolgere anche all’Università.

L’Unità 28.02.12