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"Fiat, si muova il governo", di Guglielmo Epifani

Appaiono molto singolari, per non dire altro, le reazioni all’intervista con cui Sergio Marchionne in forma esplicita rovescia gran parte degli obiettivi di Fabbrica Italia, e cioè la filosofia di politica industriale che per oltre due anni ha ispirato obiettivi e me todi del gruppo Fiat Chrysler alme- no nel nostro Paese. Nell’intervista vengono messi da parte i precedenti obiettivi produttivi, rimandati ancora i nuovi modelli, reso di fatto senza sostanza l’impegno a difendere gli impianti a fronte di assetti organizzativi e contrattuali di tipo diverso dal passato, con una drastica riduzione di diritti, il peggioramento delle condizioni lavorative e il diritto negato alla rappresentanza sindacale per migliaia di lavoratori del gruppo. Nuova e grave infine è la previsione di una possibile chiusura di due stabilimenti se le vendite nel mercato americano non dovessero andar bene, anche perché le conseguenze in questo caso sarebbero nettamente più pesanti di quelle già affrontate e subite fino ad oggi. Lasciamo per un momento perdere il fatto che in molti negli anni scorsi avevano paventato questo esito e messo in guardia dalle evidenti contraddizioni del piano strategico del gruppo e della insussistenza di ogni realistico fondamento in un mercato come quello europeo, segnato da una contrazione di vendite e da una concorrenza che richiede investimenti e innovazione di prodotto. E lasciamo anche da parte i tanti corifei senza testa e ragione, pronti a condividere a prescindere dal merito e che oggi hanno perso la parola e la memoria. Quello che non si può assolutamente fare, oggi, è fingere di non capire come stanno veramente le cose e assistere passivamente alla lenta scomparsa della produzione di automobili in Italia. Bisogna cambiare registro e anche velocemente. Per questo non vanno bene le reazioni all’intervista. Pesano i silenzi degli industriali e anche l’assenza di coraggio; colpisce l’afasia dei maggiori esponenti politici di centrodestra; non stupisce ma rattrista la distrazione in generale della nostra informazione che pure potrebbe discutere, valutare, commentare le conseguenze per il Paese e per i giovani di un futuro buio per la Fiat; si avverte troppa attesa da parte di tanti amministratori locali, in modo particolare di Lazio e Piemonte, di fronte a ciò che si può prevedere. Pesa per ultimo il silenzio più importante: quello del governo. Eppure toccherà al governo prendere rapidamente l’iniziativa. Non c’è alternativa, altrimenti si rischia di arrivare al punto di non ritorno. E d’altra parte non ci può essere una politica di crescita senza una vera politica industriale, anche se la Banca centrale europea curiosamente non ne parla mai. Nell’intervista di Marchionne c’è, non credo a caso, una indiretta richiesta di attivare una strategia di politica industriale per il settore dell’auto. Quello che non era stato richiesto al precedente governo viene ora suggerito al governo presieduto da Monti, il quale dovrà misurarsi anche su questo dossier che per quanto difficile non potrà essere né eluso né rimandato. E bisognerà anche parlare chiaramente con la Fiat di quelli che sono gli interessi dell’azienda e di quelli che sono gli interessi del Paese. Non possiamo essere tedeschi solo per il rigore e la disciplina fiscale e fare il contrario di ciò che fa la Germania per il proprio sistema produttivo e la propria industria. In un anno come il 2011 il primo gruppo automobilistico tedesco ha raggiunto gli obiettivi più alti della sua storia per vendite e profitti. E come è noto, il pubblico ha un peso non secondario nel suo azionariato, senza che a nessuno venga in mente di chiederne un cambiamento.

L’Unità 27.02.12

“Fiat, si muova il governo”, di Guglielmo Epifani

Appaiono molto singolari, per non dire altro, le reazioni all’intervista con cui Sergio Marchionne in forma esplicita rovescia gran parte degli obiettivi di Fabbrica Italia, e cioè la filosofia di politica industriale che per oltre due anni ha ispirato obiettivi e me todi del gruppo Fiat Chrysler alme- no nel nostro Paese. Nell’intervista vengono messi da parte i precedenti obiettivi produttivi, rimandati ancora i nuovi modelli, reso di fatto senza sostanza l’impegno a difendere gli impianti a fronte di assetti organizzativi e contrattuali di tipo diverso dal passato, con una drastica riduzione di diritti, il peggioramento delle condizioni lavorative e il diritto negato alla rappresentanza sindacale per migliaia di lavoratori del gruppo. Nuova e grave infine è la previsione di una possibile chiusura di due stabilimenti se le vendite nel mercato americano non dovessero andar bene, anche perché le conseguenze in questo caso sarebbero nettamente più pesanti di quelle già affrontate e subite fino ad oggi. Lasciamo per un momento perdere il fatto che in molti negli anni scorsi avevano paventato questo esito e messo in guardia dalle evidenti contraddizioni del piano strategico del gruppo e della insussistenza di ogni realistico fondamento in un mercato come quello europeo, segnato da una contrazione di vendite e da una concorrenza che richiede investimenti e innovazione di prodotto. E lasciamo anche da parte i tanti corifei senza testa e ragione, pronti a condividere a prescindere dal merito e che oggi hanno perso la parola e la memoria. Quello che non si può assolutamente fare, oggi, è fingere di non capire come stanno veramente le cose e assistere passivamente alla lenta scomparsa della produzione di automobili in Italia. Bisogna cambiare registro e anche velocemente. Per questo non vanno bene le reazioni all’intervista. Pesano i silenzi degli industriali e anche l’assenza di coraggio; colpisce l’afasia dei maggiori esponenti politici di centrodestra; non stupisce ma rattrista la distrazione in generale della nostra informazione che pure potrebbe discutere, valutare, commentare le conseguenze per il Paese e per i giovani di un futuro buio per la Fiat; si avverte troppa attesa da parte di tanti amministratori locali, in modo particolare di Lazio e Piemonte, di fronte a ciò che si può prevedere. Pesa per ultimo il silenzio più importante: quello del governo. Eppure toccherà al governo prendere rapidamente l’iniziativa. Non c’è alternativa, altrimenti si rischia di arrivare al punto di non ritorno. E d’altra parte non ci può essere una politica di crescita senza una vera politica industriale, anche se la Banca centrale europea curiosamente non ne parla mai. Nell’intervista di Marchionne c’è, non credo a caso, una indiretta richiesta di attivare una strategia di politica industriale per il settore dell’auto. Quello che non era stato richiesto al precedente governo viene ora suggerito al governo presieduto da Monti, il quale dovrà misurarsi anche su questo dossier che per quanto difficile non potrà essere né eluso né rimandato. E bisognerà anche parlare chiaramente con la Fiat di quelli che sono gli interessi dell’azienda e di quelli che sono gli interessi del Paese. Non possiamo essere tedeschi solo per il rigore e la disciplina fiscale e fare il contrario di ciò che fa la Germania per il proprio sistema produttivo e la propria industria. In un anno come il 2011 il primo gruppo automobilistico tedesco ha raggiunto gli obiettivi più alti della sua storia per vendite e profitti. E come è noto, il pubblico ha un peso non secondario nel suo azionariato, senza che a nessuno venga in mente di chiederne un cambiamento.

L’Unità 27.02.12

"I silenzi del governo sulla stretta creditizia", di Tito Boeri

Il fondo taglia-tasse è slittato al 2013. Se tutto va bene entrerà in vigore nel 2014. Il riordino degli ammortizzatori viene annunciato per il 2017. Le riforme di spesa non sono per questa legislatura. Farle pro forma ora per lasciarle in eredità ai governi futuri è pura demagogia. Le leggi delega su fisco e ammortizzatori tramandate da una legislatura all´altra sono finite nel nulla. Anche le riforme posticipate non funzionano: ricordiamoci degli scaloni previdenziali diventati scalini. Meglio concentrarsi sulle riforme a costo zero che riguardano il presente, a partire dall´ingresso nel mercato del lavoro che abbassa produttività e salari e dalla stretta creditizia che rischia di strangolare molte aziende. Aspetto non secondario, il credit crunch dà spazio ad organizzazioni criminali che possono riciclare denaro sporco fornendo liquidità ad imprese assetate.
In questi giorni sono più frequenti le interviste ai banchieri che ai calciatori. Immancabilmente negano di avere stretto i cordoni del credito. “Continuiamo a finanziare le imprese e le famiglie. Al massimo avremo tagliato la parte finanziaria degli impieghi.” Devo appartenere a questa categoria dato che la busta che ho aperto questa mattina, con l´insegna della banca di cui sono cliente da 30 anni, mi ha fatto la seguente “proposta unilaterale”: o accetto il raddoppio (dal 6 al 14 per cento) del tasso praticato se vado in rosso anche solo di mille euro, oppure devo cambiare banca. Tutto questo a seguito del “peggioramento delle condizioni generali del mercato”. Non credo di essere il solo ad avere ricevuto lettere di questo tipo. Sono perfettamente coerenti con l´ipocrisia dei banchieri che negano la presenza di una stretta creditizia. Tecnicamente non c´è un taglio degli impieghi, ma solo “repricing”. Ma non c´è grande differenza fra il tagliare i crediti alla clientela o renderli due volte più costosi di prima. Quella percentuale crescente di piccole e medie imprese che nelle indagini Isae-Istat sostengono di avere difficoltà nell´accedere al credito si sono spesso viste proporre tassi troppo alti, piuttosto che negare del tutto l´accesso al credito.
La stretta decisa dalle banche può allungare la recessione, che sarà comunque più dura del solito perché non abbiamo risorse per contrastarla. Quando le banche cominciano a prestare meno di quanto raccolgano, diventano un fardello anziché un volano per l´economia. Se ne dovrebbero essere accorti anche tutti quelli che se la prendono con l´economia di carta della finanza e la contrappongono all´economia reale. Se le banche smettono di trasformare i risparmi delle famiglie, che vogliono poter accedere rapidamente a quanto versato in banca in caso di imprevisti, in finanziamenti a lunga per le imprese, l´economia si blocca. Questa duplice funzione delle banche – incontro fra chi risparmia e chi investe e assicurazione-liquidità, cioè disponibilità immediata di fondi in caso di imprevisti – oggi è fortemente compromessa.
Cosa si può fare allora per contrastare la stretta creditizia? Sono in molti a chiedersi come mai le banche non diano alle imprese ciò che possono prendere a prestito a un tasso dell´1% della Bce, dopo che è stata creata la nuova lending facility. Il problema è che questo nuovo canale di finanziamento ha permesso alle banche a mala pena di compensare il calo della raccolta, il collasso del mercato interbancario e le difficoltà nel finanziarsi emettendo obbligazioni. La Bce dovrebbe immettere altri 490 miliardi mercoledì prossimo. Speriamo anche che abbassi i tassi dato che l´intera area Euro sta entrando in recessione secondo le ultime previsioni della Commissione. Ma è obiettivamente difficile che, con l´inflazione che torna a correre, la Bce possa fare come la Fed oltreoceano, inventandosi nuovi strumenti per far affluire credito all´economia. La discesa dello spread ottenuta dal governo Monti è importante perchè rafforza la situazione patrimoniale delle banche e crea fiducia, contribuendo anche a ravvivare il mercato interbancario. Ma, come si è visto, anche questo non basta ad evitare la stretta creditizia. Inoltre il calo dello spread sarà più lento se la recessione si allunga.
In questo governo non mancano certo competenze sul sistema creditizio. Eppure l´esecutivo non sembra avere una strategia. Continua, ad esempio, a non esprimersi sugli accordi bilaterali con la Svizzera. Perché non unirsi alla crociata del Procuratore del distretto di New York contro le banche svizzere che favoriscono gli evasori? Servirebbe a ridurre la fuga di capitali oltrefrontiera. Non ci ha ancora detto, l´esecutivo, a quanto ammontano i debiti dello Stato nei confronti delle imprese. Possibile che la girandola di cifre vada dai 35 ai 120 miliardi? Un´operazione trasparenza potrebbe migliorare le percezioni dei mercati che, dopo tanto parlarne, ormai si aspettano di scoprire un debito occulto cospicuo. Se lo Stato riconoscesse questi debiti e si impegnasse a saldare una parte di questi in tempi anche lunghi, ma certi, questo darebbe modo alle imprese di potersi finanziare fin da subito usando i crediti verso la PA come garanzie. Aspettiamo ancora di sapere come il governo voglia rafforzare la concorrenza nel sistema bancario, grande assente nel decreto liberalizzazioni. Una misura di questa mancanza di concorrenza è nella discriminazione di prezzo che le banche fanno tipicamente a favore delle aziende partecipate e ai danni dell´impresa minore. Che soffre anche perché le garanzie dei Confidi (consorzi locali di garanzia fidi creati da associazioni di piccole imprese) non vengono valorizzate dalle banche nonostante le controgaranzie pubbliche. Vero che molte piccole imprese sono sottocapitalizzate, ma non è un problema risolvibile in questo momento. Può allora fare qualcosa il governo per promuovere la creazione di consorzi di piccole imprese che si finanzino direttamente sul mercato, emettendo congiuntamente (per diversificare il rischio) obbligazioni? La stretta creditizia è oggi meno intensa presso le banche locali e il credito cooperativo. Ma un´impresa che cambia banca può, in questo frangente, dare un´impressione di fragilità. Cosa si può fare allora per evitare che questi trasferimenti da una banca all´altra offrano un segnale negativo a chi potrebbe concedere il prestito? Accanto all´information sharing fra banche sui cattivi debitori, non ci può essere anche condivisione di informazione su chi ha sempre rispettato le scadenze, non si può avere un bollettino dei virtuosi accanto a quello dei protesti? Sappiamo che le banche custodiscono gelosamente le informazioni sui clienti “buoni” ma siccome non sembrano in grado di fare altro che procedere a tagli indiscriminati del credito, tanto vale che questa informazione venga trasferita alla nuova banca. Il problema, non lo neghiamo, è complesso ma sarà ancora più complessa la recessione se non si cerca per tempo di ridurre la stretta creditizia.

LA Repubblica 27.02.12

“I silenzi del governo sulla stretta creditizia”, di Tito Boeri

Il fondo taglia-tasse è slittato al 2013. Se tutto va bene entrerà in vigore nel 2014. Il riordino degli ammortizzatori viene annunciato per il 2017. Le riforme di spesa non sono per questa legislatura. Farle pro forma ora per lasciarle in eredità ai governi futuri è pura demagogia. Le leggi delega su fisco e ammortizzatori tramandate da una legislatura all´altra sono finite nel nulla. Anche le riforme posticipate non funzionano: ricordiamoci degli scaloni previdenziali diventati scalini. Meglio concentrarsi sulle riforme a costo zero che riguardano il presente, a partire dall´ingresso nel mercato del lavoro che abbassa produttività e salari e dalla stretta creditizia che rischia di strangolare molte aziende. Aspetto non secondario, il credit crunch dà spazio ad organizzazioni criminali che possono riciclare denaro sporco fornendo liquidità ad imprese assetate.
In questi giorni sono più frequenti le interviste ai banchieri che ai calciatori. Immancabilmente negano di avere stretto i cordoni del credito. “Continuiamo a finanziare le imprese e le famiglie. Al massimo avremo tagliato la parte finanziaria degli impieghi.” Devo appartenere a questa categoria dato che la busta che ho aperto questa mattina, con l´insegna della banca di cui sono cliente da 30 anni, mi ha fatto la seguente “proposta unilaterale”: o accetto il raddoppio (dal 6 al 14 per cento) del tasso praticato se vado in rosso anche solo di mille euro, oppure devo cambiare banca. Tutto questo a seguito del “peggioramento delle condizioni generali del mercato”. Non credo di essere il solo ad avere ricevuto lettere di questo tipo. Sono perfettamente coerenti con l´ipocrisia dei banchieri che negano la presenza di una stretta creditizia. Tecnicamente non c´è un taglio degli impieghi, ma solo “repricing”. Ma non c´è grande differenza fra il tagliare i crediti alla clientela o renderli due volte più costosi di prima. Quella percentuale crescente di piccole e medie imprese che nelle indagini Isae-Istat sostengono di avere difficoltà nell´accedere al credito si sono spesso viste proporre tassi troppo alti, piuttosto che negare del tutto l´accesso al credito.
La stretta decisa dalle banche può allungare la recessione, che sarà comunque più dura del solito perché non abbiamo risorse per contrastarla. Quando le banche cominciano a prestare meno di quanto raccolgano, diventano un fardello anziché un volano per l´economia. Se ne dovrebbero essere accorti anche tutti quelli che se la prendono con l´economia di carta della finanza e la contrappongono all´economia reale. Se le banche smettono di trasformare i risparmi delle famiglie, che vogliono poter accedere rapidamente a quanto versato in banca in caso di imprevisti, in finanziamenti a lunga per le imprese, l´economia si blocca. Questa duplice funzione delle banche – incontro fra chi risparmia e chi investe e assicurazione-liquidità, cioè disponibilità immediata di fondi in caso di imprevisti – oggi è fortemente compromessa.
Cosa si può fare allora per contrastare la stretta creditizia? Sono in molti a chiedersi come mai le banche non diano alle imprese ciò che possono prendere a prestito a un tasso dell´1% della Bce, dopo che è stata creata la nuova lending facility. Il problema è che questo nuovo canale di finanziamento ha permesso alle banche a mala pena di compensare il calo della raccolta, il collasso del mercato interbancario e le difficoltà nel finanziarsi emettendo obbligazioni. La Bce dovrebbe immettere altri 490 miliardi mercoledì prossimo. Speriamo anche che abbassi i tassi dato che l´intera area Euro sta entrando in recessione secondo le ultime previsioni della Commissione. Ma è obiettivamente difficile che, con l´inflazione che torna a correre, la Bce possa fare come la Fed oltreoceano, inventandosi nuovi strumenti per far affluire credito all´economia. La discesa dello spread ottenuta dal governo Monti è importante perchè rafforza la situazione patrimoniale delle banche e crea fiducia, contribuendo anche a ravvivare il mercato interbancario. Ma, come si è visto, anche questo non basta ad evitare la stretta creditizia. Inoltre il calo dello spread sarà più lento se la recessione si allunga.
In questo governo non mancano certo competenze sul sistema creditizio. Eppure l´esecutivo non sembra avere una strategia. Continua, ad esempio, a non esprimersi sugli accordi bilaterali con la Svizzera. Perché non unirsi alla crociata del Procuratore del distretto di New York contro le banche svizzere che favoriscono gli evasori? Servirebbe a ridurre la fuga di capitali oltrefrontiera. Non ci ha ancora detto, l´esecutivo, a quanto ammontano i debiti dello Stato nei confronti delle imprese. Possibile che la girandola di cifre vada dai 35 ai 120 miliardi? Un´operazione trasparenza potrebbe migliorare le percezioni dei mercati che, dopo tanto parlarne, ormai si aspettano di scoprire un debito occulto cospicuo. Se lo Stato riconoscesse questi debiti e si impegnasse a saldare una parte di questi in tempi anche lunghi, ma certi, questo darebbe modo alle imprese di potersi finanziare fin da subito usando i crediti verso la PA come garanzie. Aspettiamo ancora di sapere come il governo voglia rafforzare la concorrenza nel sistema bancario, grande assente nel decreto liberalizzazioni. Una misura di questa mancanza di concorrenza è nella discriminazione di prezzo che le banche fanno tipicamente a favore delle aziende partecipate e ai danni dell´impresa minore. Che soffre anche perché le garanzie dei Confidi (consorzi locali di garanzia fidi creati da associazioni di piccole imprese) non vengono valorizzate dalle banche nonostante le controgaranzie pubbliche. Vero che molte piccole imprese sono sottocapitalizzate, ma non è un problema risolvibile in questo momento. Può allora fare qualcosa il governo per promuovere la creazione di consorzi di piccole imprese che si finanzino direttamente sul mercato, emettendo congiuntamente (per diversificare il rischio) obbligazioni? La stretta creditizia è oggi meno intensa presso le banche locali e il credito cooperativo. Ma un´impresa che cambia banca può, in questo frangente, dare un´impressione di fragilità. Cosa si può fare allora per evitare che questi trasferimenti da una banca all´altra offrano un segnale negativo a chi potrebbe concedere il prestito? Accanto all´information sharing fra banche sui cattivi debitori, non ci può essere anche condivisione di informazione su chi ha sempre rispettato le scadenze, non si può avere un bollettino dei virtuosi accanto a quello dei protesti? Sappiamo che le banche custodiscono gelosamente le informazioni sui clienti “buoni” ma siccome non sembrano in grado di fare altro che procedere a tagli indiscriminati del credito, tanto vale che questa informazione venga trasferita alla nuova banca. Il problema, non lo neghiamo, è complesso ma sarà ancora più complessa la recessione se non si cerca per tempo di ridurre la stretta creditizia.

LA Repubblica 27.02.12

"Salari, la vera anomalia italiana", di Massimo Franchi

Altro che guardare a Francia, Germania e altre locomotive europee. Altro che aspirare a modelli perfetti, a riforme fantasmagoriche, a grandi principi. I numeri riportano tutto alla triste realtà del nostro Paese. Quando si tratta di stipendi e salari, l’Italia ha più che fare con la Grecia, con la Spagna, con il Portogallo, con la Slovenia. Lo certificano i dati Eurostat, pubblicati nel recente rapporto «Labour market statistics». Sono riferiti al 2009, in piena crisi, dopo la quale tutto è stato per lo meno congelato. E così scopriamo che la media degli stipendi che percepiscono i lavoratori italiani è di 23.406 euro lordi. Si tratta della metà di quanto invece si guadagna nel piccolo Lussemburgo (48.914), ma anche in Olanda (44.412) e nella grande Germania (41.100). La Francia è lontanissima da noi (33.574), mentre molto meglio di noi stava la Grecia (29.160), la Spagna (26.316). Per consolarci si può guardare sotto di noi, dove si trovano Portogallo (17.129), Slovenia (16.282), con il fanalino di coda Slovacchia (10.387). Anche per quanto riguarda l’aumento sul 2005, l’avanzamento per l’Italia risulta tra i più ridotti: in quattro anni il rialzo è stato del 3,3%, molto distante dal +29,4% della Spagna, dal +22% del Portogallo. E anche i Paesi che partivano da livelli già alti hanno messo a segno rialzi rilevanti: Francia (+10,0%) e Germania (+6,2%). FORNERO: AUMENTIAMO PRODUTTIVITÀ Dati prontamente commentati dalla titolare del governo in materia Elsa Fornero. Da New York, dove si trova per la settimana dell’Onu sulla condizione femminile, la ministra del Welfare sottolinea: «In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività».Una strada giusta a patto di alzare i salari,commenta Francesco Boccia (Pd): «Il ministro Fornero ha ragione a parlare di aumento della produttività, ma l’obiettivo sarà un vero e proprio miraggio se non aumentano a loro volta i salari netti, attraverso la diminuzione immediata della pressione fiscale su quelli più bassi». I dati vengono commentati anche da Maurizio Zipponi, responsabile Welfare dell’Idv: «L’Italia si aggiudica gli ultimi posti nella classifica sulle retribuzioni lorde dei lavoratori, senza contare che abbiamo anche un’elevata tassazione sul lavoro. Ci auguriamo solo che il presidente del Consiglio, abituato a guardare all’Europa, voglia prenderla d’esempio anche per ciò che riguarda lo stipendio medio dei lavoratori», conclude Zipponi. Fa leva sulla riforma fiscale invece il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella: «Bisogna mettere mano al fisco e contemporaneamente aiutare il Paese a crescere, solo così eviteremo un ulteriore depauperamento degli stipendi italiani già molto bassi, ma dobbiamo agire presto». Il tema è sempre quello, dunque: la riforma del mercato del lavoro. Elsa Fornero ieri si è detta «fiduciosa» sulla possibilità di un’ampia intesa. Tornando però all’attacco sull’articolo 18: «Il tema va affrontato in maniera laica, senza levate di scudi». E ha annunciato che alla vigilia del sesto incontro con le parti sociali di giovedì incontrerà il premier Mario Monti. «Voglio convincere le parti sociali e gli italiani che ci sono molte cose da cambiare nel mercato del lavoro, non perché ce lo chiedono l’Ocse o l’Fmi, ma perché bisogna creare un mercato più inclusivo», sottolineando come bisogna «aprire nuove prospettive ai giovani e alle donne, eliminando quella flessibilità che genera precarietà». A risponderle prontamente arriva il capogruppo Pd in commissione Lavoro Cesare Damiano: «Per supportare l’ottimismo del ministro sarebbe necessario che il governo cominciasse a indicare con quali risorse si vogliono migliorare le tutele degli ammortizzatori sociali. Questo renderebbe tutto il resto sicuramente più agevole. Sull’articolo 18 noi riteniamo che sarebbe di grande giovamento per le imprese e i lavoratori intervenire sulla velocità del processo del lavoro attraverso una procedura d’urgenza,darebbe alle imprese e ai lavoratori quella certezza e serenità che valgono più di qualsiasi concessione sul terreno della flessibilità in uscita». PASSERA: PARTI SOCIALI NECESSARIE Sul tema ieri è intervenuto anche Corrado Passera, titolare dello Sviluppo e altro ministro presente al tavolo con le parti sociali. Rispondendo ad una domanda durante “L’intervista” di Maria Latella su Sky, in cui si ricordava la frase pronunciata da Fornero («faremo la riforma con o senza l’accordo»), Passera ammette che «è una frase detta troppe volte», confermando una sensibilità più alta al dialogo con sindacati e imprese. «Noi ha poi spiegato vogliamo modificare in meglio tante fasi del lavoro e bisogna fare di tutto per trovare un accordo» con le parti sociali. «È chiaro continua che il governo alla fine ha la responsabilità di fare sintesi e superare le impasse ma l’accordo è l’obiettivo. Sono convinto che si riesce a lavorare solo se sindacato e aziende trovano la maniera di lavorare insieme».❖

L’Unità 27.02.12

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«Stipendi italiani troppo bassi.Guadagnate la metà dei tedeschi», di Luigi Offeddu

I lavoratori italiani sono fra i meno pagati in Europa. Un salariato italiano, a parità di condizioni, guadagna circa la metà di quanto guadagnano i suoi colleghi in Germania, o in Lussemburgo, o in Olanda. Addirittura, viene pagato quasi un terzo del salariato danese. E un pò meno di spagnoli e ciprioti. Ma fino a ieri — prima del piano di austerità imposto ad Atene dall’Europa — l’italiano ha avuto degli stipendi perfino più magri di quelli greci.
Questo dicono — nella versione riportata dalle agenzie di stampa — le tabelle dell’Eurostat, l’agenzia europea di statistica, sugli stipendi medi lordi annuali riferiti ad aziende con più di 10 dipendenti nel campo dell’industria, delle costruzioni, dei servizi e del commercio. E disegnano un continente salariale dove l’Italia sta, appunto, nella fascia delle posizioni più basse. Forse non sono tutti dati univoci, perché certe statistiche riguardanti l’Italia sembrano fermarsi al 2006, mentre altri Paesi vengono “fotografati” anche nel 2009 e più oltre, rendendo obiettivamente difficile un raffronto omogeneo.
Ma in ogni caso, qualche manciata di decimali e un anno in più o in meno non cambiano la realtà di fondo: in generale l’Italia si colloca con i suoi salari al dodicesimo posto dell’Eurozona, a stento supera il Portogallo, Malta, la Slovenia e la Slovacchia. Lo stipendio annuo, lordo, che l’Italia offre ai suoi lavoratori è in media di 23.406 euro, mentre la Germania arriva a 41.100 euro; il Lussemburgo a 48.174, l’Olanda a 44.412, la Francia (nel 2010) a 34.132 euro. La Grecia, prima dell’allarme bancarotta e della grande stangata che ne è seguita, stava a quota 29.160 e ora è «precipitata» drammaticamente a 11.064 euro (922 euro al mese). In testa a tutti veleggiano la Danimarca (56.044), e la Norvegia che ancora non fa parte della Ue (51.343). «In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato — ha commentato il ministro del lavoro Elsa Fornero —. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività». «Le diamo ragione — ha ribattuto Francesco Boccia del Pd — ma l’obiettivo da lei indicato sarà un vero e proprio miraggio se non aumentano a loro volta i salari netti, attraverso la diminuzione immediata della pressione fiscale su quelli più bassi». E una parola ha voluto spenderla anche Pasquale Cafagna, del sindaco di polizia Siulp: «I nostri stipendi medi non superano i 1.500 euro. Noi siamo in braghe di tela, speriamo che la trasparenza del governo Monti voglia dire anche riduzione di stipendi spropositati come quelli di manager pubblici e politici». Non solo i salari in Italia sono bassi ma sono anche impiegati più o meno all’80% per le spese giornaliere, dice Carlo Pileri dell’Adoc (Associazione per la difesa e l’orientamento del consumatore): «Gli italiani spendono in media ogni giorno circa 37 euro e cioè il 79,5% del proprio reddito quotidiano al netto delle tasse».
E c’è un altro fatto, secondo la lettura di queste statistiche, che colpisce: questo è un panorama in continuo movimento, per considerazioni economiche o anche sociali i Paesi che qualche anno fa stavano più indietro hanno recuperato il terreno perduto, e anche l’Italia ovviamente lo ha fatto; ma ricorrendo a una marcia più bassa, quando non perdendosi per strada. Infatti, in 4 anni fino al 2009, avrebbe incrementato i suoi stipendi medi del 3,3%, mentre Spagna e Portogallo (con Grecia e Irlanda i cosiddetti «Pigs», i Paesi tre o quattro anni fa considerati più a mal partito) hanno fatto balzi in avanti rispettivamente del 29,4% e del 22%. E il Lussemburgo, che comunque partiva da retribuzioni già buone, ha irrobustito ancora le sue buste paga del 16,1%; il Belgio dell’11%, la Francia del 10%, la Germania del 6,2%, l’Olanda del 14,7%.
Qualche consolazione può arrivare — forse — da altri dati, quelli sulla differenza di retribuzione tra uomini e donne. Non da oggi, la media europea mostra un desolante 17% (forbice fra la media del salario orario di lavoratori e lavoratrici), mentre l’Italia si attesta sotto il 5%. Anzi: subito dopo la Slovenia, è il Paese che può vantare il divario più limitato. Però da noi le donne lavorano di meno, e di meno si ricorre al part-time: anche la Bulgaria o la Romania hanno una forbice ben ristretta, ma anche lì l’occupazione femminile è più bassa. Dunque non vi sono ragioni per brindar troppo, neppure in questo.

Il Corriere della Sera 27.02.12

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“Stipendi, Italia ko Guadagniamo la metà dei tedeschi”, di Marco Zatterin

Salario basso, dinamica lenta. Un italiano che lavora nell’industria o nei servizi guadagna poco meno della metà di quanto prende uno che fa lo stesso lavoro nei Paesi Bassi o in Germania. In media, secondo i dati comparati del 2009, da noi si mettono in tasca a fine anno 23.406 euro, contro i 44.412 olandesi e i 41.100 tedeschi. Certo, nelle due locomotive continentali la vita costa più cara, però la differenza è significativa, così sono numeri che fanno riflettere. Come quelli che caratterizzano Paesi economicamente meno forti del nostro, come Spagna o Grecia, dove l’assegno per un operaio o un tecnico appare più alto, rispettivamente 28 e 31 mila euro.

La morale è che nell’Eurozona, ovvero nel club dei Paesi che hanno adottato la moneta unica, le paghe italiane dei comparti più strategici sono al dodicesimo posto su diciassette. «Una ragione è nella competitività stagnante – spiega una fonte europea -. La crescita della produttiva oraria in Italia è rimasta ferma dal 2000 al 2010 con evidenti riflessi sulla formazione del reddito». Questo non è successo per gli spagnoli e, sino al crac del 2009, non era il caso nemmeno per i greci. Si osserva che entrambi i Paesi hanno poi frenato più significativamente del nostro, mettendo in mostra squilibri di fondo ancora più gravi. Ma il dato, per la sua valenza relativa, resta comunque sul tavolo.

Le cifre sono contenute nel rapporto annuale sul lavoro che Eurostat, l’istituto di statistiche Ue, ha pubblicato in autunno e l’Ansa ha rilanciato ieri. Il volume non sottolinea solo il ridotto valore relativo del salario italiano, ma attira l’attenzione anche sulla variazione più contenuta rispetto alle economie più pesanti. Dal 2005 al 2009 le retribuzioni industria/servizi sono cresciute del 3,3%, un quinto rispetto all’Olanda, un terzo sulla Francia (10), circa la metà della Germania (6,2). Molto meno dell’inflazione che nel 2008-9 ha provocato un aumento dei prezzi 3,6 punti, mentre l’economia ne perdeva 6,3. Gli altri grandi hanno fatto meglio. Di nuovo, spiegano a Bruxelles, «per merito di una maggiore produttività».

Il dato va preso con le molle. Nello stesso quinquennio, in Spagna i salari sono aumentati del 29,4%, in Portogallo del 22, e si è visto che fine hanno fatto. Per la Grecia manca il dato 2005, altro presagio statistico inquietante, visto che sui numeri inesatti forniti a Eurostat a proposito del deficit si è costruita la crisi drammatica che ancora attanaglia Atene. Detto questo, il documento regala nel complesso il quadro di un’Europa ancora lontana dall’essere composta di Paesi che s’assomigliano. Nei Baltici il reddito annuo è inferiore ai 9 mila euro, in Polonia supera appena i 10 mila, in Bulgaria siamo a 4500, il doppio rispetto a prima dell’ingresso nell’Ue. Negli ultimi due anni la situazione dovrebbe comunque essere cambiata. I numeri sono così, bisogna esaminarli con cautela. Vale per quello sul differenziale salariale fra uomini e donne italiani, appena il 5%, parecchio sotto la media europea. Un successo? Non proprio. E’ il bassissimo tasso di occupazione "rosa" a contenere lo spread. Succede lo stesso in Polonia, Portogallo, Bulgaria e Malta. Tutti sistemi in cui le signore e signorine che restano a casa sono la maggioranza.

La Stampa 27.02.12

“Salari, la vera anomalia italiana”, di Massimo Franchi

Altro che guardare a Francia, Germania e altre locomotive europee. Altro che aspirare a modelli perfetti, a riforme fantasmagoriche, a grandi principi. I numeri riportano tutto alla triste realtà del nostro Paese. Quando si tratta di stipendi e salari, l’Italia ha più che fare con la Grecia, con la Spagna, con il Portogallo, con la Slovenia. Lo certificano i dati Eurostat, pubblicati nel recente rapporto «Labour market statistics». Sono riferiti al 2009, in piena crisi, dopo la quale tutto è stato per lo meno congelato. E così scopriamo che la media degli stipendi che percepiscono i lavoratori italiani è di 23.406 euro lordi. Si tratta della metà di quanto invece si guadagna nel piccolo Lussemburgo (48.914), ma anche in Olanda (44.412) e nella grande Germania (41.100). La Francia è lontanissima da noi (33.574), mentre molto meglio di noi stava la Grecia (29.160), la Spagna (26.316). Per consolarci si può guardare sotto di noi, dove si trovano Portogallo (17.129), Slovenia (16.282), con il fanalino di coda Slovacchia (10.387). Anche per quanto riguarda l’aumento sul 2005, l’avanzamento per l’Italia risulta tra i più ridotti: in quattro anni il rialzo è stato del 3,3%, molto distante dal +29,4% della Spagna, dal +22% del Portogallo. E anche i Paesi che partivano da livelli già alti hanno messo a segno rialzi rilevanti: Francia (+10,0%) e Germania (+6,2%). FORNERO: AUMENTIAMO PRODUTTIVITÀ Dati prontamente commentati dalla titolare del governo in materia Elsa Fornero. Da New York, dove si trova per la settimana dell’Onu sulla condizione femminile, la ministra del Welfare sottolinea: «In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività».Una strada giusta a patto di alzare i salari,commenta Francesco Boccia (Pd): «Il ministro Fornero ha ragione a parlare di aumento della produttività, ma l’obiettivo sarà un vero e proprio miraggio se non aumentano a loro volta i salari netti, attraverso la diminuzione immediata della pressione fiscale su quelli più bassi». I dati vengono commentati anche da Maurizio Zipponi, responsabile Welfare dell’Idv: «L’Italia si aggiudica gli ultimi posti nella classifica sulle retribuzioni lorde dei lavoratori, senza contare che abbiamo anche un’elevata tassazione sul lavoro. Ci auguriamo solo che il presidente del Consiglio, abituato a guardare all’Europa, voglia prenderla d’esempio anche per ciò che riguarda lo stipendio medio dei lavoratori», conclude Zipponi. Fa leva sulla riforma fiscale invece il segretario generale dell’Ugl Giovanni Centrella: «Bisogna mettere mano al fisco e contemporaneamente aiutare il Paese a crescere, solo così eviteremo un ulteriore depauperamento degli stipendi italiani già molto bassi, ma dobbiamo agire presto». Il tema è sempre quello, dunque: la riforma del mercato del lavoro. Elsa Fornero ieri si è detta «fiduciosa» sulla possibilità di un’ampia intesa. Tornando però all’attacco sull’articolo 18: «Il tema va affrontato in maniera laica, senza levate di scudi». E ha annunciato che alla vigilia del sesto incontro con le parti sociali di giovedì incontrerà il premier Mario Monti. «Voglio convincere le parti sociali e gli italiani che ci sono molte cose da cambiare nel mercato del lavoro, non perché ce lo chiedono l’Ocse o l’Fmi, ma perché bisogna creare un mercato più inclusivo», sottolineando come bisogna «aprire nuove prospettive ai giovani e alle donne, eliminando quella flessibilità che genera precarietà». A risponderle prontamente arriva il capogruppo Pd in commissione Lavoro Cesare Damiano: «Per supportare l’ottimismo del ministro sarebbe necessario che il governo cominciasse a indicare con quali risorse si vogliono migliorare le tutele degli ammortizzatori sociali. Questo renderebbe tutto il resto sicuramente più agevole. Sull’articolo 18 noi riteniamo che sarebbe di grande giovamento per le imprese e i lavoratori intervenire sulla velocità del processo del lavoro attraverso una procedura d’urgenza,darebbe alle imprese e ai lavoratori quella certezza e serenità che valgono più di qualsiasi concessione sul terreno della flessibilità in uscita». PASSERA: PARTI SOCIALI NECESSARIE Sul tema ieri è intervenuto anche Corrado Passera, titolare dello Sviluppo e altro ministro presente al tavolo con le parti sociali. Rispondendo ad una domanda durante “L’intervista” di Maria Latella su Sky, in cui si ricordava la frase pronunciata da Fornero («faremo la riforma con o senza l’accordo»), Passera ammette che «è una frase detta troppe volte», confermando una sensibilità più alta al dialogo con sindacati e imprese. «Noi ha poi spiegato vogliamo modificare in meglio tante fasi del lavoro e bisogna fare di tutto per trovare un accordo» con le parti sociali. «È chiaro continua che il governo alla fine ha la responsabilità di fare sintesi e superare le impasse ma l’accordo è l’obiettivo. Sono convinto che si riesce a lavorare solo se sindacato e aziende trovano la maniera di lavorare insieme».❖

L’Unità 27.02.12

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«Stipendi italiani troppo bassi.Guadagnate la metà dei tedeschi», di Luigi Offeddu

I lavoratori italiani sono fra i meno pagati in Europa. Un salariato italiano, a parità di condizioni, guadagna circa la metà di quanto guadagnano i suoi colleghi in Germania, o in Lussemburgo, o in Olanda. Addirittura, viene pagato quasi un terzo del salariato danese. E un pò meno di spagnoli e ciprioti. Ma fino a ieri — prima del piano di austerità imposto ad Atene dall’Europa — l’italiano ha avuto degli stipendi perfino più magri di quelli greci.
Questo dicono — nella versione riportata dalle agenzie di stampa — le tabelle dell’Eurostat, l’agenzia europea di statistica, sugli stipendi medi lordi annuali riferiti ad aziende con più di 10 dipendenti nel campo dell’industria, delle costruzioni, dei servizi e del commercio. E disegnano un continente salariale dove l’Italia sta, appunto, nella fascia delle posizioni più basse. Forse non sono tutti dati univoci, perché certe statistiche riguardanti l’Italia sembrano fermarsi al 2006, mentre altri Paesi vengono “fotografati” anche nel 2009 e più oltre, rendendo obiettivamente difficile un raffronto omogeneo.
Ma in ogni caso, qualche manciata di decimali e un anno in più o in meno non cambiano la realtà di fondo: in generale l’Italia si colloca con i suoi salari al dodicesimo posto dell’Eurozona, a stento supera il Portogallo, Malta, la Slovenia e la Slovacchia. Lo stipendio annuo, lordo, che l’Italia offre ai suoi lavoratori è in media di 23.406 euro, mentre la Germania arriva a 41.100 euro; il Lussemburgo a 48.174, l’Olanda a 44.412, la Francia (nel 2010) a 34.132 euro. La Grecia, prima dell’allarme bancarotta e della grande stangata che ne è seguita, stava a quota 29.160 e ora è «precipitata» drammaticamente a 11.064 euro (922 euro al mese). In testa a tutti veleggiano la Danimarca (56.044), e la Norvegia che ancora non fa parte della Ue (51.343). «In Italia abbiamo salari bassi e un costo del lavoro comparativamente elevato — ha commentato il ministro del lavoro Elsa Fornero —. Bisogna scardinare questa situazione, soprattutto aumentando la produttività». «Le diamo ragione — ha ribattuto Francesco Boccia del Pd — ma l’obiettivo da lei indicato sarà un vero e proprio miraggio se non aumentano a loro volta i salari netti, attraverso la diminuzione immediata della pressione fiscale su quelli più bassi». E una parola ha voluto spenderla anche Pasquale Cafagna, del sindaco di polizia Siulp: «I nostri stipendi medi non superano i 1.500 euro. Noi siamo in braghe di tela, speriamo che la trasparenza del governo Monti voglia dire anche riduzione di stipendi spropositati come quelli di manager pubblici e politici». Non solo i salari in Italia sono bassi ma sono anche impiegati più o meno all’80% per le spese giornaliere, dice Carlo Pileri dell’Adoc (Associazione per la difesa e l’orientamento del consumatore): «Gli italiani spendono in media ogni giorno circa 37 euro e cioè il 79,5% del proprio reddito quotidiano al netto delle tasse».
E c’è un altro fatto, secondo la lettura di queste statistiche, che colpisce: questo è un panorama in continuo movimento, per considerazioni economiche o anche sociali i Paesi che qualche anno fa stavano più indietro hanno recuperato il terreno perduto, e anche l’Italia ovviamente lo ha fatto; ma ricorrendo a una marcia più bassa, quando non perdendosi per strada. Infatti, in 4 anni fino al 2009, avrebbe incrementato i suoi stipendi medi del 3,3%, mentre Spagna e Portogallo (con Grecia e Irlanda i cosiddetti «Pigs», i Paesi tre o quattro anni fa considerati più a mal partito) hanno fatto balzi in avanti rispettivamente del 29,4% e del 22%. E il Lussemburgo, che comunque partiva da retribuzioni già buone, ha irrobustito ancora le sue buste paga del 16,1%; il Belgio dell’11%, la Francia del 10%, la Germania del 6,2%, l’Olanda del 14,7%.
Qualche consolazione può arrivare — forse — da altri dati, quelli sulla differenza di retribuzione tra uomini e donne. Non da oggi, la media europea mostra un desolante 17% (forbice fra la media del salario orario di lavoratori e lavoratrici), mentre l’Italia si attesta sotto il 5%. Anzi: subito dopo la Slovenia, è il Paese che può vantare il divario più limitato. Però da noi le donne lavorano di meno, e di meno si ricorre al part-time: anche la Bulgaria o la Romania hanno una forbice ben ristretta, ma anche lì l’occupazione femminile è più bassa. Dunque non vi sono ragioni per brindar troppo, neppure in questo.

Il Corriere della Sera 27.02.12

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“Stipendi, Italia ko Guadagniamo la metà dei tedeschi”, di Marco Zatterin

Salario basso, dinamica lenta. Un italiano che lavora nell’industria o nei servizi guadagna poco meno della metà di quanto prende uno che fa lo stesso lavoro nei Paesi Bassi o in Germania. In media, secondo i dati comparati del 2009, da noi si mettono in tasca a fine anno 23.406 euro, contro i 44.412 olandesi e i 41.100 tedeschi. Certo, nelle due locomotive continentali la vita costa più cara, però la differenza è significativa, così sono numeri che fanno riflettere. Come quelli che caratterizzano Paesi economicamente meno forti del nostro, come Spagna o Grecia, dove l’assegno per un operaio o un tecnico appare più alto, rispettivamente 28 e 31 mila euro.

La morale è che nell’Eurozona, ovvero nel club dei Paesi che hanno adottato la moneta unica, le paghe italiane dei comparti più strategici sono al dodicesimo posto su diciassette. «Una ragione è nella competitività stagnante – spiega una fonte europea -. La crescita della produttiva oraria in Italia è rimasta ferma dal 2000 al 2010 con evidenti riflessi sulla formazione del reddito». Questo non è successo per gli spagnoli e, sino al crac del 2009, non era il caso nemmeno per i greci. Si osserva che entrambi i Paesi hanno poi frenato più significativamente del nostro, mettendo in mostra squilibri di fondo ancora più gravi. Ma il dato, per la sua valenza relativa, resta comunque sul tavolo.

Le cifre sono contenute nel rapporto annuale sul lavoro che Eurostat, l’istituto di statistiche Ue, ha pubblicato in autunno e l’Ansa ha rilanciato ieri. Il volume non sottolinea solo il ridotto valore relativo del salario italiano, ma attira l’attenzione anche sulla variazione più contenuta rispetto alle economie più pesanti. Dal 2005 al 2009 le retribuzioni industria/servizi sono cresciute del 3,3%, un quinto rispetto all’Olanda, un terzo sulla Francia (10), circa la metà della Germania (6,2). Molto meno dell’inflazione che nel 2008-9 ha provocato un aumento dei prezzi 3,6 punti, mentre l’economia ne perdeva 6,3. Gli altri grandi hanno fatto meglio. Di nuovo, spiegano a Bruxelles, «per merito di una maggiore produttività».

Il dato va preso con le molle. Nello stesso quinquennio, in Spagna i salari sono aumentati del 29,4%, in Portogallo del 22, e si è visto che fine hanno fatto. Per la Grecia manca il dato 2005, altro presagio statistico inquietante, visto che sui numeri inesatti forniti a Eurostat a proposito del deficit si è costruita la crisi drammatica che ancora attanaglia Atene. Detto questo, il documento regala nel complesso il quadro di un’Europa ancora lontana dall’essere composta di Paesi che s’assomigliano. Nei Baltici il reddito annuo è inferiore ai 9 mila euro, in Polonia supera appena i 10 mila, in Bulgaria siamo a 4500, il doppio rispetto a prima dell’ingresso nell’Ue. Negli ultimi due anni la situazione dovrebbe comunque essere cambiata. I numeri sono così, bisogna esaminarli con cautela. Vale per quello sul differenziale salariale fra uomini e donne italiani, appena il 5%, parecchio sotto la media europea. Un successo? Non proprio. E’ il bassissimo tasso di occupazione "rosa" a contenere lo spread. Succede lo stesso in Polonia, Portogallo, Bulgaria e Malta. Tutti sistemi in cui le signore e signorine che restano a casa sono la maggioranza.

La Stampa 27.02.12

"C´è democrazia senza i partiti?", di Ilvo Diamanti

Il proscioglimento di Silvio Berlusconi dall´accusa di corruzione nel caso Mills, per prescrizione del reato, ha sollevato, inevitabilmente, polemiche. E un sottile senso di inquietudine. Non solo perché, in questo modo, il Cavaliere è riuscito a sottrarsi, di nuovo, al giudizio. Ma soprattutto perché ha rammentato a tutti che Berlusconi non se n´è andato, ma è sempre lì. Anzi, qui. Con gli stessi vizi di sempre. Da ciò l´altro motivo di preoccupazione (o, per alcuni, di speranza). Potrebbe rientrare in scena. Da protagonista. Visto che il ruolo di comprimario al Cavaliere non si addice. D´altronde, Berlusconi resta il leader del Pdl. Tuttora il primo partito in Parlamento. E, insieme, la principale forza politica della maggioranza che sostiene il governo Monti.
Tuttavia, anche questa vicenda suggerisce che il vento è cambiato. Che il tempo di Berlusconi e del berlusconismo è finito.
Anzitutto, l´attenzione intorno al caso appare meno accesa rispetto al passato. Quando Berlusconi era il capo del governo o dell´opposizione. Quando era il dominus della scena politica. Il conflitto di interessi che si portava – e si porta dietro – appariva, allora, insopportabile, sul piano pubblico. Oggi è altrettanto intollerabile, ma la posizione politica del Cavaliere, passato dalla ribalta al retroscena, ha sdrammatizzato le tensioni. Peraltro, i principali attori politici (e istituzionali) che sostengono il governo temono episodi e fratture che possano minare la tenuta della legislatura.
Un´eventualità avversata, per primo, da Berlusconi. Al quale conviene che Monti governi almeno fino alla scadenza naturale della legislatura. E magari oltre. Per una ragione su tutte le altre: se si votasse oggi, il centrodestra non avrebbe speranze. Il Pdl (citiamo le stime di Ipsos dell´ultima settimana) galleggia intorno al 22%. L´alleanza con la Lega, inoltre, appare complicata, logorata dal sostegno di Berlusconi al governo Monti. E, comunque, i partiti del centrodestra (Pdl, Lega e Destra), tutti insieme, sono accreditati di poco più del 33% dei voti. Quattro punti meno del centrosinistra (Pd con Idv e Sel). Ma in una competizione a tre, con il Terzo Polo in campo (stimato intorno al 20%), la distanza fra i due poli principali salirebbe a 10 punti percentuali. Troppi per rischiare il ricorso anticipato alle urne in questo momento. Tanto più perché, da quando ha avuto avvio il governo Monti, il divario fra centrodestra e centrosinistra si è stabilizzato e, anzi, un po´ ridotto. Morale: l´esperienza del governo tecnico non fa male a Berlusconi. Gli permette di riorganizzare le fila. In un periodo politicamente difficile, per lui e per il Pdl.
Ma il ritorno di Berlusconi è improbabile soprattutto perché è cambiato il clima d´opinione. Il berlusconismo è fuori moda, inattuale. Come Berlusconi. Verso il quale il grado di fiducia dei cittadini è basso quanto mai, in passato. Poco sopra il 20%. Come i consensi verso il Pdl. Il suo partito “personale”.
È arduo, d´altronde, distinguere e dissociare il destino del partito da quello dell´inventore. Lo testimoniano le difficoltà del Pdl in questa fase congressuale. Lacerato da tensioni e accuse interne: di corruzione, tessere false, condizionamenti. A Sud e a Nord. D´altronde: quale identità può assumere un partito identificato “da” e “in” Berlusconi senza Berlusconi alla testa?
Il mutamento del clima d´opinione riflette, a sua volta, il mutamento sociale. Berlusconi ha interpretato e impersonato una fase “affluente” della società italiana. A cui ha imposto, con l´amplificatore dei media, la propria biografia e la propria immagine come riferimenti e modelli. Ha, così, accompagnato e segnato una fase, lunga quasi vent´anni. Ben raffigurata dall´infotainment televisivo. I programmi che mixano informazione e intrattenimento, nei quali ogni distinzione di ruoli è saltata. Politici, cuochi, personaggi della fiction, ballerine, calciatori, veline, criminologi e criminali. Tutti insieme. Appassionatamente. A parlare di tutto.
Quella stagione è finita. La crisi ha spezzato il legame tra immagine e realtà. Ha reso l´immagine in-credibile. Il mondo rutilante e a-morale espresso da Berlusconi è divenuto troppo lontano rispetto al senso comune. I suoi valori: in contrasto con gli interessi degli elettori. Soprattutto e tanto più per quelli, fino a ieri, attratti da Berlusconi. In larga misura appartenenti ai ceti popolari. Si pensi alla crescente impopolarità dell´evasione fiscale, socialmente tollerata, negli anni scorsi – e giustificata dallo stesso Berlusconi. Ma guardata – oggi – con ostilità. Perché la crisi ha trasformato la furbizia in un vizio dannoso: per i conti dello Stato e per i bilanci delle famiglie.
La crisi ha, inoltre, delegittimato il modello del politico-senza-qualità. Non migliore di noi ma come noi. Anzi: peggio di noi. Reclutato per meriti estetici, piuttosto che etici. O per fedeltà al capo.
Per questo è difficile – a mio avviso improponibile – un ritorno di Berlusconi. Il quale è, semmai, alla ricerca di uno spazio nel quale “difendersi”. Negli affari ma anche nelle questioni giudiziarie in cui è ancora coinvolto.
Il Paese, d´altronde, ha voltato pagina. L´esperienza di Monti – “promossa” da Napolitano – ha rivelato e trainato una domanda di rappresentanza politica diversa. Non parlo dei contenuti della sua azione di governo – per alcuni versi discutibili, a mio avviso. Parlo, invece, dello “stile”. Che in quest´epoca, è “sostanza”. Monti esprime un nuovo modello: il Tecnico che fa Politica. E viceversa: il Politico Competente. Che si misura con i partiti ma non ne fa parte. Ne è fuori e, al contempo, al di sopra. Monti annuncia e interpreta il post-berlusconismo, che si traduce in una sorta di “Populismo Aristocratico”. Dove il premier si rivolge e risponde agli elettori direttamente, attraverso i media. In modo sobrio. Mentre i partiti – e i loro leader – restano sullo sfondo. Defilati. Monti: è un leader di successo, i cui consensi appaiono in continua crescita. Oggi superano il 60%.
Berlusconi non tornerà: perché il berlusconismo è finito. Ma anche l´antiberlusconismo lo è. Il che induce a spostare le nostre preoccupazioni “oltre” Berlusconi.
In questo Paese: dove i partiti – privi di credito – contano molto meno dei leader. E dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso. La questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti.
Io ne dubito. Anzi: lo escludo.
Neppure se al berlusconismo succedesse il montismo.

La Repubblica 27.02.12

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“TUTTI GLI SCUDI DEL CAVALIERE”, di FRANCO CORDERO
L´ex-premier è imputato a Milano quale corruttore in atti giudiziari: una parte congeniale, visti i precedenti, stavolta tintinnano 600mila dollari all´avvocato londinese David Mills, esperto in labirinti fiscali nonché servizievole testimone. Lo racconta il predetto, confesso in Inghilterra e Italia, sicché alla difesa resta solo l´arma del perditempo, tanto da estinguere i reati. Monsieur B. aveva ricusato l´intero collegio: è la nona volta e soccombe ancora, impassibile. Le sue guerre forensi sono materia da stomaco forte, dove onore, verità, belle figure dialettiche contano poco. Se l´asserito reato esista e sia ancora punibile, doveva dirlo il Tribunale. L´ha detto: esiste e nei suoi calcoli risulta estinto dal tempo; era punto controverso. In lingua meno tecnica, l´impenitente corruttore schiva la pena e gli resta il marchio: fosse dubbio il fatto, sarebbe assolto; non se ne vanti, quindi. Avere schernito Dike con i versi della scimmia è titolo da compagnia equivoca: infatti vi gode un meritato culto, patrono con aureola; Kronos mangia i delitti.
L´analisi comincia dalla persona. Esistono italiani intolleranti della serietà: preferiscono Crispi a Cavour; detestano Giolitti; liquidano De Gasperi; amano i buffoni, specie quando emergano aspetti sinistri. Mussolini li incanta con le smorfie al balcone e sotto la divisa da primo maresciallo dell´Impero: vola, nuota, balla, scia, miete, batte il passo romano, farnetica glorie militari; dopo vent´anni resterebbe a vita nella sala del mappamondo se non muovesse guerra a tre imperi. Berlusco Magnus è catafratto nella sicumera degl´ignoranti: sguaiato megalomane, ha fantasia fraudolenta, menzogna estrosa, occhio sicuro nel distinguere i lati peggiori dell´animale umano; vìola allegramente ogni limite. Le sue gesta stanno in quattro verbi: corrompe, falsifica, froda, plagia (mediante ipnosi televisiva, allevandosi una massa adoperabile); cervelli e midolla sono materia plastica. Due mosse strategiche dicono cos´abbia in mente: appena salito al potere, homo novus, propone guardasigilli l´avvocato che gli combinava ricchi affari loschi (il capolavoro è la baratteria con cui s´impadronisce della Mondadori comprando una sentenza); e degrada a bagatella il falso in bilancio, importantissimo nella diagnostica penale. In due legislature, padrone delle Camere, attua quel che sarebbe appena immaginabile in monarchie piratesche: governo personale, quasi lo Stato fosse roba sua; brulicano voraci faune; i convitati spolpano l´Italia. L´effetto non tarda. Fanno testo i numeri forniti dalla Corte dei conti: 60 miliardi l´anno nel giro d´affari corrotti; e un´evasione fiscale calcolabile in 100-120 miliardi; invano il Consiglio d´Europa raccomanda misure contro la tenia economica (verme nient´affatto solitario, visto come gavazzano P3, P4 et ceterae); il governo non batte ciglio. Metà dell´intera patologia europea fiorisce qui. Dove porti la politica del laissez manger, è presto detto: traslocando nel novembre 2011, sotto l´assalto dei mercati, l´Olonese lascia un debito pubblico pari a 1.905.012 (miliardi d´euro) ossia il decuplo dell´annua emorragia malaffaristica; aveva governato otto anni e mezzo, «uomo del fare». I conti tornano.
Estinzione del reato, dunque, e se l´è sudata: incasserebbe i quattro anni inflitti a Mr Mills da Tribunale e Corte d´appello se le Camere affollate da uomini e donne del sì non votassero un malfamato lodo che vieta i giudizi penali nei suoi confronti, quia nominatur leo, strapotente capo del governo; quando va in fumo, dichiarato invalido, gli servono un privilegio dell´impedimento d´ufficio a comparire nell´aula. Così passano settimane, mesi, anni. Era latta anche questo scudo: finalmente compare ma nominor leo, quindi concede al massimo un giorno alla settimana e il dibattimento, illo tempore sospeso, deve ripartire davanti a un collegio diverso; il tutto basta appena, essendosi Sua Maestà accorciati i termini della prescrizione, con relativa amnistia occulta. Caso mai non bastasse, aveva pronte due leggi da manicomio: l´imputato ricco allunga finché vuole i dibattimenti arruolando testimoni a migliaia, e sul processo pende una mannaia; scaduto il termine, gli affari penali svaniscono. Sembrano incubi d´un cattivo sonno. No, è vergognosa storia recente. Come Dio vuole, sabato 12 novembre 2011 esce dal Palazzo avendo condotto l´Italia a due dita dalla bancarotta, ma non pensiamolo depresso: cova revanche; arrotano i denti dignitari, sgherri, domestici d´ambo i sessi, infuriati dalla prospettiva d´una ricaduta nel nulla. Mercoledì 22 febbraio nelle tre ore del colloquio col successore tocca argomenti caldi quali Rai e giustizia: le cosiddette «carriere separate» ossia un pubblico ministero governativo, che dorma o azzanni, secondo gli ordini; non dimentichiamo chi voleva installare in via Arenula. Gli spiriti animali restano integri. Lo confermava l´energico sostegno al piano delle Olimpiadi, come se opere colossali, talora finte, non avessero divorato abbastanza denaro; particolare pittoresco, sedeva a banchetto qualche gentiluomo del papa. La Corte dei conti (16 febbraio) chiede due misure dal senso chiaro: riconfigurare comme il faut il falso in bilancio; e un regime equo della prescrizione, l´attuale essendo criminofilo.
Ogni tanto lamenta d´avere speso somme enormi in parcelle. Parliamone: ai bei tempi penalisti d´alta classe giostravano nel merito delle cause, fatto e diritto, sdegnando i cavilli procedurali; dura il ricordo d´avvocati giuristi quali Arturo Carlo Jemolo o Alfredo De Marsico, morti quasi poveri dopo una lunga vita in cattedra e sui banchi giudiziari. Erano sapienti ma disadatti al mestiere, commentano eroi del Brave New World, scambiando sogghigni porcini. L´immagine viene da Orwell, nella cui molto istruttiva Fattoria degli animali comandano maiali umanoidi dal freddo aplomb manageriale: una specie importante; chiamiamola verres erectus. Siamo salvi dal default. Deo gratias. Rimane una questione grave: quanto mordano nel codice genetico gli ultimi vent´anni; anzi, trenta, se v´includiamo l´antipedagogia televisiva.

La Repubblica 27.02.12