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"Noi e l’Italia dopo Monti", di Alfredo Reichlin

Questa discussione sul “dopo Monti” è veramente surreale. Cosa c’è di incerto nel nostro sostegno a questo governo? Lo abbiamo voluto noi, anche se dopo il crollo della destra il Pd (in forte crescita) poteva chiedere le elezioni e vincerle. E si sa benissimo perché abbiamo agito così: per fronteggiare la drammatica emergenza che assillava l’Italia.
Un’emergenza che spingeva il Paese verso una situazione di tipo greco. Cosa che stiamo evitando anche per merito del governo Monti, e infatti Bersani gli rinnova ogni giorno il nostro appoggio. E allora? Su che cosa ci dobbiamo dividere? Sul “dopo Monti”?
Vorrei dire su questo poche cose. Possibilmente chiare. Che cos’è il “dopo Monti” per un partito come il Partito democratico, degno del suo nome e consapevole delle sue responsabilità? È la solita bega tra capi, capetti e correnti e sottocorrenti? Mi dispiace, dopotutto né Bersani, né Veltroni, né Letta, né altri sono così importanti. Il “dopo Monti” consiste nell’impedire che la politica italiana torni ai vecchi giochi politici e personali, e invece nella necessità di mettere il Paese in grado di affrontare le grandi decisioni che devono essere prese. Le quali (c’è tra noi chi non lo capisce?) sono grandi davvero: e sono inedite, e sociali, e perfino morali, e riguardano il problema dei problemi: il posto dell’Italia nel mondo. Tutto qui. Evviva i tecnici e spero anche che molti di loro restino in politica.
Ma chi pensa che l’Italia per andare avanti abbia bisogno di nuovi governi tecnici non solo sbaglia i suoi calcoli ma è un poveretto. Non capisce che il “dopo Monti”, se vogliamo che esista, non può essere l’eterno ritorno a una politica «senza popolo» ma deve consistere nel riemergere di quella Cosa, quella capacità di combinare in modo nuovo visioni, interessi, poteri, speranze, nonché capacità di suscitare nuovi schieramenti e nuovi protagonismi da parte delle forze profonde della società italiana. Quella cosa che si chiama «la politica».
Il Pd può fare questo? Io penso di si. Penso che con tutti i suoi limiti e i suoi difetti siamo noi la forza che (non da sola, certo) può guidare il Paese e metterlo nelle migliori condizioni per affrontare le straordinarie sfide che incombono. E non perché siamo belli, oppure perché «ci buttiamo più a destra o più a sinistra». Ma perché siamo una forza larga, inclusiva, nazionale ed europea che non si fa sballottare tra le foto di Vasto e i moderati, che non si fa ricattare da amici interni ed esterni che fanno «casino» perché si avvicina la formazione delle liste. Quello che voglio dire è questo. È che o noi siamo i garanti di un nuovo asse unitario della nazione, senza di che l’Italia si divide, oppure (Monti o non Monti) non conteremo niente. Insomma il nostro programma non è buono per le (troppe) cose che elenca. È realistico ed è anche molto avanzato perché si riassume nell’impegno a lavorare per un nuovo grande patto, per un nuovo grande compromesso democratico tra «ricchi e poveri, tra capitale e lavoro, tra borghesi e proletari», come si diceva ai miei tempi.
Il paragone giusto è con Roosevelt, è con la svolta negli anni 30 del New deal, è la riorganizzazione delle forze socialiste e democratiche (sia laiche che cattoliche) europee. Perché è il modello sociale ed economico dell’Europa che va ripensato. E anche questo, soprattutto questo, non è un problema da delegare ai tecnici. Nè bastano gli accordi tra gli Stati.
Apriamo gli occhi. Con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia l’oligarchia dominante ha costruito un potere immenso che è molto più grande della potenza dei singoli Stati europei. E ciò è talmente evidente che anche i Capi di Stato europei attendono ansiosi ogni giorno di vedere quale sarà lo spread, cioè quale sarà la «libbra di carne» che questi nuovi Mercanti di Venezia chiedono alle nostre imprese, ai nostri salari, alle nostre pensioni per pagare le loro rendite. A un certo punto qualcuno dovrà pur dire che questi sono davvero strani mercati non sottoposti come tutti i mercati a regole certe e aperti a tutti. Sono giganteschi poteri con nome e cognome che non a caso il nostro premier è andato a trovare a New York o alla City per pregarli di prestarci un po’ di soldi (e, nelle condizioni date, ha fatto benissimo).
Ma allora dovrebbe essere chiaro perché è così importante fare dell’Europa una grande potenza politica globale, capace di proporre una nuova Bretton Woods. E per fare questo che occorre impegnare la sinistra su tutti i fronti sui quali si promuove lo sviluppo umano. Lo sviluppo dell’essere piuttosto che la crescita dell’avere, dice Giorgio Ruffolo. E quindi abbiamo bisogno di una sinistra impegnata in qualcosa che non è l’abbattimento del capitalismo, né la fine dell’economia di mercato, ma non è nemmeno l’acquiescenza ai poteri dominanti. Fatevene una ragione. Noi siamo una forza che fa della lotta per una società più giusta e più democratica la sua bandiera.
Il passaggio politico attuale è veramente cruciale. Non mi stupisco affatto se viene avanti a questo punto una spinta potente a imporre per il “dopo Monti” un regime politico diverso da una democrazia parlamentare. Cioè un regime senza i partiti, ormai bollati dal Corriere della Sera e da gran parte dei “media” come la Casta. Tutti uguali. Io continuo invece a pensare che solo i partiti possono garantire (alla condizione che si rinnovino molto evidentemente) quella conquista grandissima che è il pluralismo, cioè una democrazia basata sulla sovranità popolare, e quindi sulla partecipazione alla vita statale anche della gente che nella società di oggi non conta nulla. Forse bisognerebbe cominciare a reagire più decisamente. In nome della verità. Perché la verità è che la “casta” sta proprio in quel nucleo di banche e di poteri forti che possiedono anche quasi tutte le tv e gran parte dei giornali. Confesso che il fatto che il Pd è tutti i giorni sotto il tiro di questi signori suscita in me un certo orgoglio.

L’Unità 25.02.12