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«Caro ministro, in classe vorrei un termosifone», di Mila Spicola

Caro ministro, mi chiamo Alessio, vorrei un termosifone per ogni classe, i banchi che sono rotti, una palestra, i libri, armadi, pavimenti che sono rotti, le sedie, vetri alle finestre, spesso vorrei utilizzare l’aula di danza, non la possiamo utilizzare perché mancano i soldi per chiamare un professore, dipingere i muri che sono mascherati. Per favore agliutaci che la scuola Falcone ha bisogno di una mano. Alessio». Si scrive «aiutaci» Alessio, attenzione. «Ah..e chiffazzu? Unciadugnu?». «No, no…dagliela. È molto bella la tua lettera, posso pubblicarla?» Si illumina d’immenso. Istituto Comprensivo Giovanni Falcone, quartiere Zen, Palermo. Persa tra le agghiaccianti insulae della progettazione degli anni 70, la scuola in fondo è bella. Sono seduta tra il pubblico, nell’aula magna, in fondo, accanto ad Alessio, Salvo, Sabrina… Siamo tutti in attesa di ascoltare il ministro, «il presidente di tutte le scuole ». Hanno una malloppetto di cartoncini colorati, pieni di parole, di disegni. «Sono le lettere per il presidente, dove che gli chiediamo quello che ci manca, le vuole vedere? Ci dice se sono buone?» Certo, dai… E inizio a leggere. Da poco è finito il giro per la scuola del ministro Profumo, con lui il sottosegretario Rossi Doria. E poi il preside, Domenico Di Fatta, le autorità, i dirigenti dell’ufficio scolastico regionale, il commissario straordinario di Palermo, deputati nazionali, il prefetto, e poi i docenti della scuola, i ragazzi, le mamme… Scuola Falcone. Una metafora, un simbolo per Palermo, ma anche per tutta la scuola italiana. Dal 2006 ad oggi soggetta a una cinquantina di atti vandalici, a partire dalle pallottole sparate contro i muri di allora, fino al terribile incendio del 13 luglio 2009, quello che distrusse la palestra e parte dell’asilo, e poi un continuo. Fino alla scorsa settimana. Ho sentito ieri il preside Di Fatta per chiedergli cosa avrebbe chiesto oggi al ministro. «Che vuoi che gli chieda? Attenzione. Le scuole “a rischio” hanno bisogno di un regime diverso, di docenti diversi, di risorse diverse…». «Ma tu non credi che con l’autonomia potremmo sperimentare noi una didattica nuova, metterci al lavoro per reinventarci un modo nuovo per parlare a questi ragazzi?». «Magari,ma quando? Ogni giorno arrivo alla fine della giornata emi ripeto: oggi che ho fatto?Ho solo inseguito emergenze. Magari potessimo pensare a quello. La didattica. Che poi sarebbe l’unica cosa a cui pensare vero? In tempo di pace. Io qua ho la guerra». Gestire il quotidiano in una scuola a rischio non è facile. L’attimo di follia interno si somma all’attimo di follia esterno. Ragazzi più grandi che si introducono nella scuola. Bidelli che devono trasformarsi in guardie .E perché mai? In quale parte del contratto lo si prevede? Docenti distrutti e la tentazione di andarsene. «Me lo ripeto a volte… Ma poi è come la droga. Cosa gli chiedo? Risorse, personale specializzato, aiuto». Continuo con lui: insegnare ai ragazzi difficili ti entra dentro. Maledici il cielo tutti i gironi quando accade il peggio, te ne vorresti andare, come lo ringrazi quando accade il miracolo e pensi che non hai dove stare se non lì. Torno ad Alessio che mi chiede «ma che sta dicendo?». Prof, ti sei distratta, c’è il ministro che parla. «Alessio, sta dicendo che dovete studiare di più e che lui vi aiuterà». Che oggi la scuola è la modalità certa per cambiare il Paese e che sanno agendo su tre assi: sicurezza, apprendimenti e attrezzarvi per il futuro. Una bella serie di fondi, dati e impegni. Sututto la sicurezza nelle scuole e il benessere. In fondi Cipe, i Fas ridestinati alle regioni dell’obiettivo convergenza… Insomma Alessio, mi sa che ci scappano i banchi, la palestra e persino i riscaldamenti. «Tu ci vieni a scuola vero? Non la lasci…». «Certo che no, certo che ci vengo». Alla Falcone la dispersione scolastica raggiunge punte del 30%. La dispersione è il mostro per la Sicilia intera e dunque per l’Italia. L’Europa ci ha chiesto di contenerla da anni, dal trattato di Lisbona. «Prof, ci vede? Mi sposto?». È una ragazzina di fronte a me, «no, no..ci vedo». È un ex allieva, ha appena parlato in pubblico e sento il suo cuore battere ancora a mille. È la volta di Rossi Doria. Combattere l’esclusione, parla dei benedetti interventi contro la dispersione. «Spenderemo dei soldi per questo, ma dobbiamo avere l’umiltà di capire insieme dove abbiamo fatto bene e dove abbiamo fatto male». Sono gentili, parlano, ascoltano, torno a distrarmi con Alessio. Fino a quando la sento la cosa che mi arriva al cuore da quella cattedra e non dalla sediolina accanto a me. È Rossi Doria a dirla. «Insegnare è un lavoro artigianale e potente». Oh, finalmente. Adesso la continuità progettuale sta nell’applicare quel certosino lavoro ai nostri grandi numeri. Date modo alle scuole di farlo. Tappate voi le emergenze e a noi ridateci il tempo per fare didattica.

L’Unità 26.02.12

"Un lasciapassare ad personam", di Massimo Giannini

Le sentenze si rispettano. Sempre. Sia quando esaudiscono un´aspettativa, sia quando la frustrano. Promanano dai tribunali della Repubblica, dunque da un potere riconosciuto dalla Costituzione. Per questo, anche la sentenza che ha salvato Silvio Berlusconi dalla condanna per il caso Mills merita rispetto. Ciò non toglie che anche questa, come molte altre che l´hanno preceduta, sia l´ultima ferita allo Stato di diritto. L´ennesino salvacondotto “ad personam”, che ha permesso all´ex presidente del Consiglio di sottrarsi al suo giudice naturale. I luogotenenti della propaganda arcoriana sono già all´opera. Raccontano la solita favola, che purtroppo abbiamo imparato a conoscere in questi quasi vent´anni di eclissi della ragione. «È finita la folle corsa dei pubblici ministeri», esulta Ghedini. «La persecuzione è fallita, ho subito oltre 100 processi e sono stato sempre assolto», ripete il Cavaliere. Manipolazioni e mistificazioni, ad uso e consumo di un´opinione pubblica narcotizzata e di un´informazione addomesticata.
La prima bugia. La corsa dei pm non è stata affatto «folle». Nella vicenda Mills, come la sentenza della Corte di Cassazione ha già certificato nell´aprile 2010, confermando sul punto le due precedenti pronunce di primo e secondo grado, è scritto nero su bianco: Berlusconi fu il «corruttore» dell´avvocato inglese, che ricevette 600 mila dollari per testimoniare il falso nelle inchieste sui fondi neri depositati nelle società offshore della galassia Mediaset. Ora sarà necessario aspettare il deposito delle motivazioni, ma anche quest´ultima pronuncia del tribunale di Milano riconferma quell´impianto accusatorio.
Mills fu corrotto dal Cavaliere, come il pm Fabio De Pasquale, tutt´altro che folle, ha tentato di dimostrare in questi cinque lunghi anni di processo. E se il Cavaliere non subisce la condanna che merita, questo non accade perché «non ha commesso il fatto», o perché «il fatto non sussiste», come prevedono le formule di assoluzione piena. Ma dipende solo dal fatto che il reato è prescritto. E non è prescritto per caso. Le irriducibili tattiche dilatorie della difesa da una parte, le insopportabili pratiche demolitorie del governo forzaleghista dall´altra, hanno “cucito” la prescrizione sulla figura dell´ex premier.
Qui sta la seconda bugia. Berlusconi ha subito finora non 100 processi, ma 17. Di questi 4 sono ancora in corso: diritti Mediaset, Mediatrade, Ruby e affare Bnl-Unipol. Di tutti gli altri, solo 3 si sono conclusi con un´assoluzione, per altro con formula dubitativa. Tutti gli altri 11, compreso l´ultimo sul caso Mills, si sono risolti grazie alle norme ad personam che lo stesso Berlusconi, usando il pugno di ferro del governo, ha imposto al Parlamento per fuggire dai processi, invece che difendersi nei processi. Depenalizzazione dei reati di falso in bilancio (da All Iberian alla vicenda Sme-Ariosto), estensione delle attenuanti generiche (dall´affare Lentini al Consolidato Fininvest), riduzione dei tempi della prescrizione (dal Lodo Mondadori al caso Mills, appunto). Sono tante le “leggi-vergogna” con le quali il presidente-imputato è intervenuto nella carne viva dei suoi processi, per piegarne il corso e l´esito in suo favore.
Anche la sentenza di ieri, dunque, è il frutto avvelenato di questa scandalosa semina berlusconiana. Un irriducibile cortocircuito tra istituzioni. Un insostenibile conflitto tra poteri. L´esecutivo militarizza il legislativo per sottomettere il giudiziario. Quella stagione, per fortuna, è politicamente alle nostre spalle. Ma i danni collaterali, purtroppo, continuano a scuotere il Paese. In una destra ormai popolata di anime perse, ma non per questo meno irresponsabili, c´è già chi vede in questa prescrizione processuale l´occasione di un riscatto politico per il Cavaliere. Questa sì, è una vera follia.
L´incubo berlusconiano l´abbiamo già attraversato, e continuiamo ancora a pagarne il prezzo sulla nostra pelle e con le nostre tasche. A chi oggi continua a protestare a vanvera per il “golpe in guanti bianchi” di Mario Monti, bisognerà ricordare che se in Italia c´è stato davvero un ciclo di “sospensione della democrazia”, l´abbiamo vissuto con il governo del Cavaliere. Non certo con quello del Professore.

La Repubblica 26.02.12

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L´ex premier e le carte “Lui è il corruttore”, di PIERO COLAPRICO

Intorno al Palazzo di Giustizia di Milano deserto, solitaria e silenziosa cammina una signora, che ha appeso sulla schiena un cartello di protesta: «David Mills il corrotto colpevole, Silvio Berlusconi il corruttore innocente?». E questo è, cartello e sarcasmo a parte, il punto centrale della questione, «dimenticato» sempre, in tutti questi anni, dai fedelissimi berlusconiani. Basta però un dettaglio minimo degli attacchi di Silvio Berlusconi e dei suoi per portarci dentro una verità essenziale del caso Mills. Riguarda Fabio De Pasquale, il pubblico ministero. Considerava quella prescrizione, decretata ieri, come «una disgrazia» ed è stato accusato di aver avviato una «folle corsa» contro il tempo per far condannare Berlusconi. Folle corsa? Davvero? Analizziamola: che cos´ha fatto in concreto De Pasquale?
Ha ottenuto a suo tempo – anni fa – la condanna, valida sino alla Cassazione, dell´avvocato inglese David Mills, e cioè dell´ex-coimputato di Berlusconi. Mills – questi i semplici fatti – aveva confessato davanti a De Pasquale, e a un altro collega, accompagnato dal legale di fiducia, un reato: aver intascato 600mila dollari come regalo dal mondo berlusconiano. Regalo in cambio di che cosa? Di aver taroccato le testimonianze che doveva rendere in due processi: quelli che sfioravano – e Mills era un drago dei paradisi fiscali e dei soldi estero su estero – la questione dei ricchissimi fondi occulti Finivest. Si chiama corruzione giudiziaria, questo tipo di reato, ed è gravissimo.
L´uomo di Stato, l´imprenditore, il miliardario Berlusconi, di fronte al caso Mills, che cosa ha fatto (ultimi lunghi anni compresi)? Ha forse denunciato Mills come mitomane? Ha difeso il suo onore portando la sua documentazione bancaria? Macché. Si è opposto a ogni rogatoria e se l´è filata dal banco degli imputati. Nel senso che Mills, senza la protezione politica delle leggi ad personam, è andato incontro al suo destino, la condanna. Lui no.
Ma quando la Corte costituzionale ha bocciato le leggi ad personam, e Berlusconi non poteva non presentarsi in aula, anche in aula ha taciuto, rifiutando qualsiasi interrogatorio, qualsiasi spiegazione mentre i suoi avvocati (e onorevoli Pdl) adottavano una strategia a volte da lumache, a volte da arpie, con attacchi ai giudici, togliendosi persino la toga per protesta. C´è una pubblicità sul gioco d´azzardo che ha questo slogan: «Ti piace vincere facile, eh?». Sembra la perfetta sintesi dei fatti di Silvio Berlusconi nel processo Mills.
De Pasquale, dunque. Con tutti i suoi difetti, che cosa ha cercato di fare di «folle» questo pubblico ministero mentre ingobbiva sulle carte? Semplice: voleva far processare due persone allo stesso modo, come chiedono (auspicano) le democrazie e le Costituzioni. Dimostrare che, se c´era un corrotto, Mills, c´era un corruttore, Berlusconi. E come non l´ha fatta franca uno non poteva, né doveva farla franca l´altro, perché truccare i processi è un fatto grave.
Se De Pasquale abbia o no raggiunto la prova della colpevolezza di Berlusconi, è una risposta che emergerà nella sentenza, quando verrà depositata, ma come magistrato, con le sue rogatorie testarde, con l´analisi dei documenti, più che una folle corsa per ottenere la condanna ha resistito giocando «pulito» anni e anni, tra ritardi non certo voluti da lui. Viceversa, Berlusconi ha soprattutto lavorato per impedire che si discutesse dei fatti sulla sua colpevolezza o innocenza. E, in extremis, ha raccontato che Mills, dopo averlo tirato in mezzo «perché non sapeva chi altro nominare», è stato folgorato dalla verità: perché quei maledetti 600mila dollari – una miseria per Berlusconi, un «grosso casino» per il fisco inglese – ci sono, ma erano stati regalati all´avvocatone delle Isole Cayman da un altro italiano, e cioè dall´armatore napoletano Diego Attanasio. Ora, in Italia, non pochi imprenditori farebbero un favore a Berlusconi, ma Attanasio non poteva fantasticare in aula su conti che non esistevano nelle carte: «A Mills ho solo pagato parcelle», ha ribadito in aula Attanasio, settimane fa.
Ma a Berlusconi non importa, perché nell´aula del processo Mills sonnecchiava a volte con ostentazione. È più facile dire che c´è stata una «folle corsa» a condannarlo, dipingersi come massimo martire della giustizia italiana, tutto pur di evitare domande e contestazioni. Non lo fa mai, in aula. Forse perché teme altri processi che incombono, soprattutto quello spinosissimo che riprende domani, il «Ruby-Silvio». Perché qui non ci sono solo i conti e gli avvocati, ma la carne e il sangue che pulsa, e l´abuso di potere in varie forme. Molte delle menzogne di Silvio Berlusconi sulle «cene eleganti» sono, tra l´ilarità e lo sdegno, già naufragate. Com´è già naufragata in aula, nell´ultima udienza, pure l´assurda parentela tra Karima El Mahroug, marocchina, invitata minorenne ad Arcore nel 2010, e l´ex presidente egiziano Moubarak.
Nel processo Ruby-Silvio, infine, è bene sapere che la prescrizione per l´imputato unico scatta ben oltre il 2020. E con gli interrogatori i pubblici ministeri Ilda Boccassini e Antonio Sangermano sono, si sa, piuttosto rapidi ed efficaci. Viene da chiedersi: chissà se De Pasquale vorrà assistere alla sentenza del processo Ruby, un giorno. E chissà se Berlusconi, almeno una volta in vita sua, risponderà.

La Repubblica 26.02.12

“Un lasciapassare ad personam”, di Massimo Giannini

Le sentenze si rispettano. Sempre. Sia quando esaudiscono un´aspettativa, sia quando la frustrano. Promanano dai tribunali della Repubblica, dunque da un potere riconosciuto dalla Costituzione. Per questo, anche la sentenza che ha salvato Silvio Berlusconi dalla condanna per il caso Mills merita rispetto. Ciò non toglie che anche questa, come molte altre che l´hanno preceduta, sia l´ultima ferita allo Stato di diritto. L´ennesino salvacondotto “ad personam”, che ha permesso all´ex presidente del Consiglio di sottrarsi al suo giudice naturale. I luogotenenti della propaganda arcoriana sono già all´opera. Raccontano la solita favola, che purtroppo abbiamo imparato a conoscere in questi quasi vent´anni di eclissi della ragione. «È finita la folle corsa dei pubblici ministeri», esulta Ghedini. «La persecuzione è fallita, ho subito oltre 100 processi e sono stato sempre assolto», ripete il Cavaliere. Manipolazioni e mistificazioni, ad uso e consumo di un´opinione pubblica narcotizzata e di un´informazione addomesticata.
La prima bugia. La corsa dei pm non è stata affatto «folle». Nella vicenda Mills, come la sentenza della Corte di Cassazione ha già certificato nell´aprile 2010, confermando sul punto le due precedenti pronunce di primo e secondo grado, è scritto nero su bianco: Berlusconi fu il «corruttore» dell´avvocato inglese, che ricevette 600 mila dollari per testimoniare il falso nelle inchieste sui fondi neri depositati nelle società offshore della galassia Mediaset. Ora sarà necessario aspettare il deposito delle motivazioni, ma anche quest´ultima pronuncia del tribunale di Milano riconferma quell´impianto accusatorio.
Mills fu corrotto dal Cavaliere, come il pm Fabio De Pasquale, tutt´altro che folle, ha tentato di dimostrare in questi cinque lunghi anni di processo. E se il Cavaliere non subisce la condanna che merita, questo non accade perché «non ha commesso il fatto», o perché «il fatto non sussiste», come prevedono le formule di assoluzione piena. Ma dipende solo dal fatto che il reato è prescritto. E non è prescritto per caso. Le irriducibili tattiche dilatorie della difesa da una parte, le insopportabili pratiche demolitorie del governo forzaleghista dall´altra, hanno “cucito” la prescrizione sulla figura dell´ex premier.
Qui sta la seconda bugia. Berlusconi ha subito finora non 100 processi, ma 17. Di questi 4 sono ancora in corso: diritti Mediaset, Mediatrade, Ruby e affare Bnl-Unipol. Di tutti gli altri, solo 3 si sono conclusi con un´assoluzione, per altro con formula dubitativa. Tutti gli altri 11, compreso l´ultimo sul caso Mills, si sono risolti grazie alle norme ad personam che lo stesso Berlusconi, usando il pugno di ferro del governo, ha imposto al Parlamento per fuggire dai processi, invece che difendersi nei processi. Depenalizzazione dei reati di falso in bilancio (da All Iberian alla vicenda Sme-Ariosto), estensione delle attenuanti generiche (dall´affare Lentini al Consolidato Fininvest), riduzione dei tempi della prescrizione (dal Lodo Mondadori al caso Mills, appunto). Sono tante le “leggi-vergogna” con le quali il presidente-imputato è intervenuto nella carne viva dei suoi processi, per piegarne il corso e l´esito in suo favore.
Anche la sentenza di ieri, dunque, è il frutto avvelenato di questa scandalosa semina berlusconiana. Un irriducibile cortocircuito tra istituzioni. Un insostenibile conflitto tra poteri. L´esecutivo militarizza il legislativo per sottomettere il giudiziario. Quella stagione, per fortuna, è politicamente alle nostre spalle. Ma i danni collaterali, purtroppo, continuano a scuotere il Paese. In una destra ormai popolata di anime perse, ma non per questo meno irresponsabili, c´è già chi vede in questa prescrizione processuale l´occasione di un riscatto politico per il Cavaliere. Questa sì, è una vera follia.
L´incubo berlusconiano l´abbiamo già attraversato, e continuiamo ancora a pagarne il prezzo sulla nostra pelle e con le nostre tasche. A chi oggi continua a protestare a vanvera per il “golpe in guanti bianchi” di Mario Monti, bisognerà ricordare che se in Italia c´è stato davvero un ciclo di “sospensione della democrazia”, l´abbiamo vissuto con il governo del Cavaliere. Non certo con quello del Professore.

La Repubblica 26.02.12

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L´ex premier e le carte “Lui è il corruttore”, di PIERO COLAPRICO

Intorno al Palazzo di Giustizia di Milano deserto, solitaria e silenziosa cammina una signora, che ha appeso sulla schiena un cartello di protesta: «David Mills il corrotto colpevole, Silvio Berlusconi il corruttore innocente?». E questo è, cartello e sarcasmo a parte, il punto centrale della questione, «dimenticato» sempre, in tutti questi anni, dai fedelissimi berlusconiani. Basta però un dettaglio minimo degli attacchi di Silvio Berlusconi e dei suoi per portarci dentro una verità essenziale del caso Mills. Riguarda Fabio De Pasquale, il pubblico ministero. Considerava quella prescrizione, decretata ieri, come «una disgrazia» ed è stato accusato di aver avviato una «folle corsa» contro il tempo per far condannare Berlusconi. Folle corsa? Davvero? Analizziamola: che cos´ha fatto in concreto De Pasquale?
Ha ottenuto a suo tempo – anni fa – la condanna, valida sino alla Cassazione, dell´avvocato inglese David Mills, e cioè dell´ex-coimputato di Berlusconi. Mills – questi i semplici fatti – aveva confessato davanti a De Pasquale, e a un altro collega, accompagnato dal legale di fiducia, un reato: aver intascato 600mila dollari come regalo dal mondo berlusconiano. Regalo in cambio di che cosa? Di aver taroccato le testimonianze che doveva rendere in due processi: quelli che sfioravano – e Mills era un drago dei paradisi fiscali e dei soldi estero su estero – la questione dei ricchissimi fondi occulti Finivest. Si chiama corruzione giudiziaria, questo tipo di reato, ed è gravissimo.
L´uomo di Stato, l´imprenditore, il miliardario Berlusconi, di fronte al caso Mills, che cosa ha fatto (ultimi lunghi anni compresi)? Ha forse denunciato Mills come mitomane? Ha difeso il suo onore portando la sua documentazione bancaria? Macché. Si è opposto a ogni rogatoria e se l´è filata dal banco degli imputati. Nel senso che Mills, senza la protezione politica delle leggi ad personam, è andato incontro al suo destino, la condanna. Lui no.
Ma quando la Corte costituzionale ha bocciato le leggi ad personam, e Berlusconi non poteva non presentarsi in aula, anche in aula ha taciuto, rifiutando qualsiasi interrogatorio, qualsiasi spiegazione mentre i suoi avvocati (e onorevoli Pdl) adottavano una strategia a volte da lumache, a volte da arpie, con attacchi ai giudici, togliendosi persino la toga per protesta. C´è una pubblicità sul gioco d´azzardo che ha questo slogan: «Ti piace vincere facile, eh?». Sembra la perfetta sintesi dei fatti di Silvio Berlusconi nel processo Mills.
De Pasquale, dunque. Con tutti i suoi difetti, che cosa ha cercato di fare di «folle» questo pubblico ministero mentre ingobbiva sulle carte? Semplice: voleva far processare due persone allo stesso modo, come chiedono (auspicano) le democrazie e le Costituzioni. Dimostrare che, se c´era un corrotto, Mills, c´era un corruttore, Berlusconi. E come non l´ha fatta franca uno non poteva, né doveva farla franca l´altro, perché truccare i processi è un fatto grave.
Se De Pasquale abbia o no raggiunto la prova della colpevolezza di Berlusconi, è una risposta che emergerà nella sentenza, quando verrà depositata, ma come magistrato, con le sue rogatorie testarde, con l´analisi dei documenti, più che una folle corsa per ottenere la condanna ha resistito giocando «pulito» anni e anni, tra ritardi non certo voluti da lui. Viceversa, Berlusconi ha soprattutto lavorato per impedire che si discutesse dei fatti sulla sua colpevolezza o innocenza. E, in extremis, ha raccontato che Mills, dopo averlo tirato in mezzo «perché non sapeva chi altro nominare», è stato folgorato dalla verità: perché quei maledetti 600mila dollari – una miseria per Berlusconi, un «grosso casino» per il fisco inglese – ci sono, ma erano stati regalati all´avvocatone delle Isole Cayman da un altro italiano, e cioè dall´armatore napoletano Diego Attanasio. Ora, in Italia, non pochi imprenditori farebbero un favore a Berlusconi, ma Attanasio non poteva fantasticare in aula su conti che non esistevano nelle carte: «A Mills ho solo pagato parcelle», ha ribadito in aula Attanasio, settimane fa.
Ma a Berlusconi non importa, perché nell´aula del processo Mills sonnecchiava a volte con ostentazione. È più facile dire che c´è stata una «folle corsa» a condannarlo, dipingersi come massimo martire della giustizia italiana, tutto pur di evitare domande e contestazioni. Non lo fa mai, in aula. Forse perché teme altri processi che incombono, soprattutto quello spinosissimo che riprende domani, il «Ruby-Silvio». Perché qui non ci sono solo i conti e gli avvocati, ma la carne e il sangue che pulsa, e l´abuso di potere in varie forme. Molte delle menzogne di Silvio Berlusconi sulle «cene eleganti» sono, tra l´ilarità e lo sdegno, già naufragate. Com´è già naufragata in aula, nell´ultima udienza, pure l´assurda parentela tra Karima El Mahroug, marocchina, invitata minorenne ad Arcore nel 2010, e l´ex presidente egiziano Moubarak.
Nel processo Ruby-Silvio, infine, è bene sapere che la prescrizione per l´imputato unico scatta ben oltre il 2020. E con gli interrogatori i pubblici ministeri Ilda Boccassini e Antonio Sangermano sono, si sa, piuttosto rapidi ed efficaci. Viene da chiedersi: chissà se De Pasquale vorrà assistere alla sentenza del processo Ruby, un giorno. E chissà se Berlusconi, almeno una volta in vita sua, risponderà.

La Repubblica 26.02.12

"Il governo Monti tra destra e sinistra", di Eugenio Scalfari

Fino a poco tempo fa si diceva che l´Europa avesse molti problemi, uno dei quali era la Grecia ma i più preoccupanti erano la Spagna e soprattutto l´Italia. Oggi però risulta chiaro che il vero problema è l´Europa, anzi l´Europa tedesca perché è la Germania a dare il “la” a tutta l´orchestra delle istituzioni europee. Il presidente del Consiglio, Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione Manuel Barroso, i commissari, i direttori generali e i loro vice, i segretari del Parlamento di Strasburgo e i funzionari delle commissioni parlamentari: una vasta e potente burocrazia plurinazionale dove i posti-chiave sono in mano a tedeschi e francesi e ai loro stretti alleati e dove le funzioni politiche sono esercitate da una tecnostruttura che ha gli occhi costantemente rivolti a Berlino.
Il voto all´unanimità, che è ancora la regola per le decisioni più importanti dell´Unione, costituisce una delle varie armi a disposizione della Germania. È vero che esso conferisce un diritto di veto a tutti i Paesi dell´Unione, ma quei veti possono essere controllati, ammorbiditi, aggirati quando a porli sia uno degli altri 26 Paesi membri; ma quando è la Cancelliera tedesca a dire “no”, quel no è insuperabile perché – tutti ormai l´hanno capito – è Berlino che fa la legge. Anche la Francia infatti ha ormai piegato la testa riconoscendo d´esser figlia di un Dio minore.
La Germania è il Paese europeo più ricco, più produttivo, più innovativo dell´Unione; è il centro geopolitico del continente ed è ormai l´alleato privilegiato degli Stati Uniti. Questo è lo stato dei fatti anche se formalmente non appare, anzi non appariva fino a qualche anno fa, ma adesso l´egemonia tedesca sulla politica economica dell´intero Continente è conclamata. Purtroppo si tratta d´una politica ottusamente deflazionistica, ottusamente “virtuosa”, ottusamente manichea e quindi socialmente crudele.
Per conservare ed accrescere la sua egemonia la Germania rifiuta o rallenta il percorso che dovrebbe portarci alla nascita di un´Europa federale come previsto dallo spirito dei trattati fondativi della Comunità. Rifiuta che l´Europa sia rappresentata da una sola voce e che un suo rappresentante (dell´Europa) entri a far parte come membro permanente nel Consiglio di sicurezza dell´Onu. Rifiuta che lo stesso avvenga nel Fondo monetario (Fmi) e nelle altre istituzioni internazionali. Rifiuta infine che la Banca centrale europea abbia lo “status” delle Banche centrali di tutto il mondo.
La Germania vuole invece che l´Unione rimanga a mezza strada tra una semplice Confederazione di libero scambio e un vero Stato con elezioni popolari dirette e organi federali.
A mezza strada significa una struttura intergovernativa dove i governi più forti fanno la legge e dove gli Stati nazionali mantengano piena autonomia salvo alcuni spicchi di sovranità trasferiti all´Unione (vedi il rigorismo economico) se quel trasferimento rafforza l´egemonia dello Stato-guida.
La situazione attuale si può dunque riassumere così: la Germania impedisce che ai cittadini degli Stati nazionali siano riconosciuti tutti i diritti che una piena cittadinanza europea comporta. Questo è il problema europeo.
* * *
Da qualche mese però si è aperta una falla nella carena dell´Europa tedesca. L´hanno aperta Mario Monti da un lato e Mario Draghi dall´altro. Non credo che ci sia un accordo tra loro, ma una convergenza oggettiva la si vede senza bisogno di lenti d´ingrandimento.
L´obiettivo di Monti è di far tornare l´Italia in prima fila sulla scena della politica europea e di favorire ulteriori cessioni di sovranità dagli Stati nazionali alle istituzioni dell´Unione. Il documento firmato da Monti e da Cameron, dalla Spagna e dalla Polonia, dall´Olanda, dalla Repubblica Ceca e dagli Stati Baltici, che chiede di concentrare nella Commissione europea la gestione della concorrenza e delle regole che la tutelino soprattutto nel settore dei servizi fin qui trascurato, marcia in quella direzione. Non a caso Germania e Francia per ora non hanno aderito a quell´iniziativa. I “media” dal canto loro l´hanno sottovalutata sebbene essa possieda una forte carica di liberalizzazione intra-europea, mirata non più al rigore già acquisito ma alla crescita. Si tratta in realtà di un´iniziativa contro le “lobby” a livello continentale.
Monti conosce bene quel tema, fa parte della sua lunga esperienza di commissario dell´Unione. Non è un caso che la sua iniziativa europea avvenga in sintonia con il decreto sulle liberalizzazioni in discussione nel Parlamento italiano e non è un caso che proprio l´altro ieri il presidente del Consiglio abbia deciso di disconoscere tutti gli emendamenti che le lobby hanno tentato di introdurre nel decreto attraverso la compiacenza dei partiti di riferimento.
Il presidente della Repubblica – che segue con la massima attenzione quanto sta accadendo su questo tema sia in Italia sia in Europa – è intervenuto giovedì scorso contro la pioggia di emendamenti eterogenei sul decreto delle semplificazioni ed ha contemporaneamente ricordato l´importanza della politica di liberalizzazioni. Anche il Partito democratico s´è schierato sullo stesso terreno che del resto fu proprio Bersani ad anticipare come ministro dell´Industria all´epoca del governo Prodi.
Mario Draghi batte anche lui su quel tasto ad ogni sua uscita pubblica. I veri nodi strategici di questa politica non sono i tassisti, le farmacie e neppure gli ordini professionali. I veri nodi da sciogliere sono i costi dell´energia, la rendita metanifera dell´Eni, l´intreccio degli interessi tra le banche, le fondazioni, le compagnie d´assicurazione. E anche, ovviamente, il mercato del lavoro.
* * *
La battaglia delle liberalizzazioni non ha niente a che vedere con l´ideologia liberista. Soltanto una sinistra becera e aggrappata alle mitologie e alle ideologie del secolo scorso può identificare la lotta contro le corporazioni e contro gli intrecci d´interesse con il thatcherismo e il reaganismo.
Il capitalismo democratico e la politica sociale di mercato furono l´esatto contrario del liberismo selvaggio che porta sempre nel suo ventre l´oligopolio e il monopolio. L´economia globale ha riaperto questo problema ponendolo su basi del tutto nuove. Il capitalismo democratico rese possibile l´incontro con il riformismo socialista nel felice trentennio che va dal 1945 alla metà degli anni Settanta. Ora quel modello va ricostruito su nuove basi.
Nuovo modello ma identici obiettivi. Per questo è un´assurdità porre la domanda se Mario Monti sia di destra o di sinistra. Monti è un riformista e un innovatore. Ci può essere una destra riformista e innovatrice (la Destra storica lo fu) e una sinistra riformista e innovatrice e così pure un sindacato e un´imprenditoria con quei medesimi obiettivi.
Qualche nome del nostro passato, tanto per avere concreti riferimenti? Li ho già fatti in altre occasioni quei nomi ma forse è bene ripetersi per chi non ha orecchi per ascoltare o cervello per intendere: Luigi Einaudi, Ezio Varoni, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Raffaele Mattioli, Altiero Spinelli, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Luciano Lama, Pasquale Saraceno, Nino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi. L´elenco è assai più lungo, per fortuna c´è stata e c´è ancora un´Italia perbene, responsabile e consapevole, che antepone l´interesse generale a tutti gli altri. Credo che i nostri due Mario facciano parte di questo elenco.

* * *
La riforma del mercato del lavoro fa parte della politica di liberalizzazione la quale non si limita a liberalizzare le merci e i servizi. Questa è la parte più facile ed è già in gran parte avvenuta in Europa con la nascita della Comunità e i trattati di Roma del 1957. Può e dev´essere migliorata e completata, ma il nodo da sciogliere ora è un altro e riguarda le persone.
Il mercato del lavoro non è uno spazio unitario ma uno spazio segmentato. C´è un mercato del Sud e uno del Nord, un mercato del lavoro per gli uomini e uno per le donne, uno per i giovani e uno per gli anziani, uno a tempo indeterminato e uno a tempo determinato, uno alla luce del sole e uno sommerso, uno per le piccole imprese e uno per le grandi, uno per i privati e uno per lo Stato e gli enti pubblici, uno per i cittadini e uno per gli immigrati. Infine ci sono gli occupati, i sotto-occupati e i disoccupati e ci sono tutele sociali per alcuni e nessuna tutela per altri.
Si può dire che il mercato del lavoro in Italia in queste condizioni di intensa segmentazione fatta di veri e propri compartimenti-stagno non comunicanti tra loro, sia un mercato libero dove liberamente si confrontano la domanda e l´offerta di lavoro? Certamente no e lo sanno benissimo le rappresentanze sindacali dei lavoratori e quelle degli imprenditori. Un vero mercato libero e unitario non ci sarà mai perché alcune segmentazioni dipendono dalle diverse tipologie di lavoro; ma l´intensità delle segmentazioni attuali è irrazionale e insostenibile, impastata da privilegi e da rendite di posizione.
Un governo che voglia modernizzare la società e accrescerne la produttività puntando sulla liberalizzazione del sistema ha dunque tra i primi obiettivi quello di riformare il mercato del lavoro, gli strumenti contrattuali che ne costituiscono le nervature, i meccanismi di tutela sociale e la parità di accesso e di recesso privilegiando i settori più sfavoriti e più deboli, cioè i giovani e le donne.
In un quadro di queste dimensioni la discussione sull´articolo 18 dovrebbe essere del tutto marginale. Forse simbolica, ma nella sostanza marginale sia per il governo sia per le parti sociali riunite intorno a quel tavolo. Quell´articolo sta per tutela della giusta causa. È evidente a tutti che la giusta causa in un Paese moderno e civile è un canone da rispettare. Non si può licenziare un lavoratore solo perché è antipatico al padrone; tanto meno per le sue opinioni o per il colore della pelle. Ma si deve poter licenziare se il lavoratore non rispetta i ritmi di lavoro previsti dal contratto, se rompe la disciplina che il contratto prevede, se l´azienda deve ridurre la produzione per ragioni economiche dimostrate.
Questo complesso di elementi che configura sia l´accesso al lavoro sia il recesso, sono tutelabili in vari modi. L´articolo 18 è alquanto generico ed ha generato una giurisprudenza discutibile e discussa. Può esser sostituito da un testo diverso oppure modificato oppure lasciato tal quale chiarendo meglio la giurisprudenza. In ogni caso – come giustamente ha detto Anna Finocchiaro in una pubblica e recente intervista – le norme che regolano l´entrata e l´uscita dal lavoro vanno estese a tutte le aziende e a tutti i lavoratori mentre l´articolo 18 restringe la tutela agli occupati in aziende che occupano più di 15 dipendenti. I dipendenti di imprese al di sotto di quella soglia sono privi di tutela e questo non è ammissibile.
Il mercato del lavoro non è mai stato così frastagliato. Lo è da vent´anni in qua. Bloccare l´orologio agli anni Ottanta dell´altro secolo è una richiesta irricevibile e se questo fosse lo spirito del sindacato bisognerebbe concluderne che esso è fuori dal tempo; ma ancor più fuori dal tempo sono coloro che in Confindustria o in altre consimili associazioni vorrebbero tornare all´epoca del “padrone delle ferriere”.
Le basi per un accordo ci sono perché l´obiettivo comune non può che essere liberalizzazioni moderne, coesione sociale e tutele per i più deboli.

* * *
Due parole sul governo tecnico e quello politico. In una democrazia parlamentare questa distinzione non può esistere, ogni governo deve avere la fiducia del Parlamento e perciò tutti i governi sono politici.
Ci sono invece vari modi per scegliere il Capo del governo. Lo può scegliere direttamente il popolo, lo possono scegliere i partiti e i loro gruppi parlamentari, lo può scegliere il Capo dello Stato. Nel primo caso – scelta popolare diretta – siamo però fuori dalla democrazia parlamentare. Nel secondo e nel terzo caso ci siamo dentro.
La nostra Costituzione prevede il secondo e il terzo caso. Durante la prima Repubblica si praticò la scelta affidata ai partiti e ratificata dal presidente della Repubblica. Nella seconda Repubblica il sistema si avvicinò a quello presidenziale e si distaccò notevolmente da quello parlamentare.
Complessivamente sono stati molto rari i casi nei quali è stato rispettato il dettato costituzionale. Avvenne durante il settennato di Luigi Einaudi, un paio di volte in quello di Scalfaro (l´incarico a Ciampi e l´incarico a Dini) e con la nomina di Monti e del suo governo da parte di Giorgio Napolitano.
Chi continua a sostenere che il governo Monti sia soltanto “tecnico” e dettato dall´emergenza, sostiene una cosa giusta (l´emergenza) e un´altra falsa (il governo dei tecnici). A mio avviso il meccanismo adottato da Napolitano è quello che meglio corrisponde al dettato costituzionale e deve dunque sopravvivere al governo Monti diventando norma stabile visto che è l´unica prevista in Costituzione.
Nel frattempo il governo governi. L´economia soprattutto, perché l´emergenza lo richiede, ma anche tutti gli altri temi e problemi che riguardano la vita del paese e del suo futuro.

Post scriptum. Il processo Mills-Berlusconi si è concluso con la prescrizione, decisa in sentenza dal Tribunale di Milano. È prassi consolidata che se l´imputato è giudicato innocente, il dispositivo della sentenza ne dia atto. Se invece è giudicato colpevole o se seriamente indiziato di colpevolezza, ma sia caduto in prescrizione, la sentenza applichi la prescrizione nel dispositivo e parli della colpevolezza nelle motivazioni. Attendiamo dunque di leggerle.
La difesa dell´imputato sembra orientata ad appellarsi contro le motivazioni della sentenza se esse accogliessero la tesi della colpevolezza. È evidente tuttavia che non ci si può appellare contro le motivazioni se non si fa formale rifiuto della prescrizione. Se questo fosse la decisione della difesa e dell´imputato prescritto, essa sarebbe altamente apprezzabile e noi saremmo pronti a riconoscerlo, ma qualche cosa ci fa pensare che questo non avverrà.

La Repubblica 26.02.12

“Il governo Monti tra destra e sinistra”, di Eugenio Scalfari

Fino a poco tempo fa si diceva che l´Europa avesse molti problemi, uno dei quali era la Grecia ma i più preoccupanti erano la Spagna e soprattutto l´Italia. Oggi però risulta chiaro che il vero problema è l´Europa, anzi l´Europa tedesca perché è la Germania a dare il “la” a tutta l´orchestra delle istituzioni europee. Il presidente del Consiglio, Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione Manuel Barroso, i commissari, i direttori generali e i loro vice, i segretari del Parlamento di Strasburgo e i funzionari delle commissioni parlamentari: una vasta e potente burocrazia plurinazionale dove i posti-chiave sono in mano a tedeschi e francesi e ai loro stretti alleati e dove le funzioni politiche sono esercitate da una tecnostruttura che ha gli occhi costantemente rivolti a Berlino.
Il voto all´unanimità, che è ancora la regola per le decisioni più importanti dell´Unione, costituisce una delle varie armi a disposizione della Germania. È vero che esso conferisce un diritto di veto a tutti i Paesi dell´Unione, ma quei veti possono essere controllati, ammorbiditi, aggirati quando a porli sia uno degli altri 26 Paesi membri; ma quando è la Cancelliera tedesca a dire “no”, quel no è insuperabile perché – tutti ormai l´hanno capito – è Berlino che fa la legge. Anche la Francia infatti ha ormai piegato la testa riconoscendo d´esser figlia di un Dio minore.
La Germania è il Paese europeo più ricco, più produttivo, più innovativo dell´Unione; è il centro geopolitico del continente ed è ormai l´alleato privilegiato degli Stati Uniti. Questo è lo stato dei fatti anche se formalmente non appare, anzi non appariva fino a qualche anno fa, ma adesso l´egemonia tedesca sulla politica economica dell´intero Continente è conclamata. Purtroppo si tratta d´una politica ottusamente deflazionistica, ottusamente “virtuosa”, ottusamente manichea e quindi socialmente crudele.
Per conservare ed accrescere la sua egemonia la Germania rifiuta o rallenta il percorso che dovrebbe portarci alla nascita di un´Europa federale come previsto dallo spirito dei trattati fondativi della Comunità. Rifiuta che l´Europa sia rappresentata da una sola voce e che un suo rappresentante (dell´Europa) entri a far parte come membro permanente nel Consiglio di sicurezza dell´Onu. Rifiuta che lo stesso avvenga nel Fondo monetario (Fmi) e nelle altre istituzioni internazionali. Rifiuta infine che la Banca centrale europea abbia lo “status” delle Banche centrali di tutto il mondo.
La Germania vuole invece che l´Unione rimanga a mezza strada tra una semplice Confederazione di libero scambio e un vero Stato con elezioni popolari dirette e organi federali.
A mezza strada significa una struttura intergovernativa dove i governi più forti fanno la legge e dove gli Stati nazionali mantengano piena autonomia salvo alcuni spicchi di sovranità trasferiti all´Unione (vedi il rigorismo economico) se quel trasferimento rafforza l´egemonia dello Stato-guida.
La situazione attuale si può dunque riassumere così: la Germania impedisce che ai cittadini degli Stati nazionali siano riconosciuti tutti i diritti che una piena cittadinanza europea comporta. Questo è il problema europeo.
* * *
Da qualche mese però si è aperta una falla nella carena dell´Europa tedesca. L´hanno aperta Mario Monti da un lato e Mario Draghi dall´altro. Non credo che ci sia un accordo tra loro, ma una convergenza oggettiva la si vede senza bisogno di lenti d´ingrandimento.
L´obiettivo di Monti è di far tornare l´Italia in prima fila sulla scena della politica europea e di favorire ulteriori cessioni di sovranità dagli Stati nazionali alle istituzioni dell´Unione. Il documento firmato da Monti e da Cameron, dalla Spagna e dalla Polonia, dall´Olanda, dalla Repubblica Ceca e dagli Stati Baltici, che chiede di concentrare nella Commissione europea la gestione della concorrenza e delle regole che la tutelino soprattutto nel settore dei servizi fin qui trascurato, marcia in quella direzione. Non a caso Germania e Francia per ora non hanno aderito a quell´iniziativa. I “media” dal canto loro l´hanno sottovalutata sebbene essa possieda una forte carica di liberalizzazione intra-europea, mirata non più al rigore già acquisito ma alla crescita. Si tratta in realtà di un´iniziativa contro le “lobby” a livello continentale.
Monti conosce bene quel tema, fa parte della sua lunga esperienza di commissario dell´Unione. Non è un caso che la sua iniziativa europea avvenga in sintonia con il decreto sulle liberalizzazioni in discussione nel Parlamento italiano e non è un caso che proprio l´altro ieri il presidente del Consiglio abbia deciso di disconoscere tutti gli emendamenti che le lobby hanno tentato di introdurre nel decreto attraverso la compiacenza dei partiti di riferimento.
Il presidente della Repubblica – che segue con la massima attenzione quanto sta accadendo su questo tema sia in Italia sia in Europa – è intervenuto giovedì scorso contro la pioggia di emendamenti eterogenei sul decreto delle semplificazioni ed ha contemporaneamente ricordato l´importanza della politica di liberalizzazioni. Anche il Partito democratico s´è schierato sullo stesso terreno che del resto fu proprio Bersani ad anticipare come ministro dell´Industria all´epoca del governo Prodi.
Mario Draghi batte anche lui su quel tasto ad ogni sua uscita pubblica. I veri nodi strategici di questa politica non sono i tassisti, le farmacie e neppure gli ordini professionali. I veri nodi da sciogliere sono i costi dell´energia, la rendita metanifera dell´Eni, l´intreccio degli interessi tra le banche, le fondazioni, le compagnie d´assicurazione. E anche, ovviamente, il mercato del lavoro.
* * *
La battaglia delle liberalizzazioni non ha niente a che vedere con l´ideologia liberista. Soltanto una sinistra becera e aggrappata alle mitologie e alle ideologie del secolo scorso può identificare la lotta contro le corporazioni e contro gli intrecci d´interesse con il thatcherismo e il reaganismo.
Il capitalismo democratico e la politica sociale di mercato furono l´esatto contrario del liberismo selvaggio che porta sempre nel suo ventre l´oligopolio e il monopolio. L´economia globale ha riaperto questo problema ponendolo su basi del tutto nuove. Il capitalismo democratico rese possibile l´incontro con il riformismo socialista nel felice trentennio che va dal 1945 alla metà degli anni Settanta. Ora quel modello va ricostruito su nuove basi.
Nuovo modello ma identici obiettivi. Per questo è un´assurdità porre la domanda se Mario Monti sia di destra o di sinistra. Monti è un riformista e un innovatore. Ci può essere una destra riformista e innovatrice (la Destra storica lo fu) e una sinistra riformista e innovatrice e così pure un sindacato e un´imprenditoria con quei medesimi obiettivi.
Qualche nome del nostro passato, tanto per avere concreti riferimenti? Li ho già fatti in altre occasioni quei nomi ma forse è bene ripetersi per chi non ha orecchi per ascoltare o cervello per intendere: Luigi Einaudi, Ezio Varoni, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Raffaele Mattioli, Altiero Spinelli, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Luciano Lama, Pasquale Saraceno, Nino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi. L´elenco è assai più lungo, per fortuna c´è stata e c´è ancora un´Italia perbene, responsabile e consapevole, che antepone l´interesse generale a tutti gli altri. Credo che i nostri due Mario facciano parte di questo elenco.

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La riforma del mercato del lavoro fa parte della politica di liberalizzazione la quale non si limita a liberalizzare le merci e i servizi. Questa è la parte più facile ed è già in gran parte avvenuta in Europa con la nascita della Comunità e i trattati di Roma del 1957. Può e dev´essere migliorata e completata, ma il nodo da sciogliere ora è un altro e riguarda le persone.
Il mercato del lavoro non è uno spazio unitario ma uno spazio segmentato. C´è un mercato del Sud e uno del Nord, un mercato del lavoro per gli uomini e uno per le donne, uno per i giovani e uno per gli anziani, uno a tempo indeterminato e uno a tempo determinato, uno alla luce del sole e uno sommerso, uno per le piccole imprese e uno per le grandi, uno per i privati e uno per lo Stato e gli enti pubblici, uno per i cittadini e uno per gli immigrati. Infine ci sono gli occupati, i sotto-occupati e i disoccupati e ci sono tutele sociali per alcuni e nessuna tutela per altri.
Si può dire che il mercato del lavoro in Italia in queste condizioni di intensa segmentazione fatta di veri e propri compartimenti-stagno non comunicanti tra loro, sia un mercato libero dove liberamente si confrontano la domanda e l´offerta di lavoro? Certamente no e lo sanno benissimo le rappresentanze sindacali dei lavoratori e quelle degli imprenditori. Un vero mercato libero e unitario non ci sarà mai perché alcune segmentazioni dipendono dalle diverse tipologie di lavoro; ma l´intensità delle segmentazioni attuali è irrazionale e insostenibile, impastata da privilegi e da rendite di posizione.
Un governo che voglia modernizzare la società e accrescerne la produttività puntando sulla liberalizzazione del sistema ha dunque tra i primi obiettivi quello di riformare il mercato del lavoro, gli strumenti contrattuali che ne costituiscono le nervature, i meccanismi di tutela sociale e la parità di accesso e di recesso privilegiando i settori più sfavoriti e più deboli, cioè i giovani e le donne.
In un quadro di queste dimensioni la discussione sull´articolo 18 dovrebbe essere del tutto marginale. Forse simbolica, ma nella sostanza marginale sia per il governo sia per le parti sociali riunite intorno a quel tavolo. Quell´articolo sta per tutela della giusta causa. È evidente a tutti che la giusta causa in un Paese moderno e civile è un canone da rispettare. Non si può licenziare un lavoratore solo perché è antipatico al padrone; tanto meno per le sue opinioni o per il colore della pelle. Ma si deve poter licenziare se il lavoratore non rispetta i ritmi di lavoro previsti dal contratto, se rompe la disciplina che il contratto prevede, se l´azienda deve ridurre la produzione per ragioni economiche dimostrate.
Questo complesso di elementi che configura sia l´accesso al lavoro sia il recesso, sono tutelabili in vari modi. L´articolo 18 è alquanto generico ed ha generato una giurisprudenza discutibile e discussa. Può esser sostituito da un testo diverso oppure modificato oppure lasciato tal quale chiarendo meglio la giurisprudenza. In ogni caso – come giustamente ha detto Anna Finocchiaro in una pubblica e recente intervista – le norme che regolano l´entrata e l´uscita dal lavoro vanno estese a tutte le aziende e a tutti i lavoratori mentre l´articolo 18 restringe la tutela agli occupati in aziende che occupano più di 15 dipendenti. I dipendenti di imprese al di sotto di quella soglia sono privi di tutela e questo non è ammissibile.
Il mercato del lavoro non è mai stato così frastagliato. Lo è da vent´anni in qua. Bloccare l´orologio agli anni Ottanta dell´altro secolo è una richiesta irricevibile e se questo fosse lo spirito del sindacato bisognerebbe concluderne che esso è fuori dal tempo; ma ancor più fuori dal tempo sono coloro che in Confindustria o in altre consimili associazioni vorrebbero tornare all´epoca del “padrone delle ferriere”.
Le basi per un accordo ci sono perché l´obiettivo comune non può che essere liberalizzazioni moderne, coesione sociale e tutele per i più deboli.

* * *
Due parole sul governo tecnico e quello politico. In una democrazia parlamentare questa distinzione non può esistere, ogni governo deve avere la fiducia del Parlamento e perciò tutti i governi sono politici.
Ci sono invece vari modi per scegliere il Capo del governo. Lo può scegliere direttamente il popolo, lo possono scegliere i partiti e i loro gruppi parlamentari, lo può scegliere il Capo dello Stato. Nel primo caso – scelta popolare diretta – siamo però fuori dalla democrazia parlamentare. Nel secondo e nel terzo caso ci siamo dentro.
La nostra Costituzione prevede il secondo e il terzo caso. Durante la prima Repubblica si praticò la scelta affidata ai partiti e ratificata dal presidente della Repubblica. Nella seconda Repubblica il sistema si avvicinò a quello presidenziale e si distaccò notevolmente da quello parlamentare.
Complessivamente sono stati molto rari i casi nei quali è stato rispettato il dettato costituzionale. Avvenne durante il settennato di Luigi Einaudi, un paio di volte in quello di Scalfaro (l´incarico a Ciampi e l´incarico a Dini) e con la nomina di Monti e del suo governo da parte di Giorgio Napolitano.
Chi continua a sostenere che il governo Monti sia soltanto “tecnico” e dettato dall´emergenza, sostiene una cosa giusta (l´emergenza) e un´altra falsa (il governo dei tecnici). A mio avviso il meccanismo adottato da Napolitano è quello che meglio corrisponde al dettato costituzionale e deve dunque sopravvivere al governo Monti diventando norma stabile visto che è l´unica prevista in Costituzione.
Nel frattempo il governo governi. L´economia soprattutto, perché l´emergenza lo richiede, ma anche tutti gli altri temi e problemi che riguardano la vita del paese e del suo futuro.

Post scriptum. Il processo Mills-Berlusconi si è concluso con la prescrizione, decisa in sentenza dal Tribunale di Milano. È prassi consolidata che se l´imputato è giudicato innocente, il dispositivo della sentenza ne dia atto. Se invece è giudicato colpevole o se seriamente indiziato di colpevolezza, ma sia caduto in prescrizione, la sentenza applichi la prescrizione nel dispositivo e parli della colpevolezza nelle motivazioni. Attendiamo dunque di leggerle.
La difesa dell´imputato sembra orientata ad appellarsi contro le motivazioni della sentenza se esse accogliessero la tesi della colpevolezza. È evidente tuttavia che non ci si può appellare contro le motivazioni se non si fa formale rifiuto della prescrizione. Se questo fosse la decisione della difesa e dell´imputato prescritto, essa sarebbe altamente apprezzabile e noi saremmo pronti a riconoscerlo, ma qualche cosa ci fa pensare che questo non avverrà.

La Repubblica 26.02.12

"Un esito figlio di tre leggi", di Carlo Federico Grosso

Il Tribunale di Milano ha «prosciolto» ieri Berlusconi per intervenuta prescrizione. Questa decisione può essere condivisa o non essere condivisa. Come dimostra la varietà delle reazioni manifestate alla sentenza, c’è chi ritiene che l’ex presidente del Consiglio avrebbe dovuto essere assolto nel merito e chi ritiene che egli avrebbe dovuto essere invece condannato. Discutere questo tema, a questo punto, non appassiona più di tanto. Interessa, piuttosto, chiarire le ragioni che hanno consentito che la prescrizione potesse maturare. La domanda è la seguente. Si è trattato di un decorso del tempo dovuto alle eccessive lungaggini in cui si dibatte sovente la giustizia italiana o di un epilogo giudiziale che non si sarebbe verificato se non fossero intervenute pesanti interferenze legislative sull’ordinato e ragionevole svolgimento dei processi?

Sul punto non credo vi possano essere dubbi. La sentenza maturata ieri è la conseguenza diretta degli interventi legislativi attraverso i quali, nell’ultimo decennio, una parte della classe politica ha cercato di intralciare, coprire, proteggere. Intralciare l’ordinato esercizio della giustizia; coprire e proteggere coloro che avrebbero dovuto essere, invece, inflessibilmente perseguiti.

Tre sono gli interventi legislativi che hanno, sia pure in modo diverso, interferito sul processo Mills: la legge Cirielli, il lodo Alfano, il c.d. legittimo impedimento. Il primo intervento, diretto in realtà a «tutelare» numerosi imputati eccellenti in numerosi processi penali, ha prodotto sul processo Mills effetti devastanti, consentendo l’epilogo di non luogo a procedere per prescrizione maturato ieri.

Il secondo ed il terzo, pensati specificamente per «coprire» l’allora presidente del Consiglio, non hanno conseguito l’obiettivo «di blocco» del processo perseguito con la loro approvazione (in quanto entrambi sono stati tempestivamente dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale), ma sono comunque serviti a dilatare i tempi processuali.

La legge Cirielli, approvata nel 2005, ha rivoluzionato disciplina e durata della prescrizione, prevedendo, soprattutto con riferimento a reati che destavano particolare «preoccupazione» nel mondo della politica, significative abbreviazioni dei tempi necessari a prescrivere (ad esempio, nella corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio da quindici anni si è scesi a sette anni e mezzo, nella corruzione in atti giudiziari da quindici anni si è scesi a dieci anni).

Accorciare la durata della prescrizione può anche costituire un obiettivo apprezzabile: purché si assicuri, con riforme appropriate dei codici e dell’organizzazione giudiziaria, che i tempi necessari a celebrare i processi si accorcino parallelamente. Se si abbrevia la prescrizione senza assicurare (con le menzionate riforme) che i processi si accorcino, la conseguenza sarà, invece, nefasta: migliaia di reati si prescriveranno per impossibilità di portare a compimento in tempo utile i dibattimenti.

E’ ciò che è accaduto, appunto, con la legge Cirielli, che rompendo (volutamente) l’equilibrio prima esistente fra la durata della prescrizione e quella dei processi, ha prodotto l’estinzione di migliaia di reati. Fra di essi, anche l’estinzione della corruzione in atti giudiziari contestata a Berlusconi (con la vecchia legge tale reato si sarebbe prescritto in quindici anni e non in dieci, e si sarebbe pertanto sicuramente concluso con una sentenza di merito di condanna o di assoluzione).

Ma ad interferire sul processo Mills non è stata soltanto la legge Cirielli. Sono stati, anche, il lodo Alfano e la legge sul legittimo impedimento. Con il lodo Alfano (22 luglio 2008) il Parlamento ha previsto la «sospensione» dei processi penali a carico delle più alte cariche dello Stato. Entrato in vigore il lodo, la posizione di Berlusconi è stata, ovviamente, stralciata dal processo ed esso è proseguito a carico del solo avvocato inglese. Poiché la Corte Costituzionale ha, successivamente, dichiarato il lodo illegittimo (7 ottobre 2009), il processo a carico di Berlusconi ha potuto in ogni caso, ed a dispetto di coloro che avevano votato la legge, ripartire abbastanza tempestivamente (dicembre 2009).

A questo punto il Parlamento è intervenuto nuovamente, approvando una legge che prevedeva un regime particolarmente «vantaggioso» di legittimo impedimento del presidente del Consiglio, che gli consentiva di dichiarare la ragione della richiesta di rinvio delle udienze senza possibilità di sindacato da parte del giudice. Anche questa legge è stata giudicata (in parte) illegittima dalla Corte Costituzionale (13 gennaio 2011; è poi stata abrogata con il referendum del 12 e 23 giugno 2011). Ma nel frattempo ha consentito a Berlusconi di ottenere rinvii utili a rallentare ancora una volta il dibattimento.

La prescrizione del reato di corruzione contestato a Berlusconi non può, dunque, essere addebitata ad una cattiva gestione processuale. I giudici, anzi, sembrano avere fatto ogni sforzo per cercare di riassumere il processo appena possibile ogni volta in cui esso s’inceppava a causa delle sospensioni e dei rinvii imposti dalle leggi. E quando gli ostacoli giuridici si sono allentati, hanno comunque cercato d’imprimergli un ritmo il più veloce possibile.

E’ sicuramente dovuta, invece, alla legge Cirielli ed alla sua infausta alterazione del giusto equilibrio che deve intercorrere fra durata della prescrizione e tempo necessario per celebrare i processi complessi. A quando finalmente, a livello di governo, una seria riflessione sulla prescrizione, in grado di rimuovere l’intollerabile situazione in cui è costretta, oggi, la giustizia penale?

La Stampa 26.02.12

“Un esito figlio di tre leggi”, di Carlo Federico Grosso

Il Tribunale di Milano ha «prosciolto» ieri Berlusconi per intervenuta prescrizione. Questa decisione può essere condivisa o non essere condivisa. Come dimostra la varietà delle reazioni manifestate alla sentenza, c’è chi ritiene che l’ex presidente del Consiglio avrebbe dovuto essere assolto nel merito e chi ritiene che egli avrebbe dovuto essere invece condannato. Discutere questo tema, a questo punto, non appassiona più di tanto. Interessa, piuttosto, chiarire le ragioni che hanno consentito che la prescrizione potesse maturare. La domanda è la seguente. Si è trattato di un decorso del tempo dovuto alle eccessive lungaggini in cui si dibatte sovente la giustizia italiana o di un epilogo giudiziale che non si sarebbe verificato se non fossero intervenute pesanti interferenze legislative sull’ordinato e ragionevole svolgimento dei processi?

Sul punto non credo vi possano essere dubbi. La sentenza maturata ieri è la conseguenza diretta degli interventi legislativi attraverso i quali, nell’ultimo decennio, una parte della classe politica ha cercato di intralciare, coprire, proteggere. Intralciare l’ordinato esercizio della giustizia; coprire e proteggere coloro che avrebbero dovuto essere, invece, inflessibilmente perseguiti.

Tre sono gli interventi legislativi che hanno, sia pure in modo diverso, interferito sul processo Mills: la legge Cirielli, il lodo Alfano, il c.d. legittimo impedimento. Il primo intervento, diretto in realtà a «tutelare» numerosi imputati eccellenti in numerosi processi penali, ha prodotto sul processo Mills effetti devastanti, consentendo l’epilogo di non luogo a procedere per prescrizione maturato ieri.

Il secondo ed il terzo, pensati specificamente per «coprire» l’allora presidente del Consiglio, non hanno conseguito l’obiettivo «di blocco» del processo perseguito con la loro approvazione (in quanto entrambi sono stati tempestivamente dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale), ma sono comunque serviti a dilatare i tempi processuali.

La legge Cirielli, approvata nel 2005, ha rivoluzionato disciplina e durata della prescrizione, prevedendo, soprattutto con riferimento a reati che destavano particolare «preoccupazione» nel mondo della politica, significative abbreviazioni dei tempi necessari a prescrivere (ad esempio, nella corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio da quindici anni si è scesi a sette anni e mezzo, nella corruzione in atti giudiziari da quindici anni si è scesi a dieci anni).

Accorciare la durata della prescrizione può anche costituire un obiettivo apprezzabile: purché si assicuri, con riforme appropriate dei codici e dell’organizzazione giudiziaria, che i tempi necessari a celebrare i processi si accorcino parallelamente. Se si abbrevia la prescrizione senza assicurare (con le menzionate riforme) che i processi si accorcino, la conseguenza sarà, invece, nefasta: migliaia di reati si prescriveranno per impossibilità di portare a compimento in tempo utile i dibattimenti.

E’ ciò che è accaduto, appunto, con la legge Cirielli, che rompendo (volutamente) l’equilibrio prima esistente fra la durata della prescrizione e quella dei processi, ha prodotto l’estinzione di migliaia di reati. Fra di essi, anche l’estinzione della corruzione in atti giudiziari contestata a Berlusconi (con la vecchia legge tale reato si sarebbe prescritto in quindici anni e non in dieci, e si sarebbe pertanto sicuramente concluso con una sentenza di merito di condanna o di assoluzione).

Ma ad interferire sul processo Mills non è stata soltanto la legge Cirielli. Sono stati, anche, il lodo Alfano e la legge sul legittimo impedimento. Con il lodo Alfano (22 luglio 2008) il Parlamento ha previsto la «sospensione» dei processi penali a carico delle più alte cariche dello Stato. Entrato in vigore il lodo, la posizione di Berlusconi è stata, ovviamente, stralciata dal processo ed esso è proseguito a carico del solo avvocato inglese. Poiché la Corte Costituzionale ha, successivamente, dichiarato il lodo illegittimo (7 ottobre 2009), il processo a carico di Berlusconi ha potuto in ogni caso, ed a dispetto di coloro che avevano votato la legge, ripartire abbastanza tempestivamente (dicembre 2009).

A questo punto il Parlamento è intervenuto nuovamente, approvando una legge che prevedeva un regime particolarmente «vantaggioso» di legittimo impedimento del presidente del Consiglio, che gli consentiva di dichiarare la ragione della richiesta di rinvio delle udienze senza possibilità di sindacato da parte del giudice. Anche questa legge è stata giudicata (in parte) illegittima dalla Corte Costituzionale (13 gennaio 2011; è poi stata abrogata con il referendum del 12 e 23 giugno 2011). Ma nel frattempo ha consentito a Berlusconi di ottenere rinvii utili a rallentare ancora una volta il dibattimento.

La prescrizione del reato di corruzione contestato a Berlusconi non può, dunque, essere addebitata ad una cattiva gestione processuale. I giudici, anzi, sembrano avere fatto ogni sforzo per cercare di riassumere il processo appena possibile ogni volta in cui esso s’inceppava a causa delle sospensioni e dei rinvii imposti dalle leggi. E quando gli ostacoli giuridici si sono allentati, hanno comunque cercato d’imprimergli un ritmo il più veloce possibile.

E’ sicuramente dovuta, invece, alla legge Cirielli ed alla sua infausta alterazione del giusto equilibrio che deve intercorrere fra durata della prescrizione e tempo necessario per celebrare i processi complessi. A quando finalmente, a livello di governo, una seria riflessione sulla prescrizione, in grado di rimuovere l’intollerabile situazione in cui è costretta, oggi, la giustizia penale?

La Stampa 26.02.12