Latest Posts

"Le lacrime finte delle banche", di Alberto Bisin

Le banche lamentano il mandato, contenuto nel decreto legge sulle liberalizzazioni, che le obbliga a garantire l´apertura di un conto corrente gratuito e senza spese di deposito e prelievo ai pensionati con una pensione inferiore a 1.500 euro. Tale mandato è un tentativo di ovviare ai costi che la nuova regolamentazione sulla tracciabilità dei pagamenti in contanti imporrebbe ai pensionati.
Peggio la pezza che il buco, dicono in Veneto. Quando il legislatore comprenderà che regolamentazioni che agiscano direttamente sui prezzi sono inutili (perché i costi saranno imposti su altre tipologie di conti e clienti) ed inefficienti (per la stessa ragione), sarà troppo tardi.
Ma le banche hanno poco di cui lamentarsi. Quello bancario in Italia è tra i settori meno competitivi e tra i più dipendenti da elargizioni pubbliche, dirette o indirette. Alla base di tutto stanno le fondazioni bancarie, un´anomalia tutta italiana, una risposta “furba” alle richieste europee di liberalizzazione del mercato del credito. Il trasferimento del capitale delle banche alle fondazioni negli Anni 90 ha infatti permesso l´abbandono solo apparente della proprietà pubblica delle banche (eredità del corporativismo fascista) mantenendone al tempo stesso il controllo da parte della politica e della società civile che alla politica è appoggiata (i consigli delle fondazioni sono tipicamente nominati da comuni, province, regioni, con il contributo di università e altre istituzioni). E così ad esempio si parla di un intervento della Cassa Depositi e Prestiti (al 70% del Ministero dell´Economia) per ricapitalizzare il Monte dei Paschi di Siena, la cui Fondazione, da fine 2010 ha gettato alle ortiche un patrimonio netto di oltre 5 miliardi di euro.
Il risultato è una inefficienza senza paragoni. In molti Paesi conti correnti base gratuiti (per tutti, non solo i pensionati poveri) sono la norma imposta dalla competizione tra banche, non dalla legge. Ma qui non si tratta solo di esagerati costi di gestione dei conti correnti: la mancanza di concorrenza nel mercato del credito è un elemento fondamentale della crisi finanziaria in cui si trova il paese, che è resa più drammatica dal fatto che il prestito bancario alle imprese sta crollando. Se è difficile dire quanto questo sia dovuto anche alla scarsa domanda di investimenti da parte delle imprese, il notevole differenziale tra i tassi a cui le banche si approvvigionano di fondi (dai privati e dalla Banca Centrale Europea) e quello a cui li offrono a prestito suggerisce che il problema provenga fondamentalmente dalla parte dell´offerta. E non è difficile comprenderne il motivo. Le banche italiane hanno capitale limitato, in parte perché sono entrate nella crisi detenendo in portafoglio grandi quantità di titoli del debito pubblico, che hanno perso valore. Esse sono quindi sottocapitalizzate e per questo faticano a finanziare le imprese. In un mercato concorrenziale le banche, per uscire da questa situazione, sarebbero costrette a ridurre più o meno rapidamente il proprio portafoglio di titoli del debito pubblico e a ricapitalizzarsi sul mercato azionario. Sta avvenendo invece esattamente l´opposto: le banche utilizzano la liquidità loro offerta a tassi estremamente favorevoli dalla Bce per acquistare ancora più titoli e si oppongono con forza a ricapitalizzarsi (anche utilizzando “creativamente” la stessa liquidità della Bce), nel tentativo di non diluire i propri azionisti e di proteggere il proprio management. Ma questo comportamento è anomalo solo in apparenza: le banche infatti non guardano ai mercati ma al governo; si procurano benemerenze in attesa di un salvataggio, qualora necessario, a spese dei contribuenti.
Il Tesoro infatti miopicamente ringrazia, perché il comportamento delle banche lo aiuta a meglio piazzare titoli (cioè ad abbassare lo spread coi titoli tedeschi) nel breve periodo. Ma senza un mercato del credito concorrenziale ed efficiente l´uscita dalla crisi e dalla recessione, e soprattutto l´agognato ritorno alla crescita, diventano una corsa in salita. Non vi è alcun dubbio che il mercato del lavoro richieda interventi strutturali di riforma; ma quanto giova alle imprese un´offerta di lavoro meno costosa e più flessibile senza avere contemporaneamente facile accesso anche al credito con cui finanziare gli investimenti?
A dire il vero, problemi simili ai nostri (anche se non così estremi) sono abbastanza comuni in Europa, in Francia così come in Germania. Anche negli Stati Uniti, il potere di mercato delle grandi banche e la loro capacità di lobby presso il Tesoro sono stati responsabili in modo determinante del pessimo funzionamento nel mercato del credito privato, dopo la crisi del 2008. E una situazione simile, che si è protratta per anni, è una delle cause principali per cui la recessione dell´inizio degli Anni 90 in Giappone è ancora in gran parte irrisolta. Mal comune mezzo gaudio. Ma ciò non toglie che la liberalizzazione del settore bancario debba essere considerata una assoluta priorità e debba quindi essere affrontata con decisione e rapidità.

La Repubblica 28.02.12

“Le lacrime finte delle banche”, di Alberto Bisin

Le banche lamentano il mandato, contenuto nel decreto legge sulle liberalizzazioni, che le obbliga a garantire l´apertura di un conto corrente gratuito e senza spese di deposito e prelievo ai pensionati con una pensione inferiore a 1.500 euro. Tale mandato è un tentativo di ovviare ai costi che la nuova regolamentazione sulla tracciabilità dei pagamenti in contanti imporrebbe ai pensionati.
Peggio la pezza che il buco, dicono in Veneto. Quando il legislatore comprenderà che regolamentazioni che agiscano direttamente sui prezzi sono inutili (perché i costi saranno imposti su altre tipologie di conti e clienti) ed inefficienti (per la stessa ragione), sarà troppo tardi.
Ma le banche hanno poco di cui lamentarsi. Quello bancario in Italia è tra i settori meno competitivi e tra i più dipendenti da elargizioni pubbliche, dirette o indirette. Alla base di tutto stanno le fondazioni bancarie, un´anomalia tutta italiana, una risposta “furba” alle richieste europee di liberalizzazione del mercato del credito. Il trasferimento del capitale delle banche alle fondazioni negli Anni 90 ha infatti permesso l´abbandono solo apparente della proprietà pubblica delle banche (eredità del corporativismo fascista) mantenendone al tempo stesso il controllo da parte della politica e della società civile che alla politica è appoggiata (i consigli delle fondazioni sono tipicamente nominati da comuni, province, regioni, con il contributo di università e altre istituzioni). E così ad esempio si parla di un intervento della Cassa Depositi e Prestiti (al 70% del Ministero dell´Economia) per ricapitalizzare il Monte dei Paschi di Siena, la cui Fondazione, da fine 2010 ha gettato alle ortiche un patrimonio netto di oltre 5 miliardi di euro.
Il risultato è una inefficienza senza paragoni. In molti Paesi conti correnti base gratuiti (per tutti, non solo i pensionati poveri) sono la norma imposta dalla competizione tra banche, non dalla legge. Ma qui non si tratta solo di esagerati costi di gestione dei conti correnti: la mancanza di concorrenza nel mercato del credito è un elemento fondamentale della crisi finanziaria in cui si trova il paese, che è resa più drammatica dal fatto che il prestito bancario alle imprese sta crollando. Se è difficile dire quanto questo sia dovuto anche alla scarsa domanda di investimenti da parte delle imprese, il notevole differenziale tra i tassi a cui le banche si approvvigionano di fondi (dai privati e dalla Banca Centrale Europea) e quello a cui li offrono a prestito suggerisce che il problema provenga fondamentalmente dalla parte dell´offerta. E non è difficile comprenderne il motivo. Le banche italiane hanno capitale limitato, in parte perché sono entrate nella crisi detenendo in portafoglio grandi quantità di titoli del debito pubblico, che hanno perso valore. Esse sono quindi sottocapitalizzate e per questo faticano a finanziare le imprese. In un mercato concorrenziale le banche, per uscire da questa situazione, sarebbero costrette a ridurre più o meno rapidamente il proprio portafoglio di titoli del debito pubblico e a ricapitalizzarsi sul mercato azionario. Sta avvenendo invece esattamente l´opposto: le banche utilizzano la liquidità loro offerta a tassi estremamente favorevoli dalla Bce per acquistare ancora più titoli e si oppongono con forza a ricapitalizzarsi (anche utilizzando “creativamente” la stessa liquidità della Bce), nel tentativo di non diluire i propri azionisti e di proteggere il proprio management. Ma questo comportamento è anomalo solo in apparenza: le banche infatti non guardano ai mercati ma al governo; si procurano benemerenze in attesa di un salvataggio, qualora necessario, a spese dei contribuenti.
Il Tesoro infatti miopicamente ringrazia, perché il comportamento delle banche lo aiuta a meglio piazzare titoli (cioè ad abbassare lo spread coi titoli tedeschi) nel breve periodo. Ma senza un mercato del credito concorrenziale ed efficiente l´uscita dalla crisi e dalla recessione, e soprattutto l´agognato ritorno alla crescita, diventano una corsa in salita. Non vi è alcun dubbio che il mercato del lavoro richieda interventi strutturali di riforma; ma quanto giova alle imprese un´offerta di lavoro meno costosa e più flessibile senza avere contemporaneamente facile accesso anche al credito con cui finanziare gli investimenti?
A dire il vero, problemi simili ai nostri (anche se non così estremi) sono abbastanza comuni in Europa, in Francia così come in Germania. Anche negli Stati Uniti, il potere di mercato delle grandi banche e la loro capacità di lobby presso il Tesoro sono stati responsabili in modo determinante del pessimo funzionamento nel mercato del credito privato, dopo la crisi del 2008. E una situazione simile, che si è protratta per anni, è una delle cause principali per cui la recessione dell´inizio degli Anni 90 in Giappone è ancora in gran parte irrisolta. Mal comune mezzo gaudio. Ma ciò non toglie che la liberalizzazione del settore bancario debba essere considerata una assoluta priorità e debba quindi essere affrontata con decisione e rapidità.

La Repubblica 28.02.12

"Oltre Monti ma senza nostalgie", di Pierluigi Castagnetti

«E dopo?». In genere questo è l’incipit di interrogativi più complessi ed esistenziali. Da un po’ di tempo sta diventando anche la domanda che occupa i giorni delle forze politiche oltreché dei commentatori che si interrogano su ciò che ne sarà della politica dopo il governo Monti. In effetti l’interrogativo non sembra infondato sia alla luce di ciò che sta facendo il governo in carica, sia ancor di più di ciò che sembrano non riuscire a fare le forze politiche.
Si tratta infatti di un governo “strano” per tante ragioni, compreso il dato che è sostenuto da una coalizione parlamentare non formalizzata in cui le sue componenti non si riconoscono alleate l’una con l’altra. Non è la grosse koalition fra la Cdu e la Spd, che vedeva nella compagine governativa esponenti dell’uno e dell’altro partito e nell’assemblea parlamentare un coordinamento fra i due gruppi alleati.
In Italia i partiti sono assenti dalla compagine governativa e, nello stesso tempo, rifiutano di dar vita ad una compagine parlamentare. Il rischio oggettivo è quello che alla lunga si insinui la convinzione nell’opinione pubblica di una relativa inutilità dei partiti. Per questo Gustavo Zagrebelsky ha lanciato l’allarme: occorre riportare in onore la politica. E Ilvo Diamanti affonda: la questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.
Io penso che riportare in onore la politica comporti l’esigenza di riportare in onore la democrazia e a tal fine occorra un impegno “pedagogico” sia dei partiti che dei mezzi di informazione e formazione dell’opinione pubblica. La storia, anche recente, delle democrazie è attraversata infatti dall’illusione di poter realizzare la democrazia senza i partiti, illusione pagata a caro prezzo nel secolo scorso che ci ha mostrato i volti diversi ed uguali di tirannie apparentemente democratiche perché nate dalle elezioni, ma in effetti figlie della degenerazione e della perdita di senso dei partiti.
Ho seguito da vicino l’illusione ingenua dello stesso Vaclav Havel, il primo presidente della Cecoslovacchia liberata dal comunismo, che si rifiutò di instaurare una democrazia dei partiti preferendo dar vita a un forum civico (“Obchansky Forum”), un’esperienza che ha evitato una degenerazione letale di quella democrazia solo grazie all’intervento di vecchi leader ex comunisti ed ex popolari, convertiti alla democrazia come Dubcek, Bartoncik e Lux, che non riuscirono peraltro ad evitare che il paese finisse nelle mani di Vaclav Klaus esponente della destra, fortunatamente democratica.
La preoccupazione, dunque, che si insinui la convinzione in questa Italia guidata dai tecnici che si possa fare a meno della politica e dei partiti è veramente seria e le forze politiche non debbono sottovalutarla. Del resto è sempre Zagrebelsky che ci ricorda come in un antico testo anonimo firmato “Il vecchio oligarca” (“La costituzione degli ateniesi”) si sostenesse che la democrazia possa degenerare lentamente «senza rendersene conto e senza avere le energie per autoriformarsi ». Viene alla mente il paradigma di Böckenforde, il grande costituzionalista cattolico e socialdemocratico tedesco, secondo cui la democrazia vive di presupposti che non riesce a generare.
Se vogliamo, dunque, essere all’altezza della responsabilità, una volta si sarebbe detto della “vigilanza” su ciò che accade e, ancor più, di un’azione volta a ricostruire e rimotivare ciò che si è consumato, credo che noi democratici dobbiamo osservare il tempo e il processo nel quale siamo inseriti con intelligenza non nostalgica, ma aperta agli apporti che la cultura dei diritti personali e comunitari oltreché delle istituzioni di governance oggi è in grado di offrire alla politica.
Senza nostalgia non significa soltanto rinunciare a precedenti storie e paternità ideologiche, ma significa anche capire che il governo Monti ha compiuto – tra altri – il miracolo di delegittimare e archiviare il modello della politica e dell’uomo politico senza qualità che ha connotato soprattutto l’ultima parte della cosiddetta Seconda repubblica. Dell’uomo politico in particolare, come dice Diamanti, «non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici o per fedeltà al capo». È finito quel modello. Il governo Monti lo ha sostituito con quello della competenza, della sobrietà e della serietà. Tutti dovranno tenerne conto, il Pd in particolare.
Guai a noi se si proponesse alle prossime elezioni l’alternativa fra competenza e incompetenza, fra competenza e approssimazione, fra competenza e politica, passaggi scivolosi e non impossibili. Sotto questo profilo il Pd di Bersani che sin da subito ha scelto la strada opposta a quella della personalizzazione della politica e della insostenibile leggerezza del messaggio politico ci aiuta molto. Ma l’esperienza del governo Monti ci obbliga lungo quella strada ad andare ancora più avanti. Ci obbliga a mostrare il volto di un partito non di carta ma neppure di cemento, un partito che sappia “auscultare” (come diceva Moro) la schiena del paese e raccogliere la domanda nuova di politica seria e competente, cioè affidata a uomini conoscitori della vita dei cittadini ma non di meno dei meccanismi tecnici per risolvere i problemi in questo mondo globalizzato e sfuggito ormai alla sovranità tradizionale della politica.
È l’unica strada per riacquistare quella fiducia dei cittadini che oggi sarebbe scesa, come dice Mannheimer, all’ 8%. Il Pd ha sicuramente più possibilità di altri di riuscirci. Qualità del progetto e qualità (culturale, professionale ed etica) del personale sono le sfide che lo attendono alle prossime elezioni.
Pierluigi Castagnetti

da Europa Quotidiano 28.02.12

“Oltre Monti ma senza nostalgie”, di Pierluigi Castagnetti

«E dopo?». In genere questo è l’incipit di interrogativi più complessi ed esistenziali. Da un po’ di tempo sta diventando anche la domanda che occupa i giorni delle forze politiche oltreché dei commentatori che si interrogano su ciò che ne sarà della politica dopo il governo Monti. In effetti l’interrogativo non sembra infondato sia alla luce di ciò che sta facendo il governo in carica, sia ancor di più di ciò che sembrano non riuscire a fare le forze politiche.
Si tratta infatti di un governo “strano” per tante ragioni, compreso il dato che è sostenuto da una coalizione parlamentare non formalizzata in cui le sue componenti non si riconoscono alleate l’una con l’altra. Non è la grosse koalition fra la Cdu e la Spd, che vedeva nella compagine governativa esponenti dell’uno e dell’altro partito e nell’assemblea parlamentare un coordinamento fra i due gruppi alleati.
In Italia i partiti sono assenti dalla compagine governativa e, nello stesso tempo, rifiutano di dar vita ad una compagine parlamentare. Il rischio oggettivo è quello che alla lunga si insinui la convinzione nell’opinione pubblica di una relativa inutilità dei partiti. Per questo Gustavo Zagrebelsky ha lanciato l’allarme: occorre riportare in onore la politica. E Ilvo Diamanti affonda: la questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.
Io penso che riportare in onore la politica comporti l’esigenza di riportare in onore la democrazia e a tal fine occorra un impegno “pedagogico” sia dei partiti che dei mezzi di informazione e formazione dell’opinione pubblica. La storia, anche recente, delle democrazie è attraversata infatti dall’illusione di poter realizzare la democrazia senza i partiti, illusione pagata a caro prezzo nel secolo scorso che ci ha mostrato i volti diversi ed uguali di tirannie apparentemente democratiche perché nate dalle elezioni, ma in effetti figlie della degenerazione e della perdita di senso dei partiti.
Ho seguito da vicino l’illusione ingenua dello stesso Vaclav Havel, il primo presidente della Cecoslovacchia liberata dal comunismo, che si rifiutò di instaurare una democrazia dei partiti preferendo dar vita a un forum civico (“Obchansky Forum”), un’esperienza che ha evitato una degenerazione letale di quella democrazia solo grazie all’intervento di vecchi leader ex comunisti ed ex popolari, convertiti alla democrazia come Dubcek, Bartoncik e Lux, che non riuscirono peraltro ad evitare che il paese finisse nelle mani di Vaclav Klaus esponente della destra, fortunatamente democratica.
La preoccupazione, dunque, che si insinui la convinzione in questa Italia guidata dai tecnici che si possa fare a meno della politica e dei partiti è veramente seria e le forze politiche non debbono sottovalutarla. Del resto è sempre Zagrebelsky che ci ricorda come in un antico testo anonimo firmato “Il vecchio oligarca” (“La costituzione degli ateniesi”) si sostenesse che la democrazia possa degenerare lentamente «senza rendersene conto e senza avere le energie per autoriformarsi ». Viene alla mente il paradigma di Böckenforde, il grande costituzionalista cattolico e socialdemocratico tedesco, secondo cui la democrazia vive di presupposti che non riesce a generare.
Se vogliamo, dunque, essere all’altezza della responsabilità, una volta si sarebbe detto della “vigilanza” su ciò che accade e, ancor più, di un’azione volta a ricostruire e rimotivare ciò che si è consumato, credo che noi democratici dobbiamo osservare il tempo e il processo nel quale siamo inseriti con intelligenza non nostalgica, ma aperta agli apporti che la cultura dei diritti personali e comunitari oltreché delle istituzioni di governance oggi è in grado di offrire alla politica.
Senza nostalgia non significa soltanto rinunciare a precedenti storie e paternità ideologiche, ma significa anche capire che il governo Monti ha compiuto – tra altri – il miracolo di delegittimare e archiviare il modello della politica e dell’uomo politico senza qualità che ha connotato soprattutto l’ultima parte della cosiddetta Seconda repubblica. Dell’uomo politico in particolare, come dice Diamanti, «non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici o per fedeltà al capo». È finito quel modello. Il governo Monti lo ha sostituito con quello della competenza, della sobrietà e della serietà. Tutti dovranno tenerne conto, il Pd in particolare.
Guai a noi se si proponesse alle prossime elezioni l’alternativa fra competenza e incompetenza, fra competenza e approssimazione, fra competenza e politica, passaggi scivolosi e non impossibili. Sotto questo profilo il Pd di Bersani che sin da subito ha scelto la strada opposta a quella della personalizzazione della politica e della insostenibile leggerezza del messaggio politico ci aiuta molto. Ma l’esperienza del governo Monti ci obbliga lungo quella strada ad andare ancora più avanti. Ci obbliga a mostrare il volto di un partito non di carta ma neppure di cemento, un partito che sappia “auscultare” (come diceva Moro) la schiena del paese e raccogliere la domanda nuova di politica seria e competente, cioè affidata a uomini conoscitori della vita dei cittadini ma non di meno dei meccanismi tecnici per risolvere i problemi in questo mondo globalizzato e sfuggito ormai alla sovranità tradizionale della politica.
È l’unica strada per riacquistare quella fiducia dei cittadini che oggi sarebbe scesa, come dice Mannheimer, all’ 8%. Il Pd ha sicuramente più possibilità di altri di riuscirci. Qualità del progetto e qualità (culturale, professionale ed etica) del personale sono le sfide che lo attendono alle prossime elezioni.
Pierluigi Castagnetti

da Europa Quotidiano 28.02.12

"Il dovere della politica", di Carlo Galli

La politica, assieme all´angoscia per la sorte di Luca Abbà, bussa alle porte della Valsusa. E attraverso il conflitto, il rischio, la violenza, sembra voler presentare un conto sgradito e inaspettato – in ogni caso molto caro – a un governo “tecnico”, che trae la propria legittimità materiale e contingente dal farsi portatore di istanze “oggettive”, di imperativi sistemici decisi da poteri diversi dalla sovranità del popolo italiano. Ed è invece evidente che la politica non si lascia sostituire dalla tecnica, e che al governo Monti, e al ministro Passera, spettano ora misure politiche in senso proprio.
Nell´ambito dell´ordine pubblico, in primo luogo, ma soprattutto – e ciò ha valore ancora più apertamente politico – nell´ambito di una franca chiarificazione davanti al Paese di che cosa sia in gioco, ora, intorno alla vicenda della Tav.
Si tratta di una partita di grande spessore. La linea ad Alta Velocità che deve unire Torino e Lione è già stata approvata da due parlamenti nazionali, quello italiano e quello francese, e da due Trattati internazionali. È una struttura strategica che viene finanziata con denaro europeo: è una fonte di lavoro per migliaia di operai e tecnici: è una promessa di sviluppo per il complesso del Paese. Il tracciato è stato modificato da un Osservatorio a cui hanno partecipato i territori, che ha discusso per tre anni. È, insomma, una partita a più livelli – europeo, nazionale, locale – in cui la politica si è messa in gioco attraverso procedure democratiche, sia partecipative sia rappresentative: in cui lo sviluppo economico e le sue esigenze è stato mediato, interpretato, incanalato, sui binari della politica.
Ora, a questa politica – imperfetta, ma non truffaldina – se ne oppone un´altra, fatta anche di violenza (i fatti dell´estate scorsa) a cui non possono non seguire azioni della magistratura, com´è normale in uno Stato di diritto. E questa politica che si oppone alla politica democratica non è solo violenza, certo, ma neppure la ripudia apertamente. Ma soprattutto è una politica che sta trasformando la Val di Susa, e i disagi dei suoi abitanti, in uno spazio politico che vuole essere alternativo rispetto all´assetto della politica contemporanea.
Accanto all´ambiguità delle forze politiche di centrosinistra che a Roma approvano la Tav e nei territori vi si schierano contro, per ottenere consenso – e questa è la pratica, non nuova né rivoluzionaria, dell´opportunismo politico – , c´è infatti la lotta dei territori contro un modello di sviluppo e che sconvolge gli equilibri della vita collettiva locale – e questa è la pretesa dell´ecologismo in una sola vallata, peraltro oggi certamente non “vergine” – ; c´è, poi, la spregiudicatezza delle forze di sinistra, che paiono volere abbracciare ogni causa per tentare di rientrare in gioco, assecondando ogni protesta contro le contraddizioni del capitalismo traballante, che oscilla fra il gigantismo e la crisi – contraddizioni che ci sono, certo, ma che in questo caso hanno pesato meno delle affermazioni e delle procedure della democrazia, che troppo disinvoltamente vengono considerate carta straccia.
E c´è, accanto a queste, un´altra prospettiva, ancora più radicale. Quella di fare della Val di Susa il punto di coagulo di tutte le forze – in realtà delle debolezze, delle disperazioni, della mancanza di fantasia, della sfiducia nella democrazia – che non vogliono il riequilibrio dell´Italia, il suo rientro nella normalità, e che puntano su una situazione “greca” per innescare un conflitto delegittimante; che vogliono fare della Val di Susa l´incubatoio di altre rivolte nel Paese, che dimostrino l´impopolarità delle politiche che il governo sta attuando, con il consenso della stragrande maggioranza del Parlamento.
Alla strategia dell´emergenza, alla retorica dell´iperbole che vede ovunque omicidi di Stato (o del Capitale, o della Grande Finanza), a questa contrapposizione fra maggioranza legale e minoranze ultra-conflittuali, è quanto mai opportuno che il governo apertamente opponga la forza tranquilla di una democrazia “normale”: non una risposta reazionaria, quindi, e neppure burocratica, ma una risposta politica che spieghi al Paese che ciò che è stato democraticamente deciso va mantenuto; che l´Italia sta oggi in un contesto europeo con pieno diritto e piena dignità e che non vuole sottrarsi agli impegni liberamente assunti e ratificati, che i nostri partner stanno già eseguendo; che la contestazione del modello di sviluppo è, ovviamente, sempre lecita, ma non può bloccare il funzionamento di quella stessa politica democratica che l´ha resa possibile; che non si può, mentre si discute “come” fare una cosa, tornare a mettere in dubbio “se” farla; che c´è una radicale differenza fra violenza, da una parte, e conflitto politico, dall´altra; che l´Italia non vuole essere la Grecia (con tutto il rispetto per un Paese in una situazione ben più difficile della nostra).
Sono, queste, considerazioni politiche che spettano al governo, insieme alle azioni che ne conseguono; ma altre se ne possono aggiungere. Ovvero, che si può anche scommettere contro l´Italia (lo fa la Lega, ad esempio) ma che questa posizione non fornisce particolari credenziali di affidabilità né di acume, e che da forze di sinistra che si candidano a governare questo Paese ci si attendono comportamenti più equilibrati. Che, giocando contro la democrazia per inseguire ogni estremismo, la sinistra non esce dalla propria crisi ma la dimostra e la aggrava. E che, insomma, dalla Val di Susa viene lanciata una sfida che non può essere ignorata: la sfida delle responsabilità e della maturità di tutti, ciascuno per la sua parte.

La Repubblica 28.02.12

******

Incidente no tav, Fiano: “Speriamo salvezza Abbà, ma opera fondamentale”
La solidarietà a lui e alla sua famiglia non ci impedisce però di mantenere salda la nostra linea, pur nella delicatezza del momento
di Emanuele Fiano, pubblicato il 27 febbraio 2012 , 209 letture
Ci auguriamo che Luca Abbà si possa riprendere e la sua vita sia salva dopo il grave incidente di questa mattina al cantiere TAV.

La solidarietà a lui e alla sua famiglia non ci impedisce però di mantenere salda la nostra linea, pur nella delicatezza del momento.

Il progetto dell’alta velocità in Val Susa è un’opera infrastrutturale di grande impegno per l’Italia e l’Europa, che è stata decisa in ogni luogo necessario e che vede ora la sua fase realizzativa dopo un ulteriore verifica del tavolo di concertazione, durato a lungo, con le amministrazioni locali coinvolte, che ha portato a una modifica significativa del tracciato.

www.partitodemocratico.it

“Il dovere della politica”, di Carlo Galli

La politica, assieme all´angoscia per la sorte di Luca Abbà, bussa alle porte della Valsusa. E attraverso il conflitto, il rischio, la violenza, sembra voler presentare un conto sgradito e inaspettato – in ogni caso molto caro – a un governo “tecnico”, che trae la propria legittimità materiale e contingente dal farsi portatore di istanze “oggettive”, di imperativi sistemici decisi da poteri diversi dalla sovranità del popolo italiano. Ed è invece evidente che la politica non si lascia sostituire dalla tecnica, e che al governo Monti, e al ministro Passera, spettano ora misure politiche in senso proprio.
Nell´ambito dell´ordine pubblico, in primo luogo, ma soprattutto – e ciò ha valore ancora più apertamente politico – nell´ambito di una franca chiarificazione davanti al Paese di che cosa sia in gioco, ora, intorno alla vicenda della Tav.
Si tratta di una partita di grande spessore. La linea ad Alta Velocità che deve unire Torino e Lione è già stata approvata da due parlamenti nazionali, quello italiano e quello francese, e da due Trattati internazionali. È una struttura strategica che viene finanziata con denaro europeo: è una fonte di lavoro per migliaia di operai e tecnici: è una promessa di sviluppo per il complesso del Paese. Il tracciato è stato modificato da un Osservatorio a cui hanno partecipato i territori, che ha discusso per tre anni. È, insomma, una partita a più livelli – europeo, nazionale, locale – in cui la politica si è messa in gioco attraverso procedure democratiche, sia partecipative sia rappresentative: in cui lo sviluppo economico e le sue esigenze è stato mediato, interpretato, incanalato, sui binari della politica.
Ora, a questa politica – imperfetta, ma non truffaldina – se ne oppone un´altra, fatta anche di violenza (i fatti dell´estate scorsa) a cui non possono non seguire azioni della magistratura, com´è normale in uno Stato di diritto. E questa politica che si oppone alla politica democratica non è solo violenza, certo, ma neppure la ripudia apertamente. Ma soprattutto è una politica che sta trasformando la Val di Susa, e i disagi dei suoi abitanti, in uno spazio politico che vuole essere alternativo rispetto all´assetto della politica contemporanea.
Accanto all´ambiguità delle forze politiche di centrosinistra che a Roma approvano la Tav e nei territori vi si schierano contro, per ottenere consenso – e questa è la pratica, non nuova né rivoluzionaria, dell´opportunismo politico – , c´è infatti la lotta dei territori contro un modello di sviluppo e che sconvolge gli equilibri della vita collettiva locale – e questa è la pretesa dell´ecologismo in una sola vallata, peraltro oggi certamente non “vergine” – ; c´è, poi, la spregiudicatezza delle forze di sinistra, che paiono volere abbracciare ogni causa per tentare di rientrare in gioco, assecondando ogni protesta contro le contraddizioni del capitalismo traballante, che oscilla fra il gigantismo e la crisi – contraddizioni che ci sono, certo, ma che in questo caso hanno pesato meno delle affermazioni e delle procedure della democrazia, che troppo disinvoltamente vengono considerate carta straccia.
E c´è, accanto a queste, un´altra prospettiva, ancora più radicale. Quella di fare della Val di Susa il punto di coagulo di tutte le forze – in realtà delle debolezze, delle disperazioni, della mancanza di fantasia, della sfiducia nella democrazia – che non vogliono il riequilibrio dell´Italia, il suo rientro nella normalità, e che puntano su una situazione “greca” per innescare un conflitto delegittimante; che vogliono fare della Val di Susa l´incubatoio di altre rivolte nel Paese, che dimostrino l´impopolarità delle politiche che il governo sta attuando, con il consenso della stragrande maggioranza del Parlamento.
Alla strategia dell´emergenza, alla retorica dell´iperbole che vede ovunque omicidi di Stato (o del Capitale, o della Grande Finanza), a questa contrapposizione fra maggioranza legale e minoranze ultra-conflittuali, è quanto mai opportuno che il governo apertamente opponga la forza tranquilla di una democrazia “normale”: non una risposta reazionaria, quindi, e neppure burocratica, ma una risposta politica che spieghi al Paese che ciò che è stato democraticamente deciso va mantenuto; che l´Italia sta oggi in un contesto europeo con pieno diritto e piena dignità e che non vuole sottrarsi agli impegni liberamente assunti e ratificati, che i nostri partner stanno già eseguendo; che la contestazione del modello di sviluppo è, ovviamente, sempre lecita, ma non può bloccare il funzionamento di quella stessa politica democratica che l´ha resa possibile; che non si può, mentre si discute “come” fare una cosa, tornare a mettere in dubbio “se” farla; che c´è una radicale differenza fra violenza, da una parte, e conflitto politico, dall´altra; che l´Italia non vuole essere la Grecia (con tutto il rispetto per un Paese in una situazione ben più difficile della nostra).
Sono, queste, considerazioni politiche che spettano al governo, insieme alle azioni che ne conseguono; ma altre se ne possono aggiungere. Ovvero, che si può anche scommettere contro l´Italia (lo fa la Lega, ad esempio) ma che questa posizione non fornisce particolari credenziali di affidabilità né di acume, e che da forze di sinistra che si candidano a governare questo Paese ci si attendono comportamenti più equilibrati. Che, giocando contro la democrazia per inseguire ogni estremismo, la sinistra non esce dalla propria crisi ma la dimostra e la aggrava. E che, insomma, dalla Val di Susa viene lanciata una sfida che non può essere ignorata: la sfida delle responsabilità e della maturità di tutti, ciascuno per la sua parte.

La Repubblica 28.02.12

******

Incidente no tav, Fiano: “Speriamo salvezza Abbà, ma opera fondamentale”
La solidarietà a lui e alla sua famiglia non ci impedisce però di mantenere salda la nostra linea, pur nella delicatezza del momento
di Emanuele Fiano, pubblicato il 27 febbraio 2012 , 209 letture
Ci auguriamo che Luca Abbà si possa riprendere e la sua vita sia salva dopo il grave incidente di questa mattina al cantiere TAV.

La solidarietà a lui e alla sua famiglia non ci impedisce però di mantenere salda la nostra linea, pur nella delicatezza del momento.

Il progetto dell’alta velocità in Val Susa è un’opera infrastrutturale di grande impegno per l’Italia e l’Europa, che è stata decisa in ogni luogo necessario e che vede ora la sua fase realizzativa dopo un ulteriore verifica del tavolo di concertazione, durato a lungo, con le amministrazioni locali coinvolte, che ha portato a una modifica significativa del tracciato.

www.partitodemocratico.it

"Serve più ricerca per valutare i risultati scolastici", di Benedetto Vertecchi

Promuovere in Italia una cultura valutativa è una condizione per modernizzare il sistema educativo, avvertita soprattutto per la suggestione esercitata da quanto sta avvenendo altrove. L’attenzione che nel dibattito internazionale è stata rivolta ai dati delle grandi rilevazioni comparative ha spinto a considerare come modello di riferimento per la valutazione quello utilizzato dall’Ocse per il Programme for International Student Assessment (Pisa). Non ci si è chiesti se le ipotesi elaborate per condurre rilevazioni comparative, come quelle dell’Ocse, potessero essere assunte, sic et simpliciter, per sviluppare l’attività valutativa in uno specifico sistema scolastico. È così avvenuto che anziché cercare di definire una strategia che tenesse conto delle caratteristiche proprie della scuola italiana, si siano acquistati dall’Ocse servizi valutativi variamente derivati dalle procedure Pisa. C’è da chiedersi con quale vantaggio per il nostro sistema educativo. Certo con lo svantaggio di aver rinunciato a un’elaborazione autonoma, specificamente collegata a un disegno di sviluppo dalla cultura valutativa in Italia.
Quest’atteggiamento subalterno non è giovato neanche ad assicurare la qualità della partecipazione nazionale alle rilevazioni internazionali, che si è limitata a eseguire le operazioni richieste da comitati di esperti nei quali la presenza italiana è stata marginale. La diffusione delle graduatorie risultanti dalle singole rilevazioni è stata seguita da reazioni abbastanza rituali, da bar sport. Non ci sono state iniziative utili per sviluppare l’analisi dei dati al fine di ricavarne elementi utili per individuare i punti di debolezza (ma anche di forza) del nostro sistema educativo. Si è fatto di peggio, organizzando rilevazioni a carattere nazionale che sono la brutta copia di quelle internazionali e ne riproducono, impropriamente, la logica. Si può capire, infatti, che le rilevazioni comparative siano sostanzialmente rivolte a cogliere la distribuzione di variabili dipendenti (ovvero dei risultati dell’attività educativa), anche se con attenzione alle condizioni in cui nei diversi paesi si sono svolti i processi che sono all’origine di quelle distribuzioni. Non si capisce, invece, a che serva riproporre la medesima logica nell’attività valutativa che si svolge a livello nazionale. Dobbiamo continuare a porre in evidenza il divario Nord e Sud? O le differenze d’apprendimento che si riscontrano in scuole frequentate da allievi di condizione sociale diversa?
Il fatto è che la ripetitività delle pratiche valutative è la conseguenza del mancato sviluppo di una ricerca autonoma. Si finisce col confondere in un unico calderone l’attività valutativa rivolta a verificare il raggiungimento di livelli attesi con quella, assai più importante per sostenere l’assunzione di decisioni consapevoli, tesa a identificare le variabili indipendenti, quelle che hanno conseguenze sul modo in cui il sistema scolastico svolge il suo compito d’istruzione. Il fatto è che una valutazione orientata alle variabili indipendenti suppone un impegno per la ricerca la cui necessità è ben lontana dall’essere avvertita. Non serve stracciarsi le vesti perché i nostri allievi sono in fondo alle graduatorie sulla capacità di comprensione della lettura o sulle abilità matematiche, se nessuno è in grado di porre in relazione la loro competenza verbale con l’affermarsi di modelli di comunicazione antagonisti a quelli propri della scuola o di definire un quadro degli apprendimenti che è presumibile possano costituire un riferimento duraturo per apprendimenti ulteriori e di quelli che, per quanto rilevanti al momento, è improbabile che continuino a esserlo nel seguito.
Un’altra ragione per sviluppare la ricerca consiste nel superare la dipendenza da procedure valutative che si finisce con l’utilizzare per mancanza di proposte alternative. Per esempio, nell’area anglofona si stanno sviluppando strumentari automatici per l’analisi di protocolli verbali. È evidente che quelle procedure non saranno, se non parzialmente, utilizzabili per valutare documenti in lingua italiana. Già al momento le prove utilizzate nelle rilevazioni nazionali sono piuttosto datate. L’intervallo con lo stato dell’arte non potrà che accrescersi nei prossimi anni.
Per sviluppare un’attività valutativa capace di concorrere a migliorare la qualità delle decisioni sul sistema scolastico c’è bisogno sia di rendere continua la rilevazione di dati descrittivi (è il compito che può svolgere l’Invalsi), sia di promuovere la ricerca: per soddisfare questa esigenza c’è bisogno di soluzioni organizzative specifiche, non rivolte a fornire un servizio (come l’Invalsi), ma ad accrescere la conoscenza interna al sistema.

Il Sole 24 Ore 27.02.12