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"Le amnesie di Sergio", di Rinaldo Gianola

Negli ultimi giorni Marchionne si è riposizionato al centro del dibattito politico ed economico. Ha appoggiato Bombassei come prossimo presidente di Confindustria, anche se la Fiat è fuori dall`associazione. Ha concesso una lunga intervista al Corriere della Sera dove cambia la strategia del Lingotto e ipotizza la chiusura di altre due fabbriche italiane. In più la Fiat ha deciso di lasciare a casa i tre operai reintegrati dal giudice a Melfi, un fatto davvero grave e arrogante, e alla Magneti Marelli è partito l`ordine di smantellare le bacheche che espongono l`Unità (purtroppo non è un gesto di stupidità di un direttore di stabilimento perché poco prima dei casi di Bologna e Crevalcore, c`è stato quello pugliese).

L`intervista al Corriere della Sera, firmata da Massimo Mucchetti, rappresenta per le argomentazioni, per le novità di strategia e anche per le dimensioni del testo un vero programma di governo della Fiat nei prossimi anni. È un`intervista che suscita, almeno in noi, moltissime preoccupazioni e che conferma tutte le perplessità, i timori che abbiamo più volte denunciato sulle reali intenzioni della Fiat e sulla permanenza di una vera industria dell`auto nel nostro Paese.

La notizia più rilevante sta nelle ultime righe, quando il giornalista chiede a Marchionne quale sarà il futuro dei cinque stabilimenti italiani della Fiat? L`amministratore delegato pensa che tutti «possano cogliere l`occasione di lavorare in modo competitivo anche per gli Stati Uniti, ma se non accadesse dovremmo ritirarci da 2 dei 5 siti in attività». Marchionne non fa nomi, usa una metafora di un film sull`Olocausto per far immaginare il grave peso della sua scelta, ma le sue parole sono già abbastanza minacciose per allarmare fabbriche e lavoratori.

Dopo la fine di Termini Imerese, dopo Irisbus, toccherà a Mirafiori, rimasta senza nuovi modelli fino al 2014? Oppure Termoli o a chi altro? Molti temono brutte sorprese perché Marchionne aggiorna i piani finora diffusi, altera programmi e strategie annunciati nell`aprile 2010 al Lingotto quando partì il grande progetto, o forse soprattutto un`operazione mediatica, di «Fabbrica Italia». A lungo considerato un ambizioso piano industriale, che sfidava le lentezze, i ritardi anche culturali della politica e del sindacato, il progetto in realtà è servito con le minacce e il ricatto – «Fate come dico io o vado a produrre altrove» – a piegare i lavoratori di Pomigliano, di Mirafiori e di Grugliasco alle nuove condizioni in deroga a leggi e contratti, ma non a garantire gli obiettivi di sviluppo industriale e di occupazione.

Marchionne dice di non voler più parlare di «Fabbrica Italia» e possiamo capirlo perché sarebbe costretto ad ammettere che non sta filando come si immaginava. Il manager, che ha incassato finora 255 milioni di euro ma in passato «non c`era un mercato delle competenze manageriali come quello attuale», argomenta, non vuole precisare gli investimenti, si è anche arrabbiato con la Consob, non solo con la Cgil, che aveva chiesto chiarimenti.

La realtà è questa. «Fabbrica Italia» prevedeva 20 miliardi di euro di investimenti in Italia, il mantenimento dei siti produttivi ad esclusione di Termini Imerese, il raddoppio della produzione italiana di auto da 650mila auto del 2010 a 1,4 milioni nel 2014, cui andavano aggiunti 200mila veicoli industriali. In tutto 1,6 milioni di veicoli di cui il 65% destinato alle esportazioni.

A che punto siamo? Nel 2011 la produzione italiana è stata di circa 500mila unità, nel 2012, anno di recessione, la cifra non dovrebbe essere molto diversa. Per le fabbriche italiane gli obiettivi erano, sono?, questi: a Mirafiori una capacità produttiva di oltre 300mila auto l`anno con una saturazione degli impianti all`88%, a Cassino la produzione destinata a salire da 100mila a 400mila vetture, a Melfi altre 400mila auto, a Pomigliano almeno 250mila Panda l`anno. I conti, i fatti non tornano. I numeri oggi devono essere rivisti, almeno leggendo le parole di Marchionne perché le condizioni del mercato italiano e di quello europeo, dove c`è un eccesso di capacità produttiva, erano e rimangono drammatiche e lo sbocco futuro delle produzioni nazionali potrebbe essere l`America, se i costi saranno competitivi. Altrimenti, la Fiat chiuderà due impianti. La prospettiva, purtroppo, è che l`Italia diventi una presenza marginale nell`industria dell`auto mondiale. Ce lo possiamo permettere? Il governo non può chiamare Marchionne e chiedergli se si può fare qualche cosa per assicurare sviluppo e lavoro in Italia?

L’Unità 25.02.12

“Le amnesie di Sergio”, di Rinaldo Gianola

Negli ultimi giorni Marchionne si è riposizionato al centro del dibattito politico ed economico. Ha appoggiato Bombassei come prossimo presidente di Confindustria, anche se la Fiat è fuori dall`associazione. Ha concesso una lunga intervista al Corriere della Sera dove cambia la strategia del Lingotto e ipotizza la chiusura di altre due fabbriche italiane. In più la Fiat ha deciso di lasciare a casa i tre operai reintegrati dal giudice a Melfi, un fatto davvero grave e arrogante, e alla Magneti Marelli è partito l`ordine di smantellare le bacheche che espongono l`Unità (purtroppo non è un gesto di stupidità di un direttore di stabilimento perché poco prima dei casi di Bologna e Crevalcore, c`è stato quello pugliese).

L`intervista al Corriere della Sera, firmata da Massimo Mucchetti, rappresenta per le argomentazioni, per le novità di strategia e anche per le dimensioni del testo un vero programma di governo della Fiat nei prossimi anni. È un`intervista che suscita, almeno in noi, moltissime preoccupazioni e che conferma tutte le perplessità, i timori che abbiamo più volte denunciato sulle reali intenzioni della Fiat e sulla permanenza di una vera industria dell`auto nel nostro Paese.

La notizia più rilevante sta nelle ultime righe, quando il giornalista chiede a Marchionne quale sarà il futuro dei cinque stabilimenti italiani della Fiat? L`amministratore delegato pensa che tutti «possano cogliere l`occasione di lavorare in modo competitivo anche per gli Stati Uniti, ma se non accadesse dovremmo ritirarci da 2 dei 5 siti in attività». Marchionne non fa nomi, usa una metafora di un film sull`Olocausto per far immaginare il grave peso della sua scelta, ma le sue parole sono già abbastanza minacciose per allarmare fabbriche e lavoratori.

Dopo la fine di Termini Imerese, dopo Irisbus, toccherà a Mirafiori, rimasta senza nuovi modelli fino al 2014? Oppure Termoli o a chi altro? Molti temono brutte sorprese perché Marchionne aggiorna i piani finora diffusi, altera programmi e strategie annunciati nell`aprile 2010 al Lingotto quando partì il grande progetto, o forse soprattutto un`operazione mediatica, di «Fabbrica Italia». A lungo considerato un ambizioso piano industriale, che sfidava le lentezze, i ritardi anche culturali della politica e del sindacato, il progetto in realtà è servito con le minacce e il ricatto – «Fate come dico io o vado a produrre altrove» – a piegare i lavoratori di Pomigliano, di Mirafiori e di Grugliasco alle nuove condizioni in deroga a leggi e contratti, ma non a garantire gli obiettivi di sviluppo industriale e di occupazione.

Marchionne dice di non voler più parlare di «Fabbrica Italia» e possiamo capirlo perché sarebbe costretto ad ammettere che non sta filando come si immaginava. Il manager, che ha incassato finora 255 milioni di euro ma in passato «non c`era un mercato delle competenze manageriali come quello attuale», argomenta, non vuole precisare gli investimenti, si è anche arrabbiato con la Consob, non solo con la Cgil, che aveva chiesto chiarimenti.

La realtà è questa. «Fabbrica Italia» prevedeva 20 miliardi di euro di investimenti in Italia, il mantenimento dei siti produttivi ad esclusione di Termini Imerese, il raddoppio della produzione italiana di auto da 650mila auto del 2010 a 1,4 milioni nel 2014, cui andavano aggiunti 200mila veicoli industriali. In tutto 1,6 milioni di veicoli di cui il 65% destinato alle esportazioni.

A che punto siamo? Nel 2011 la produzione italiana è stata di circa 500mila unità, nel 2012, anno di recessione, la cifra non dovrebbe essere molto diversa. Per le fabbriche italiane gli obiettivi erano, sono?, questi: a Mirafiori una capacità produttiva di oltre 300mila auto l`anno con una saturazione degli impianti all`88%, a Cassino la produzione destinata a salire da 100mila a 400mila vetture, a Melfi altre 400mila auto, a Pomigliano almeno 250mila Panda l`anno. I conti, i fatti non tornano. I numeri oggi devono essere rivisti, almeno leggendo le parole di Marchionne perché le condizioni del mercato italiano e di quello europeo, dove c`è un eccesso di capacità produttiva, erano e rimangono drammatiche e lo sbocco futuro delle produzioni nazionali potrebbe essere l`America, se i costi saranno competitivi. Altrimenti, la Fiat chiuderà due impianti. La prospettiva, purtroppo, è che l`Italia diventi una presenza marginale nell`industria dell`auto mondiale. Ce lo possiamo permettere? Il governo non può chiamare Marchionne e chiedergli se si può fare qualche cosa per assicurare sviluppo e lavoro in Italia?

L’Unità 25.02.12

"Noi e l’Italia dopo Monti", di Alfredo Reichlin

Questa discussione sul “dopo Monti” è veramente surreale. Cosa c’è di incerto nel nostro sostegno a questo governo? Lo abbiamo voluto noi, anche se dopo il crollo della destra il Pd (in forte crescita) poteva chiedere le elezioni e vincerle. E si sa benissimo perché abbiamo agito così: per fronteggiare la drammatica emergenza che assillava l’Italia.
Un’emergenza che spingeva il Paese verso una situazione di tipo greco. Cosa che stiamo evitando anche per merito del governo Monti, e infatti Bersani gli rinnova ogni giorno il nostro appoggio. E allora? Su che cosa ci dobbiamo dividere? Sul “dopo Monti”?
Vorrei dire su questo poche cose. Possibilmente chiare. Che cos’è il “dopo Monti” per un partito come il Partito democratico, degno del suo nome e consapevole delle sue responsabilità? È la solita bega tra capi, capetti e correnti e sottocorrenti? Mi dispiace, dopotutto né Bersani, né Veltroni, né Letta, né altri sono così importanti. Il “dopo Monti” consiste nell’impedire che la politica italiana torni ai vecchi giochi politici e personali, e invece nella necessità di mettere il Paese in grado di affrontare le grandi decisioni che devono essere prese. Le quali (c’è tra noi chi non lo capisce?) sono grandi davvero: e sono inedite, e sociali, e perfino morali, e riguardano il problema dei problemi: il posto dell’Italia nel mondo. Tutto qui. Evviva i tecnici e spero anche che molti di loro restino in politica.
Ma chi pensa che l’Italia per andare avanti abbia bisogno di nuovi governi tecnici non solo sbaglia i suoi calcoli ma è un poveretto. Non capisce che il “dopo Monti”, se vogliamo che esista, non può essere l’eterno ritorno a una politica «senza popolo» ma deve consistere nel riemergere di quella Cosa, quella capacità di combinare in modo nuovo visioni, interessi, poteri, speranze, nonché capacità di suscitare nuovi schieramenti e nuovi protagonismi da parte delle forze profonde della società italiana. Quella cosa che si chiama «la politica».
Il Pd può fare questo? Io penso di si. Penso che con tutti i suoi limiti e i suoi difetti siamo noi la forza che (non da sola, certo) può guidare il Paese e metterlo nelle migliori condizioni per affrontare le straordinarie sfide che incombono. E non perché siamo belli, oppure perché «ci buttiamo più a destra o più a sinistra». Ma perché siamo una forza larga, inclusiva, nazionale ed europea che non si fa sballottare tra le foto di Vasto e i moderati, che non si fa ricattare da amici interni ed esterni che fanno «casino» perché si avvicina la formazione delle liste. Quello che voglio dire è questo. È che o noi siamo i garanti di un nuovo asse unitario della nazione, senza di che l’Italia si divide, oppure (Monti o non Monti) non conteremo niente. Insomma il nostro programma non è buono per le (troppe) cose che elenca. È realistico ed è anche molto avanzato perché si riassume nell’impegno a lavorare per un nuovo grande patto, per un nuovo grande compromesso democratico tra «ricchi e poveri, tra capitale e lavoro, tra borghesi e proletari», come si diceva ai miei tempi.
Il paragone giusto è con Roosevelt, è con la svolta negli anni 30 del New deal, è la riorganizzazione delle forze socialiste e democratiche (sia laiche che cattoliche) europee. Perché è il modello sociale ed economico dell’Europa che va ripensato. E anche questo, soprattutto questo, non è un problema da delegare ai tecnici. Nè bastano gli accordi tra gli Stati.
Apriamo gli occhi. Con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia l’oligarchia dominante ha costruito un potere immenso che è molto più grande della potenza dei singoli Stati europei. E ciò è talmente evidente che anche i Capi di Stato europei attendono ansiosi ogni giorno di vedere quale sarà lo spread, cioè quale sarà la «libbra di carne» che questi nuovi Mercanti di Venezia chiedono alle nostre imprese, ai nostri salari, alle nostre pensioni per pagare le loro rendite. A un certo punto qualcuno dovrà pur dire che questi sono davvero strani mercati non sottoposti come tutti i mercati a regole certe e aperti a tutti. Sono giganteschi poteri con nome e cognome che non a caso il nostro premier è andato a trovare a New York o alla City per pregarli di prestarci un po’ di soldi (e, nelle condizioni date, ha fatto benissimo).
Ma allora dovrebbe essere chiaro perché è così importante fare dell’Europa una grande potenza politica globale, capace di proporre una nuova Bretton Woods. E per fare questo che occorre impegnare la sinistra su tutti i fronti sui quali si promuove lo sviluppo umano. Lo sviluppo dell’essere piuttosto che la crescita dell’avere, dice Giorgio Ruffolo. E quindi abbiamo bisogno di una sinistra impegnata in qualcosa che non è l’abbattimento del capitalismo, né la fine dell’economia di mercato, ma non è nemmeno l’acquiescenza ai poteri dominanti. Fatevene una ragione. Noi siamo una forza che fa della lotta per una società più giusta e più democratica la sua bandiera.
Il passaggio politico attuale è veramente cruciale. Non mi stupisco affatto se viene avanti a questo punto una spinta potente a imporre per il “dopo Monti” un regime politico diverso da una democrazia parlamentare. Cioè un regime senza i partiti, ormai bollati dal Corriere della Sera e da gran parte dei “media” come la Casta. Tutti uguali. Io continuo invece a pensare che solo i partiti possono garantire (alla condizione che si rinnovino molto evidentemente) quella conquista grandissima che è il pluralismo, cioè una democrazia basata sulla sovranità popolare, e quindi sulla partecipazione alla vita statale anche della gente che nella società di oggi non conta nulla. Forse bisognerebbe cominciare a reagire più decisamente. In nome della verità. Perché la verità è che la “casta” sta proprio in quel nucleo di banche e di poteri forti che possiedono anche quasi tutte le tv e gran parte dei giornali. Confesso che il fatto che il Pd è tutti i giorni sotto il tiro di questi signori suscita in me un certo orgoglio.

L’Unità 25.02.12

“Noi e l’Italia dopo Monti”, di Alfredo Reichlin

Questa discussione sul “dopo Monti” è veramente surreale. Cosa c’è di incerto nel nostro sostegno a questo governo? Lo abbiamo voluto noi, anche se dopo il crollo della destra il Pd (in forte crescita) poteva chiedere le elezioni e vincerle. E si sa benissimo perché abbiamo agito così: per fronteggiare la drammatica emergenza che assillava l’Italia.
Un’emergenza che spingeva il Paese verso una situazione di tipo greco. Cosa che stiamo evitando anche per merito del governo Monti, e infatti Bersani gli rinnova ogni giorno il nostro appoggio. E allora? Su che cosa ci dobbiamo dividere? Sul “dopo Monti”?
Vorrei dire su questo poche cose. Possibilmente chiare. Che cos’è il “dopo Monti” per un partito come il Partito democratico, degno del suo nome e consapevole delle sue responsabilità? È la solita bega tra capi, capetti e correnti e sottocorrenti? Mi dispiace, dopotutto né Bersani, né Veltroni, né Letta, né altri sono così importanti. Il “dopo Monti” consiste nell’impedire che la politica italiana torni ai vecchi giochi politici e personali, e invece nella necessità di mettere il Paese in grado di affrontare le grandi decisioni che devono essere prese. Le quali (c’è tra noi chi non lo capisce?) sono grandi davvero: e sono inedite, e sociali, e perfino morali, e riguardano il problema dei problemi: il posto dell’Italia nel mondo. Tutto qui. Evviva i tecnici e spero anche che molti di loro restino in politica.
Ma chi pensa che l’Italia per andare avanti abbia bisogno di nuovi governi tecnici non solo sbaglia i suoi calcoli ma è un poveretto. Non capisce che il “dopo Monti”, se vogliamo che esista, non può essere l’eterno ritorno a una politica «senza popolo» ma deve consistere nel riemergere di quella Cosa, quella capacità di combinare in modo nuovo visioni, interessi, poteri, speranze, nonché capacità di suscitare nuovi schieramenti e nuovi protagonismi da parte delle forze profonde della società italiana. Quella cosa che si chiama «la politica».
Il Pd può fare questo? Io penso di si. Penso che con tutti i suoi limiti e i suoi difetti siamo noi la forza che (non da sola, certo) può guidare il Paese e metterlo nelle migliori condizioni per affrontare le straordinarie sfide che incombono. E non perché siamo belli, oppure perché «ci buttiamo più a destra o più a sinistra». Ma perché siamo una forza larga, inclusiva, nazionale ed europea che non si fa sballottare tra le foto di Vasto e i moderati, che non si fa ricattare da amici interni ed esterni che fanno «casino» perché si avvicina la formazione delle liste. Quello che voglio dire è questo. È che o noi siamo i garanti di un nuovo asse unitario della nazione, senza di che l’Italia si divide, oppure (Monti o non Monti) non conteremo niente. Insomma il nostro programma non è buono per le (troppe) cose che elenca. È realistico ed è anche molto avanzato perché si riassume nell’impegno a lavorare per un nuovo grande patto, per un nuovo grande compromesso democratico tra «ricchi e poveri, tra capitale e lavoro, tra borghesi e proletari», come si diceva ai miei tempi.
Il paragone giusto è con Roosevelt, è con la svolta negli anni 30 del New deal, è la riorganizzazione delle forze socialiste e democratiche (sia laiche che cattoliche) europee. Perché è il modello sociale ed economico dell’Europa che va ripensato. E anche questo, soprattutto questo, non è un problema da delegare ai tecnici. Nè bastano gli accordi tra gli Stati.
Apriamo gli occhi. Con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia l’oligarchia dominante ha costruito un potere immenso che è molto più grande della potenza dei singoli Stati europei. E ciò è talmente evidente che anche i Capi di Stato europei attendono ansiosi ogni giorno di vedere quale sarà lo spread, cioè quale sarà la «libbra di carne» che questi nuovi Mercanti di Venezia chiedono alle nostre imprese, ai nostri salari, alle nostre pensioni per pagare le loro rendite. A un certo punto qualcuno dovrà pur dire che questi sono davvero strani mercati non sottoposti come tutti i mercati a regole certe e aperti a tutti. Sono giganteschi poteri con nome e cognome che non a caso il nostro premier è andato a trovare a New York o alla City per pregarli di prestarci un po’ di soldi (e, nelle condizioni date, ha fatto benissimo).
Ma allora dovrebbe essere chiaro perché è così importante fare dell’Europa una grande potenza politica globale, capace di proporre una nuova Bretton Woods. E per fare questo che occorre impegnare la sinistra su tutti i fronti sui quali si promuove lo sviluppo umano. Lo sviluppo dell’essere piuttosto che la crescita dell’avere, dice Giorgio Ruffolo. E quindi abbiamo bisogno di una sinistra impegnata in qualcosa che non è l’abbattimento del capitalismo, né la fine dell’economia di mercato, ma non è nemmeno l’acquiescenza ai poteri dominanti. Fatevene una ragione. Noi siamo una forza che fa della lotta per una società più giusta e più democratica la sua bandiera.
Il passaggio politico attuale è veramente cruciale. Non mi stupisco affatto se viene avanti a questo punto una spinta potente a imporre per il “dopo Monti” un regime politico diverso da una democrazia parlamentare. Cioè un regime senza i partiti, ormai bollati dal Corriere della Sera e da gran parte dei “media” come la Casta. Tutti uguali. Io continuo invece a pensare che solo i partiti possono garantire (alla condizione che si rinnovino molto evidentemente) quella conquista grandissima che è il pluralismo, cioè una democrazia basata sulla sovranità popolare, e quindi sulla partecipazione alla vita statale anche della gente che nella società di oggi non conta nulla. Forse bisognerebbe cominciare a reagire più decisamente. In nome della verità. Perché la verità è che la “casta” sta proprio in quel nucleo di banche e di poteri forti che possiedono anche quasi tutte le tv e gran parte dei giornali. Confesso che il fatto che il Pd è tutti i giorni sotto il tiro di questi signori suscita in me un certo orgoglio.

L’Unità 25.02.12

"Vince l'asse tra il premier e l'Europa", di Massimo Franco

Più che con vescovi e Vaticano, l’asse è stato col vicepresidente della Commissione Ue, Joaquin Almunia. Un ferreo, impenetrabile «asse del silenzio» che ha permesso a Mario Monti di impedire fughe di notizie su un testo preparato da una decina di giorni; e condiviso esclusivamente con i vertici europei che stavano verificando se l’Italia avesse infranto qualche norma. L’obiettivo era di inserire al momento opportuno le modifiche che mettono fine all’esenzione dell’Ici (ora si chiama Imu) per gli edifici commerciali della Chiesa cattolica dal 1° gennaio 2013; e in un provvedimento come quello sulle liberalizzazioni che contiene una parte sul fisco e una sull’Europa.
La nota con la quale ieri sera il presidente del Senato, Renato Schifani, spiega perché ha ammesso l’emendamento smonta le polemiche di alcuni esponenti del Pdl col Quirinale: la loro tesi è che la modifica contraddice l’invito di Giorgio Napolitano a non inserirne troppe nei decreti per non snaturarli. Monti non solo l’ha presentata ma la rivendica, firmandola. Nel doppio ruolo di presidente del Consiglio e di ministro dell’Economia, vuole farsi garante davanti all’Ue dell’approvazione del documento entro marzo. Si tratta di una sorta di scudo protettivo, per scoraggiare strumentalizzazioni clericali e anticlericali.
Ma soprattutto, l’intento è di rendere chiaro agli interlocutori internazionali che un tema così incandescente non viene affidato ad un qualunque decreto, ma a quello sul quale il governo scommette una fetta della propria credibilità. Forse, è stata proprio la capacità di tenere tutto riservato la cosa che colpisce di più. I tentativi di avere anticipazioni sono stati frustrati: al punto che qualcuno aveva cominciato a ipotizzare che i «veti vaticani» avessero bloccato la decisione. In realtà, un’intesa di massima era stata raggiunta da tempo attraverso contatti tanto informali quanto segreti.
E le gerarchie cattoliche, sebbene poco entusiaste, avevano capito che il governo stava per compiere una scelta inevitabile per scongiurare conflitti e multe salate da parte dell’Europa. Il dossier in mano ad Almunia, che è anche commissario per la concorrenza, andava chiuso prima della sentenza prevista come massimo a maggio: un responso destinato ad aprire un contenzioso con la Cei. D’altronde, c’era la presa d’atto della necessità di abrogare le norme «che prevedono l’esenzione per immobili dove l’attività commerciale non sia esclusiva, ma prevalente», nella prosa di Palazzo Chigi; anche se giustamente, gli edifici destinati solo all’assistenza e ad attività caritatevoli, continueranno a non pagare l’Ici.
Rimane da capire quali effetti avrà l’iniziativa di Monti sui rapporti fra la classe politica e il mondo cattolico. Nella Seconda Repubblica, Cei e Vaticano sono stati usati spesso dai partiti per sottolineare vicinanze o distanze politiche e sul piano dei valori. Un provvedimento gestito direttamente da Palazzo Chigi, senza mediazioni improprie, tende invece a cambiare il terreno di gioco e a offrire un altro modello di riferimento. Ma il problema non riguarda soltanto gli esponenti politici, alcuni dei quali ieri hanno reagito con i riflessi condizionati dal passato. In qualche misura, obbliga ad un ripensamento anche oltre Tevere.

Corriere della Sera 25.02.12

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“Una paginetta a firma Monti per la svolta” di Lorenzo Salvia

Un paginetta appena, in fondo la firma di Mario Monti, il titolo scritto a penna con una grafia piccola piccola: «Norme sull’esenzione dell’imposta comunale sugli immobili degli enti non commerciali». Per far pagare la nuova Ici, l’Imu, alla Chiesa ma anche ai circoli privati, ai partiti e alle associazioni il governo ha scelto la strada di un emendamento al decreto legge sulle liberalizzazioni. Quella pagina si aggiunge al volumone ora all’esame del Senato che poi passerà alla Camera dove deve essere approvato entro il 24 marzo. L’articolo è il 91 bis, subito dopo quello che riscrive le norme per chi trasferisce all’estero la residenza fiscale. La proposta è stata subito dichiarata ammissibile dal presidente del Senato Renato Schifani. Massimo Corsaro — vicepresidente del Pdl alla Camera — si chiede se «Monti non esibisca una bolla di dispensa dal richiamo di Napolitano» che due giorni fa aveva chiesto di fermare gli emendamenti fuori tema. Ma la norma sull’Imu, dicono sia dalla presidenza di Palazzo Madama sia da Palazzo Chigi, non contrasta affatto con il messaggio del capo dello Stato. Perché, spiegano, riguarda sia l’armonizzazione con la normativa europea sia la concorrenza con la distinzione fra attività commerciali e non.
Chi paga?
La vecchia Ici non si pagava sugli immobili e sulle case usate per attività «assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». Non solo il bed and breakfast nel vecchio convento o la scuola dalle suore ma anche la palestra gestita dall’associazione o il circolo dove si ascolta musica diventando soci. L’emendamento del governo precisa che in tutti questi casi l’esenzione resta solo se ci sono «modalità non commerciali». Se non si paga insomma, che poi sia un’iscrizione o una tessera sociale non fa differenza.
E gli immobili misti?
Il caso classico è quello dell’albergo con una piccola cappella. Prima poteva bastare questo per far scattare l’esenzione su tutto il palazzo. Adesso non più. «Qualora l’unità immobiliare abbia un’utilizzazione mista — si legge nell’emendamento — l’esenzione si applica solo alla frazione nella quale si svolge l’attività non commerciale». Niente Imu ma solo sulla cappella, non su tutto l’albergo. Sulla «restante parte dell’unità immobiliare, in quanto dotato di autonomia funzionale e reddituale» non solo si pagherà la nuova imposta ma sarà aggiornata anche la rendita catastale, ferma a vari decenni fa. Se la divisione tra parte commerciale e non dovesse essere tecnicamente complessa si procederà con una dichiarazione. I dettagli saranno chiariti in un successivo decreto ma la stessa dichiarazione «potrà essere puntualmente riscontrata e sanzionata nel caso di attestazioni false o mendaci».
Quando parte, quanto vale
Se i cittadini normali pagheranno l’Imu già a partire da quest’anno, l’abolizione dell’esenzione per gli enti non commerciali scatterà dal primo gennaio del 2013. Nelle ultime settimane erano circolate diverse stime sul possibile gettito delle nuove regole. L’Anci, l’associazione dei Comuni, aveva parlato di 500-700 milioni di euro, l’Ares, Associazione ricerca e sviluppo economico, addirittura di 2 miliardi abbondanti. Ma la cifra reale potrebbe essere molto più bassa, intorno ai 100 milioni. Il governo non indica una somma precisa: «In coerenza con il comportamento tenuto in casi analoghi, si tiene opportuno non procedere ad una quantificazione preventiva delle maggiori entrate». Ma assicura che, quando ci saranno, le risorse aggiuntive «potranno essere destinate, per la quota di spettanza statale, all’alleggerimento della pressione fiscale».
Nessuna sanatoria
Il decreto non passa un colpo di spugna sugli eventuali abusi del passato. «Tale intervento normativo — si legge ancora nella relazione — non pregiudica gli attuali accertamenti in corso e l’irrogazione di eventuali sanzioni da parte delle autorità italiane. Tale assunto comporta l’esclusione in radice di ogni forma diretta o indiretta di sanatoria».
I dubbi
Dalla Chiesa non c’è alcuna reazione ufficiale. Ma qualche dubbio riguarda l’istruzione: «Il governo dica subito se la norma riguarda anche le scuole parificate e gli asili nido» chiede Maurizio Lupi del Pdl, poiché gli istituti statali non pagano. Aggiunge Osvaldo Napoli, sempre Pdl: «Educare i ragazzi e istruirli sarà considerata un’attività commerciale prevalente oppure l’affermazione di un diritto costituzionale garantito?». Anche i salesiani intervengono sostenendo che «l’Ici sulle scuole paritarie non sarebbe né giusta né equa». La relazione si limita a dire che tutte le attività che adesso pagheranno l’Imu sono «tanto più meritevoli di considerazione nell’attuale difficile congiuntura economica».

Corriere della Sera 25.02.12

“Vince l’asse tra il premier e l’Europa”, di Massimo Franco

Più che con vescovi e Vaticano, l’asse è stato col vicepresidente della Commissione Ue, Joaquin Almunia. Un ferreo, impenetrabile «asse del silenzio» che ha permesso a Mario Monti di impedire fughe di notizie su un testo preparato da una decina di giorni; e condiviso esclusivamente con i vertici europei che stavano verificando se l’Italia avesse infranto qualche norma. L’obiettivo era di inserire al momento opportuno le modifiche che mettono fine all’esenzione dell’Ici (ora si chiama Imu) per gli edifici commerciali della Chiesa cattolica dal 1° gennaio 2013; e in un provvedimento come quello sulle liberalizzazioni che contiene una parte sul fisco e una sull’Europa.
La nota con la quale ieri sera il presidente del Senato, Renato Schifani, spiega perché ha ammesso l’emendamento smonta le polemiche di alcuni esponenti del Pdl col Quirinale: la loro tesi è che la modifica contraddice l’invito di Giorgio Napolitano a non inserirne troppe nei decreti per non snaturarli. Monti non solo l’ha presentata ma la rivendica, firmandola. Nel doppio ruolo di presidente del Consiglio e di ministro dell’Economia, vuole farsi garante davanti all’Ue dell’approvazione del documento entro marzo. Si tratta di una sorta di scudo protettivo, per scoraggiare strumentalizzazioni clericali e anticlericali.
Ma soprattutto, l’intento è di rendere chiaro agli interlocutori internazionali che un tema così incandescente non viene affidato ad un qualunque decreto, ma a quello sul quale il governo scommette una fetta della propria credibilità. Forse, è stata proprio la capacità di tenere tutto riservato la cosa che colpisce di più. I tentativi di avere anticipazioni sono stati frustrati: al punto che qualcuno aveva cominciato a ipotizzare che i «veti vaticani» avessero bloccato la decisione. In realtà, un’intesa di massima era stata raggiunta da tempo attraverso contatti tanto informali quanto segreti.
E le gerarchie cattoliche, sebbene poco entusiaste, avevano capito che il governo stava per compiere una scelta inevitabile per scongiurare conflitti e multe salate da parte dell’Europa. Il dossier in mano ad Almunia, che è anche commissario per la concorrenza, andava chiuso prima della sentenza prevista come massimo a maggio: un responso destinato ad aprire un contenzioso con la Cei. D’altronde, c’era la presa d’atto della necessità di abrogare le norme «che prevedono l’esenzione per immobili dove l’attività commerciale non sia esclusiva, ma prevalente», nella prosa di Palazzo Chigi; anche se giustamente, gli edifici destinati solo all’assistenza e ad attività caritatevoli, continueranno a non pagare l’Ici.
Rimane da capire quali effetti avrà l’iniziativa di Monti sui rapporti fra la classe politica e il mondo cattolico. Nella Seconda Repubblica, Cei e Vaticano sono stati usati spesso dai partiti per sottolineare vicinanze o distanze politiche e sul piano dei valori. Un provvedimento gestito direttamente da Palazzo Chigi, senza mediazioni improprie, tende invece a cambiare il terreno di gioco e a offrire un altro modello di riferimento. Ma il problema non riguarda soltanto gli esponenti politici, alcuni dei quali ieri hanno reagito con i riflessi condizionati dal passato. In qualche misura, obbliga ad un ripensamento anche oltre Tevere.

Corriere della Sera 25.02.12

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“Una paginetta a firma Monti per la svolta” di Lorenzo Salvia

Un paginetta appena, in fondo la firma di Mario Monti, il titolo scritto a penna con una grafia piccola piccola: «Norme sull’esenzione dell’imposta comunale sugli immobili degli enti non commerciali». Per far pagare la nuova Ici, l’Imu, alla Chiesa ma anche ai circoli privati, ai partiti e alle associazioni il governo ha scelto la strada di un emendamento al decreto legge sulle liberalizzazioni. Quella pagina si aggiunge al volumone ora all’esame del Senato che poi passerà alla Camera dove deve essere approvato entro il 24 marzo. L’articolo è il 91 bis, subito dopo quello che riscrive le norme per chi trasferisce all’estero la residenza fiscale. La proposta è stata subito dichiarata ammissibile dal presidente del Senato Renato Schifani. Massimo Corsaro — vicepresidente del Pdl alla Camera — si chiede se «Monti non esibisca una bolla di dispensa dal richiamo di Napolitano» che due giorni fa aveva chiesto di fermare gli emendamenti fuori tema. Ma la norma sull’Imu, dicono sia dalla presidenza di Palazzo Madama sia da Palazzo Chigi, non contrasta affatto con il messaggio del capo dello Stato. Perché, spiegano, riguarda sia l’armonizzazione con la normativa europea sia la concorrenza con la distinzione fra attività commerciali e non.
Chi paga?
La vecchia Ici non si pagava sugli immobili e sulle case usate per attività «assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». Non solo il bed and breakfast nel vecchio convento o la scuola dalle suore ma anche la palestra gestita dall’associazione o il circolo dove si ascolta musica diventando soci. L’emendamento del governo precisa che in tutti questi casi l’esenzione resta solo se ci sono «modalità non commerciali». Se non si paga insomma, che poi sia un’iscrizione o una tessera sociale non fa differenza.
E gli immobili misti?
Il caso classico è quello dell’albergo con una piccola cappella. Prima poteva bastare questo per far scattare l’esenzione su tutto il palazzo. Adesso non più. «Qualora l’unità immobiliare abbia un’utilizzazione mista — si legge nell’emendamento — l’esenzione si applica solo alla frazione nella quale si svolge l’attività non commerciale». Niente Imu ma solo sulla cappella, non su tutto l’albergo. Sulla «restante parte dell’unità immobiliare, in quanto dotato di autonomia funzionale e reddituale» non solo si pagherà la nuova imposta ma sarà aggiornata anche la rendita catastale, ferma a vari decenni fa. Se la divisione tra parte commerciale e non dovesse essere tecnicamente complessa si procederà con una dichiarazione. I dettagli saranno chiariti in un successivo decreto ma la stessa dichiarazione «potrà essere puntualmente riscontrata e sanzionata nel caso di attestazioni false o mendaci».
Quando parte, quanto vale
Se i cittadini normali pagheranno l’Imu già a partire da quest’anno, l’abolizione dell’esenzione per gli enti non commerciali scatterà dal primo gennaio del 2013. Nelle ultime settimane erano circolate diverse stime sul possibile gettito delle nuove regole. L’Anci, l’associazione dei Comuni, aveva parlato di 500-700 milioni di euro, l’Ares, Associazione ricerca e sviluppo economico, addirittura di 2 miliardi abbondanti. Ma la cifra reale potrebbe essere molto più bassa, intorno ai 100 milioni. Il governo non indica una somma precisa: «In coerenza con il comportamento tenuto in casi analoghi, si tiene opportuno non procedere ad una quantificazione preventiva delle maggiori entrate». Ma assicura che, quando ci saranno, le risorse aggiuntive «potranno essere destinate, per la quota di spettanza statale, all’alleggerimento della pressione fiscale».
Nessuna sanatoria
Il decreto non passa un colpo di spugna sugli eventuali abusi del passato. «Tale intervento normativo — si legge ancora nella relazione — non pregiudica gli attuali accertamenti in corso e l’irrogazione di eventuali sanzioni da parte delle autorità italiane. Tale assunto comporta l’esclusione in radice di ogni forma diretta o indiretta di sanatoria».
I dubbi
Dalla Chiesa non c’è alcuna reazione ufficiale. Ma qualche dubbio riguarda l’istruzione: «Il governo dica subito se la norma riguarda anche le scuole parificate e gli asili nido» chiede Maurizio Lupi del Pdl, poiché gli istituti statali non pagano. Aggiunge Osvaldo Napoli, sempre Pdl: «Educare i ragazzi e istruirli sarà considerata un’attività commerciale prevalente oppure l’affermazione di un diritto costituzionale garantito?». Anche i salesiani intervengono sostenendo che «l’Ici sulle scuole paritarie non sarebbe né giusta né equa». La relazione si limita a dire che tutte le attività che adesso pagheranno l’Imu sono «tanto più meritevoli di considerazione nell’attuale difficile congiuntura economica».

Corriere della Sera 25.02.12

Camposanto (Mo) – Primo Congresso Giovani Democratici Bassa Modenese

Si apre la stagione congressuale dei Giovani Democratici della provincia di Modena con il primo congresso nella Bassa Modenese, che si terrà sabato 25 Febbraio 2012 presso la Sala Ariston di Camposanto in via Roma 6, dalle ore 16.00. Parteciperanno ai lavori il segretario provinciale del PD Davide Baruffi e l’on. Manuela Ghizzoni, capogruppo del Partito Democratico in Commissione Cultura Scienza e Istruzione alla Camera. Il dibattito sarà incentrato sulla politica grazie ad una impostazione che permetterà ai partecipanti di proporre idee che verranno messe ai voti e, in caso di approvazione, andranno a far parte del programma politico del circolo.